Fanfic su artisti musicali > One Direction
Ricorda la storia  |      
Autore: callmelola    02/12/2012    2 recensioni
A volte ho voglia di alzare il culo da quella dannatissima panchina e andare da lei, dire che non l'ho lasciata, e risolvere tutto, magari con un mazzo di rose e qualche promessa a voce bassa.
Ma non posso.
[..]
I fantasmi non posso piangere.
Ma quando ripensavo a tutto questo, quando i flashback mi afferravano all'improvviso, sentivo gli occhi pesare di lacrime come se fossi ancora vivo.
Genere: Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Harry Styles
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Who cares about the dead soul on the green bench?





E' aprile, ormai.

Piove sempre meno spesso e il sole sembra farsi largo con meno timidezza.

Come oggi, ad esempio.

I suoi raggi stanno circondando ogni cosa, come se li abbracciasse, come se si stesse spandendo come una dolce epidemia.

Sono nel viale alberato vicino a casa mia, quella che era casa mia.

Seduto sulla solita panchina verde, osservo come i boccioli sugli alberi, che a Marzo erano appena in fiore, stiano per scoppiare in petali colorati.

Chiudo gli occhi, lascio che qualche stralcio di sole che penetra dalle fronde degli alberi mi accarezzi il viso, come per recuperare il calore sottrattomi durante l'inverno.

Amo il sole, mi è sempre piaciuto.

E amo quel posto, l'ho sempre considerato mio.

Un signore sulla settantina con un maglione sgualcito e un paio di occhiali spessi si siede accanto a me, non notandomi, naturalmente.

-Sembra estate oggi- dice fra sé e sé, distendendo le mani screpolate verso il sole per scaldarsele.

Per un attimo mi sento privato della mia intimità: quella panchina è il mio angolo privato, prettamente mia, tutto ciò che mi resta: raramente qualcuno si sedeva lì.

Avrei voluto farlo alzare, dirgli di scegliersi un'altra panchina, ma non posso.

E dopotutto, non mi sta infastidendo.

Sento dei passi lontani venire verso di noi e sia io che l'anziano ci voltiamo per guardare.

Dall'altra parte del viale, con i suoi Dr. Martens rossi ai piedi e un cappotto primaverile troppo largo, Claire cammina a lunghi passi sul marciapiede, con un'espressione preoccupata sul viso magro.

Si sistema il borsone pesante sulla spalla e senza distogliere lo sguardo da terra, ci passa davanti, solo la strada tra i due marciapiedi che separa i nostri corpi.

Potrei giurare di averla vista tirare su col naso e alzare una mano per asciugarsi una guancia da una lacrima forse, quando camminava veloce verso scuola, dandomi le spalle.

Ogni giorno, su quella panchina di legno, la guardo sfrecciare via a lezione, con lo sguardo infagottato in chissà quale pensiero.

E puntualmente e ovviamente non mi nota.

Oh Claire, come ho potuta lasciarla e spezzarle il cuore?

Lei è una persona così meritevole di ogni singola attenzione, così fragile e sensibile e io l'ho abbandonata senza troppo preavviso.

Mi prendo la testa tra le mani, scompigliandomi i ricci da davanti gli occhi.

Mi manca Claire, tantissimo, da non respirare.

I suoi capelli profumati, come pronunciava il mio nome, le iridi scure dei suoi occhi grandi, le labbra rosa da Biancaneve.

Ma non posso tornare da lei, non posso tornare indietro.


-


Sono le 2 del pomeriggio e sono ancora seduto sulla panchina, come sempre.

Quella panchina aveva visto più cose di quante effettivamente ne sapessi.

Su quella panchina da piccolo, avevo invitato gli amici, per giocare insieme con le automobiline.

Avevo imparato a leggere, accompagnato da mia madre e qualche libro di poche parole e tante immagini, seduto lì.

Su quella panchina avevo guardato passare tante macchine, in pomeriggi in cui magari avrei dovuto studiare, invece di farmi distrarre da ogni cosa.

Su quella panchina avevo inciso il mio nome a 12 anni con un legnetto appuntito, sul lato destro dello schienale; e negli anni, appena vedevo che l'incisione andava per scomparire, ripassavo il solco con una chiave o un coltellino, così che rimanesse ancora.

Su quella panchina non avevo permesso a nessuno di incidere il proprio nome accanto al mio.

Solo a Claire l'avevo lasciato fare.

Su quella panchina ebbi il mio primo appuntamento: ricordo di aver indossato un paio di jeans leggeri che, appena mi sedetti, si bucarono sul retro-coscia, costringendomi a trascorrere lì tutto seduto il tempo con lei.

Quel giorno, coi pantaloni bucati e seduto su quella panchina, diedi il mio primo bacio, a Claire.

A volte, sento ancora il sapore del burro-cacao che mi lasciarono le sue labbra sulla bocca, e vedo ancora quel sorriso a occhi bassi, che mi rivolse staccandosi dal mio viso.

Ero stato consolato, avevo sognato, pianificato, pianto; avevo immaginato cose nuove, progettato un futuro felice, tutto seduto su quell'ammasso di legno verde.

Ricordo che Claire amava quel posto almeno quanto lo amo io.

Forse è proprio perchè lo ama Claire, che io ci passo tutto questo tempo.

L'ultima volta che Claire si è seduta accanto a me su questa panchina è stato il giorno prima dell'incidente: avevo messo a nudo il mio cuore, le avevo detto che l'amavo , e lei si era messa a piangere.

Mi aveva preso il viso tra le mani e l'avevo interrotta mentre mi ricambiava il 'ti amo' baciandola all'improvviso.

Il filo ingarbugliato di pensieri e ricordi attorcigliati tra loro è all'improvviso interrotto dal suono degli stessi passi di stamattina.

La vedo passarmi davanti, senza cappotto e farfugliando qualcosa tra di lei, con i capelli raccolti lungo una sola spalla.

Ha lo sguardo vuoto, sofferente, annegato in qualche timore nel profondo di sé stessa.

Non avevo mai visto Claire in quelle condizioni e sapere che stava così a causa mia mi lacerava dentro.

Ho voglia di alzare il culo da quella dannatissima panchina e andare da lei, dire che non l'ho lasciata, e risolvere tutto, magari con un mazzo di rose e qualche promessa a voce bassa.

Ma non posso.

 

-

 

La notte è passata, e stranamente è stata fredda.

Sono stato sveglio seduto lì sopra per tutto il tempo, con lo sguardo ancora fisso nella direzione in cui Claire se n'era andata verso casa.

Saranno le 7 e quarto del mattino e oggi sembra una giornata meno soleggiata di ieri, date le nuvole che scorgo tra i rami degli alberi.

So che fra circa mezz'ora lei dovrebbe passare, come sempre, per andare verso scuola, sottomessa dal peso di quel borsone pieno di libri.

Sento dei passi e mi aspetto che sia Claire, ma non è lei.

E' la mia mamma, con delle margherite in mano, due guance un po' scavate e le labbra tirate dalla stanchezza.

Sta andando verso il cimitero, ne sono certo: fa così una volta ogni sette giorni e questa settimana non l'avevo ancora vista dirigersi lì.

Di istinto faccio il gesto di alzarmi verso di lei con le braccia aperte in un abbraccio, ma mi risiedo subito a sguardo basso, rendendomi conto che è inutile.

C'è un biglietto attaccato ai gambi dei fiori che ha in mano, col mio nome, 'Harry', scritto sopra.

Scuoto la testa per togliermi l'immagine della mia povera mamma dalla testa e subito sono distratto da qualcun'altro che viene nella mia direzione.

E' Claire e mi stupisco che sia fuori di casa già a quest'ora.

Ha un coltello bello grosso tra le mani, nascosto sotto a un panno, per non dare all'occhio.

Si avvicina alla panchina, ignara che io sia lì a guardarla.

Sfila il coltello fuori dalla custodia improvvisata e si china sul lato destro della panchina, sullo schienale.

Mi chino vicino a lei, osservando il suo bel viso: ha le guance rosse bagnate di lacrime e la bocca aperta che emette singhiozzi di gola, di cuore.

Respira a fatica, ha le mani sudate accartocciate attorno al manico del coltello, le ciglia lunghe e gocciolanti.

Sfrega la lama del coltellaccio sui nostri nomi incisi, e piano piano vedo prima il “Claire” e poi l' “Harry” scomparire sotto la nostra vista, diventare un piccolo cumulo di segatura legnosa grattata via posato sul terreno.

Sento i miei occhi gonfiarsi di lacrime, tento di frenarla pronunciando qualche 'non farlo' all'aria.

Passo il dorso della mia mano prima sulle mie palpebre e poi sulle sue guance per asciugargliele, inutilmente.

Claire smette di raschiare e passa una mano sul legno liscio, senza neanche più una traccia di incisione, o nome, o ricordo.

-Forse così sarà più facile non pensarti- bisbiglia in un gemito, per poi alzarsi e lasciarmi ancora solo, attanagliato dal dolore.

 

-

 

Non avevo mai pensato che la morte sarebbe stata così.

Pensavo che il corpo morisse, e l'anima con esso, trascinata in qualche baratro buio, o sotterrata a marcire sotto a una lapide con tanto di necrologio, in cui riposare per sempre.

E invece no.

L'anima perdura per sempre, vaga sola nel mondo, in attesa del nulla.

Tutti pensano che la morte di una persona interessi specialmente i suoi cari, che devono affrontare a denti stretti il dolore della perdita.

Ma chi pensa alla persona morta in questione, costretta a vivere nella solitudine, consapevole che nessuno di chi amava in vita può vederla, sentirla o toccarla, malgrado sia costantemente presente con loro?

La morte fa schifo.

Ti allontana dai tuoi amici e familiari, ma non concretamente, perchè te li pone davanti agli occhi in continuazione.
Tutto questo senza che tu possa interagire con loro, dire loro che non devono soffrire per te, che meritano il meglio, che tu sei ancora lì vicino a loro, malgrado non fisicamente.

Ho rovinato la vita di tutti, morendo.

I miei genitori si stanno per separare, vinti dal dolore.

Mia madre due giorni dopo che morissi, ha tentato il suicidio, ingoiando una barca di sonniferi, che solo una lavanda gastrica è riuscita a faglieli espellere.

Mia sorella non parla dal giorno della mia scomparsa, i miei amici non sono più gli stessi, i miei poveri nonni, che già non erano di primo pelo, sembrano essere invecchiati di 10 anni.

E poi Claire, che ogni notte si rannicchia a terra e piange lacrime che speravo non dovesse mai versare, che sui libri di scuola scrive il mio nome ovunque, che mi rivolge preghiere ogni mattino, che non ha intenzione di rivolgere mai più un 'ti amo' a un ragazzo, che mangia a giorni alterni, che si nasconde in maglioni enormi per nascondere il vuoto che porta dentro, che fa tappa ogni giorno alla mia tomba, credendomi lì, qualche metro sottoterra, non sapendo che sono quasi sempre accanto a lei.

Perchè farmi subire a una simile tortura?

Non bastava avermi fatto morire a 17 anni?

Pensavo che strapparmi dalla vita terrena in un punto della mia vita in cui si deve fare tutto tranne che morire, fosse già una condanna sufficiente.


-

 

I fantasmi non dormono, non mangiano, non respirano.

Vivono di ricordi, ed emozioni, e osservando le azioni che la gente ancora viva esegue attorno a loro.

A volte cadono in uno stato di riflessione profonda, in cui passano davanti ai loro occhi i ricordi più significativi della vita passata.

Quello che più mi perseguita è sicuramente il giorno della mia morte: l'auto di mio padre che scivola sulla neve ghiacciata, il volante che non riesce più ad essere controllato e poi quel camion che non si fermò allo stop che prese in pieno la nostra macchina, lasciando lievemente ferito mio padre e spezzando il collo a me, fino a sbattermi dentro a una bara.

Giuro che odiavo essere morto.

Ci tenevo da morire alla mia vita, al farmi un futuro, e una famiglia. E invece i miei sogni si sono spezzati come fossero lo stelo di un fiore.

I fantasmi non posso piangere.

Ma quando ripensavo a tutto questo, quando i flashback mi afferravano all'improvviso, sentivo gli occhi pesare di lacrime come se fossi ancora vivo.


-

 

Ma chissà, magari un giorno riuscirò a fare ciò che desidero facciano coloro che amo, cioè reagire.

Riuscirò a guardare mia madre negli occhi senza star male, sperando che quegli occhi siano di nuovo colmi di gioia come una volta.

Riuscirò a vedere mia sorella parlare di nuovo, tornare dal suo ragazzo, e i miei nonni superare il dolore.

Magari riuscirò a vedere Claire con un altro ragazzo, mentre la bacia nel modo in cui avrei voluto farlo io, mentre la stringe a sé, mentre si sposa e accudisce i figli che avrei voluto darle io.

Magari imparerò ad amare, ma in maniera diversa da quella concepita dai vivi.

Magari deciderò di essere un angelo custode e continuerò ad amare chi amavo proteggendoli e vegliando su di loro.

Magari troverò il mio ruolo anche in questa vita da fantasma, sviluppando sogni adatti alla mia situazione.

Chi dice che è finita qui?

Sono morto giovane, col cuore imbottito di sogni, che nulla, neanche la morte, riuscirà a bloccare.

Magari troverò un senso a tutto questo, e mi piacerà.

Magari riuscirò davvero a reagire e non piangermi addosso.

Magari un giorno avrò la forza di lasciare questa panchina.  

 


 

*angolo autrice*
ed ecco qui sta bella schifezza c:
mi sono stupita perchè a differenza delle altre OS
che ho pubblicato questa è corta (quindi immaginatevi le altre ahah).
Comunque l'idea di questo racconto mi è venuta
in mente siccome in questi giorni è la ricorrenza della morte
di un mio amico, che appunto ci ha lasciato giovane.
Ci penso da giorni: in quanto a dolore tutti pensano
a quello provato dei cari della persona scomparsa,
ma di quello della persona morta in questione?
Ho provato a immaginare come possa reagire
il ragazzo morto (e ad Harry ho affibbiato questo ruolo) 
al sapere di essere morto e questo è il risultato.
So che l'argomento è serio e forse questa one-shot
non rende giustizia all'importanza dell'argomento,
ma insomma, ci ho provato (:
Ftemi sapere cosa ne pensate con una recensione,
non mordo ed è gratis! 

tantissimissimoloveanonfinire <33
Lola (@___Enchanted on Twitter)

  
Leggi le 2 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > One Direction / Vai alla pagina dell'autore: callmelola