Disclaimer: i
personaggi non mi appartengono.
La frase in apertura (per questa come per le altre due flashfic
che compongono la raccolta), sono della canzone “Sakura Nagashi”
(Utada Hikaru).
Note: io so che il mio destino nel fandom di K Project è morire ripetutamente scrivendo di
Tatara. ;__;
A Ele, che se lo merita non perché devo farla
soffrire, ma per il piccolo Tatara che c’è in lei e che la rende una persona
meravigliosa <3
Tutti
trovano l’amore,
alla fine.
Ricordava che Tatara l’aveva detto con quel modo tutto
suo.
Nel modo semplice e ingenuo che solitamente era proprio dei bambini, e che poco
si addiceva a quello che era ormai un giovane uomo – divenuto tale forse prima
di quanto avrebbe dovuto, con il proprio passato sulle spalle e le sue
esperienze, e la capacità di rimanere comunque bambino come pochi altri al suo
posto avrebbero saputo fare.
Totsuka lo aveva guardato e aveva sorriso, e anche
quell’incurvarsi di labbra che potevi trovare un po’ ovunque per le strade se
sapevi cercare, era unico nel suo genere; aveva accorciato la distanza tra
loro, quella fisica, muovendo qualche passo in sua direzione. Mai incerto, mai
dubbioso: cristallino come l’acqua, imperturbabile come le sponde di un lago
privo di una corrente che li agiti.
Così diverso, dal fuoco che lo animava – dalla fiamma pura e distruttiva che
era.
Tatara era sempre sembrato immune, in qualche modo: alle parole delle persone,
ai loro pregiudizi e sì, anche all’istinto di autoconservazione.
E poi, dal nulla ti guardava dritto negli occhi come pochi facevano, ti
guardava davvero come a scrutarti
dentro e a vedere molto di più di quello che gli altri notavano solo
distrattamente e senza soffermarvisi.
Ti sorrideva perché in quel momento era come se non ci fosse alcun problema al
mondo, come se non sapesse che quel potere consumava una cosa che nessuno
credeva ne fosse mai toccata – consumava il cuore e l’anima, la logorava e l’avrebbe
presto distrutta, ancor prima che lui potesse chiedersi se ne valeva poi la
pena, ricordarsi di avercela un’anima, qualcosa che lo rendeva un po’ più
umano.
Lui che umano forse non ci si era mai sentito, con quel potere tra le mani.
Totsuka lo guardava come se invece non ci fosse alcun
dubbio in proposito.
Era la stessa sensazione di avere davanti qualcuno che, lo sapevi, vedeva un
mondo tutto suo, o forse semplicemente percepiva il tuo in modo diverso.
Un contatto, non poi così particolare: un pugno dato con leggerezza, appena
poggiato, contro il palmo caldo della mano portata a frapporsi fra loro.
Quasi a dirgli che più di quella vicinanza non era consigliabile.
Quasi a dirgli che era pericoloso.
Quasi a dirgli che avrebbe potuto bruciarlo, e scottarlo e renderlo meno di
niente – niente sangue, niente ossa,
nemmeno la cenere.
E aveva aspettato che l’altro lo capisse e si allontanasse – e in fondo forse
sperava che lo abbandonasse, perché la solitudine era preferibile a distruggere
le cose importanti con le tue mani.
«I tuoi poteri non sono fatti per distruggere, ma per proteggere.»
Era suonato come un “vai bene così”.
Anche con quel potere.
Perché quello, dopotutto, lo rendeva ciò che era: non tanto il Re Rosso,
non sembrava essere quella la parte importante per Tatara, a dispetto del suo
continuo chiamarlo “Re”.
Era quello che lo rendeva Mikoto Suoh.
Era stata una liberazione.