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Autore: Martichan97    06/12/2012    2 recensioni
Il mondo è diviso in due categorie.
La categoria delle persone normali e quella delle persone non normali.
A loro volta, queste categorie sono suddivise in altrettante sottocategorie.
Tuttavia, oggi il nostro sguardo si concentrerà sulla categoria di cui la società vorrebbe dimenticare l'esistenza: la categoria dei pazzi.
Ma chi lo dice che sono pazzi?
In fondo, anche loro sono nati alla stessa maniera delle persone normali, solo che nessuno si è mai preso la briga di conoscerli; di vedere se davvero la loro pazzia è una malattia o un semplice parto del rifiuto del nostro mondo per la loro originalità.
I pazzi sono persone diverse; ma non per questo aliene.
Eppure le alte sfere hanno deciso che dovranno morire; in modo che non diano più fastidio.
Ma non è il caso di dare tutto per scontato; perché la sorte è curiosa; la mente umana ancora di più.
(Innocente fanfiction basata su 2P Hetalia; in un mondo di persone completamente normali. ù_ù)
Genere: Azione, Dark, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Allied Forces/Forze Alleate, Axis Powers/Potenze dell'Asse, Nuovo personaggio
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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001. Gli “Speciali” Sul Lato Sbagliato. (Prima Parte)

 



A questo mondo esistono molte, forse troppe cose che stimolano la curiosità umana. Perciò non c'è da lamentarsi nell'udire persone insoddisfatte del loro modo di vivere poiché non si è verificata una determinata esperienza o non hanno provato un determinato sentimento o persino conosciuto la e/o le persone che credevano possibili cambiare la loro esistenza.
Eppure è così, sono lamenti ai quali non va prestato ascolto.
Magari queste controfigure nel mastodontico palcoscenico della vita hanno ottenuto ben altri favori senza saperlo.
In fondo, il caso è forse la cosa più buffa che ci sia.
Tuttavia, forse forse, qualcosa di più buffo del caso esiste: il cervello.
Ebbene sì, la psiche umana rientra nella categoria di quelle cose sconosciute, magnifiche, complesse e affascinanti insieme.
Gli studiosi affermano che la nostra specie utilizza solo il 5% delle reali capacità del cervello. Con essa è stata capace di progettare e plasmare il mondo secondo i propri gusti, creando ciò che abbiamo sotto gli occhi nella nostra quotidianità.
I geni invece adoperano il 10% di questo organo ancora misterioso e sono capaci di imprese ben più grandi del costruire una città; ma vengono spesso abbandonati nell'ombra perché la loro diversità non infetti gli altri.
In fondo, i geni sono solo dei piccoli pazzi in un mondo enorme, quali problemi potrebbero mai causare?









America: Hit The Ball And Win.*


“Throw that ball faster, Emily!”
Grida, forse per l'ennesima volta, alla ragazza mezza nuda davanti a lui.
Molti, con un guantone in mano, tendono a definirsi già degli abilissimi giocatori di baseball quando invece sono degli imbranati totali.
Da vedere il caso della sua ragazza (ragazza? Ma quando mai.): era uno spettacolo osservarla maneggiare le mazze, possedeva una grazia e un'eleganza nei movimenti ipnotiche – figurarsi, non glielo avrebbe mai detto –; quindi ci si poteva tranquillamente aspettare che lui le proponesse qualche innocente tiro a baseball.
Solo che, per quanto potesse risultare una battitrice perfetta, con il lancio delle palle – innocue palline da baseball, nulla di che – era proprio pessima. Ma che diceva, più che pessima. Un pessimo lanciatore è trenta volte meglio di lei, sicuro.
Non c'è spirito di coordinazione fra loro, né la tanto decantata sintonia tipica delle coppiette follemente innamorate mostrate nei film romantici che fanno sospirare molte ragazzine idiote alla ricerca dell'ormai in fuga principe azzurro.
No, forse Alfred ed Emily non sono mai stati una vera coppia nemmeno di nome; tant'è che non si vedevano da due settimane. Si tradiscono, s'insultano, si picchiano – a suo parere una cosa molto divertente –, si lasciano, si rimettono insieme alla velocità della luce, si ignorano vicendevolmente, litigano e fanno pace ma non sono una coppia. No, assolutamente; il loro è tutto uno sporco giochino per vedere chi davvero è degno di predominare fra i due.
E se c'è una cosa che ha sempre mandato e sempre manderà il ragazzo fuori di testa, è l'essere dominato da qualcuno (dopo aver bucato nove palline, su nove tiri, in nove minuti e nove secondi; ovviamente).
Ma fra tutte le persone esistenti su questa fottuta crosta terrestre; proprio la più rompiscatole e petulante ragazza dovevo chiamare? Si dice, rabbiosamente annoiato.
Maledetto dieci volte lui e il suo cervello bacato, che gli accendeva sempre le lampadine sbagliate in testa (provocandogli un'incazzatura da primato che tendeva a non sbollire praticamente più).
“Shit Alfred; could you try to not smash every ball I throw you; couldn't you?”sbotta quella, inviperita nera.
Perché certo, se tu sei un incapace nato e incollato su quella cazzo di postazione la colpa è mia. Avrebbe voluto mettersi a gridare e prenderlo, letteralmente, a mazzate. Solo lei andava a raccattare gli scarti della società allo stesso modo di un gatto randagio che va a cercare qualcosa dall'aspetto ancora vagamente commestibile  nei secchi della spazzatura. Solo lei, certo.
Poi le sue amiche – quali? – si lamentano perché si accompagna sempre ad uno psicopatico e bla bla e bla bla. E non sbagliano neppure di tanto, pur non conoscendo la vera storia (quella che Emily non gli racconterà mai e poi mai).
Storce il naso stizzita mentre i corti capelli color noce, arricciati lievemente sulle punte, ondeggiano al ritmo delle sue guance arrossate per l'arrabbiatura, sgonfiandosi e gonfiandosi. Il suo volto di bambina tenera e coccolosa è reso inquietante da quegli occhi color magenta fiammeggianti d'ira rilucenti su una pelle già naturalmente  scura: dicono che se il Diavolo avesse avuto una moglie umana, quella sarebbe stata sicuramente lei.
Peccato – ma anche no – che non fossero a conoscenza della loro doppia vita fatta di sangue e innocenti risse di strada, altrimenti se la sarebbero data a gambe levate parecchio tempo fa.
Già, purtroppo la piccola Emily H. Jones e l'insopportabile Alfred F. Jones sono davvero troppo simili per potersi garantire un'esistenza normale: gli stessi, orridi gusti in fatto di cibo; gli stessi cantanti appartenenti a gruppi satanici; gli stessi amorevoli film dell'orrore e perfino lo stesso cognome! D'accordo che “Jones” è un cognome molto simile lì in America, ma avere la fortuna di incontrare una persona col tuo stesso cognome, il tuo stesso carattere scorbutico e menefreghista, il tuo stesso modo di vestire – o quasi – e perfino le stesse “inclinazioni culturali”.. è davvero troppo.
Ad ogni modo, non è colpa sua se il suo “ragazzo” non riusciva a prendere le palle che tira. Lei impiega tutto la sua buona volontà e quell'ingrato, puntualmente, manda in fumo i suoi sforzi. E si nasconde dietro quegli assurdi occhiali da sole con la patetica convinzione che lei non sappia cosa lui stia pensando.
Fa un passo avanti ed un crack basso proviene da sotto i suoi piedi: abbassando lo sguardo magenta, scopre di aver appena pestato gli amatissimi occhiali (altro particolare in comune). Un'imprecazione isterica le sfugge dalle labbra e Alfred ridacchia, come se gliene importasse.
“You deserved it, little stupid psychopath girl.”borbotta, stirando la bocca in una sottospecie di ghigno.
Adora quando a quella piccola “prostituta” – una vestita con degli short in jeans e una succinta camicia legata con un nodo sotto il seno gli rimanda particolarmente quel tipo di donna – capita qualcosa di brutto. Vorrebbe ridere ma non ci riesce, frenato dall'oggetto che colpisce violentemente lo stemma a stella della sua felpa e ci si incastra perfettamente dentro.
Questo non dovevi proprio farlo.. bitch. Ringhia guardandola e finalmente smuove dal terreno la sua fedele mazza chiodata. Non gli brucia tanto il fatto che abbia impiantato in una sfera dalla consistenza sintetica – dunque è facilmente immaginabile di cosa si stia parlando – una scheggia delle sue lenti spezzate, quanto che si sia permessa di lanciarla senza il suo permesso con il solo scopo di rovinare l'oggetto a cui tiene di più dopo la sua fedele arma.
“You deserved it, little idiot psychopath boy.”si scompiglia la chioma e sorride, impugnando anche lei il suo braccio ligneo con incastonati i pericolosi spuntoni di ferro che molte volte avevano fatto scorrere sangue solo per puro diletto.
Ecco; addio ai quattro tiri in santa pace in attesa della sera per andare a picchiare qualcuno di indifeso e, perché no, anche ad ucciderlo.
“You're a fucking bitch; you know it, right?– inizia a camminare verso Emily lentamente, alzando già l'arma per colpire – And now I will be glad if you just stand still and let me make your head fly away from your neck.”
“Where did you bang your head, dear? – prima di venir colpita e sparire nel cielo azzurro, l'ennesima piccola sfera scandisce il ritmo dei passi di Alfred – This won't happen, because I will be the first who'll hit you and make you die. Maybe the next time.”
Tra loro cala il silenzio, fino a quando il ragazzo mena il primo fendente ridendo maniacalmente e la ragazza lo respinge prontamente sghignazzando diabolica.
Hit the ball and win.
Oh yeah, baby.

(* = “Colpisci la palla e vinci.”)





Antartide: Tilraunin hefst.*


Un rombo di tuono, basso e cupo, scuote il cielo senza pietà.
È sin da quella mattina che la volta celeste minaccia pioggia; solo che ancora non ha avuto l'ardire di far cadere la prima goccia.
Eppure, sin da quando Kristinn Vaar era giunto in quella terra fredda e inospitale, dimenticata da Dio, aveva visto l'acqua dolce cadere dall'alto innumerevoli volte. E, quando i suoi genitori erano morti in un'esplosione al laboratorio, acqua era ciò che aveva allagato i suoi occhi e sommerso le sue guance.
Acqua salata, come l'immensa distesa blu intenso immobile che vedeva scorrere di fronte ai suoi occhi color nocciola ogni giorno non appena si avviava fuori dalla base e si appostava sulla costa ad aspettare l'arrivo del suo fidato amico Peter.
Tuttavia, da un po' di tempo, le immutabili nuvole grigie si divertivano a prenderlo in giro: gorgogliavano un po', tentavano di primeggiare con la loro luce ad intermittenza, mandavano il vento a fischiargli nelle orecchie e si acquietavano di nuovo; senza risolvere niente.
Il giovane tredicenne non aveva idea di cosa stesse prendendo improvvisamente all'atmosfera, solo, cominciava ad infastidirsi.
Dunque, in questi casi di noia assurda in cui perfino la sua ombra gli voltava poco garbatamente le spalle, prendeva a formulare le teorie più strane. E secondo il suo ponderato pensiero dell'ultimo minuto, la volta celeste non voleva piangere semplicemente perché, come lui, non aveva più lacrime da versare. Il posto dov'erano gelosamente custodite adesso altro non era che una conca vuota e arida che mai più si sarebbe riempita. Il ghiaccio le aveva portate via e con esse tutto ciò che restava della sua umanità.
Un lampo balena a rallentatore tra i cumuli filamentosi sospesi in cielo.
Kristinn si lascia sfuggire un sospiro, infilando le mani nelle tasche ermetiche del suo piumino blu zaffiro.
Pensava che Peter ci avrebbe impiegato meno tempo a venire quel giorno e per l'occasione si era pure coperto la testa col cappuccio peloso che non metteva mai per paura che gli rovinasse i ricci, vaporosi e morbidi per natura.
E invece no, il suo caro – unico – amico non si degnava di mostrarsi all'orizzonte agitando la sua enorme ascia, gridando a più non posso per evitare di passare inosservato. Gli faceva venir voglia di riempire una siringa con un nuovo veleno che aveva messo a punto qualche giorno fa e testarne gli effetti direttamente su di lui, senza prima provare con le cavie.
“Professor Vaar, professor Vaar! Presto, venite; c'è una chiamata urgente per voi!” gracchia una voce maschile alle sue spalle.
Si volta, sbuffando annoiato e l'uomo in camice bianco sobbalza.
“Dimmi.” dice, liberandosi finalmente della fastidiosa – ma calda – presenza del cappuccio. Si passa una mano fra i capelli per ravviare la voluminosa matassa ordinata nera e torna a squadrare il suo interlocutore senza emozione.
“S-Si-Siete voi il professor V-Va-Vaar?” domanda l'uomo, tremando leggermente.
Un altro novellino no; non è possibile. Sospira esasperato, senza dare a vedere quanto questa situazione lo irriti. Era praticamente nato in quel laboratorio eppure ancora gli scienziati più anziani si rifiutavano di trattarlo come si doveva ad un individuo del suo calibro, mandandogli degli apprendisti talmente incompetenti che un bambino di tre anni avrebbe saputo dare risultati più soddisfacenti.
Più grandi di lui, inoltre.
A quanto pare, lo stavano proprio prendendo in giro.
“Sì, sono io. E adesso dimmi, di cosa hai bisogno?” sibila freddo, pulendosi con le mani il leggero strato di nevischio che gli si era attaccato ai vestiti.
L'allievo non fatica a manifestare tutta la sua perplessità in merito: un bambino, tredicenne; dirigente di un reparto in uno dei centri scientifici più rilevanti tra i numerosi insediati in Antartide; così importante da potersi prendere delle pause sul lavoro senza avvertire nessuno. A guardarlo sembrava una persona comunissima, forse un po' pallida, ma comunque nella norma. E invece...
“H-Hanno chiamato, dicono che è urgente...” balbetta insicuro, incerto se dargli del “voi” o del “tu”.
Kristinn si massaggia le tempie, snervato.
“Chi ha chiamato, esattamente?” domanda. Un tempo gli apprendisti erano meno sfaticati. Riflette, passandosi la lingua sulle labbra per eliminare le tracce di sangue. Se l'era morse con forza, nella preoccupazione che a Peter fosse capitato qualcosa di brutto e ora le piastrine non vogliono fare il proprio dovere.
Nessuno vuole mai fare il proprio dovere quando è lui a chiederlo.
“Un c-certo signor.. aspetti... – prende un foglietto dalla tasca del camice, tremando – Se ho capito bene il nome è Eirik Bondevik, ma parlava in una lingua strana, quindi può darsi che m-mi sbagl-”
Rialzando lo sguardo, nota che del tanto famoso professor Vaar non c'è più traccia. Chissà, magari si è sciolto nella neve..
“Kriiiiiiiiiis!” un urlo giovanile fende l'aria fresca, facendo sobbalzare per l'ennesima volta il povero apprendista, ora di spalle.
Quando si volta, nelle acque immobili e profonde veleggia una barchetta che al confronto dell'immensa struttura troneggiante alle sue spalle quasi sparisce. Su di essa, un bambino agita frenetico una grande ascia.

“Capisco. E zio Lukas come sta?” dice in islandese, stringendo forte la cornetta nera.
Quanto gli è mancato udire la voce dello zio Eirik.
Zio per modo di dire, visto che poi hanno quasi la stessa età. Comunque, una delle persone alle quali tiene di più: si era assunto il ruolo di suo insegnante e mentore dopo la dipartita della sua reale famiglia. È il suo esempio, il suo faro nell'oscurità.
“Bene, sta benissimo. Anche lui, Berwald, Mathias e Tino parteciperanno; sappilo.” replica seria la voce all'altro capo, sempre in islandese.
“Ho capito; d'accordo. E tu zio Eirik? Parteciperai?” la voce di Kristinn si impregna di un tono triste e preoccupato. Il pensiero che il suo amato zio stia andando a-
“No, io no. Farò un po' di indagini al di fuori, la situazione è molto strana.” risponde il ragazzo, pacato.
“Inteso.. fra quanto tempo devo venire?” mormora il tredicenne, arrotolando nervosamente il filo del telefono attorno al dito magro.
“Ti avvertirò per telefono e ti manderò un jet; intanto preparati. Potresti trovare di tutto lì dentro.”
“D'accordo; b-buon lavoro Eirik.. e stai attento”.
“Mai quanto te Kris, mai quanto te. Non sei maggiorenne, eppure già vieni reputato un pericolo da loro. Agisci con cautela. – c'è un attimo di pausa – Ci sentiamo”.
Dopodiché cade il silenzio.
Silenzio che il piccolo scienziato impiega per rimanere immobile nella stessa posizione; assorto nelle sue riflessioni.
Se Eirik Bondevik, il grande e impassibile Eirik Bondevik di cui tanto gli avevano parlato i suoi defunti genitori, è messo in allerta; allora la situazione deve essere molto critica.
Condurrò le mie ricerche in solitario e mi documenterò un po'. Vedrò cosa posso fare, dopotutto curare è meglio che prevenire. Riaggiusta la cornetta al suo posto sul muro e si avvia pensoso verso il suo studio, dove sa che Peter lo sta attendendo impaziente.
Quando apre la porta, il bambino di otto anni gli balza in collo, lamentandosi sul perché non si sia dato una mossa prima e di come l'aiutante che lo aveva accompagnato lì fosse così noioso.
“Peter Allan Kirkland, ascoltami bene: non potrò giustificarti in eterno, quindi, ti prego, smettila di far fuori tutti i miei assistenti.” biascica, ancora assorto a metà nelle sue personali elucubrazioni.
Non si direbbe, ma Peter è sempre stato geloso di lui. Non che invidiasse la sua posizione prestigiosa, tutt'altro: il bambino non può tollerare che altre persone all'infuori di lui gli stiano vicino; per questo le uccide ancora prima che Kristinn possa averci familiarizzato a dovere.
Se non fosse che è uno scienziato e quindi, per principio, vede tutto in modo razionale; oserebbe avanzare l'ipotesi che il piccolo Kirkland; membro acquisito della grande famiglia dei “Nordici” (utilizzano questo nomignolo solo ed unicamente perché vivono tutti in dei paesi situati più a nord rispetto agli altri) si sia preso una cotta per lui.
Il piccolo sorride innocentemente, sedendosi sulla sua scrivania a gambe incrociate. “Ci penserò, promesso. – dunque, mostra la lingua dispettosamente – Piuttosto, quando cominciamo? ~”
Kristinn sorride sotto i baffi, aprendo un cassetto alla sua destra e tirandone fuori un voluminoso sacchetto sterilizzato di siringhe e provette contenenti liquidi dal contenuto di indubbia provenienza.
Tilraunin hefst.

(* = “Che l'esperimento cominci.”)





Bielorussia: брат.*


“Natalia Arlovskaya”.
“Presente”.
“Venga pure a ritirare il suo compito”.
Silenzio.
Una giovane donna, dai morbidi capelli castano chiaro e gli occhi che paiono due pezzi di ghiaccio, si alza dalla sedia senza far rumore; composta e austera.
L'intera classe universitaria freme al suo passaggio: tutti in quel luogo di studio la temono, compresi i professori. Nessuno avrebbe voluto averla in classe ma, ahimè, la fortuna è cieca e la sua gemella sfortuna purtroppo ci vede benissimo.
Così eccola lì, la paziente e priva di emozioni, Natalia Arlovskaya.
Quando la scalinata di marmo pregiato – una delle tre che suddividono la classe in tronconi enormi di forma conica – termina, la giovane bielorussa volge il suo sguardo in alto, dove i suoi compagni la stanno fissando con occhi spiritati.
Sbatte le palpebre inarcando un sopracciglio e questi sobbalzano.
Senza dubbio, hanno qualche problema. Sospira avvicinandosi all'altrettanto algido professore, notando come la mano di lui tremi al solo contatto con la sua, e prendendo il foglio.
Mentre risale i gradini per tornare al suo posto, gli da una sbirciata veloce: trenta e lode.
Di nuovo.
Non ne può più, è sempre lo stesso voto da quando ha cominciato a frequentare l'università a Minsk.
Momentaneamente, sta maledicendo chi l'ha benedetta dicendole che era un genio.
Ah, era suo fratello.
Ritira tutte le maledizioni seduta stante, decidendo di occupare la mente facendo l'inventario mentale di tutto quello che dovrebbe avere in borsa: chiavi di casa; chiavi del garage; chiavi della macchina; cellulare spento – perché tanto nessuno l'avrebbe mai chiamata –; portafogli e-
Diamine, mi sono dimenticata ancora l'astuccio rosso. Impreca sottovoce, cercando meglio e ispezionando anche gli angoli più remoti della sua fedele 'compagna di giochi'. Niente, nemmeno stavolta. Lo aveva proprio dimenticato sul tavolo.
Pace. – il suo sguardo colmo di disappunto si appunta sull'enorme lavagna nera più in basso – Vuol dire che chiamerò Nikolai più tardi per farmelo portare, oppure, visto che ho preso l'ennesimo bel voto, mi regalerò un set nuovo.
In fondo, è tanto che non va a fare compere.

Minsk pare come vuota all'ora di cena.
Solo pochi bielorussi sono ancora in giro e le espressioni più frequenti che è possibile riscontrare sui loro visi, sono stanche e distrutte; malinconiche e addolorate.
Nessun bambino gioca per strada felice.
Nessun cane abbaia.
Nessun rumore si ode, la città è silente e avvolta in una coltre impermeabile di sonnolenza. Addirittura, un lieve strato di nebbiolina fastidiosa si avviluppa lungo i profili degli edifici e inonda come un fiume in piena le vie desolate.
Questa è la storia di come l'agglomerato urbano rispondente al nome di Minsk, attuale capitale dello stato della Bielorussia, sul far della sera si trasforma in una cittadina fantasma.
Tuttavia, a Natalia questa atmosfera di serietà e 'non opulenza' piace: la calma di cui tutto si riveste è un balsamo lenitivo per il suo animo poco incline alle emozioni che portano tepore. Emozioni che, nella sua vita, non ha mai provato. O quasi.
È l'unica parte della giornata in cui si sente veramente in sintonia con se stessa e con l'ambiente che la circonda; quando percepisce su pelle lo sguardo materno della 'Natura di Ferro' e sente che finalmente il resto dell'universo la comprende e la asseconda.
Finalmente non è più la classica persona strana in un posto dedicato solo alle creature normali.
“Buonasera signorina Arlovskaya; come mai in giro a quest'ora? Presto farà buio e per una fanciulla come lei non è sicuro vagabondare tutta sola. Vorrebbe concedermi l'onore di accompagnarla a casa?” una voce calda e profonda le solletica le orecchie dolcemente.
Non appena volta la testa alla sua destra, la giovane donna rimane lievemente interdetta nel fissare il fruttivendolo che da cinque anni a questa parte si era assunto l'arduo compito di soddisfare i suoi gusti difficili sorriderle cordiale sullo scalino che porta al suo piccolo ma accogliente negozio. “Dobry viečar , mister Tiudor;** ammetto di essere sinceramente sorpresa di trovarvi ancora qui a quest'ora. – sorride genuina (“falsa” l'avrebbe corretta Sergey), lisciandosi con la mano una piccola ciocca di capelli – Ditemi, vostra moglie vi ha per caso cacciato di casa?”
Il signor Tudor ridacchia divertito. “No piccola cara; la colpa va tutta ai miei buoni e fidati clienti: oggi c'è stata una ressa incredibile per comprare la tanto attesa frutta di stagione e, come sai, gli anni sulle spalle pesano. Un tempo avrei gestito la cosa senza batter ciglio, adesso trovo problemi persino a respirare correttamente. Per poco sono rimasto vivo sotto quella massa di anziane signore urlanti, se avessero potuto avrebbero fatto a gara persino per comprare l'aria che respiravo”.
Parlare con lui, riconoscere quella ben mascherata aria di rassegnazione nella sua voce, osservare i suoi occhi all'apparenza gioviali e sapere che in realtà nascondono una profonda tristezza, ricorda a Natalia perché abbia scelto di frequentare giurisprudenza e non medicina, come lei e suo fratello sempre avevano tanto desiderato.
Il signor Tudor aveva avuto una figlia una volta. Era deceduta in un incidente proprio il giorno della sua laurea, qualche minuto dopo essere diventata ufficialmente avvocato. Oltretutto, qualche anno dopo gli era stato diagnosticato un tumore incurabile che prima o poi lo avrebbe condotto alla tomba.
Però, nonostante la vita per l'uomo e la sua famiglia avesse subito un celere declino, si era preso cura di lei quando tutti se l'erano lasciata alle spalle. E Natalia, allora, aveva deciso che avrebbe ricambiato il favore una volta cresciuta, prima che fosse troppo tardi.
“Non vi invidio per aver avuto delle clienti così smaniose, ma comunque sono contenta che la vostra giornata sia stata piena e degna di essere vissuta. – annuisce consapevole, completando istintivamente il gesto con un mezzo inchino di ringraziamento – Purtroppo ora devo congedarmi; la signora Allegorskaya non sarà così paziente da attendere i miei comodi. Buon proseguimento di serata a voi e a vostra moglie signor Tudor”.
Prima che quest'ultimo possa tentare di fermarla, la ragazza si volta e inizia a camminare a passo spedito, brontolando qualcosa sottovoce. L'uomo sorride comprensivo. “Buon proseguimento di serata a te, mia piccola Natalia. E possa la fortuna arriderti, sempre.”
Con queste parole, torna nel negozio per sistemare le ultime cose in religioso silenzio.
 
Pur essendo, come già detto, la città un luogo estremamente lugubre alle prime luci della sera; il posto che Natalia Arlovskaya preferisce di più in assoluto è il cimitero.
Lì può tirare fuori la vera se stessa; lasciare andare le catene che imbrigliano saldamente la sua anima; ridere come nessuno l'ha mai sentita e giocare a nascondino con le lapidi perché nessuno la prenderà in giro quando sosterrà di vedere i fantasmi svolazzarle attorno.
In mano stringe un enorme e bellissimo mazzo di gigli bianchi incartati in una carta altrettanto raffinata. Li ha comprati per l'occasione, abitualmente è solita portargli delle rose rosse di cui si prende cura lei stessa.
Ma oggi è felice, maledettamente felice; per questo si è concessa un altro strappo alla regola.
“Non indovineresti mai cosa è successo oggi, Sergey.” i suoi passi sono una macabra melodia in quel silenzio opprimente che aleggia attorno ad ogni tomba.
Silenzio che percepisce con chiarezza arrampicarsi sul suo corpo come uno scarafaggio.
Silenzio che scaccia via con una manata stizzita, poiché se c'è una cosa che detesta quelli sono proprio gli scarafaggi.
Tutto tace all'improvviso e, per un attimo, anche il suo respiro si mozza.
Eccola, davanti a lei; in tutta la sua magnificenza: una lapide semplice e piccola in confronto alle altre, anonima eppure così famosa; bianca come il marmo e priva di imperfezioni. La terra non ha cercato di avere la meglio sulla roccia imperturbabile, le piante non hanno oltrepassato il confine che lei vi aveva silenziosamente posto. La situazione è esattamente quella di otto anni fa, quando per la prima volta vi aveva messo piede.
Se i vivi hanno rispetto dei morti, allora i morti avranno rispetto dei vivi. Ed è proprio così fratellino, hanno avuto rispetto di te. Così come hanno rispetto – e paura – di me. Pensa soddisfatta, abbassandosi per sistemare i nuovi fiori nel vaso. Forse dovrà buttare via quelli vecchi, ma non le importa.
Estrae dalla tasca del suo cappotto un piccolo astuccio rosso, che si affretta ad aprire, smaniosa: dentro, vi sono dei coltelli molto bene affilati; ordinati in ordine di grandezza e sistemati con grande accuratezza. Questo piccolo carnet custodisce inoltre delle piccole forbici e, incassato nella copertina, un coltellino svizzero multiuso che mai in quegli anni di dura ricerca l'aveva tradita.
Mentre la giovane donna recide pazientemente la parte in eccesso del gambo del fiore, i suoi occhi sono tutti per il nome in argento sulla lapide: Sergey Arlovskij; nato il 14 novembre del 1992 e morto il 25 aprile 2004.
Suicidio.
“Ah, fratellino mio; se solo tu avessi semplicemente deciso di sposarmi, adesso non saremmo qui. – carezza la lapide con amorevolezza, dando un bacio alla foto al suo interno – Io ti ho amato e continuo ad amarti tanto, possibile che tu non te ne sia accorto?”
Invano attende una risposta che non arriverà.
Sistema i fiori nel vaso e avviluppa nella carta delicata gli steli da buttare.
“Hai presente quel ragazzo ucraino con cui ti vedevi, sì? – tolti di mezzo i fiori, preme un coltello d'argento sulla punta del suo labbro inferiore, sul viso un'espressione giocosa – Ebbene, è ancora a casa nostra. Sono stata benevola e ho deciso di lasciarlo vivere con me, segregato in cantina. Non sono una persona veramente generosa?”
Ancora silenzio è quello che accoglie le sue parole intrise di follia, solo che stavolta Natalia distingue chiaramente, fra tutte quelle anime, lo sguardo del suo amato fratellino scrutarla accusatorio.
“Come puoi avergli fatto questo? Sai quanto l'ho amato.” dicono.
“La vita va e viene, Sergey adorato. Purtroppo il destino non ha voluto essere clemente con lui. Avrei anche potuto ucciderlo. Ma non l'ho fatto, mi pare già una gran concessione; no?” replica assurdamente pacata, rigirandosi il manico dell'arma tra le dita.
“Tu sei pazza Natalia. E dire che quando eravamo piccoli ti volevo così bene...” un'educata voce maschile riecheggia per il campo, o forse è solo nelle sue orecchie. Comunque, udire la voce suadente di Sergey è quello che in questi otto, durissimi, anni le è mancato di più. Si bea un istante del calore che diffonde nel suo corpo e poi sospira, felice. “Tu mi ami fratellino, non capisco come tu faccia a scordartene. E sì, anch'io ti amo tanto.”
“Folle.” tuona la voce.
Natalia ignora quel vocabolo così malevolo e ripone l'astuccio rosso nella borsa, continuando però a giocare con il coltello. “Lo so, vorrei restare anch'io; ma non posso. Oggi è il turno del numero 1758. Sfortunatamente per lui, nessuno riesce ad essere un tuo degno sostituto”.
Stavolta la voce non replica; già svanita nell'aria.
L'ultima rimasta degli Arlovskaya fischietta, contenta; come se avesse ottenuto la migliore delle risposte. Sergey non è arrabbiato con lei perché sta cercando un suo rimpiazzo tra i vivi e nemmeno sulla maniera poco ortodossa in cui toglie di mezzo le sue cavie quando capisce che non sono all'altezza delle sue aspettative.
No, Sergey è fiero di lei.
Natalia non vede l'ora di laurearsi perché finalmente avrà l'occasione di poterlo sposare.
Ovviamente, Natalia Arlovskaya non è pazza.
È solo una sorella che ama molto il suo fratellino.

(* = “Fratellino.”)
(** = “Buonasera signor Tudor;”)





Canada: Personne/No One.*


“Nice throwing Williams!” grida una voce.
Viene ignorata.
“It's useless that you exalt you so much because you have made point in the first minutes after the beginning, the game is still long. You remember, it laughs well still better, who last laughs. And those fortunates won't be you.” critica un'altra voce aspramente, lanciando una sfida.
“Ce c'est à voir, nullité.” ringhia un'altra voce ancora, in un francese talmente delicato da non incutere nemmeno eccessivo timore.
Tuttavia, il silenzio cade egualmente sul campo di hockey.

I suoi compagni si abbracciano contenti e si battono pacche amichevoli sulle spalle, complimentandosi caldamente per l'ottimo gioco fatto.
Solo due parti non stanno gioiendo: la squadra sconfitta – i padroni di casa, oltretutto – e l'attaccante dei vincitori.
I primi hanno tutti i motivi per essere arrabbiati e/o tristi, nessuno si può permettere di contestarli: sono stati stracciati e umiliati pesantemente sotto gli occhi carichi di aspettative dell'intero istituto che orgogliosamente rappresentavano. La loro carriera scolastica e sportiva, a partire dal preciso istante in cui l'allarme dal suono metallico ha fatto terminare il match, è irrimediabilmente rovinata.
Tsk, ils sont des sot. Est-ce qu'ils pensaient avoir quelque espoir de victoire contre nous vraiment? Contre moi? – l'attaccante dei vincitori scruta la porta (lacerata dall'eccessiva forza dei suoi colpi) degli sconfitti, incurvando gli angoli delle labbra in un sorrisetto sardonico –Fous.
Matthew Williams, questo è il suo nome, gode di tutta quella depressione che la sua bravura ha procurato.
Gode nell'aver distrutto le carriere di quei promettenti ragazzi in maniera così brusca, improvvisamente, come un fulmine a ciel sereno.
Gode nell'averli battuti e nell'aver assegnato loro una sconfitta magistrale, che non si scorderanno mai più.
Gode dell'essersi conquistato il loro odio – perché sa che lo odiano, è ovvio come il caldo Sole che ogni giorno splende raggiante sopra le loro teste –, perché ritiene che il resto dei sentimenti sia solo un'accozzaglia inutile di un qualcosa di non ben definito.
Ma soprattutto, gode nell'avergliela fatta pagare, nell'essere riuscito a ricambiare il favore ancora una volta, distruggendo il loro mondo come loro avevano distrutto irrimediabilmente il suo.
“Please, remember me who would have to laugh at the end of the match.” stavolta le sillabe che si formano nella sua bocca fuoriescono sotto forma di inglese sprezzante e ruvido; accentuando più che mai la sua soddisfazione nel vederli contorti dal dolore, sottomessi.
In realtà, esternamente non si è scomposto di un millimetro: sempre i suoi occhiali scuri calzano il naso dritto e bianco; sempre il suo codino piccolissimo spunta alla base della nuca; sempre il suo lungo e ribelle ciuffo arricciato sulla punta gli ricade davanti agli occhi, come un'antenna pronta a captare anche la più minima trasmissione radiofonica non autorizzata. E forse è proprio questo il ruolo di questo ciuffo anomalo: captare e registrare la paura altrui, a suo vantaggio. Molto utile.
Internamente, sta ridendo di gusto. Il ciuffo si drizza impettito non appena compie un cenno invisibile con la testa, facendo tremare gli astanti.
Ovviamente
nessuno gli risponde; nessuno ha il coraggio di tentare la sorte; nessuno è così sfacciato da guardarlo in faccia senza pentirsi di essersi messo sulla sua strada e/o vergognarsi.
Perché solo un pazzo oserebbe sfidare apertamente il temibile Matthew Williams sapendo che potrebbe rimetterci la pelle; letteralmente.
“Je suis en train d'attendre, courage.” ah, che melodia soave suona nelle sue orecchie al solo sentire la sua rude voce scandire parole così intrise di eleganza e musicalità! Non che soffra di qualche mania da megalomane, solo, adora il francese.
In particolar modo quando è lui a parlarlo.
È tanto strano?
Invece di avvicinarsi, i suoi interlocutori prendono sempre più le distanze; impauriti.
Matthew gioisce in cuor suo, come un bambino che appena ottenuto una caramella dall'aspetto buonissimo: nel caso non si fosse notato, lui ama terribilmente incutere timore al prossimo. Anzi, più che timore, paura.
'Paura' nel suo vocabolario equivale a 'rispetto'.
'Rispetto' equivale al 'non essere ignorato'.
Il 'non essere ignorato' invece equivale al non avere grane.
E la vita senza grane è molto, molto semplice. “We are the ones who would have to laugh. – mormora timidamente il capitano degli ospitanti, serrando i pugni frustrato – On the contrary, you've laughed. Congratulations, an overwhelming victory”.
Una bassa risatina scuote la gola di Matthew, atterrendo tutti. Pourquoi, est-ce qu'il y avait peut-être doutes sur le résultat du lot? Si domanda ancora una volta, retoricamente. Dopodiché, ridacchia ancora più forte; quasi isterico.
I giovani si preparano al peggio, poiché quando Williams ride non bisogna mai abbassare la guardia; semmai alzarla.
“I don't believe that I need some congratulations of a loser like you; but – gli occhiali da sole che solitamente non abbandonano mai il suo naso vengono da esso bruscamente separati, rivelando un paio di iridi dal colore misto fra rosso carminio e viola ametista – I thank you. If you were not so inadequates, we couldn't beat you so easily”.
Ecco, adesso perfino i compagni di squadra del giovane canadese sono scossi da brividi impercettibili: è raro avere l'occasione di poter udire la risata cristallina e malata di Mathieu – come solitamente storpiano il suo nome le professoresse e il genere femminile tutto – ma si doveva appartenere ad una categoria estremamente privilegiata (o sfortunata, a seconda dei punti di vista) per riuscire ad ammirare il fascino perverso emanato dai suoi occhi.
Un fascino a cui nessuna creatura riesce a sottrarsi; un fascino che ti sottomette e ti incatena saldamente, senza liberarti mai più.
“Ce a été un plaisir laisser vous gag- il tono di voce dell'altro giovane, da infatuato qual era diventato (parlare in francese è un chiaro segno di infatuazione, secondo gli standard di Matthew), si trasforma nuovamente in inorridito e rabbioso -  Tu me la paieras Williams. Les habitants de Vancouver n'oublient pas”.
Vorrebbe risultare convincente, ma non ci riesce. Il francese purtroppo non spaventa quanto l'inglese e il canadese dubitava che quel momento di infatuazione gli fosse passato così in fretta da permettergli di parlare in inglese.
Je suis le le meilleur, il est inutile qu'ils essaient à m'effrayer. Poco ci manca che un'altra risatina di scherno gli sfugga dalle labbra: certo che gli illusi a questo mondo sono un po' tantini, eh?
Appende i suoi occhiali alla maglia e sorride malevolo. “The inhabitants of Vancouver don't forget, those of Toronto don't have pity”.
La sua mazza lignea colpisce con forza il ghiaccio finto del campo di hockey; incrinandolo.

I had to expect that. Those of Vancouver are really idiots. Sospira entrando in casa, in punta di piedi.
Come sempre, guardando l'orologio sulla mensola della libreria, ha tardato di due o tre ore rispetto a quelle che aveva previsto di impiegare.
Ma suppone non sia un problema, in fondo lui è già andato a dormire.
“Shit; I hate wasting time.” borbotta, evitando a miracolo lo scalino che introduce al corridoio in parquet liscio e cerato.
Certo che odia perdere tempo: Matthew Williams odia le nullità prima di tutto e spesso e volentieri sono queste ultime a fargli perdere il senno e il tempo prezioso.
Poggia la sua mazza scintillante di rosso vermiglio sul tavolo del soggiorno e si reca in camera sua imprecando a bassa voce in un linguaggio misto a delicato francese e funzionale inglese.
Mezz'ora dopo, un grido acuto e ricolmo di una sofferenza inconsolabile risuona nell'appartamento, seguito da un pianto isterico e da gutturali suoni inumani.
Sembrano così animaleschi che l'associazione a delle semplici grida umane risulta pressoché impossibile.
Il canadese però sa.
Sta medicando alcuni lividi violacei sullo stomaco quando ode questi lamenti misti a urla. Dalla violenza con cui gli rintronano nel cervello – con il solo scopo di assordarlo, a quanto pare – capisce che non ha tempo di ricomporsi e organizzare le cose con calma, come ha sempre amato fare.
Perciò non esita a correre nella stanza adiacente alla sua, sradicando i cardini della porta e raggiungendo la figura raggomitolata in un angolo; tremante e con la testa fra le mani.
Gli occhi gli pungono un po' a quella vista assolutamente lacerante.
“Oliver..” sussurra, allungando una mano lentamente.
Oliver grida ancora una volta, chiudendosi ancora più a riccio su se stesso.
Mon petit frère, don't worry. Je suis here. Le due lingue che parla si intrecciano e si ingarbugliano nella sua mente, segno che la paura sta prendendo il sopravvento.
Si inginocchia colpevole, gattonando silenzioso verso quella piccola creatura piangente.
Quest'ultima non si ritrae e né si dimostra ostile nei suoi confronti; semplicemente aumenta l'intensità e il volume dei suoi singhiozzi.
Matthew allunga un braccio, passandoglielo attorno alle spalle e con la mano libera gli alza il viso delicato e pallido: gli occhi viola, ne è consapevole benché sia in grado di distinguere poco e niente in una notte di luna nuova come quella, del suo amato fratellino sono rossi e gonfi; le labbra tremolanti tentano di articolare un qualsiasi suono che non assomigli ad un lamento, tormentandosi nell'incapacità di riuscirci; il suo respiro è pesante come se avesse appena fatto una corsa; i morbidi capelli castano chiaro sono scarmigliati e umidi di lacrime.
Povero Oliver, non si rende nemmeno conto della condizione di miseria in cui versa.
“It's okay brother; it's okay. They won't hurt you. Nobody will touch you again, I promise you. We'll be happy as we were before.” dice con un tono che spera essere convincente, stringendo a sé l'esile figura del fratello.
“Est-ce qu'elle est finie? – domanda una voce spezzata e leggera, quasi impercettibile – Est-ce qu'ils ne reviendront pas, vrai?”
“Vrai. Ils ne reviendront jamais. Maintenant, ils sont en train de dormir et ils ne se réveilleront plus.” il canadese ringhia, scoprendo i denti.
Quei maiali l'hanno pagata cara per aver violentato e picchiato il suo adorato fratellino Oliver.
Il suo adorato e credulone Oliver Williams; quello che per colpa loro non riesce a dormire e verrebbe rinchiuso in un istituto psichiatrico se non ci fosse lui a proteggerlo.
Quando lo trovò sanguinante e in fin di vita di ritorno dopo un allenamento di hockey perse completamente la ragione. Dio gli fu testimone per ciò che fece e, se fosse potuto tornare indietro nel tempo, avrebbe fatto le stesse scelte.
Nessuno poteva toccare Oliver senza pagarla cara; lo aveva promesso a se stesso.
Nessuno doveva intralciargli il cammino; poteva essere un potenziale approfittatore.
Nessuno lo avrebbe separato dall'unica cosa che per lui contava davvero.
Nessuno.
Il povero, pazzo, Oliver Williams grida ancora e il potente, assassino, Matthew lo rassicura carezzandogli il capo e sussurrandogli parole di conforto nell'orecchio.
Tuttavia, nessuno lo sa.

(* = “Nessuno.”)
 




Cina:不要让自己的头剪的命运,而是你要割去了她/他。*
 

Pechino è bellissima.
Luminosa di giorno; vivace di pomeriggio e magica di notte.
Non esiste città al mondo che possa eguagliarne la bellezza; al suo confronto perfino la moderna New York, la piovosa Londra e plurimillenaria Roma impallidiscono.
È il posto dove i sogni si avverano; dove i biscotti sono profetici per davvero e non solo degli stupidi foglietti di carta con su scritta la stessa frase ogni volta.
« Non farti tagliare la testa dal destino; piuttosto sii tu a tagliarla a lui. » cita enigmatico il suo biscotto della fortuna, confondendolo.
Davvero il destino è qualcosa che si può tagliare?
E se la risposta è affermativa, perché non l'ha tagliato prima?
In fondo lei ama tagliare le cose.
“Li, coraggio; altrimenti il capo si arrabbia!” la richiama all'ordine una voce, uggiosa.
La giovane, ancora indecisa sul da farsi, accartoccia il biglietto e lo infila in tasca; decisa a riprendere le sue complesse elucubrazioni più tardi.
“Come fa il capo ad arrabbiarsi se non c'è mai, voglio dire?” domanda imbronciata, sistemandosi l'enorme cuffietta rossa sulla testa e riprendendo in mano la sua fedele mannaretta.
“Non c'è mai, è  vero. Però mi ha chiamato prima e ha detto che devi muoverti; o ti decapita.” confessa sinceramente il ragazzo dai capelli castani, alzando e riabbassando le spalle in un sincero gesto di noncuranza.
Li si lascia sfuggire una risata decisamente poco femminile, quasi tagliandosi un dito con l'arma affilata che tiene in mano. “Allora il biglietto aveva ragione, a quanto pare. – altra risatina gorgogliante – Comunque riferiscigli che sono i corrieri che mi manda ad essere lenti; non io. Come vedi ho già preparato la metà delle cose che mi ha chiesto, se proprio ci tiene potrebbe prendere il suo grande e lussuoso fuoristrada e scendere quaggiù tra i poveri mortali; magari perde quei chili in eccesso che lo fanno assomigliare più a un tricheco sovrappeso che a un umano. Vederlo camminare sarebbe qualcosa di comico e tragico insieme, diamine!”
Ride ancora la ragazza, senza preoccuparsi della voce acuta che i clienti del ristorante sentiranno: certo, potrebbero pensare che lì dentro non si lavora; ma è proprio questo il bello: quei cuochi incapaci stanno lì seduti bel belli con il tovagliolo già sistemato attorno alla gola e pretendono che i piatti gli appaiano sotto il naso con uno schiocco di dita!
Mica immaginano che la cucina è sangue, sudore e fatica. Soprattutto sangue.
Il giovane, appoggiato con la schiena allo stipite della malandata porta sul retro, getta un'occhiata nel vicolo buio e si concede a sua volta una grassa risata, ma con circospezione.
E se qualcuna delle sue spie fosse appostata lì vicino giusto per raccogliere informazioni che figura ci avrebbero fatto? O, peggio, se una cimice fosse stata piazzata in un qualche punto ignoto della cucina senza che loro se ne fossero accorti?
Udendo le parole di lei avrebbero potuto decidere che ormai non era più utile ai loro scopi e quei contanti che ricavava lavorando come postino non sarebbero più entrati nelle sue tasche.
Anzi, diciamo che li avrebbero tolti di mezzo entrambi; così niente sarebbe più potuto uscire e/o entrare nei loro corpi.
“Li, direi di smetterla. E se ci sentissero?” domanda quindi, battendosi dei colpetti sulla gola per riacquistare quel poco contegno perduto.
“Yao, tu sei troppo previdente. Non ce lo hanno il coraggio di mettere delle cimici qui; non dopo la fine che ho fatto fare a quella banda che stava di pattuglia attorno a casa mia.” commenta Li, asciugandosi le lacrime e ricominciando a tagliare la carne di maiale con movimenti meccanici e veloci.
Yao sospira, rabbrividendo.
Tra i due amici la più inquietante era sempre stata lei: tanto per citarne una; aveva macellato senza battere ciglio – canticchiando, c'è chi giura di averla sentita canticchiare! – una banda di scagnozzi del loro capo (appostati attorno a casa sua per controllare che non fosse in contatto con la polizia) e li aveva usati come ripieno dei suoi squisiti ravioloni di carne. Ovviamente non li aveva mangiati lei, ma li aveva spediti proprio al diretto interessato; scrivendogli le sue motivazioni su un biglietto.
Che li avessero mangiati o no, Yao non lo sapeva. L'unica cosa certa era stata che nessuno scagnozzo era mai più entrato nel campo visivo della cinese.
“Sì, probabilmente hai ragione. Ma se la cimice l'avessero messa su di me?”
“Lo escludo. – si ravvia da una parte la frangetta castana, con l'aria di chi sa sempre tutto di tutti – Sei il figlio adorato, il tuo caro paparino non gli permetterebbe mai di farti un affronto simile. Quindi rilassati, il mio ristorante è un luogo più che sicuro”.
Ancora una volta il giovane si ritrova ad ammirare le lancette del suo orologio da polso, quasi volesse fermarle del tutto.
Ebbene, lui sa quale mano divina trattenga il padre dal farle del male: lui stesso.
Li Wang è la sua migliore amica e, perché non ammetterlo, crede di provare qualcosa per lei. Suo padre non si sognerebbe mai di privarlo dell'unica amica che si è fatto; anche se è una tipa che i piedi in testa non se li fa mettere.
Passa un altro quarto d'ora quando sente il telefono squillare.
“Pronto?” domanda, trattenendo un sospiro. Non ha bisogno di controllare il numero, sa già chi è.
“Figlio mio; la tua amica sta tardando troppo. Verremo ad ucciderla.” la voce grossa di suo padre, rigorosamente cinese e paurosa, gli percuote le orecchie.
“No! – si affretta a gridare, guadagnandosi un'occhiata interrogativa di Li – Ha quasi finito; ve lo giuro. In un'ora sarò lì; solo il tempo di prendere la roba e montare in bicicletta. Per favore...”
Non si dovrebbe mai supplicare un boss della mafia cinese, mai.
Eppure questo privilegio a Yao è concesso, perché è il figlio di uno dei più importanti boss e nessuno avrà da replicare.
“E sia, ma fa che sgarri un'altra volta e non avrà nemmeno il tempo di aprire bocca che sarà già morta e sepolta.” replica pacata la voce all'altro capo della cornetta; attaccando senza un saluto né una dimostrazione d'affetto.
Compreso padre, compreso. Sbuffa.
“Il capo chiama e il figlio risponde, giusto. – Li gli porge dei sacchetti contenenti certamente dei piatti deliziosi, dato che il solo odore basta a fargli venire l'acquolina in bocca – Bene, ecco qua le consegne pronte. La roba che gli serve è tutta qui dentro, né un grammo di più né uno di meno”.
Yao è tentato di prenderle le maniche del lungo vestito che porta e tagliarle: non sa come faccia lei a reggere le stoviglie quando il tessuto setoso le intralcia i movimenti; ma è certo che si meriterebbe un premio solo per questo.
“Capito. Buon lavoro Li, ci si vede più tardi; quando hai finito di lavorare.” le sorride schioccandole un bacio sul naso e avviandosi verso l'uscita.
“Ricorda una cosa Yao.” quest'ultima sorride pragmatica.
“Cosa?” chiede, prima di richiudersi la porta alle spalle.
“Non farti tagliare la testa dal destino; piuttosto sii tu a tagliarla a lui.” dopodiché, riprende la sua mannaretta e si mette a tagliare le carote; canticchiando.

“Maledetto bastardo; non avresti dovuto intervenire senza il mio permesso! Quell'orfanotrofio non sarebbe dovuto bruciare, era fonte preziosa di denaro! Mi spieghi ora come andiamo a dirglielo a quelli del governo, visto che in molti testimoniano di aver visto l'incendio; eh?” altro colpo di nunchaku, forte.
Non si merita nessuna pietà quel cane idiota: gli aveva detto sì di andare a dar fuoco a qualcosa, ma quel qualcosa era la fabbrica vicino all'orfanotrofio; non l'orfanotrofio stesso.
Che alla fine fossero bruciati entrambi costituiva per lui un dettaglio irrilevante.
“P-P-Pa-drone..” geme una voce maschile, tossendo.
Sfortunatamente la mano che tiene sulle labbra non è stata sufficiente ad impedire al sangue di schizzare sulle scarpe nuove del suo carnefice.
“Di' un po' feccia umana; come ti piacerebbe morire?” domanda proprio quest'ultimo; accoccolandosi per poter guardare la vittima impaurita negli occhi.
Fa così pena quell'uomo massiccio dal cranio rasato disteso a  terra dal volto tumefatto. Ora che ci ripensa, quando era piccolo gli faceva sempre paura vederlo aggirarsi per casa sua come un mastino senza guinzaglio.
“Se possibile padrone desidererei non morire.. sapete, ho una famiglia che mi aspetta...” dice quello tremulo, sperando che il ragazzo che gli sta davanti sia volubile quanto il padre e cambi idea piuttosto facilmente.
In fondo ha scampato la morte molte volte, perché dovrebbe essere diverso? La famiglia degli Wang lo ha sempre graziato, non capisce perché ora questo novellino debba giustiziarlo. In fondo ha solo preso due piccioni con una fava...
“Come si chiamano tua moglie e i tuoi figli?” il torturatore si cala ancora di più il cappello nero – rassomigliante in maniera inverosimile a quello dei poliziotti – sul volto e sorride; mettendosi una mano dietro la schiena.
La sfigurata vittima non può immaginarlo, ma il giovane sta estraendo una pistola dalla fondina posta proprio dietro la schiena.
“Beh, mia moglie si chiama Chang Mei e i miei figli Akane e Shiro..” non sospetta minimamente, si fida.
Ormai ne è certo: anche stavolta verrà graziato.
Non vede l'ora di tornare a casa per riabbracciare la sua famiglia, quella stanza angusta e lercia comincia ad emanare un odore nauseabondo.
“Grazie mille, ci sei stato molto utile. Salutami l'inferno.” e prima che quello possa replicare qualcosa, il cervello gli schizza fuori dalla testa per andare a scontrarsi con il freddo muro ammuffito; in uno spettacolo pirotecnico monocromo.
In poche parole; bellissimo.
Yao si rialza sogghignando e si avvia verso la porta della cella; sbattendola una volta uscito.
In corridoio non trova nessuno, solo l'ennesimo cranio pelato con la mitragliatrice imbraccata e gli occhiali da sole indosso.
“Tu, va' subito a chiamare qualcuno perché pulisca il macello lì dentro e sbarazzatevi del cadavere nel modo più indelicato possibile. Non esiste pietà per coloro che sbagliano.” ordina senza emozione, gli occhi marrone/dorato brillanti di una vena rossa di follia.
La guardia annuisce con un gesto che pare volergli spezzare l'osso del collo, entrando dentro senza una parola.
A lui non interessa come rimarrà dopo aver visto quel corpo tumefatto dai colpi dei suoi nunchaku e privato del cervello dalla sua elegante pistola nera; ultima frontiera delle armi a fuoco.
Marcia deciso verso l'ufficio del padre, bussando all'uscio per educazione, ma non attendendo una risposta per entrare.
“Allora, lo hai tolto di mezzo?” è la prima e unica domanda.
“Certo, nel modo più galante possibile. – sogghigna – Adesso non ci resta che cercare una certa Chang Mei e i suoi adorati figlioletti. Sono certo che aspettano con ansia il ritorno del padre; gli faremo una bella sorpresa”.
“Sei proprio il mio degno erede Yao, ben fatto.” il cinese corpulento dai capelli neri e gli occhi terribilmente piccoli gli sorride.
“Voi sapete come si dice padre: non farti tagliare la testa dal destino; piuttosto sii tu a tagliarla a lui.” detto questo prende un involtino primavera dalla scatola accanto a lui, mangiando di gusto.
Chi avrebbe mai immaginato che tagliare la testa al destino fosse così divertente...

(* = “Non farti tagliare la testa dal destino; piuttosto sii tu a tagliarla a lui.”)





Francia: Collection.*


L'aeroporto di Parigi è così affollato alle nove e mezza di mattina; come se le persone non avessero nient'altro di meglio da fare.
Damerini di ogni tipo gli passano accanto, lanciandogli occhiate di commiserazione e, talvolta, aprendogli le dita e mettendogli in mano pochi spiccioli.
Non si scusano per avergli sbattuto contro le loro valigette strabordanti di documenti; no. Lo credono un barbone, ecco cosa.
Lui sta solo aspettando una persona; non ha chiesto la loro attenzione.
Fa un tiro di sigaretta ed espira il fumo; buttando il mozzicone in un angolo imprecisato.
“Merde!” impreca un francese, vedendo le sue nuovissime e alla moda scarpe italiane rovinate dalla cenere della stupida sigaretta di un altrettanto stupido allampanato barbone che sta fissando un punto imprecisato fuori dalla finestra a vetrate; in direzione della pista degli aeroplani.
Guarda l'orologio scoprendo di avere ancora un po' di tempo per il suo volo; perciò nulla gli impedisce di insegnare le buone maniere e il luogo dove deve stare a un buono a nulla come quello lì.
“Hé tu!” grida, facendo sì che la massa in movimento sposti un attimo i suoi molteplici occhi su di lui per poi tornare ad ignorarlo di nuovo.
Francis fa orecchie da mercante, ignorandolo.
Dopotutto non c'è bisogno di voltarsi per capire che colui che stava per interrompere il suo momento di riflessione assoluta sui misteri dell'universo voleva fargli una paternale su quanto gli fosse costata la cosa che con il suo mozzicone di sigaretta aveva rovinato.
“Je suis en train de parler avec toi, écoute me!” ripete di nuovo; spazientito.
Non ha ancora inteso che, per quanto urlerà, lui non si volterà a rispondergli. Non ha proprio tempo da perdere con gente così stupida.
Silence s'il vous plaît. Je suis en train de raisonner sur le parce que l'avion est en retard. Pensa, prendendo un altro pacchetto di sigarette dalla tasca dei pantaloni e ponendone una con grazia fra le labbra.
“Monsieur, arrêtez de m'ignorer!” adesso davvero non ne può più. Non solo deve fare quello stressante viaggio all'estero proprio l'anniversario in cui ha divorziato da sua moglie; ma deve anche vedersi ignorato da un barbone che gli ha appena rovinato il regalo di compleanno di suo figlio.
Certe giornate cominciano con il piede giusto e sembra proprio che non possano andare meglio; altre invece iniziano male e finiscono peggio.
Oggi, per l'uomo, è una di quelle giornate.
Enfin il s'en est aperçu. Cerca con la mano l'accendino scuro nella tasca interna del suo lungo impermeabile scuro; prima che quella presenza indesiderata gli blocchi il braccio sinistro e lo costringa ad abbassare lo sguardo in basso.
Alza un sopracciglio, indeciso se essere più infastidito per quella mano sudicia su uno dei suoi capi d'abbigliamento preferiti oppure per la testardaggine che sta dimostrando.
“Vous avez besoin de quelque chose?” chiede dunque, cordiale. Ancora non ha deciso, ma è dell'idea che sceglierà entrambe le opzioni.
Il piccoletto arrossisce dalla rabbia. “Besoin de quelque chose, il m'est en train de dire! – si dispera quasi – Monsieur, vous savez au moins cela que vous avez fait?”
Francis trova l'accendino tanto desiderato e allora di quell'uomo non può importargliene niente. Se prima ha provato a considerarlo almeno un pochino, adesso può pure andare a farsi fottere e morire. Galvanizzato, accende la sigaretta che cominciava a pendere come morta dalle sue labbra e fa un lungo tiro, in pace con se stessa.
“Monsieur!” lo richiama all'attenzione l'uomo di bassa statura; ricordandogli che ha ancora le sue schifosissime e bitorzolute mani su una delle cose che predilige di più del suo armadio; senza il suo permesso.
“Vous pourriez relâcher mon bras?” sillaba lentamente, certo che il suo interlocutore non capirà.
“Hein? Qu'est-ce que vous avez dit?” appunto, come volevasi dimostrare.
“Je vous ai demandé si vous pourriez relâcher mon bras. – gli soffia in faccia una nuvola di fumo per ripicca – Alors? Qu'est-ce que vous me repondez?”
Quest'ultimo tossisce per qualche istante, temendo il soffocamento.
Quando è in grado di parlare di nuovo, la voce gli esce come un mugolio: “Je comprends; pardonnez-moi”.
Francis sta per rispondere, quando una voce melodiosa e dall'accento deliziosamente bretone riecheggia alle sue spalle: “Francis! Francis!”
Si volta e la vede, finalmente.
La sua bella e prosperosa cugina di primo grado; Françoise Bonnefoy.
“Excusez-moi monsieur; je dois aller.” fa un'ultima tirata e spegne il filtro bruciato sulla spalla del piccoletto; senza rimorsi.
In fondo, lo nota solo ora; è un completo orrido.
“Au revoir, monsie- si blocca; notando un altro mozzicone di sigaretta corrodere la stoffa della sua costosa giacca.
Prima che possa voltarsi per gridare al barbone tutta la sua rabbia; quello è già sparito.

“Tu m'as dû attendre combien de temps?” chiede la donna facendo penzolare il braccio fuori dal finestrino e al contempo stesso aggiustandosi lo chignon.
Ammira soddisfatta il suo operato nello specchietto retrovisore già che c'è si liscia i due ciuffi biondi che le ricadono ai lati del volto ben fatto.
“Pour deux heures. Il a été une attente très longue.” commenta algido Francis, rilassando le mani sul volante.
“J'ai vu. – ridacchia civettuola, coprendosi la bocca con una mano – Tu avais fait quoi?”
“Je ne sais pas et je ne m'intéresse pas. – ora come ora ci starebbe bene una sigaretta -  
Plutôt, pourquoi tu es venue ici?”
“Je ne peux pas venir ici? J'avais trop d'envie de voir mon petit cousin!” grida fintamente indignata; circondandogli il collo con le braccia.
Il francese sospira, in procinto di prenderla a ceffoni.
Tuttavia, non è una cosa negativa: lui adora alla follia sua cugina; solo che non riesce proprio a tollerare gli abbracci e tutte le manifestazioni d'affetto che è solita fargli.
Non sapesse che lo sta facendo solo per ottenere qualche favore da lui.
“Qu'est-ce que tu veux?” esala, scacciandola con una manata.
“Tu es très violent; Francis! – si lamenta, mordendosi il labbro inferiore con aria drammatica – Pourquoi tu penses mal toujours de moi?”
Francis si lascia sfuggire un sorriso di autocommiserazione prima di rispondere: “Tu es une actrice très bonne, Françoise.”
Purtroppo è vero, Françoise è un'attrice così brava da farlo pure cadere in qualcuno dei suoi trucchi: per esempio, da piccolo cedeva sempre sotto i suoi grandi occhi da cerbiatto; viola, come vuole la tradizione di famiglia.
“Tu trouves? J'ai pensé de pouvoir être une actrice; mais c'est un travail trop fatigant pour une belle dame comme moi.” ribatte lei, con un sospiro.
“Françoise, dis-moi cela que tu veux.” borbotta annoiato.
“Encore avec cette histoire! Va bien, va bien!” dice stizzita; accavallando le gambe e stringendo con le mani il vestito; frustrata.
Francis sorride compiaciuto; prendendo una curva veloce in modo da farla ribaltare dal sedile e rovinare così il suo bel vestito avorio e bordeaux scuro.
Proprio quello che accade.
Non c'è dubbio, quello fino alla sua magione sarà un viaggio molto lungo.

“Tu as entendu?! Cette fille ne voulait pas que je busse son sang! Elle a été très impolie.” Françoise sbuffa; compiendo una serie di buffe mosse per scendere dalla sua macchina senza rompersi i tacchi o lacerare la pregiata stoffa del suo vestito nuovo (glielo aveva visto indosso così tante volte da perdere il conto).
“Impolie, certainement...” finge di ascoltarla; quando in realtà vorrebbe solo fumarsi una bella sigaretta in pace; esalando le nuvolette di fumo proprio sul suo bel faccino.
Tu est folle si tu penses que je te permettrai de boir mon sang.. pauvre de fille. Riflette disinteressato; inserendo le chiavi nella toppa e togliendo le mandate che aveva dato.
Certo, probabilmente nessuno si sarebbe mai avvicinato alla sua “casa degli orrori”; ma la precauzione non era mai troppa.
“Tu est cannibale, cousine?” chiede spalancando la porta scricchiolante – avrebbe dovuto oliarla un giorno di questi – e poggiando le chiavi sul mobile accanto; cercando a tentoni l'interruttore della luce.
“Hein? Pourquoi tu me le demande?” trilla la donna alle sue spalle con insolita curiosità; tenendo leggermente sollevata la gonna per non inciampare nelle scale.
“Curiosité.” appende l'impermeabile all'attaccapanni; attendendo come un bravo maggiordomo la sua padrona.
Françoise ci pensa su un attimo; nel mentre che lui la priva del suo piccolo coprispalle. “Je ne crois pas. – risponde dopo un po', innocentemente – Je suis une princesse; tu l'as oublié?”
Oui, une princesse.. madame Bàthory. Ora che ci pensa, quella contessa era famosa con il nome di “Comtesse du sang”; per questo forse forse non è poi tanto sbagliato associarlo a quella sua parente così stramba da bere il sangue delle giovani ragazze nella credenza che sarebbe rimasta giovane in eterno.
Anche se, particolare inquietante, ancora niente le aveva smontato la teoria.
Meglio cambiare argomento. “Assieds-toi aussi, ne pas faire de compliments. Tu seras fatiguée pour le voyage.”
Francis si era già seduto su una delle sue grandi poltrone in velluto; con un libro in mano (“Cento e un modi di suicidarsi con stile” di non ricordava quale autore).
Non aveva bisogno di lanciare un'occhiata al suo soggiorno per rivedere tutta la sua preziosissima collezione; conosceva a memoria la posizione di ogni singola parte del corpo.
“Qu'est-ce que sont?” Françoise tira su un vasetto trasparente contenente alcuni bulbi oculari che lui aveva intinto in uno speciale liquido perché non si degradassero.
“Ils sont les yeux de quelques filles avec lesquels j'ai été fiancé.” risponde pacato; aprendo finalmente il libro e abbassando lo sguardo sulle lettere inchiostrate, deciso ad ignorare quella presenza fino a che non se ne sarebbe stufato.
“Les yeux? Est-ce que tu as volé ses yeux?” domanda, con la voce pervasa di quello che lui crede essere sbigottimento.
“Exactement. Je les aimais trop pour ne les pas tenir avec moi.” posa un attimo il libro sulle ginocchia; beandosi dello smarrimento della sua deliziosa cugina bevitrice di sangue.
“Tu es très bizarre, cousin. Et tes fiancées qu'elles ont dit?” scuote il barattolo; osservando incantata le piccole palline di gelatina rimbalzare l'una contro l'altra come palline da biliardo appena spinte da un'asta.
“... Rien.” è più che certo che l'altra intenda il doppio senso di quelle parole.
In effetti quelle poverette non erano state molto di compagnia mentre asportava loro gli occhi; anzi, avevano sopportato la cosa in un silenzio innaturale, senza lamentarsi del troppo dolore.
Françoise ride. Sì, ride.
Francis sa che è una tipa lunatica – e, perché no, psicopatica – ma non si aspettava una dimostrazione così lampante.
Per il resto del pomeriggio, i due non si dicono niente; l'una immersa nell'esplorazione del suo enorme salotto e l'altro assorto – si fa per dire – nella sua piacevole lettura.
“Et de moi?” domanda la donna ad un certo punto; riponendo al suo posto nella teca una piccola mano affusolata che recava ancora tracce di smalto blu sulle unghie.
“'De moi' quoi?” risponde l'uomo alzando lo sguardo dal libro; inarcando un sopracciglio perplesso.
“Qu'est-ce que tu prendrais de moi?” gli si avvicina volteggiando; come se un principe la stesse facendo danzare.
Hein oui, la sottise féminine n'a pas de fin. Ghigna sardonico, chiudendo un attimo il libro.
“De toi je prendrais ton cœur. Parce que il y n'aura rien de plus satisfaisant que le voir sonner il les heures comme pendule d'une horloge, seul pour moi.” dice sinceramente; passandosi una mano sulla barba sfatta del mento.
Françoise ride ancora, lusingata. Tuttavia crede che il suo cuginetto stia solamente scherzando.
Evidentemente non sa quanto, alle volte, gli scherzi possano coincidere spaventosamente con la realtà.

(* = “Collezione.”)









Angolo dell'autrice di cui sicuramente non interessa a nessuno:
Beeene, salve.
Come avete visto, questo "coso" possiede anche un capitolo due. 
(Sì, sono appena arrivata e vi tormenterò fino alla fine dei vostri giorni. LOL)
Ci tenevo a dirvi queste cosucce perché non mi lapidiate dopo aver finito di leggere:
1. Sicuramente sono sfasata nell'OOC. Ma senza dubbio. Quindi vi prego, perdonatemi. ç_ç
Non è stato volontario, ve lo giuro. ò.ò
2. Vi devo spiegare un po' il perché e il per come di queste scenette; altrimenti vi confondo e basta e sinceramente non ci tengo. ù_ù
Dunque, partiamo dall'inizio come sempre:

America: Su di loro proprio non avevo idee ed ero partita dal presupposto di scrivere una pagina a personaggio anche se, constaterete personalmente, la cosa è degenerata. Comunque, dopo essermene accorta, ho deciso di non cambiare niente. In fondo è stato il primo spezzone ad essere stato scritto per questo ci tenevo troppo. I dialoghi sono rigorosamente in inglese perché beh, siamo in America e lì lo parlano l'inglese. Visto che lo so, ho provato ad usarlo. Magari la grammatica è anche brutta e quindi non se ne fa di niente, però.. Va beh, è inutile parlare a vuoto; spero di aver reso bene quei due psicopatici. U_U 
Antartide: Lui è il mio OC; Kristinn Vaar, alias Antartide. Ha tredici anni e sì, è uno scienziato in miniatura (in fondo, la calotta polare antartica non è forse sede di numerosi laboratori scientifici?). I suoi mentori sono Islanda e Canada (non dico niente, non servirebbe v.v), il suo migliore amico è Sealand (anche lui in 2P! piccolo caro ;)) e, credo, fa parte della famiglia estesa dei Nordici. A dir la verità, non so se sia 2P! o no, vi lascio col dubbio. Francamente non so come faccia a vivere laggiù al freddo, ma mai dire mai; dopotutto è un mio personaggio e quindi sarà per forza un tipetto strano.
Bielorussia: Natalia è quella che mi è riuscita meglio. Sarà perché lei è 1P! altrimenti non farebbe paura e io necessito della sua capacità di incutere terrore in una storia dove c'è sangue a go go. xD Ho deciso di mantenermi fedele alla versione hetaliana del personaggio, ovvero di dipingerla come una sorella che vuole sposare il proprio fratello. Parlando di lui, si intuisce che il poveraccio non sia Russia (sarebbe stato troppo anormale); quindi ho piazzato la sua versione maschile. Che dire poi... Natalia è una vera ricicla fratelli. :3
Canada: Matthew non.. non so, non ho idea di come descrivervelo. Suppongo si possa definire un "bullo che mette in pratica le sue minacce" e tutti lo temono. Non ho mai giocato ad hockey su ghiaccio, quindi è possibile che abbia errato in qualcosa (vi prego, correggetemi dove ho sbagliato) anche se non è stato volontario. Parlando del piccolo, tenero, Oliver; lui è stato violentato proprio da dei bulli e... No, aspetta; sto spoilerando troppo. ._. Sappiate soltanto che Oliver è il Matthew normale, solo un po' partito di cervello e il Matthew 2P! ci tiene molto a lui. Non si nota, eh? (Anche qui, scrittura in francese-inglese. Se servono, darò le traduzioni. u.u)
Cina: No, niente domande. L'ho già fatto leggere e mi è stato detto che è inquietante, per questo.. Ora, non so né come funzioni la mafia cinese né che tipo di personaggio sia 2P! Cina, quindi se ho sfasato.. beh, ho sfasato; ho creato un nuovo 2P! Cina. ù.ù Per quanto riguarda 2P! Fem! Cina, non è una cannibale: solo, è una a cui piace avere liberta di movimento... E non mi fiderei a mangiare niente cucinato da lei. LOL
Francia: Oh là là; eccoci arrivato all'ultimo della lista; Francis. Specifico che non conosco nemmeno la sua personalità, ma da quanto ho letto non è una persona che si interessa molto delle condizioni di chi gli sta intorno e che, diciamolo col cuore leggero, va spesso e volentieri a puttane. xD Quindi mi dispiace per il nanetto divorziato, ma quella non era certo la sua giornata fortunata. xD Riguardo 2P! Fem! France... L'ho chiamata "Françoise" perché "Francine" come nome proprio non mi piaceva; e se la trovate un po' ochetta, sappiate che l'intenzione era proprio quella: in fondo, è una principessa che beve il sangue delle giovani fanciulle per mantenersi eternamente giovane. xD
Ebbene, finalmente ho chiarito tutti i dubbi del caso. Semmai qualcuno giungesse qua in fondo, avrà la mia eterna benedizione e i miei più sentiti ringraziamenti. c:
Ordunque, molto elegantemente mi dileguo. Alla prossima. ;)
  
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