*
Thanatos
le sorrise ancora. Un attimo solo, come se farlo gli costasse caro. Aveva
qualcosa di vagamente infantile nei tratti, di infantile e di rozzo al tempo
stesso, come capitava spesso di vedere
sulla faccia degli uomini del Nord. Quanti anni poteva avere? Tre o
quattro in più di lei, pensava Valeria.
-I
miei genitori adottivi non riuscivano ad avere figli. Mio padre non voleva
ripudiare la donna che amava per cercare di dare una discendenza al suo sangue
con un’altra e allora si diede da fare in giro per i mercati di uomini alla
ricerca d’una schiava gravida. Intanto,
mia madre aveva preso a imbottirsi sotto i vestiti perché volevano far credere
a tutti che ero davvero figlio loro. La schiava fu trovata, era una Britanna.
Mi partorì, e fu rivenduta, perché nessuno doveva sapere niente. Ma io vengo da
una piccola città, dove ci si conosce tutti. Lavinia, che ha gli occhi e i
capelli come tizzi di carbone, un marito altrettanto scuro e che è rimasta
dieci anni senza figli, all’improvviso mette al mondo un bambino fulvo come un
leone. Sono cresciuto, e i miei compagni di giochi mi chiamavano capelli gialli
e cane bastardo. I castelli costruiti con le bugie prima o poi sono destinati a
rovinare, domina. Quando gli ho chiesto la verità, piangevano.Non ti abbiamo
fatto mancare nulla, figlio, dicevano. E io:mi avete cresciuto nella menzogna,
e le menzogne mi fanno orrore. Il mio nome è una menzogna, capisci? Non è
quello che mi avrebbe messo la donna che mi ha partorito. Mio padre e mia madre
sono menzogne, la lingua che parlo è una menzogna…
La
maschera le lasciava scoperta la bocca. Per baciarlo dappertutto, per morderlo
e per sorridere. Era una bella bocca larga carnosa e generosa, la bocca di una
persona capace di apprezzare i piaceri della vita. Anche se quella donna ricca
e dissoluta, quella bambola della notte che, come altre, ricercava il piacere
tra le braccia di un essere abbietto il
cui unico scopo dell’esistenza era uccidere e morire, aveva occhi scuri e
tristi, tra le fessure della maschera d’argento.
-E’
perché non hai sangue romano che provi orrore delle menzogne.
-Può
darsi, domina.
-Ed
è per le menzogne degli altri che sei finito qui?
-Ho
ucciso un uomo. Non volevo farlo, ma mi aveva insultato, ero ubriaco e…Sono
stato condannato al remo per tutto il tempo che mi restava da vivere.Ma non ho
mai messo piede sopra una nave. Qualcuno ha ritenuto che sarebbe stato uno
spreco.
Thanatos
si accarezzò lentamente i muscoli gonfi delle braccia e del petto, guardandola
di sottecchi con gli occhi da gatto ridotti a due fessure.
E
ti è andata bene, almeno così puoi giocartela, la vita, come in una partita a
dadi. E se sarai così fortunato, potresti anche farcela, a vincerti il diritto
ad essere lasciato vivere in pace il tempo che ti è stato destinato, lungo o
breve che esso sia.
-Thanatos…Hai
mai avuto paura, qualche volta?
Gli
occhi erano due fuochi freddi e azzurri, tra lo spolverio dorato delle lunghe
ciglia.
-Sempre,
domina. Anche se mi hanno insegnato a non darlo a vedere.La sera prima dei
Giochi, certi di noi si ingozzano come porci e bevono come spugne; altri hanno
lo stomaco stretto da una mano di ferro e non riescono a toccare cibo. Io
mangio il minimo indispensabile a placare la fame e bevo solo acqua, perché non
voglio che il digiuno o il troppo cibo, o il vino fiacchino le mie possibilità
di resistere e di sopravvivere. Ma so che potrebbe non servire. La notte prima,
è difficile riuscire a chiudere occhio, a meno di non sbronzarsi. Così quando
entri nell’arena sei morto dal sonno, hai la testa che scoppia e le gambe non
ti reggono per il terrore. A questo punto, non conta tanto la bravura nel far
giostrare la daga o nell’impastoiare l’avversario con la rete. Contano solo la
tua voglia di vivere e la tua disperazione…Tutti quanti siamo attaccati alla
vita, domina. Al punto da ringraziare il giudice che ti ha condannato al remo
invece che alle bestie; al punto da ringraziare gli Dei per averti aiutato a
spaccare il cuore ad uno che ti era amico, solo perché la sorte te l’ha messo
contro…E tu hai mai avuto paura?
-Non
mi sono mai trovata una daga puntata alla gola, Thanatos.
-Perché
hai ordinato di sciogliermi dalle
catene?
-Non
lo so. Il servo mi aveva detto che eri un uomo pericoloso, ma io non gli ho
creduto. I tuoi occhi non sono cattivi, e poi parli bene, sei diverso da come
dovresti essere.
-Sono
molto diverso…da tuo marito?
Thanatos
immaginò che il volto della donna di fosse rabbuiato, sotto la maschera. Doveva
essere bella, aveva labbra ben disegnate, il naso delicato, le narici sottili e
frementi. Bella in ciò che gli aveva nascosto almeno come in quanto gli aveva
mostrato. Bella e totalmente priva di pudore.
-Mio
marito è un vecchio puttaniere sbevazzone. Non mi è mai piaciuto.
-E
tu cerchi altrove quello che lui non riesce a darti. O mi sbaglio?
-Thanatos…-La
maschera le ombreggiava gli occhi e non le nascondeva il sorriso- Con te è non stato come con tutti gli altri.
E
gli accarezzò la guancia con il dorso della mano. Aveva una carnagione morbida e
compatta, la barba ispida, un pugno di lentiggini dorate sul naso e sotto gli occhi.
-Perché
non sono un vecchio puttaniere sbevazzone…O perché non sono destinato a
invecchiare, domina?
La fissò con i suoi occhi chiari e corrucciati,
e gli sembrò che lo sguardo di lei fosse tornato ad essere quello imperioso di
chi vuole guidare il gioco.
-Qual
è il tuo vero nome, Thanatos?
*
-Il
mio nome è Aulo Valerio. Non credo che tu ti ricordi di me.Io di te sì, invece.
Aulo
Valerio. Un altisonante nome romano. Partorito da una schiava icena, adottato
da due coniugi anziani, benestanti e senza figli. Alto, biondo, occhi azzurri,
attraente. Condannato a vita al remo
per omicidio. Riscattato da un lanista con il fiuto degli affari e scaraventato a combattere nell’arena.
Agile, buone gambe e buoni muscoli. Astuto. Terribilmente coraggioso. Piace
agli spettatori, che lo hanno soprannominato Thanatos perché quando si batte
nasconde la faccia dietro una maschera che ricorda un teschio. Certe notti, prostituto di lusso per ricche dame
annoiate. Ventisette, ventotto anni d’età. Bravo a dare piacere come a portare
la morte. Destinato a non diventare vecchio.
-Sono
passati sei anni. Era una nottataccia e tu tremavi di freddo e di paura. Mi
sono tolto il mantello e te l’ho messo sulle spalle…Un bel mantello di lana
pesante, molto caldo.
-Te
lo farò riavere.
-Non
credo che mi servirà. Tienilo come ricordo…Augusta.
Valeria
Messalina. Figlia di Valerio Messalla Barbato e di Domizia Lepida. Discende da
Cesare, da Ottaviano Augusto e dagli dei. Ventiquattro anni. Sposata perché
costretta a un uomo che odia e che
tradisce con chiunque le capiti. Gli ha dato due figli. La notte del temporale,
sei anni prima, tremava. Di freddo, forse, ma non di paura. Sicuramente di
rabbia. Pretoriano, che aspetti ad ammazzarlo? Ma il Pretoriano aveva riposto
la daga nel fodero e l’aveva chiamato Cesare, inchinandosi al cospetto di quel
vecchio sbilenco dall’aria stordita su cui nessuno avrebbe scommesso mezzo
asse. Quindi, voltatosi verso di lei, le aveva sistemato sulle spalle il suo caldo mantello di lana,
chiamandola Augusta. Forse avrebbe preferito abbracciarla e scaldarla col suo
corpo, dopo essersi liberato dell’elmo e della corazza. I suoi occhi chiari,
incorniciati dalle guancere e dal paranaso, scintillavano nel buio rischiarato
dalle torce come quelli di un gatto. Se lo ricordava eccome, l’Imperatrice
Messalina, il giovane Pretoriano dagli occhi azzurri e dalla barbetta bionda.
Sicuramente, doveva essersi augurata di incontrarlo in circostanze più
favorevoli di quella, anche se non era mai più capitato. E il tempo era
passato. Sei anni. Sei anni di menzogne, d’imbrogli e di sotterfugi. Sei anni
di rancori covati dentro come braci nascoste sotto la cenere. Sei anni con
l’anima spaccata in due, regina di giorno, puttana della peggiore specie di
notte.
*
Valerio.
Curioso, porti il mio stesso nome. Ma nelle vene non ti scorre il sangue degli
dei, ed è sangue vile quello che si rapprende intorno alla schifosa ferita che
sconcia il tuo bellissimo corpo. Eri stato gentile con me, la notte del
temporale. Avrei voluto che quel che è stato oggi fosse stato allora, Valerio,
come avrei voluto che Claudio morisse. In un modo o nell’altro, che non
tornasse dalla Britannia, che le febbri se lo portassero via, che mi lasciasse
sola…Mi diresti che sono pazza, forse. Hai servito sotto il cupo Tiberio e il folle Caligola. Quel
Claudio che non ami, mi diresti così, ne sono sicura, è un buon diavolaccio, in
fondo. E’ molto meno scemo di quel che sembra e la gente lo ama. Lo dici
vecchio puttaniere sbevazzone, ma quale uomo non ama il vino e le donne? Sono
sicuro che ti vuole bene e che ti rispetta. Adesso vattene e per favore, non
fare la stupidaggine di innamorarti di me.
I
bagliori della torcia le battevano rossastri sull’argento della maschera. Anche
i miei occhi sono sprofondati in fondo alle orbite di un teschio, come lo sono
i tuoi quando combatti e dici di non
voler togliere la maschera perché chi ti vede non sappia come sei finito.
Coraggio, Valerio, guardami. Guarda la tua regina che ti sei preso questa notte
e non una volta soltanto. Guardala piangere.
Era
scura di pelle, con folte sopracciglia arcuate, capelli neri e riccioluti,
piccole orecchie graziose, appesantite da sontuosi pendenti d’oro e di granati.
Aveva un neo proprio in mezzo alla fronte e gli occhi ambrati lucidi di lacrime
e sporchi di bistro scolato. La maschera d’argento le era rotolata proprio sui
piedi.
-Ho
freddo. Abbracciami, Valerio.
*
-E’
tutto deciso, Silio?
-Siamo
ancora in tempo per tornare indietro…Se hai paura.
La
donna gli piantò gli occhi negli occhi, costringendolo ad abbassare lo sguardo.
-Ti
ho dato la mia parola, Silio. Aspetto soltanto che tu rispetti la tua.
-Parli
e ragioni come un uomo. Dovresti essere nata uomo, Valeria.
Silio
le sorrise. La mia ambizione in cambio della tua sete di vendetta. A me il
trono, a te l’ emancipazione da un vincolo che detesti. Ma prima devi diventare
mia moglie. Sposiamoci, adesso che il vecchio babbeo si trova ad Ostia per
sovrintendere al lavori per l’ampliamento del
porto. Io sono libero, tu lo sarai se ricuserai pubblicamente il legame
con cui ti hanno unita insieme a quell’uomo che hai sempre odiato. Ci sposeremo
con una cerimonia fastosa, che lascerà tutti a bocca aperta. E poi ci
libereremo di lui.
La
gente crederà che sia la lussuria ad unirci pensava Valeria guardando, sdraiato
nudo nel suo letto, quell’uomo attraente e privo di qualsiasi scrupolo, il suo
amante di cui tutti sapevano. Anche Claudio, malgrado fingesse di ignorare
tutto quanto: aveva ragione Valerio, era molto meno stupido di quanto sembrasse
e aveva capito che, se voleva tenersi la moglie giovane e bella, un vecchio
della sua età doveva necessariamente allentare o addirittura sciogliere il
guinzaglio. Tanto, chi ha potere e denaro fa in fretta a consolarsi, anche se
è un vecchio avvinazzato sbilenco e
balbuziente. Ma la gente sbaglia. Non è la lussuria che mi unisce a Gaio Silio.
E’ il desiderio di vendetta di cui questo giovane fatuo, ambizioso e pieno di
sé sarà mezzo e strumento. Del resto, l’unico sentimento che mi riesce ancora
di provare è solo l’odio, perché io non sono altro che odio e odio soltanto.E’
l’odio che mi tiene in piedi. E’ l’odio che mi dà la forza di tirare avanti.
-La
tua parola, Silio.
La
libertà per quel gladiatore, Thanatos. L’aveva visto battersi bene, impugnando
le armi del sannita o del secutor. Molto coraggioso. Al termine dei
combattimenti non si toglieva mai la maschera, per chissà quale misteriosa
ragione. Forse semplicemente perché era sfregiato. No, non lo è, gli aveva
confidato Valeria. E’ un iceno romanizzato, ha servito per anni nella Terza
Coorte Pretoriana. Lo conoscevo. Era con Cassio Cherea, la notte che fecero
fuori Caligola. E’ stato…molto gentile con me.
Un
sorrisetto sarcastico stirò sui denti le labbra sottili di Gaio Silio. Era
stato gentile con lei, come no. Thanatos . La corazza, l’elmo e la maschera non
rivelavano molto di lui, se non che aveva spalle e braccia poderose e che dal
casco di bronzo che gli aderiva alla testa spuntava una treccia di capelli
color oro rosso. Valeria non era la prima gentildonna romana, e di sicuro non
sarebbe stata l’ultima, a perdere la testa e la decenza appresso a un
gladiatore.
-Perché
vuoi la libertà per quell’assassino, Valeria?
-Perché
odio l’ipocrisia e le menzogne, Silio. E perché riesco a provare rispetto solo
per il coraggio.
Silio
incassò, limitandosi a sorriderle senza guardarla negli occhi. Avrai il tuo
giocattolo libero a cose fatte, Valeria. E potrai farne ciò che ti pare. Qualcosa
te la devo, no? Non mancherò di parola, stanne certa.
*
Quanto
tempo era passato dall’ultima volta che si erano viste? Tanto, se entrambe
erano così cambiate da stentare a riconoscersi. Gli occhi di Domizia erano
quelli cerchiati di chi non dorme abbastanza e una spessa ciocca di capelli
bianchi le attraversava come una folgore il nero della testa.
-Che
hai fatto, figlia?
Lo
sai che ho fatto, madre. Lo sapevi dal
momento in cui hai deciso di darmi a quel vecchio che odiavo senza degnarti di
stare a sentire il mio parere. Quello non contava niente, per te, tanto non ero
che una ragazzina, un oggetto senza sentimenti nelle mani di due genitori
ambiziosi, e avrei ubbidito a testa china, perché la mia vita non era la mia.
Dacché viene al mondo, una donna non è mai sua. E’ degli altri.
-Ti
cercano. Ti troveranno. E ti uccideranno.
Valeria
alzò le spalle. Lo sapeva. Silio doveva essere già morto, o se non lo era
ancora lo sarebbe stato presto.
-Figlia,
perché…
Il
volto senza trucco era pallido come gesso, i capelli sciolti le ricadevano
disordinati sul mantello da soldato. Perché non sono stata una donna remissiva
e ubbidiente? Perché non sono stata capace di amare né lui né nessuno? Perché
ho pregato gli Dei chi mi rendessero vedova, perché mi sono data a chiunque per
sfregio, per rabbia, per dispetto, perché mi sono lasciata coinvolgere nei
disegni criminosi di quel damerino vanesio? Ti sei mai domandata, madre, come
sarei potuta essere se avessi avuto una vita diversa da questa? Se fossi stata
una qualunque e non progenie degli Immortali?
-Madre
mia…
L’abbracciò
singhiozzando, come se fosse tornata bambina. Le ombre della sera oscuravano i
Giardini Luculliani e la brezza che
soffiava tra i rami era quella fresca di settembre. Domizia aveva ragione, l’avrebbero
scovata. E non avrebbero avuto pietà.
-Non
dar loro la soddisfazione di prenderti viva, figlia.
La
punta acuta dello stiletto che preme contro la pelle e lascia gocciolare fuori
il sangue fa male, madre. Non è facile morire, tutti siamo attaccati alla vita.
Anche quando non è più tale, ma diventa sofferenza soltanto. Anche quando si è
vecchi come le montagne. Aveva ragione Valerio, quando le aveva detto che tutti
temono la morte, pure i coraggiosi. Lei gli aveva risposto ridendo che non si
era mai trovata una daga puntata alla gola. Quanto tempo era passato, da
allora? Dieci giorni, non di più, ma le
erano sembrati eterni. Chissà, si ritrovò a pensare, se la ferita gli faceva
sempre male. Se zoppicava ancora. Perché, si domandò, pensare a quello schiavo,
a quell’assassino, a quella creatura abbietta, le dava tanto struggimento? Solo
perché era l’unico uomo tra le cui braccia non fosse stata costretta a fingere
il piacere?
Domizia
guardava il pugnale scintillare nelle mani tremanti della figlia. Non aveva
fatto che deluderla, dacché stava al mondo. Era stata una bambina ribelle, con
le ginocchia sbucciate e i capelli arruffati, sempre pieni di festuche e di
paglia secca. Giocava con i cani e con i cavalli, come i maschi, e se ne stava
ore ad ascoltarsi a bocca aperta le storie inverosimili della vecchia Canidia.
Non era stata capace di accettare il suo destino di donna, una volta cresciuta,
si era coperta di fango e di turpitudine e adesso non sapeva neppure morire con
dignità. Domizia scosse la testa, si districò dal suo abbraccio e si allontanò
da lei, abbandonandola alla sua sorte.
La
luce scialba della luna illuminava gli elmi e i fregi sulle corazze dei
Pretoriani. Il liberto Narcisso, l’uomo di fiducia dell’Imperatore, l’afferrò
per i capelli, costringendola a guardarlo negli occhi. Erano chiari quasi
quanto quelli di Valerio e brillavano di riflessi metallici, come la sua daga
sguainata. Istintivamente, la donna alzò verso di lui il pugno, allo stesso
modo in cui i gladiatori che cadevano domandavano grazia.
-Chi
ti sta davanti non è quel vecchio babbeo di tuo marito.E’ inutile sperare nel perdono, puttana.
Dai
rami più alti di un cipresso, una civetta fece udire il suo verso lamentoso.
*
-Un
deprecabile incidente, Domine. Abbiamo tentato il possibile per salvarla, ma
non c’è stato nulla da fare.
Gli
occhi sporgenti dell’Imperatore guardavano vacui e ubriachi la faccia dura di
Narcisso. Peccato che sia morta, era giovane e bella, era la madre dei miei
figli…Le volevo bene, malgrado lei non me ne volesse, ma ero convinto di poter
avere lo stesso il suo corpo e la sua anima solo perché sono quello che sono.
Ho sbagliato. Tutti possono sbagliare.
Claudio
allungò verso lo schiavo la coppa ingemmata.
-Veee..rsami
ancora del vino,disse. Quindi, rivolgendosi al Prefetto del Pretorio:
aa..mmazzami con la tua spaa..da, se dovesse baa..lenarmi in testa l’idea
bal..zana di prendere nuoo..vamente moglie.
FINE
POSTFAZIONE
E
adesso che il racconto è scritto, spieghiamone le ragioni. Che io sia sempre
stata affascinata dalla storia, questo è un dato di fatto inconfutabile. Se per
storia poi si intendono i periodi
oscuri e turbolenti, allora ci vado a nozze. Il periodo della Roma
Imperiale ha tutte queste caratteristiche: è un mondo di grande bellezza, ma
anche di corruzione vergognosa e di efferata crudeltà. Che sia la faccia buia
della luna, il lato misterioso che c’è in ognuno di noi? Può darsi.
Non mi piace raccontare la storia paludata che si insegna a scuola, anche se bisogna conoscerla, e conoscerla bene altrimenti rischi di scrivere fesserie più grandi di una casa. I personaggi, illustri od oscuri, reali o inventati, preferisco manipolarli a modo mio, anche a costo di stravolgere tutto. In fondo, erano gente come noi, né più né meno: con i nostri vizi e le nostre virtù. Tutti quanti, anche Messalina, la perfida, la dissoluta. Messalina,alias Licisca (la Lupa, metafora che sta per prostituta) che Giovenale, nelle sue Satire definisce “la puttana imperiale”, attribuendole qualsiasi nefandezza. Forse perché non aveva molto in simpatia Claudio, il di lei poco amato e molto cornificato consorte.
Una donna di cui so poco. A proposito, ho letto quel
che di lei dicono Regis Martin, Montanelli e Spinosa, nelle loro opere dedicate
alla storia di Roma. Ho letto anche la biografia curata da Luca Goldoni, che di
questo personaggio non doveva saperne molto più di quanto non ne sappia io.Vale
a dire: che proveniva da nobilissima e onorata famiglia, imparentata con
Cesare, con Ottaviano Augusto e perfino con Venere e con Marte (presso gli
antichi, impastare assieme verità e bugie per abbellire la prima era una
consuetudine largamente diffusa); che doveva essere carina, intelligente e
sensibile; che i suoi ambiziosi genitori non avevano certo in animo di darla ad
uno qualsiasi; infine che le toccò in sorte, nell’Anno Domini 25, la disgrazia
di nascere donna.
Nella Roma imperiale, le donne del patriziato e
della ricca borghesia godevano di parecchia libertà. Ma solo dopo il
matrimonio: prima, erano alla completa mercé dei loro genitori, che potevano
farne ciò che volevano, compreso darle in mogli, per i loro tornaconti, a
uomini che non appartenevano certo al genere che si sogna di notte. Ci vuol
poco a immaginare che proprio questo sia stato il destino di Messalina, la
quale sposò, sedicenne, il cinquantenne Claudio: pluridivorziato, zoppo,
bavoso, balbuziente,alcolista e puttaniere, nonché accreditato da tutti, madre
compresa, d’una solida fama di mentecatto (sicuramente, non trattandosi d’un
modello di coraggio, si fingeva tale senza esserlo, per proteggersi dalla brutalità dei tempi: una volta al potere, si
dimostrò infatti un ottimo imperatore, giusto ed avveduto). La Messalina che avevo in testa, è tutto il
contrario di quella di cui si favoleggia da poco meno di duemila anni. Non la
ninfomane assetata di piaceri perversi, ma una frigida che si dà a tutti senza
provare niente solo per vendicarsi di chi ha “ucciso i suoi sogni”. Perfino il
torbido legame che la unì a Gaio Silio e che costò la vita ad entrambi nasce e
si consolida nel desiderio di vendetta e nell’ambizione, non nella lussuria.
Forse non è andata proprio così, ma io
ho voluto scrivere un racconto, non un saggio storico: anche a costo di forzare
i fatti. Valerio, l’unico uomo che fosse riuscito ad accendere i sensi di
questa gelida creatura, ovviamente me lo sono inventato. E me lo sono inventato
biondo e gladiatore, come si usa adesso. Russell Crowe (mamma, quanto è bello)
c’entra fino a un certo punto. Va detto che, dentro la testa, ho sempre le
immagini dettagliate dei miei personaggi e potenza della suggestione o di
chissà che diavolo d’altro, la fisicità granitica, lo sguardo da cucciolo e le
lentiggini sul naso del Marlon Brando degli Antipodi la loro parte l’hanno
fatta. Ma va anche detto che molti gladiatori, di origine celtica, germanica o
trace, (Valerio è iceno, originario dalla Britannia) avevano gli occhi azzurri
e i capelli biondi come Russell, che ha sangue scandinavo nelle vene, essendo
figlio di padre mezzo norvegese. E’ comunque un dato di fatto suffragato da
attendibilissime testimonianze che i gladiatori esercitassero molto fascino
sulle signore dell’epoca. Sarà stata la loro prestanza fisica,sarà stata la provenienza
da luoghi esotici come la Germania, l’Africa o le Gallie, sarà stata la plumbea
cappa di sangue e di morte che si portavano appresso, questo non lo so, ma come
“oggetti del desiderio” funzionavano a meraviglia. I muri di Pompei sono
decorati di scritte inneggianti a tali Crescenzio e Celado, di cui non vengono
esaltate le doti sportive ma quelle
amatorie; sempre a Pompei, nel corso degli scavi, in una caserma di gladiatori
è stato rinvenuto, in mezzo ad una settantina di scheletri appartenuti a marcantoni
usi o costretti a giocarsi la pelle nell’arena, anche quello minuto di una dama
doviziosamente ingioiellata; personaggi
di fama e di rango, quali il senatore Ninfidio Sabino e soprattutto
l’imperatore Commodo (di cui erano ben noti la corporatura erculea e i gusti
grossolani e sanguinari) non erano in realtà figli dei legittimi consorti delle
loro madri, bensì degli amanti gladiatori di queste ultime. Per non parlare
delle testimonianze scritte, Petronio Arbitro, Marziale, Giovenale, che nelle
sue Satire prende di mira una certa Eppia, nobilissima matrona che appresso a
un gladiatore, tale Sergiulus, ha perduto qualsiasi decenza. Ed è completamente
fuori strada chi immagina il fortunato con gli affascinanti tratti e il corpo
scultoreo del Gladiatore cinematografico: il poveretto era un combattente alle
soglie della pensione, calvo, sfregiato e con un bitorzolo sul naso…Sarà stato
il fascino dell’armatura?
Esistevano diverse tipologie di gladiatori,
contraddistinti dalle armi e dalle tecniche di combattimento. I più noti erano
il retiarius e il secutor, che duellavano l’uno contro l’altro, armati
rispettivamente di rete e di tridente e di daga. C’erano anche l’oplomaco, o
mirmillone, il sannita,il provocator e il trace armato di sciabola ricurva, la
“sica supina” (come tale combatteva ed altresì della Tracia era originario il
più famoso gladiatore della storia, l’eroico Spartaco); gli equites, che
combattevano a cavallo e gli essedarii sui carri. Infine, i più sfortunati di
tutti erano gli andabati, che non a caso venivano reclutati tra i condannati
alla pena capitale per i delitti più abbietti, mentre tra le precedenti
categorie era possibile trovare anche uomini liberi e non necessariamente di
bassa estrazione. I poveracci erano costretti a menare i loro colpi alla cieca,
avendo la testa infilata in un casco sprovvisto dei buchi per gli occhi. A
questo punto, è doveroso per me ringraziare Dario Battaglia, dell’associazione
Ars Dimicandi, al quale devo tutte le informazioni su armi e tecniche di
combattimento. Il “mio” Valerio combatte con le armi del sannita, daga, scudo,
casco, maschera e corazza. Come
Maximus-Russell Crowe, che nel film si cimenta comunque anche in qualità
di secutor, equites e perfino venator, ma questa è una forzatura, perché a
lottare contro le bestie feroci venivano mandati i condannati a morte: le
probabilità di farla franca contro una tigre, un orso o un branco di cani
inferociti erano uguali a zero, e non a caso fu quella la fine di parecchi
martiri cristiani in tempo di persecuzione.
Lo sfortunato taurarius che nel mio racconto è
costretto a cimentarsi contro un uro è uno zelota ebreo. Erano costoro gli
adepti di una setta nazionalista, che mal tolleravano l’occupazione romana
della Palestina e contro di essa si battevano. Pare fossero zeloti alcuni
apostoli di Cristo, tra cui Giuda Iscariota. Sicuramente un ribelle zelota era
Barabba, il ladrone graziato dalla folla nel giorno della condanna di Gesù, e
tali dovevano essere anche i due poveracci giustiziati con Lui sul Calvario.
L’uro era un bellissimo animale, un gigantesco toro
selvatico comune nelle praterie
dell’Europa centrale e settentrionale, che si è estinto intorno al 1600 a causa
della caccia indiscriminata a cui è stato sottoposto e della distruzione del
suo habitat. Gli zoologi ne stanno tentando la “ricostruzione” mediante incroci
di razze bovine selezionate.
Un’ultima cosa: è vero che
l’imperatore Claudio ingiunse al suo uomo di fiducia, il liberto Narcisso,
d’ammazzarlo con le sue mani qualora gli fosse balenata in testa la poco felice
idea di risposarsi. Ma cambiò opinione
in fretta, non fu ammazzato e, accasandosi con la nobile Agrippina, che gli
portava in dote un figlio nato da un precedente matrimonio e da lui tempestivamente
adottato, servì su un piatto d’argento il trono a un degno soggetto, Lucio
Domizio Enobarbo, passato alla storia come Nerone…