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Autore: CaskaLangley    25/06/2007    33 recensioni
Da quando Riku Natsume è entrato nella sua vita, per Sora non c'è più un momento di pace. Mentre Kairi cerca di capire qualcosa del nuovo arrivato, Naminé cerca di sopportare una cotta e una situazione sociale sempre peggiori, e Roxas cerca di convincere sé stesso che la sua non-relazione con l'essere più sexy e più sbagliato possibile di tutta la scuola non significhi niente, Sora cerca di stare dietro a tutto e di realizzare il suo piano geniale: diventare amico di Riku. E Riku? Che cosa cerca in realtà, Riku?
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Un po' tutti
Note: Alternate Universe (AU) | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Note dell’autrice
(importanti: quindi se avete fretta leggete la storia e poi tornate qui XD)

Ecco il quarto capitolo tutto per voi <3

Dai commenti che mi sono pervenuti pareva che le vostre vite dipendessero da questo, quindi…XD

Dal momento che questa fic per voi è così importante, vi faccio una bella proposta: o mi arrivano almeno venti commenti, o non pubblico il resto ^___^

…non sto scherzando.

Non è una decisione presa a caso, prima di odiarmi XD Vi spiego.

Questa storia ha la media di cinquecento letture a capitolo, ed è appena nata e in una sezione poco popolare rispetto ad altre. Ora: togliendo chi la leggere tre volte, io che controllo e chi ci entra per sbaglio, non credo di sbagliare pensando che minimo in sessanta la leggiate perché vi piace. E mi sento un po’ presa in giro quando quei sessanta si fanno vivi solo per farmi presente che aggiorno poco, e solo tramite amici di amici, come se io mangiassi la gente. Non mangio la gente. Lo giuro. Se lo facessi non entrerei nei miei bellissimi vestiti lolita, e sarebbe una tragedia ;_;

Dai, ragazzi, per favore: non vi sto chiedendo la luna. Ricevo la media di quindici commenti e non credo che altri cinque sarebbero così orribili. Sarò stronza pretenziosa sfacciata, non lo so. Mi rendo conto che non vi devo niente, ma lasciarmi una righettina per dirmi che non scrivo all’aria ogni tanto non mi pare che vi tolga molto ;_;" Su, dai. Vi voglio bene. Dai.

Ok, ora vi lascio alla lettura :**** ci vediamo su HiFi per le risposte alle recensioni e le note al capitolo, e dopo la seconda parte per...il resto.
(mio Dio, questo font è minuscolo, ma riuscite a leggerlo?!)

In the shape of things to come
too much poison come undone

4. Non c’è niente, qui -1

Aveva gli occhi aperti da prima che la sveglia suonasse, come sempre. Gli dava una certa soddisfazione, sebbene si rendesse conto di quanto nel concreto fosse inutile, dal momento che non sfruttava quei minuti in più per alzarsi e prepararsi, ma li passava immobile nel letto aspettando che la stronza suonasse per dirle "già fatto, grazie" con disprezzo.

La lasciò suonare, fissandola. Il suono acuto scavava un foro largo come una matita nel suo cervello, colpo dopo colpo. Ti-tì. Ti-tì. Ti-tì.

La porta si aprì di colpo, gettando nella stanza uno spicchio della luce luminosa del corridoio. Bastò quello a dargli fastidio e nascose la testa sotto il cuscino in attesa del tormento che stava arrivando.

"Bonjour, Rikkun!"

Lui mugolò contro il materasso. Lei senza nessun riguardo sollevò faticosamente la tapparella –la corda era troppo dura e le bruciava le mani- e la stanza si riempì di luce e dei rumori sulla strada.

La sua notte era stata vuota. Nessun sogno. Un lungo consapevole, senza suoni, forse con qualche pensiero –subito dimenticato. Trovava frustrante non sognare, gli sembrava di aver perso tempo. All’epoca aveva un’attività onirica estremamente vivace. Se avesse saputo che si sarebbe arrestata irrimediabilmente, di colpo, nel giro di soli pochi mesi da lì, avrebbe preso appunti dei suoi ultimi sogni.

"Vite vite! E’ l’inizio del tuo ultimo anno da studente delle medie: un gran giorno nella vita di un uomo!" si buttò nel suo letto, atterrando con le ginocchia e cadendo in avanti, picchiando il muso contro la sua spalla. Era un peso inconsistente, a stento aveva una vera dimensione, ma alle sei e mezza del mattino era un mattone pure quello. Mosse pigramente un braccio per cercare, ancora sotto il cuscino, un pezzo qualsiasi del suo corpo ossuto da spingere via, ma lei fu più rapida e gli salì a cavalcioni sullo stomaco. Non aveva mai avuto riguardo del suo corpo, lo considerava il proprio parco giochi.

"In realtà è importante nella vita di tutte le persone. Le medie sono insopportabili. Lo dice già il nome, no? Scuola media. Mediamente interessante, mediamente utile, mediamente divertente…superiore sì che dà un senso di prestigio. Superiore. Non sei entusiasta all’idea di smettere di essere medio e cominciare a diventare superiore?"

Riku fece una specie di grugnito e si tolse il cuscino dalla faccia, guardandola con odio. Lei non ne fu esattamente spaventata, purtroppo.

"Allora? Te lo devo ripetere in un’altra lingua? Hai l’imbarazzo della scelta, avanti."

"Non in inglese" borbottò riprendendo il cuscino e schiacciandoselo di nuovo contro la faccia. Lei glielo tolse. Con i pugni puntati sui fianchi sembrava la vignetta di un manga.

"Che cos’hai contro il mio inglese?"

"Mi offende. Davvero, lo sento come un affronto personale, e non sono inglese."

"Il mio inglese è perfetto, ho solo un problema d’accento."

"Chiamalo problema." rimase in silenzio un attimo per formulare correttamente la frase "Se trovassero un modo per sintetizzarlo potrebbero farne un’arma." si stupì di essere riuscito a dirlo correttamente. Evidentemente il suo cervello si svegliava prima di tutto il resto.

Lei sbuffò: "Il y en a marre." decretò, e fece segno di alzarsi con le mani.

"En moins de deux…"

"No, adesso."

Lui rise, si tolse il cuscino dalla faccia, la afferrò per i fianchi e la ribaltò. Aveva fatto in modo di farla atterrare sul materasso, ma lei aveva un problema: il suo corpo minuscolo attirava le disgrazie. Di qualsiasi tipo, non faceva differenza. Riuscì a sgusciargli dalla mani e a sfracellarsi rovinosamente sul pavimento.

Riku guardò giù. Sentendola lamentarsi prese un profondo respiro nel tentativo di riprendersi e guardò giù. Lei era mezza sdraiata a terra –le gambe giunte all’altezza delle ginocchia come se il suo unico pensiero non fosse stato evitare di farsi del male, ma di fargli vedere le mutande.

Solo in quel momento notò che era già pronta, i capelli in ordine sulla spalle, legati dietro da un fiocchetto, e addosso la cosa più porno che avesse visto nell’ultimo anno e mezzo.

"…e quella?"

Lei arrancò in ginocchio e gli sorrise, aprendosi la gonnellina a pieghe sulle cosce: "E’ la mia nuova divisa. Ti piace? La trovo totalmente amabile."

Non le stava bene. Avrebbe voluto darle la sua e per un attimo pensò di farlo.

"E’ totalmente corta. Che cosa hanno in testa i giapponesi?"

Lei rise di nuovo "Manchi da un anno e parli come uno straniero!" si alzò in piedi, spolverandosi le cosce con le mani, poi tenendosi la gonna si sedette nuovamente sul letto. "Dì quello che vuoi. Secondo me è carina. Più carina di quella di prima."

"Smettila di essere così felice. Da qualche parte una ragazza brutta e sovrappeso, con il tuo stesso identico diritto di essere felice, patirà vergogna e umiliazione perché a causa di quella divisa che ti piace tanto dovrà mostrare un corpo ripugnante per il quale non ha colpa."

Lei perse all’improvviso tutto il suo buon umore. Guardò la divisa, poi guardò lui e annunciò: "Ti odio."

Lui rise e lei ribadì: "No, davvero ti odio. Ma!" si alzò in piedi "Non rovinerai la mia giornata, sappilo."

"C’è qualcosa da rovinare?"

"Sono contenta di tornare nella mia scuola, non vedo l’ora di rivedere tutti!"

"Secondo me nessuno si ricorda nemmeno che esisti."

"Oh, smettila. Avevo un sacco di buone amiche in quella scuola, e comunque se non si dovessero ricordare di me si ricorderebbero sicuramente di te." detto questo lo prese per un braccio e cominciò a tiracchiarlo. Era troppo debole per smuoverlo anche solo di un millimetro, ma lui la assecondò e si sedette sul bordo del letto. Lei gli si sedette sulle ginocchia e cominciò a pettinargli i capelli con le dita.

"Non voglio perdermi il tuo ingresso. Voglio vedere tutte le ragazze della scuola sciogliersi alla tua vista, e poi atteggiarmi davanti a tutti perché sei mio."

"Vuoi vederle fare che cosa?"

"Sciogliersi. O qualcosa del genere."

"Le tue aspettative sono sempre troppo alte, ci hai mai fatto caso?"

Lei ridacchiò, e smise di passargli le dita tra i capelli. Poi lentamente, ma senza nessuna esitazione, appoggiò la fronte contro la sua testa e sorrise tra sé e sé.

"Sono le tue aspettative ad essere deprimenti. Tendi a sottovalutare quanto tu sia attraente."

"Lo sono?"

Lei annuì e gli posò un bacio sulla tempia. "Cerca di ricordartelo. Chissà, potrebbe tornarti utile un giorno."

Fin da quando era piccolo a volte Riku chiudeva gli occhi e fingeva di essere solo.

Non solo in camera, solo in casa, solo a scuola, o solo in città. Sognava di essere solo in tutto il mondo.

Prima cancellava tutti i rumori irrequieti; le voci, e le macchine, le sbarre dei passaggi a livello, le suonerie dei cellulari, il picchiettare del gesso contro la lavagna piuttosto che dei lavori in corso sulla strada. Tutto quanto si abbassava, e si abbassava, mentre i suoni della natura si alzavano, e si alzavano, e poi anche quell’insignificante brusio rimasto veniva coperto, e infine, ignorato, si spegneva.

Poi apriva gli occhi e non c’era più nessuno di vivo intorno a lui. I corpi erano stesi a terra e lastricavano le strade. Ogni petto imploso senza fare rumore. Una fine pulita.

Lui camminava in mezzo ai cadaveri senza provare timore, ma nemmeno soddisfazione, o sorpresa. Il tempo degli esseri umani sulla terra era scaduto, senza dolore. Da qualche parte si generava una nuova razza, nuove creature che l’avrebbero ripopolata da zero. Forse avrebbero avuto branchie, o ali. Forse avrebbero camminato a quattro zampe. O forse sarebbero state identiche a loro all’esterno, ma completamente diversi dentro. Forse avrebbero comunicato a gesti. Niente più informazioni. Niente più inutili parole. Niente più rumore. Solamente silenzio. Sarebbe stato il mondo perfetto per lui, ma non era destinato a vederlo.

Intanto era lì.

Nessuna intrusione. Nessun contatto. Nessuna domanda. Com’era giusto che fosse.

Niente di niente.

Solo.

"Non dirmi che ti immagini ancora l’Apocalisse? I tuoi speravano che crescendo avresti smesso!"

Riku aprì gli occhi a fessura. La campanella ricominciò a suonare, gli studenti ricominciarono a correre e a schiamazzare e gli armadietti a sbattere tutti insieme contemporaneamente, mentre il sole infernale dietro le sue spalle rimbalzava contro il pavimento lucido e troppo chiaro e si ficcava diritto in mezzo alla sua faccia come una freccia.

"E’ l’unica cosa che dà gioia alla mia vita" rispose cupo, e il suo interlocutore rise.

Il preside Mickey rideva quasi sempre. Le prime volte che gli aveva parlato lo aveva odiato. Era convinto che non lo prendesse sul serio. Riku odiava non essere preso sul serio e odiava ancora di più che chi lo faceva non tremasse all’idea che lui se ne accorgesse. A quindici anni aveva accarezzato l’idea di uccidere quel buffo ometto ridacchiante almeno cinque o sei volte, e a salvarlo era stato giusto il cavillo che a quindici anni lui ancora non uccideva la gente. Ricordargli che aveva cambiato politica a riguardo non l’aveva comunque mai fatto smettere di ridere, e lui col tempo aveva smesso di trovarlo fastidioso.

Col tempo, aveva cominciato a trovarlo piacevole.

Finché il preside Mickey rideva, significava che in fin dei conti qualcosa era ancora ok.

"Trovo incredibile che tu debba sempre trovare un modo per farti notare!" disse dopo averlo squadrato a lungo dalla testa ai piedi e poi dai piedi alla testa.

Riku aggrottò la fronte e disse solo, come un’accusa: "Quadretti azzurrini."

Mickey rise. Riku ripeté: "Quadretti azzurrini. Mai nella vita, te lo scordi. Cosa cazzo ti è venuto in mente, a proposito, è da quando sono qui che voglio chiedertelo! "

"Confesso che all’inizio non ero del tutto convinto nemmeno io, avevo messo da parte una cosa un po’ più sobria sul blu scuro…ma Minnie ha detto che queste erano carine, e l’ha ripetuto…a lungo…" incrociò le braccia e inclinò cogitabondo la testa, guardando l’atrio e gli studenti allegri che lo popolavano. "Dai, in fondo è carina…"

"Non è esattamente l’ambizione di un ragazzo in fase di sviluppo essere carino."

"Devo aver detto qualcosa del genere anch’io, ma sai come sono le donne, quando dicono carino lo fanno sembrare un valore assoluto, e così…" lasciò cadere la frase e scosse la testa "Stai dicendo che i miei studenti diventano criminali perché è un’alternativa all’azzurro?"

Riku sogghignò: "Io ci rifletterei sopra seriamente."

"Sarebbe ironico, anche quelle le ho scelte io…" borbottò risentito, poi si spostò velocemente per far passare un ragazzo che, arrivando di corsa, aveva cercato di passare tra di loro senza aver calcolato bene lo spazio. Il ragazzo si fermò, fece l’inchino al preside e, intimorito all’idea di averlo urtato, ne fece uno anche a lui. Due. Tre. Poi se ne andò come se scappasse. Riku lo guardò allontanarsi e il preside batté le mani: "Complimenti Riku, fai ufficialmente paura."

Lui lo ignorò e chinò lo sguardo verso il pavimento. Erano entrambi fermi a pochi centimetri dal gradino dell’entrata da almeno dieci minuti. "Non devo cambiare gli stivali, vero?"

Il preside ci pensò un attimo, perplesso: "Nessuno che ha indossato quella divisa si è mai posto il problema…" poi sghignazzò "Sei un ragazzo pieno di senso civico, Riku. Forse i quadratini azzurri e il cravattino rispecchierebbero la tua vera natura."

Riku fece una specie di sgrunt e stava per varcare la soglia, ma il preside lo fermò: "Ti devo parlare. Seriamente."

Riku si fermò e lo guardò male. Il preside precisò: "Non che la discussione sulle divise non fosse interessante, comunque."

"Teoricamente avrei lezione."

"E ti sei messo una di quelle per entrare in orario a lezione?"

Riku ci pensò su un attimo. Si era procurato quella divisa per far girare un po’ di palle (e sì, in parte anche per i quadretti azzurri), non per usarla come cartellino per uscire gratis di prigione. E perché non ci aveva pensato, non perché avesse senso civico, come qualcuno insinuava.

E comunque tutto quello che quella divisa dava era meritato. Si SUDAVA lì sotto. Come facevano i Tredici a sembrare sempre così pieni di energie?! Magari era per quello che erano tutti così magri. Dubitava avessero tutti il controllo fisico e mentale che avevano avuto i primi membri al loro tempo, un controllo tale che avrebbero ignorato anche un mattone in faccia, quindi poteva dedurne solo che fossero fatti di crack fin dal mattino alle otto.

"Fa strada, allora."

Liberarono il passaggio, e mentre si allontanavano poteva sentire paio a paio gli occhi appiccicati alle loro schiene. Non gli importava. Per un motivo o per l’altro era abituato a sentirsi guardato dalla gente, e aveva imparato a riconoscere ciascuno sguardo con estrema chiarezza.

Quelle persone non avevano paura di lui.

Sorrise tra sé e sé. Era esattamente come doveva essere.

Sotto l’albero non c’era nessuno. Era troppo presto perché una qualunque delle persone che ci andavano di solito fossero già a scuola, e nessuno era così stupido da passare nei paraggi con il rischio di farsi beccare ad invadere i loro spazi. Ovviamente, una restrizione che non esisteva in presenza del preside. Anche lui era come un cartellino per uscire gratis di prigione. Era ironico come, in un certo senso, Riku fosse in una botte di ferro.

Si girò e guardò verso l’entrata della scuola, anche se erano lontani.

Non aveva visto entrare Naminé.

Sperava di riuscire a scorgere di sfuggita almeno i suoi capelli biondo cenere, ma non ci riuscì.

Sarebbe andato a trovarla in infermeria.

Sapeva che non avrebbe dovuto, ma ci sarebbe andato.

"Che cosa c’è?"

"Pensavo che mi fa strano se sei tu a spingermi a marinare la scuola."

"Heh…sono stato un giovane indisciplinato anch’io, Riku."

"…perché vorrei dirti che ne dubito ma non ci riesco?" domandò incerto, con un tono di rimprovero. Il preside sghignazzò e sospirò: "Questo posto mi riporta alla mente tanti ricordi."

Riku li contò sulle dita: "Guerra, guerra, guerra, Ansem che impazzisce, guerra?"

"Non ho fatto solo la guerra, Riku. Se così fosse stato non so che cosa sarebbe stato di me." mise le mani in tasca e rimase in silenzio per un attimo "Quello che è certo è che ne ho fatta comunque troppa. E che non l’ho mai dimenticata."

Si girò verso di lui e lo guardò seriosamente. Riku sostenne lo sguardo per un attimo, poi ruotò gli occhi e lascio perdere. Odiava quello sguardo. Anche il preside lasciò perdere.

"Ho sentito tua madre, questa mattina."

Riku ruotò ancora gli occhi, e anche la testa. "Non puoi continuare a rivangare i vecchi tempi in cui tu e DiZ incidevate i vostri nomi sulla corteccia?"

Lui aggrottò la fronte: "Ti ho già detto che non--" si fermò e sorrise "Sciocco. E per inciso, a quei tempi Ansem aveva due soli interessi: la malvagità, e i ghiaccioli al sale marino."

"…ghiaccioli al sale marino?"

"Sì. Erano sia dolci che salati."

"Sembra disgustoso."

"Puoi giurarci, sembravano una forma di malvagità loro stessi!" la sua risata stemperò l’aria. Riku si sedette per terra, appoggiò la schiena contro il tronco dell’albero e si rilassò come non faceva mai quando non c’era lui. Non se lo poteva permettere, e col tempo aveva smesso di pensare di meritarselo. Chiuse gli occhi, e per un attimo si ritrovò alla prima ora di un lunedì di aprile. I ciliegi erano in fiore ed i loro petali volevano lungo le strade. L’intero Giappone sembrava chiuso in una pallina di vetro. Non c’era niente da temere, allora.

Ogni cosa era pulita…e pura.

"Ti dicevo che ho parlato con tua madre."

Istantaneamente, Riku sospirò seccato e il preside continuò: "E’ inutile che fai" imitò il suo verso "E’ preoccupata."

"L’ho chiamata ieri."

"L’altro ieri."

"Ho detto che era ieri."

"Non è quello che mi ha detto lei."

"Perché mamma è drammatica."

"Perché non tieni acceso il tuo cellulare?"

"Perché altrimenti ogni secondo che Dio manda in terra dovrei rispondere ai suoi messaggi. Non ci posso credere che è venuta a lamentarsi da te per il cellulare! A cinque anni non avevo un cellulare, eppure potevo andare a scuola senza che mi snervasse ogni dieci minuti per sapere se ero ancora vivo!"

"A cinque anni non andavi nemmeno in giro a fare lo Zatoichi, Riku, se permetti."

Riku sbuffò come un bambino impertinente, e questo non contribuì ad aggiungere maturità a "Tu stai sempre dalla loro parte!"

"Finché è la parte di quelli di quelli per cui a qualche ragione importa che quella testaccia dura ti resti attaccata al collo, sì, e non programmo cambiamenti."

Riku si alzò in piedi per fare l’uscita madre, ma il preside glielo impedì: "Riku, ascoltami. Piantala di fare queste pose da adolescente oscuro e incompreso con me e ascoltami."

Riku non disse nulla ma non si mosse.

"Sappiamo benissimo i due anni che hai passato. Non intendo toglierti questo. Ma Riku, li hanno passati anche i tuoi genitori."

"Voi non capite" disse. Il preside provò a parlare. Lui ringhiò: "Nessuno può capire."

Il preside sospirò e mormorò: "E chi osava dubitare del contrario…"

Riku stava per dire qualcosa ma questa volta fu l’altro a fermarlo, cambiando completamente tono di voce: "Accendi quel cazzo di telefono, e ritieniti sufficientemente fortunato perché tua madre non mi chiede semplicemente di prendere a calci ogni centimetro del tuo culo viziato fino ad Avignone."

Oh, no, la parlata da teppista no. Non era mai un buon segno.

"Era di questo che volevi parlarmi?" scattò sulla difensiva. Il preside si calmò subito, dopo aver appena sospirato. "No. Volevo solamente dirti che--"

E si interruppe, perché uno strillo che suonava all’incirca come un NATSUME SEMPAI! tuonò.

Riku si impietrì. Il preside sbatté gli occhi e constatò: "Sembra che una ragazzina ti stia cercando…"

"Non ho sentito niente" cominciò a ripetersi Riku, disperatamente "Non ho sentito niente, non ho sentito niente…"

"SEMPAIII!! SEMPAI LO SO CHE MI SENTI, TI VEDO BENISSIMO!! SEMPAAIIIIII!!!"

Il preside Mickey fece per alzare la testa in direzione degli strilli scimmieschi, ma Riku gliela fermò tra le mani "Non lo guardi. Se non lo guardiamo forse sparirà."

"NON SONO MICA UN FANTASMA, STUPIDO DI UN NATSUME!"

Riku si buttò le mani contro la faccia. Mickey guardò verso la finestra e constatò: "Quel ragazzo ha un udito prodigioso…"

Intanto si sentì una finestra sbattere e un’altra voce urlare "QUI STIAMO FACENDO LEZIONE, CHI E’ CHE STA URLANDO?!" e un’altra più giovane e gracchiante fare da sottofondo con suppliche e lamenti acuti, intervallati da "Donald, lasciami andare, Donald!!" e "SEMPAI, ADESSO ARRIVO!" strozzati.

"…che cosa vuol dire che adesso arriva?"

"Oddio."

"Non può uscire dalla classe, c’è lezione."

Riku già sapeva e temeva. Disse "andiamocene" il più in fretta possibile, ma il preside lo trattenne "Avrà qualcosa di dirti se si sgola così, no?"

"No, lei non capisce, quello è pazzo, è--" non fece in tempo a finire la frase che Yamaguchi puntò le ginocchia sul davanzale e cominciò ad allungare un braccio verso un ramo dell’albero, tirando calci agli amici che dietro di lui cercavano di riportarlo dentro. Troppo tardi. Le voci erano sempre più numerose.

"Ma è al secondo piano!" "E’ Yamaguchi! Si vuole suicidare!" "Yamaguchi, tuo fratello si sta buttando di sotto!" "YAMAGUCHI, SI PUO’ SAPERE CHE COSA STAI FACENDO?!" e ad un certo punto tuonò persino la voce di Ansem che gli intimava di tornare dentro.

Il preside Mickey accennò una risata. "Ah, è Yamaguchi! Quel ragazzo è sempre pieno di energie, vero?" alzò la voce "CERCA DI NON FARTI MALE, RAGAZZO!"

"E’ TUTTO SOTTO CONTROLLO, A CASA LO FACCIO SEMPRE!" strillò lui in rimando, mentre Riku diceva incredulo "Tu dovresti fermarlo!"

Il preside rise: "Perché? E’ così bello vedere una gioventù vivace in quest’era di internet!"

"Basta, io me ne vado." Non fece in tempo a fingere di mettere in atto il suo proposito che si scatenò un coro di "AAH!" e "OOH!" perché Yamaguchi adesso penzolava giù dal ramo dell’albero, mentre il vociare era diventato un vero e proprio tifo, tra i professori che sporti da ogni finestra ordinavano di rientrare in classe, gli studenti che lo incentivavano come ad un combattimento tra cani randagi e lui che rispondeva "TORNO PRIMA DELLA SECONDA CAMPANELLA, NON PREOCCUPATEVI!" come se questa fosse la chiave per rendere il suo calarsi giù dal secondo piano una cosa normale.

Mickey disse, un po’ preoccupato: "Non si farà male…? Forse avrei dovuto dirgli che poteva usare la porta…"

Riku non lo stava ascoltando. "E’ una malattia" si disse "E’ come un’influenza intestinale."

"AVANTI SO-CHAN!" una voce femminile che sovrastò tutte le altre "NOI SIAMO TUTTI CON TE, VAI E DICHIARA IL TUO AMORE!"

"NON STO ANDANDO AFFATTO A DICHIARARE IL MIO--"

"Yamaguchi, non ti sbilan…" cercò di avvertirlo il preside, ma troppo tardi, perché il ramo si spezzò. Il tempo di una frazione di secondo e il preside era scattato in avanti per prenderlo, ma Riku lo aveva tenuto fermo per un braccio, e dopo essersi fatto mezzo tronco strisciandoci contro con il muso Yamaguchi si sfracellò a terra come un piccione morto.

Tutti si zittirono, tranne un professore che gridava di chiamare un ambulanza e –ci mise il corsivo verbale- uno psichiatra, mentre qualcuno che chiedeva "ma è morto?"

Riku stava pensando di andare a pungolarlo con un bastone per assicurarsene e ringraziare che avesse provveduto da solo, quando Yamaguchi si alzò in piedi saltando, e grattandosi la testa disse "Ouch."

Riku sbatté gli occhi. Il preside Mickey guardò la finestra, poi guardò l’albero, poi lui, e domandò: "…ouch?"

"Yamaguchi non è umano!" disse qualcuno, mentre qualcun altro aggiungeva incredulo "Si è rialzato come nei cartoni animati!"

Yamaguchi si spolverò i pantaloni della divisa e si pulì il naso col dorso della mano. Aveva la camicia sporca, una manica strappata e la faccia completamente graffiata.

"Perché facevi finta di non sentirmi?!" domandò offeso.

Come se non fosse ovvio perché qualcuno sano di mente –e Riku non lo era completamente, il che la diceva lunga- facesse finta di non sentirlo!

Yamaguchi notò il preside, gli fece l’inchino e tornò a guardarlo, cambiando subito tono e battendo le mani: "Ti devo dire una cosa!"

"Ci mancherebbe che non mi dovessi dire niente!"

"E’ importante, non potevo assolutamente aspettare!" – stava gesticolando come in uno di quei drama per ragazzi, in cui gli attori cercano di riprodurre i movimenti tipici degli anime risultando ridicoli e un po’ inquietanti – "Ti ho cercato nella tua classe, e per i corridoi, sono andato anche in bagno e non c’eri, e poi ho guardato giù ed eccoti qui!" si fermò a riprendere un po’ di fiato "Ho chiesto al proff. di uscire, ma mi ha detto che non dovevo azzardarmi a varcare quella soglia, e così ho varcato quest’altra!"

Non stai ascoltando. diceva Riku al suo cervello.

"Comunque! Quello che volevo dirti…mi ascolti?"

Non rispose.

"Quello che volevo dirti è che siamo partiti con il piede sbagliato. Sì, insomma sai, non fingere di non averlo notato. Il fatto che i nostri personaggi siano diametralmente opposti, come luce e ombra, bianco e nero, vita e morte…"

Riku sentì il preside Mickey ridere alle sue spalle.

"…è scattata una reazione d’attrazione e respingimento che si è tramutata in rivalità."

"Non esiste il termine respingimento..."

"Però fa capire il concetto!"

"Inventarti le parole non valida i tuoi concetti."

Yamaguchi incrociò le braccia e lo guardò come se lo accusasse di stare guardando il pelo nell’uovo. Poi scrollò la testa come un cane bagnato e ricominciò, con il sorriso stampato sulla faccia: "Dicevo, non è colpa nostra se non andiamo d’accordo, è colpa del destino. Allora io dico: sfidiamo il destino!"

Riku sentì il preside Mickey ridere di nuovo.

"In realtà io ti rispetto molto, Natsume-sempai! Non ho mai visto nessuno così veloce, e vorrei averla io la tua forza nella mazza! Io sono più adatto a ricevere!"

Il preside scoppiò a ridere. Riku chiuse gli occhi e cercò di immaginare l’Apocalisse più cruento della sua intera esistenza.

"E in quanto a Kairi, sì, insomma, tienitela pure!"

"…Mi stai dando il permesso?"

"No, è più…una benedizione! Sì, ecco: io vi benedico! Siate felici insieme!"

"Che cosa gli sta dicendo?" sentirono domandare ad una voce, e altre rispondere "Non ne sono sicura, ma credo che lo stia corteggiando…" – "Ha detto che Kairi non gli interessa, e gli ha fatto i complimenti per la sua mazza…"

"Ah! Oh! Per tutta la storiaccia dei baci, non sono più arrabbiato! E’ stato uno scherzo, aha, LOL! E poi che sarà mai? Pazienza! Chissà quante ragazze che avrebbero voluto essere al mio posto, sono stato proprio fortunato, ahah!"

Mentre davanti ai suoi occhi Yamaguchi rideva isterico e probabilmente sul punto di un collasso nervoso, una voce confermava "Si sta decisamente dichiarando" e rapidamente la teoria si sparse in ogni finestra.

"Quindi!" come se fossero stati amici da una vita, Yamaguchi si fece avanti per battergli una mano sulla spalla. Riku scattò indietro. Yamaguchi si guardò la mano, la mosse un po’ e se la portò dietro alla testa, continuando a ridere come impazzito "E’ tutto a posto, vero? Seppelliamo l’ascia di guerra?"

Mickey dietro di lui accennò sghignazzando: "Vai Riku, sfida il destino!"

Lui punto saldi gli occhi su Yamaguchi: "Se questo significa che mi starai lontano, ti prego, sì."

"Ahah! Che forte che sei, sempai, sempre così Io Sono Un Duro, troppo cool!"

Mentre lui blaterava, dietro alle sue spalle sottili Ansem era sopraggiunto minaccioso, lo aveva afferrato e lo aveva trascinato via per la collottola. Mentre questo accadeva, ed i piedi di Yamaguchi sembravano falciare l’erba durante il tragitto, lui aveva agitato un’ultima volta un braccio gridando "NON VEDO L’ORA DI CORRERE CONTRO DI TE! CI VEDIAMO!"

Riku ne aveva ricevute di minacce, ma quel ci vediamo gli diede i brividi.

Le finestre una ad una si chiusero. Ritornò il silenzio.

Riku rimase fermo a lungo, mentre accanto a lui il preside Mickey continuava a sbottare in brevi risate che subito si rimangiava. Dopo un lungo momento di silenzio, disse: "Volevo dirti che Leon ti aspetta in infermeria tra la terza e la quarta ora."

Riku annuì, ma nessuno dei due si mosse.

*

"…sei uno zanryu koji?"

Axel spense quello che restava della sigaretta sul pavimento del deposito degli attrezzi. Roxas guardò attentamente la scintilla rossa spegnersi, come se avesse potuto significare qualcosa, poi si rese conto di rischiare uno strabismo e smise.

"Sei tu che me l’hai chiesto, via un po’ di tempo fa, no?"

"E’ stato ieri."

"…Whatevah."

Roxas decise di salvare la dignità, e di non fare il broncetto che gli veniva sempre all’idea che la vita di Axel fosse certamente più interessante della sua –anche perché era impossibile avere una vita meno interessante della sua, fatta forse eccezione per Sora, ma con la storia della rete e di Natsume persino lui aveva recuperato punti- e che quindi il suo unico passatempo non sarebbe mai stato sgranare tra le mani tutte le minuscole palline di tempo che avevano passato insieme, e catalogarle, appiccicarle tipo foto sul suo album mentale e scriverci dietro una didascalia per essere sicuro di non dimenticarsi niente.

Non era la sua cazzo di fidanzata.

E comunque c’era un motivo per cui Roxas ricordava così bene il giorno precedente: Sora aveva dato il colpo di grazia alla sua già precaria vita sociale, e persino Hyner, Pence e Olette non gli erano corsi dietro per salutarlo prima che andasse a casa, come facevano sempre.

Non era quello che Axel gli aveva detto sotto l’albero. Non era il modo in cui per un attimo lo aveva sentito intimo, amico, quasi. Non era perché in quel momento le sue labbra erano state così calde sul suo collo, i suoi denti spietati dentro la sua pelle, la stretta delle sue gambe attorno ai fianchi così possessiva che si era illuso di poterci scomparire dentro e diventare una parte di lui.

Non era per nessuno di quegli stupidi motivi.

Si girò su un fianco, constatando ancora una volta la durezza impressionante della coscia di Axel sotto la sua tempia (e sì, questa volta aveva controllato: non era niente di estraibile e che potesse far saltare in aria la testa di qualcuno). Sembrava fatto solo di muscoli e tendini direttamente intrecciati attorno alle ossa. Non era un poggiatesta comodo, ma lui stava bene lo stesso.

Inghiottì uno sbadiglio. La penombra del ripostiglio gli faceva venire sonno e aveva dormito poco e male, tra immaginare ogni possibile rappresaglia scolastica alla sua adesso pubblica e pubblicizzata omosessualità, e Sora che continuava a rigirarsi e sghignazzare come uno psicopatico dicendo cose equivoche su Natsume.

Continuò a parlare per non addormentarsi.

"Dove hai vissuto?"

Non si aspettava che Axel rispondesse davvero, ma si scoprì affatto stupito quando invece lo fece.

Axel poteva fare e non fare qualsiasi cosa. Non aveva motivo per fare o non fare niente.

"I miei genitori hanno lasciato il Giappone quando avevo tre anni. So che siamo stati in California finché non ho compiuto cinque anni, poi i miei devono essersi…checcazzo ne so, presi una portierata in faccia da una Chervy mentre pattinavano sui rollerblade in costume da bagno, e si sono ripigliati. Così ci siamo trasferiti nel Regno Unito. Sono tornato quasi due anni fa."

"Quanti anni avevi?"

Axel gli picchiettò la testa con un dito: "Non ti darò i mezzi per calcolare la mia età."

"Non puoi biasimarmi per averci provato." -esitò per un attimo, poi decise di non appoggiare una mano sulla sua coscia- "…com’è stato? Ritornare in Giappone, intendo."

"Non ci sono ancora tornato, con la testa. Sospetto che quando succederà salirò sul tetto con un M16."

"Mi avviserai il giorno prima, spero."

"Perché dovrei?"

…certo, perché avrebbe dovuto? Andato lui, un’altra decina di mocciosi stronzi l’avrebbero sostituito.

Axel avrebbe portato qualcun altro nel ripostiglio degli attrezzi, avrebbe baciato e masturbato qualcun altro, e qualcun altro sarebbe rimasto per un po’ così, con la testa sul suo grembo e gli occhi che si chiudevano tranquilli come se fosse stato al sicuro.

Sicuramente già succedeva.

Quasi sicuramente non avrebbe dovuto aspettare che Axel imbracciasse un fucile e sparasse sulla scuola per rendersene conto.

"Non voglio morire in un omicidio di massa, in quelli sono importanti i numeri. E’ così…giapponese. Non voglio morire da giapponese. Almeno quando crepo voglio essere la star."

Axel gli mise una mano tra i capelli e cominciò a grattargli lentamente la testa. Anche se aveva i guanti era una sensazione incredibilmente piacevole, e per un attimo pensò di miagolare in segno di apprezzamento.

"Non hai tutti i torti. Ripensandoci potrei buttarti giù dal tetto, prima di cominciare a sparare. Per attirare l’attenzione."

Roxas aggrottò titubante la fronte: "Non voglio nemmeno morire in modo così spaventoso…"

"Hai troppe pretese sulla tua morte, tanto non è mai come te la aspetti. Non conosco nessuno che me l’abbia confermato, ma sono abbastanza sicuro che faccia sempre schifo."

"Tu comunque sparami prima. Poi buttami giù, o profana il mio cadavere, non m’interessa."

Non lo vide, ma sentì chiaramente il suo ghigno felino e lascivo.

"Dovrei spararti nello stomaco per non rovinarti troppo. Devi essere estremamente scopabile da morto. "

Roxas si girò, in modo da poterlo guardare in faccia. "Può darsi. Vuoi provare?"

"Nel momento in cui ti dimostrerai un caso perso da vivo."

"Hai una pistola, vero?"

"Conosci già la risposta."

"Sparami."

Axel rimase a guardarlo per un attimo, e Roxas sbatté gli occhi per scacciare via qualsiasi cosa sentisse.

"Piantala."

"Perché?"

"Non sai fino a che punto puoi provocarmi. Ti consiglio di non arrivare troppo vicino a scoprirlo."

"Non voglio provocarti. Prendilo come un favore, sparami."

"Perché dovrei farti un favore?"

"Perché non dovresti?"

Con gli occhi un po’ duri, il viso tranquillo, Roxas cominciava ad avere paura.

Non era l’idea di non conoscere affatto l’uomo col quale stava parlando, e di non avere idea di quale fosse il metro delle sue azioni, ma piuttosto la limpida e placida indolenza del sapere invece quanto poco gliele importasse.

Non c’era niente, a conti fatti, che gli importasse, riguardo a questa faccenda della vita.

C’era Naminé, certo, e lei sicuramente aveva bisogno di lui, ma poi? Era molto, ma comunque non abbastanza.

A conti fatti, Roxas sarebbe stata una specie di vittima politicamente corretta per qualunque assassino. Non avrebbe sofferto più di tanto. Meglio lui che qualcuno con delle ambizioni, dopotutto.

Stava ancora guardando fisso i verdi, verdissimi occhi di Axel, che ora scintillavano come braci attizzate, mentre gli accarezzava pensieroso il collo con le dita.

Roxas ingoiò e non smise di fissarlo. "Dai. Sparami."

Senza distogliere lo sguardo da lui, Axel portò lentamente una mano alla cerniera del cappotto. Lo aprì, con calma, e mentre si tirava fuori la pistola dai pantaloni Roxas venne ancora una volta ammaliato dal suo petto, specialmente dal piercing al capezzolo che brillava, assumendo la colorazione cupa della stanza. Avrebbe voluto alzarsi e leccarlo, sentirne la consistenza fredda sulla lingua, sentire che era d’acciaio, ed era vero, e che Axel era vero. Che era lì.

Gli sembrava di non aver toccato niente per tutta la vita, e che niente avesse mai toccato lui.

Gli sembrava di aver vissuto per quattordici lunghi anni intrappolato in una teca di vetro. Erano tutti intrappolati in una teca di vetro, divisi l’uno dall’altro, intorpiditi.

Ma Axel era caldo.

Era crudo, ed era vicino, così vicino da sentirsi soffocare, a volte.

Dipendeva dal fatto che non fosse veramente giapponese?

O era un effetto che faceva solamente a lui?

Quando sentì l’acciaio freddo della sua pistola premere contro le labbra non esitò un attimo a schiuderle, ad aprire la bocca, ad accoglierla. Non poteva esserne sicuro, ma gli sembrava di sentire il sapore della polvere da sparo sulla lingua. Guardandolo Axel la ritrasse leggermente, e lui come un pesce preso all’amo la seguì, la tenne stretta, e lentamente la riportò indietro, fino a quando non fu di nuovo sulla sua coscia, dentro ai suoi occhi, con la canna fredda e dura che gli riempiva la bocca.

Axel non disse niente. Sembrava solennemente ammaliato. Roxas provò un inebriante senso di piacere rendendosene conto, e fu ancora più forte quando l’arma scivolò di nuovo fuori dalle sue labbra, ma invece di allontanarsi ancora rimase lì, ferma, in attesa.

Lui non ci pensò due volte e tirò fuori la lingua, con la punta seguì il bordo frastagliato, poi cominciò a leccarla, più morbido, girandole languido attorno, e anche quando la prese nuovamente in bocca e sentì Axel che toglieva la sicura si stavano ancora guardando negli occhi, e nient’altro era importante.

Solo che Axel lo guardasse così.

Sarebbe andato avanti per ore, sospeso come un elastico teso al massimo dal cielo verso la terra, ma dopo un po’ lui gli tolse molto, molto lentamente la pistola dalla bocca. Roxas sentì il crick della sicura, il tlack dell’arma pesante posata contro il pavimento.

Axel non aveva smesso di guardarlo nemmeno per un attimo, e Roxas capì.

Si girò su un fianco, rivolto verso l’interno. Pensò che fosse pazzesco sentire così forte l’odore del sesso di un’altra persona. Quell’odore gli piaceva incredibilmente tanto. Si avvicinò, e non sapendo bene cosa fare si limitò a sfregarci contro il naso, come un animaletto curioso.

Senza dire niente Axel si abbassò la zip, ed il rumore a lui sembrò molto più forte di qualsiasi sparo.

Bang. Perché una cosa che ti può uccidere ha un’onomatopea così ridicola?

Nel momento in cui Axel lo guidò e chiuse gli occhi, Roxas seppe di aver appena cominciato ad aprire i suoi.

*

"Ma che cosa avete che non va voi due?"

La domanda era stata posta con una tale serietà che per un attimo aveva pensato di dover effettivamente rispondere, ma era ancora tutto indolenzito dalla caduta, e a furia di stare teso come una sardina essiccata sulla sedia, quando aveva provato a muoversi il dolore alle ossa era stato come l’avviso di stare zitto.

Anche Roxas, sbattuto come un branzino appena pescato sulla sua sedia, sembrava dello stesso avviso.

Chiedendosi come suo fratello potesse essere così calmo mentre la loro vita veniva potenzialmente rovinata per sempre da una nota di demerito sul registro, Sora buttò un occhio all’orologio appeso alla parete e smise di preoccuparsi del suo futuro prossimo per pensare invece a quello immediato; ormai erano lì dentro da un’ora e un quarto, e cominciava a temere che non avrebbero mai più visto la luce del sole, e non così per dire: il professor Ansem faceva paura.

Girava una voce su di lui.

Che era pazzo.

Ok, non era una voce molto articolata, e comunque anche di lui dicevano che era pazzo ma non era assolutamente vero, però, insomma, magari il professor Ansem non era proprio pazzo, ma sembrava pazzo. E se ci stai chiuso da un’ora e un quarto nello stesso stanzino senza testimoni oltre al tuo apatico fratello che se gli tagliassero un braccio sarebbe capace di criticare l’esecutore per l’utilizzo approssimativo del seghetto, la differenza non è proprio abissale. E anche il pensiero che se Ansem avesse fatto a pezzi prima lui, Roxas avrebbe pensato "…triplo letto, forte!" prima di scappare dalla finestra non era d’aiuto.

Sora cercò di riflettere su quali delle leggende che si raccontavano sul professor Ansem potessero essere vere. Qualcuno gli aveva detto che una volta un suo studente aveva dato fuoco ad una striscia di bianchetto sul banco durante la sua ore, e la sera stessa era scomparso e nessuno l’aveva mai più rivisto. (è anche vero che non si dà fuoco ai banchi, non puoi aspettarti che non ti succeda niente se lo fai)

Gli avevano anche detto che da giovane, Ansem era stato un membro dei Tredici.

Cioè, wtf. Un professore. Anzi, il vice-preside! Studenti teppisti, professori teppisti, poi cosa, il custode teppista? La dottoressa teppista? (…mh, certo che la signorina Gainsborough…) Se doveva essere la scuola di Tenjou Tenge tanto valeva che ci fossero anche i tornei mortali, le arti marziali fichissime e le donnine tettone a cui per qualche motivo si strappava sempre sempre la camicia.

A questo pensiero si colpì con forza un ginocchio per punirsi (lui amava solo Kairi, non avrebbe mai avuto altre tette all’infuori delle sue, anche se le sue in effetti non si era più azzardato a dirglielo dalla volta che si era preso un cazzotto in testa a undici anni, ma lasciavano un po’…beh, ecco, erano un po’ inconcludenti…) e gli sembrò di vedere Ansem scattare sulla difensiva.

Oh mamma, adesso lo ammazzava!

"Io proprio non capisco. Posso capire tuo fratello, che è così…" una pausa "esuberante. Ma non capisco per quale motivo un ragazzo intelligente e giudizioso come te debba rischiare di compromettere il proprio futuro per un simile individuo."

"Guardi che lo so benissimo, che cosa crede!" scattò Sora, infervorato perché la sua intelligenza veniva messa in discussione "Non avrà mica creduto che intendessi davvero tutte le sciocchezze che ho detto a quel pallone gonfiato di Natsume, voglio sperare! In realtà fa tutto parte di un piano per--"

"Stava parlando con me, Sora." disse Roxas, annoiato.

"Ah. Uh, ok, ero distratto."

"Questo è il momento più delicato delle vostre vite." ricominciò Ansem "Che idea volete che si facciano le persone di voi? Come farete a fare le giuste conoscenze, e come pensate di essere ammessi in una buona università?"

Sora strabuzzò all’improvviso gli occhi: "Ehy, un secondo, che voleva dire che sono esuberante?!"

Come se all’improvviso si fosse reso conto di non avere più niente da dire, il professor Ansem scosse lentamente la testa –con una muta nota di rimprovero che somigliava al disgusto- e disse: "Va bene. Andate. Non perdiamo altro tempo."

Roxas si alzò all’istante e fece un inchino svogliato. Sora cercò di rimediare facendone uno per bene e ringraziando (anche se faceva un po’ sadomaso ringraziare per un’ora e mezza di sgridone, ma vabbè, gli importava solo di fuggire da lì).

Si stavano già girando quando Ansem aggiunse: " Sappiate solo che altre bravate di questo genere non saranno tollerate. E’ per il vostro futuro." una breve pausa in cui guardò entrambi, specialmente Roxas "Cercate di tornare in carreggiata, ragazzi."

Sora annuì e fece un altro inchino. Il professore augurò loro una buona giornata ed uscirono.

Oh cielo, era libero. Cominciava già a sentirsi istituzionalizzato.

Si sturò le orecchie tappandole e stappandole con le mani e dopodiché fece uno strascicato sospiro di sollievo: "Non ci posso credere, è finita!"

Roxas fece spallucce, e di colpo Sora gli mise il broncio. Lo scrutò attentamente, e incrociando le braccia sul petto disse: "Amoreggi ancora con quel tipo."

Dal tono che aveva usato sembrava che glielo stesse facendo notare, come se Roxas si fosse trovato per sbaglio con la lingua di quello scellerato in bocca e non ci avesse fatto caso. Sora sperava ardentemente che fosse così, ma dalla loro ultima discussione non era uscito niente di buono, quindi evitò di far presente anche questo dettaglio. In cuor suo, sperava che Axel ricattasse Roxas in cambio di sesso, o che lo stuprasse abitualmente e che lui avesse troppa paura per dirlo a qualcuno. Insomma, meglio che essere praticamente un suicida!

Purtroppo, il modo in cui Roxas disse "lasciami in pace" non sembrava quello di qualcuno che viene abitualmente seviziato da un maniaco bastardo. Sperò che fingesse solo molto bene. in fondo Roxy era sempre stato un po' sulle sue. Doveva fare più attenzione a guardare se aveva qualche segno sul corpo. Poteva chiedere a Naminé se sapeva qualcosa …intanto, Sora alzò le mani all’altezza delle spalle: "Non ho detto niente."

Roxas lo guardò come se volesse accertarsene, poi si ficcò le mani in tasca e cominciò a camminare. Per avere il carattere che aveva ed essere strato strigliato per tutto quel tempo, non sembrava di cattivo umore. Anzi. Poteva giurare di averlo visto ridacchiare, mentre erano sotto torchio, ogni tanto.

"Doveva vai?"

"In classe. Mi sembrava questo l’argomento in discussione."

Si mise le mani in tasca anche lui e aumentò il passo per portarglisi accanto. Avrebbe voluto dirgli che con lui poteva essere sincero eccetera eccetera, ma non sapeva come introdurre la questione. Si rendeva conto persino lui che per queste cose c’era bisogno di tatto.

"Senti, ma Axel ti stupra?"

L’utilizzo del termine stupra anziché violenta gli sembrava delicato abbastanza. Roxas si fermò per un attimo, lo guardò male e poi proseguì. Ok, non si aspettava certo una confessione tra lacrime. Comunque ne sarebbe venuto a capo. Con calma. Aveva cose più urgenti da fare, adesso.

E subito quella cosa si materializzò sotto la finestra che stava costeggiando.

(il fatto che ultimamente tutti gli eventi della sua vita si susseguissero a ritmo così serrato nonostante ogni giornata sembrasse durare SECOLI cominciava a farlo pensare)

Appiccicò il naso –spellato per la caduta- alla finestra e Roxas disse, senza guardare: "Fammi indovinare, c’è sotto Natsume."

Sora annuì, lasciando sul vetro il segno appannato del suo naso.

"Perché non mi stupisce?"

"In effetti ci stavo pensando anch’io poco fa e---" aprì di scatto gli occhi e picchiò la fronte contro la finestra come per svegliarsi "Vado da lui!"

"…perché non mi stupisce neanche questo?"

"Ok, mi butto!"

Roxas gli afferrò con forza il braccio. Sora aggrottò le sopracciglia e specificò: "Metaforicamente!"

Roxas lo lasciò andare. Poteva già essere sufficientemente commosso che non ce lo avesse spinto, giù dalla finestra. Non sapeva come mai, ma dall’episodio sotto l’albero quando Roxas gli passava vicino aveva come la sensazione che qualcuno stesse camminando sulla sua tomba.

Non è una cosa rassicurante. Per niente.

Scosse di nuovo la testa: "Vado, prima che mi scappi!" e fuggì via il più velocemente possibile, accorgendosi così che gli cigolava un ginocchio. Uff. A cinque anni questo non gli succedeva, cadeva da diecimila piante diverse al giorno e subito dopo era pronto per…per…cadere dallo scivolo!

Corse lungo le scale saltano gradini a manciate, e quando fu fuori dall’edificio guardò in alto per capire sotto quali finestre fosse e quindi chi avrebbe potuto vederlo. Comunque, doveva essere un ninja.

Si armò di determinazione e pazienza e cominciò a strisciare lungo i muri come Solid Snake quando deve eludere la sorveglianza delle sentinelle e contemporaneamente schivare il raggio visivo delle telecamere.

Dopo pochi metri, la sua furtività tipica di chi ha finito tutti gli MGS dieci volte…ok, di chi ha visto suo fratello finire tutti gli MGS dieci volte, ma fa lo stesso, la metà delle persone che dicono di aver finito un gioco in realtà l’hanno visto finire a qualcun altro, dando però contributi essenziali come imitare il doppiaggio e dire "spara, spara, spara!" quando era ovvio che c’era da sparare –beccandosi così solerti "taci o levati dal cazzo" dal giocatore.

E per la cronaca, aveva visto ben poca gente chiedere a Roxas come sconfiggere Liquid, mentre la sua imitazione di Grey Fox faceva ancora dire ooooh, quindi a conti fatti non c’erano dubbi su chi si fosse guadagnato davvero la gloria.

…comunque.

La sua furtività tipica di chi ha visto finire tutti gli MGS dieci volte venne polverizzata nel momento in cui qualcun altro che aveva finito o aveva visto finire Metal Gear Solid altrettante volte lo spaventò a morte tuonando dal nulla: "Il vecchio Snake non avrebbe avuto bisogno di quell’arma!"

Sora fece un salto altissimo, e quando ripiombò a terra si girò di scatto solo per trovarsi davanti una ragione in più per saltare di nuovo, gridare aiuto, togliersi il cravattino, arpionarlo al tetto, legare l’altra estremità alla cintura e volare verso la salvezza. Se solo il suo cravattino fosse stato un po’ più lungo. E futuristico. Stupido cravattino!

Stretto all’angolo pigolò: "Non sono Roxas, vai via!"

"Da dietro vi somigliate tutti" rispose quello leccandosi le labbra. Sora sentì uno strato di pelle d’oca della solidità del calcestruzzo ricoprirgli la schiena e si spiccicò contro il tubo della grondaia. Poteva scalarla? Che diavolo, aveva fatto cose più improbabili di quella! Magari mettendo il piede---merda, non era la grondaia. Stupida scuola con gli angoli esterni arrotondati, chi diavolo l’aveva progettata, CHI?!

Axel cominciò ad avvicinarsi al passo lento e felpato di un predatore, con le mani in tasca, disattento - e questo lo rendeva ancora più spaventoso.

"Ah, Metal Gear Solid. Lo sai che cosa apprezzavo di quel gioco?"

Sora cercò di farsi minuscolo contro l’angolo: "…l…l’innovativo uso degli ambienti tridimensio…na…li…?"

"No." si fermò un attimo "Beh, sì. Anche. Ma principalmente no. Principalmente apprezzavo come l’intelligenza artificiale del nemico e le opzioni obbligatorie di gioco fossero limitate con buon senso allo stretto indispensabile, in modo da lasciare il libero arbitrio al giocatore e non frustrarlo più di quanto la vita non faccia già di per se tutti i giorni. Voglio dire…quando Grey Fox scassa le balle con questa storia se permetti un po’ morbosa del combattimento corpo a corpo, no? La base del combattimento eccetera eccetera, tu ti aspetti che il menù come minimo ti blocchi le armi…e invece no! E la genialità sai dove sta? Che il gioco non è scemo cazzo, tu non puoi imbracciare il tuo FAMAS e cominciare a fare fuoco come Tony Montana, quello c’ha la mimetica ottica, non solo non lo vedi, ma il campo magnetico ti sfancula i proiettili… no?"

Sora lo guardava a metà tra il terrore e la perplessità, e non capendo dove volesse andare a parare supplicò: "Non puoi uccidermi subito…?"

Axel gli fece segno di aspettare con la mano. "E tu pensi: cazzo. Questo stronzo mi tocca davvero prenderlo a pugni. Poi…l’idea. La CHAFF. Tu la lanci e BOOM questo torna visibile, si contorce in preda agli spasmi di dolore, e allora SI’ che tu tiri fuori il ferro grosso e gli scarichi addosso tutti i caricatori che hai finché non fa la fine del coglione che è. Dio, quel gioco è semplicemente fantastico!"

Con lo sguardo pieno di dolore Sora singhiozzò: "Sei un mostro."

"Scusa, sto parlando."

Sora tirò su col naso, afflitto. Quella carogna non aveva pietà nemmeno di un veterano di guerra che chiedeva solo di combattere da veri guerrieri. Era spacciato.

"Dicevo…e mi stanno in culo questi giochi moderni che ti devono ricreare a tutti i costi un ambiente di gioco realistico. Ma che cazzo. Se voglio il realismo sparo alla gente in un supermercato. Tu spiegami perché devo giocare a un gioco in cui la CPU ti fa sentire una merda. No, tu spiegamelo."

Sora inghiottì, paralizzato dalla paura.

Axel alzò la voce: "Ho detto che me lo devi spiegare."

"P-per intensificare l’esperienza di gioco!"

Axel ci rifletté sopra per un attimo e si calmò. "Sì, sarebbe una bella risposta. Sarebbe facile. Ma purtroppo questa cosa non è la verità."

ADESSO LO AMMAZZAVA, ADESSO LO AMMAZZAVA!

"Tu leggi la bibbia, Sora?

"Che cosa?" domandò in preda alla disperazione e con le lacrime agli occhi.

"C’è questo passo che conosco a memoria, ascolta, è perfetto per l’occasione" e sotto ai suoi occhi all’improvviso spalancati come portoni quello psicopatico tirò fuori dalla giacca una pistola più grossa di lui, gliela puntò contro e cominciò: "Ezechile 25.17. Il cammino dell’uomo timorato---"

"AAAAAAAAAAAAH!!!!"

Sora si sfracellò contro al muro, crollò a terra, si aggrappò all’erba per trascinarsi via continuando a strillare e singhiozzare come un disperato, ma quello squilibrato del cazzo gli piazzò un piede sulla schiena e praticamente lo inchiodò al prato. Come diavolo poteva essere così forte, come?!

"—è minacciato da ogni parte dall’inequità degli esseri egoisti e dalla tirannia degli uomini malvagi. Benedetto sia colui che nel nome della carità e della buona volontà, conduce i deboli attraverso la valle delle tenebre--" Sora si strinse la testa tra le mani e cominciò a pregare, poi si ricordò che non era cattolico e che la sua stupida religione che non aveva mai praticato non aveva nessuna stupida preghiera e che se c’erano non se le ricordava e stava morendo in modo assurdo a quindici anni per mano di un cinefilo psicopatico senza nemmeno avere mai fatto sesso con una ragazza-- "perché egli è in verità il pastore di suo fratello e il ricercatore dei figli smarriti." -- e si rese conto che in qualche modo era tutta colpa di Natsume. La sua vita era così tranquilla prima che arrivasse. Aveva tanti amici, stava per sbancare la festa dello sport, in un certo senso aveva anche una fidanzata, o comunque era in procinto di averla, e invece per colpa sua era lì, adesso, e se mai si fosse alzato avrebbe preso quel maledetto, oh, se l’avrebbe preso, e gli avrebbe rovinato la vita come lui aveva fatto con la sua, gli-- "E la mia giustizia calerà sopra di loro con grandissima vendetta e furiosissimo sdegno su coloro che si proveranno ad ammorbare e in fine a distruggere i miei fratelli." AAAH! AAAH! AAAH!! "E tu saprai che il mio nome è quello del Signore, quando farò calare la mia vendetta sopra di te."

Sora strillò più forte di quanto non avesse mai strillato in vita sua, ma un’orribile, ORRIBILE scarica di tre colpi assordanti come tuoni gli esplosero nelle orecchie. Se le sentì lacerare, il cervello andare in frantumi. Qualsiasi cosa stesse succedendo dentro il suo corpo si bloccò e riuscì solamente ad immobilizzarsi, e chiudere fortissimo gli occhi.

Li riaprì solo dopo un lunghissimo momento, quando si rese conto del silenzio innaturale che lo aveva circondato. Era morto? Se era morto ed il suo destino era infestare la scuola per l’eternità, era stata una bella fregatura, non c’è che dire.

Aveva le orecchie tappate, come se fosse stato sott’acqua.

Non sentiva più niente.

Il sangue gli pompava all’altezza delle tempie, e se provava a respirare un forte odore di bruciato gli riempiva la gola e le narici.

Poco lontano dalla sua testa, la terra stava fumando.

Non ci pensò più di mezzo secondo quando alzando appena la testa vide delle gambe profilarsi all’orizzonte: si mise a quattro zampe, facendo cigolare tutte le ossa intorpidite dalla paura, e si avvinghiò a loro, senza sapere di chi fossero, senza sapere che cosa stesse succedendo, senza sapere niente – se non che le gambe facevano un forte odore di pelle, e forse di plastica.

D’un tratto le orecchie gli si stapparono. Fu dolorosissimo, ma non ricominciò a sentire bene. Riconosceva le voci, però, e qualche parola spezzata dal ronzio. Richiuse gli occhi, stringendosi fino allo spasmo intorno alle gambe sconosciute e tremando.

"Sei il solito cretino, Axel."

Mani sui fianchi, lunga treccia dondolante, sguardo da maestrina oltraggiata. Era la dottoressa Gainsborough, ma non erano suoi i polpacci a cui si era arpionato. Erano troppo grossi, duri, e i pantaloni di una stoffa troppo rigida.

Quando Axel parlò, Sora serrò ancora più forte gli occhi e le labbra.

"Rotfl" fece finta di ridere, poi in tono amichevole e compagnone disse "Ehilà Squall, sei ancora vivo? Il colonnello Caraway non ti ha ancora fatto la pelle?"

"Stai zitto, Axel" disse la voce bassa e sconosciuta. Era la voce delle gambe, di sicuro, perché gli sembrò di sentirle vibrare. Forse era vero che quando perdi un senso se ne sviluppa un altro? Con che senso senti delle gambe tremare, il tatto? …oddio, non voleva affatto aver perso un senso! e rinunciando alla presa di una mano cercò disperatamente di stapparsi un orecchio, senza risultato.

"Ragazzi, voi lo sapete perché Squall a cambiato nome?"

"Che cosa sta succedendo qui?!"

Non riconobbe la voce. Troppo flebile, indistinta nel brusio e mal modulata, come da un sintetizzatore rotto, ma riconobbe subito lui: il preside Mickey.

Sora era sempre stato debole di fronte all’autorità, da quella di sua madre a quella dei professori, ma in quel momento, per la prima volta, fu felice di essere sempre stato disposto ad accettare che il potere assoluto potesse stare nelle mani di una sola persona.

Gli occhi stavano cominciando a bruciargli, però. Li sfregò contro i pantaloni delle Gambe. Provò a riaprirli, ma ci riuscì solo a metà, e con grande fastidio, così li richiuse, sperando che la terra e chissà che cos’altro non gli corrodessero gli occhi e non lo facessero diventare cieco, visto che molto probabilmente stava già diventando sordo. Va bene, confronto a quello che poteva capitargli era il minimo, ma gli sarebbero comunque girate le palle. Anche se Kairi si sarebbe sicuramente impietosita. Forse avrebbe potuto raccontarle del suo piano per salvarla da Natsume, e sentendosi in colpa l’avrebbe sposato e sarebbe rimasta con lui per senso del dovere per tutta la vita.

…oh, sì!

Poi qualcuno gli posò una mano sulla spalla. Senza delicatezza, ma con sicurezza. In quel momento gli sembrò infinitamente meglio.

"Tu stai bene?"

Sora annuì, nonostante sentire poco più di un tubo e non riuscire ad aprire gli occhi per più di un attimo non gli sembrasse esattamente bene, e un attimo dopo realizzò: era la voce di Natsume.

Cercò di tirare su col naso, ma il terribile odore di bruciato gli si sparò all’altezza della fronte facendolo stare male. Soffiò, cercando di mandarlo via, e le Gambe dissero: "Si sta soffiando il naso nei miei pantaloni?!"

"Lascialo stare, Leon" disse la dottoressa Gainsborough, e quello borbottò "certo, sono i miei pantaloni", ma se non altro non gli diede il calcio che Sora aveva inizialmente temuto di stare per ricevere.

"Axel, non mi hai risposto." disse minaccioso il preside Mickey.

"Certo che no, è subentrata la narrazione…ehy! Ci sono! Mycroft Holmes, Henry Jekill, Mina Murray, l’Uomo Invisibile…" batté le mani "Siete la lega degli Straordinari Gentlemen!" abbassò il tono di voce "Non vedo il capitano Nemo, deve essersi già ritirato…"

"I vetri sono oscurati e c’è un sorvegliate per ogni classe. Che cosa è successo?"

"Ecco il capitano Nemo!"

"Niente, è solo Axel che deve farci vedere quanto ce l’ha grosso, come al solito" risposero le Gambe, più seccate per aver perso tempo che non per l’effettiva gravità della situazione.

"Ehy ehy ehy—ce l’ho io una spada che spara?"

"Non è che abbia proprio tutti i torti…" mormorò Natsume.

La dottoressa Gainsborough ridacchiò: "Non è detto che spari sempre, devi premere il grilletto nel modo giusto."

"Non fraintenderci, ammiriamo la tua abilità nel riuscire a far sparare quel coso così spesso nonostante i tempi di ricarica. Hai anche una certa età, insomma…hai tutto il mio rispetto."

Ridacchiarono tutti come vecchi amici, mentre le Gambe borbottavano "Ho in carica sette colpi, posso sbagliare quattro volte, sappiatelo."

All’idea che quelli si divertissero mentre lui non si era pisciato addosso dalla paura solo perché stava in una storia troppo carina per farlo gli veniva da piangere, ma non poteva perché gli bruciavano troppo gli occhi –anche se le lacrime li avrebbero disinfettati, ma lui odiava guarire tramite l’inflizione di altro dolore, lo trovava un controsenso. Voleva essere sfondato di medicine e basta.

"Voglio sapere che cosa è successo" insistette il preside Mickey, riuscendo almeno in parte a far rientrare la discussione. Axel si accese una sigaretta e se la prese comoda. Dopo aver fatto e rilasciato con calma il primo tiro disse: "Stavo prendendo in giro Yamaguchi."

"Yamaguchi?" sentì domandare il professor Ansem con un tono che non prometteva niente di buono. E fu anche peggio quando aggiunse: "Quale dei molteplici?"

"Quale rimpiangerei di più se gli prendesse un coccolone, quello che fa il funamboliere o quello che mi fa i pompini?" un pausa "…cazzo, ora che mi ci fai pensare…"

"Merda Axel, la prossima volta mettici un cuscino davanti a quel cannone fottuto, stavo dormendo."

Un’altra voce. Una nuova. Sora aprì gli occhi quanto bastava per riconoscere due macchie nere, sovrastate da spruzzi insoliti di colore. Non gli serviva altro.

Erano Demyx…e Marluxia.

In che cosa si era cacciato?

…ok, doveva stare calmo. in fondo il professor Ansem non si era accorto di lui finché non gliel’avevano fatto notare. Forse la cecità lo stava portando a diventare tutt’uno con la natura. Si stava allineando con le cose. Sarebbe diventato un maestro della mimesi, sarebbe---

"Quello non è Yamaguchi?" domandò Demyx, indicandolo.

Bene. Piano B.

"E chi sarebbe, di grazia?" domandò Marluxia. Poteva sentire il vento tirare dalla sua parte, tante erano le arie che si dava (ehy, anche da parzialmente disabile era davvero brillante! Meno male, era tutto il giorno che gli sembrava di fare solo paragoni con i pesci…). Demyx rise: "Figurati se non conosci il pazzo Yamaguchi!"

Axel annuì: "E’ forte. E’ la scimmietta della scuola."

Marluxia non diede loro corda. Era una di quelle persone che devono farti vedere a tutti i costi che sono serie, e che mai nella vita rideranno del tuo patetico umorismo, né si abbasseranno a divertirsi, perché la reputano una cosa da perdenti.

…era Riku Natsume, in pratica.

"Non lo conosco. E non conosco nessuno di questi qui." poi sorrise, con un largo gesto del braccio "A parte ovviamente il nostro Re, il suo lacchè e…credo di aver già visto il ragazzino candeggiato, è possibile? Testa rasata, novanta gradi, pistola alla tempia, il cazzo di Lurxord in bocca…" si fermò e rise giovialmente "No, scusa, ti confondo con la tua donna. Errore mio."

Sora aprì leggermente gli occhi, e guardò verso Natsume.

Lui non rispondeva. Non si muoveva. Ciononostante, il preside Mickey disse "Riku…" come se stesse cercando di calmare un pitbull sul punto di sbranare un bambino.

La…la sua donna?

Quindi Natsume…

…lui…

…lui aveva una fidanzata ed aveva comunque fatto il cascamorto con Kairi??!! Oh mio DIO, come poteva far finta di essere amico di una persona del genere, gli veniva da VOMITARE!!!

"A proposito di donne!" se ne uscì Axel, pimpante "Ragazzi, voi lo sapete perché Squall ha cambiato nome?"

"Axel, taci." dissero le Gambe.

"Io volevo saperlo…" puntualizzò Demyx. Axel si girò verso di lui e disse: "Si dice che a diciassette anni, n preda a delirio ormonale, Squall abbia giurato amore eterno a questa brunetta carina che--"

"Natsume, levami di dosso questa cosa che lo ammazzo."

"Oh cielo, adesso basta!" sbottò la dottoressa Gainsborough "Che cosa siamo qui a fare, accidenti, volete anche mettervi a fare una gara di rap?!"

Demyx si fregò le mani e disse ai compagni di squadra, serio: "La mia metrica è geniale, non hanno speranze, sono già fottuti."

Axel scoppiò a ridere e Marluxia portò una mano alla fronte, come a simulare un mal di testa, poi disse "La…" indicò approssimativamente con il dito la figura della dottoressa Gainsborough "--sconosciuta dal gusto retrò ha ragione. Ho altro da fare che stare ad ascoltare voi deficienti."

"Gusto retrò?! Voi portate le stesse divise da più di vent’anni!"

"Ehy, quelle divise fanno ancora la loro sporca figura!" scattò il preside Mickey, come se avessero toccato un argomento scottante.

Forse Sora era ancora troppo sconvolto, ma non capiva.

E non poteva nemmeno dire che cosa non capisse, perché non capiva da che parte iniziare a cercare di capire.

Axel lo aveva terrorizzato.

Delle persone erano corse in suo aiuto, anche il preside.

Axel non stava venendo punito.

Era solo lui, o gli sembrava che quanto stava succedendo non avesse il minimo senso?

Fu il professor Ansem ad ordinare a tutti di tornare alle proprie mansioni, specificando "qualsiasi esse siano" guardando Axel, Demyx e Marluxia.

Axel buttò la sigaretta e prima di andarsene disse: "Ciao pazzo Yamaguchi, salutami tuo fratello quando lo vedi."

Per la prima volta da quando l’invasione di gente era cominciata, Sora aprì la bocca per strillare "Stai lontano da mio fratello, maledetto pervertito schizzato!!" ma lui se n’era già andato, insieme agli altri due.

Rimasti soli, il professor Ansem disse come prima cosa: "Mi sembrava di averti detto di tornare in classe, Yamaguchi."

Sora sbatté incredulo gli occhi. Cioè: adesso il cattivo della situazione diventava lui? Va bene, aveva sbagliato, ma che senso aveva, quello gli sparava e LUI si beccava il cazziatone?! Gli aveva SPARATO!! Quel pazzo girava con una PISTOLA!!

"Lo lasci stare, non è deve essere stato divertente nemmeno per lui …" disse dolcemente la dottoressa Gainsborough. In quel momento le Gambe provarono a muoversi, e per la prima volta Sora realizzò lucidamente che c’era una persona, montata su quelle gambe, perché dissero seccate: "Natsume-kun, mi levi questa cosa di dosso?"

Natsume sospirò e allungò la gamba, dicendo: "Tho."

Nonostante tutte le cose che gli vennero in mente sul fatto che non era un cane, che anche lui aveva la sua dignità e che non potevano trattarlo così, Sora zompò al suo polpaccio come sull’ultimo numero di Death Note in fumetteria, completamente dimentico degli spergiuri vari che aveva fatto quando pensava di stare morendo. Era abbastanza ovvio che adesso come adesso non aveva i mezzi per rovinare la vita di Natsume, quindi tanto valeva approfittare del fatto che fosse così veloce: se stava aggrappato alla sua gamba, se Axel fosse tornato avrebbe potuto frustarlo per farlo scappare molto velocemente, e lui sarebbe stato salvo.

Le Gambe, che adesso erano una persona intera, raggiunsero il punto dove Axel gli aveva sparato, si chinarono e toccarono la terra con le mani guantate. Osservarono il buco per un po’, lo scavarono, poi tirarono fuori un bossolo con le dita e cominciarono a rigirarlo con attenzione. (e Sora si rassegnò ad usare il singolare, anche se il pensiero di due gambe che facevano tutte queste cose era più divertente)

"Quell’imbecille pensa di essere Rambo." si girò verso la dottoressa Gainsborough. Era un ragazzo giovane, che non poteva avere molti più anni di Axel. La sua fronte era come tagliata in due da una profonda cicatrice. "Con questi siamo al sicuro, se Godzilla e Gamera si alleano per distruggere Tokyo."

"Yamaguchi, ti senti bene?"

Lui scosse la testa, ancora aggrappato senza ritegno alla gamba di Natsume. Gli dava un certo senso di protezione, doveva ammettere. "Mi bruciano gli occhi. E non ci sento bene."

Il ragazzo -che da quello che aveva carpito aveva una decina di nomi- disse tra i denti: "Come si fa a permettere che qualcuno entri a scuola con un fottuto cannone a mano?"

"Leon" rispose Ansem con falso stupore e una certa chiara indignazione "Se hai qualcosa da dire puoi farlo in piedi, su due gambe, parlandomi invece che ringhiando."

Quello non se lo fece ripetere due volte. "Ho detto che non reputo ammissibile che qualsiasi pazzo indossi un cappotto nero possa varcare quel cancello con un fottuto cannone a mano!"

"Sai benissimo anche tu che le cose non sono così semplici, Leon…" mormorò la dottoressa Gainsborough, incrociando pensosa le braccia. Nessuno dei due sembrò curarsi di quel tentativo di accondiscendere.

"Noi tutti stiamo lavorando duramente qui, e se il nostro lavoro non è apprezzato o non è abbastanza per te, niente ti trattiene."

Poi la voce del preside irruppe nella conversazione, forte, autoritaria: "Da quando Riku è diventato una forma plurale?"

Come se l’improvviso scaldarsi della discussione fosse stato esclusivamente dovuto a lui, il professor Ansem si girò verso Sora e disse bruscamente: "Torna in classe, Yamaguchi."

Lui aveva smesso da un po’ di seguire la discussione, mangiandosi le guance al pensiero di Natsume con una donna in ogni porto, ma restando comunque appollaiato contro la sua gamba come un koala. Quando sentì fare il suo nome alzò la testa, nonostante non potesse vedere da dove la voce veniva.

"Sì signore, subito signore!"

"No Yamaguchi, rimani" ordinò il preside Mickey, ma in quel momento Ansem gli faceva molta, molta più paura, così rispose "Nossignore, vado signore!"

"Yamaguchi, i tuoi occhi--"provò ad avanzare la dottoressa Gainsborough, mentre il preside continuava "Credi forse che gli studenti di questa scuola siano così stupidi, Ansem?"

"Allora io vado! Seguirò la lezione ad occhi chiusi pur di seguirla, perché una buona istruzione è l’unica solida base su cui poggiare il mio futuro!" enunciò tipo propaganda, poi allungò una mano per tastare il terreno e capire da che parte dirigersi.

Lo tastò a lungo.

Molto a lungo.

Poi fece un passo a gattoni e ricominciò.

Ansem fece per aprire la bocca ma il preside Mickey gli fece segno di tacere: "Non rispondere. Non era una vera domanda."

La dottoressa Gainsborough gli si inginocchiò accanto e gli prese il mento tra le dita per rivolgerlo verso di lei. Con il pollice gli aprì un occhio e Sora ricominciò a sentirlo bruciare.

"Resisti solo un attimo. Guarda su."

Sora sbatté l’occhio per far colare un lacrimone grosso come un acino, e lo riaprì. Seguì ancora un paio di indicazioni, finché la dottoressa non disse: "E’ solo un po’ di terra e polvere da sparo."

Come se questo potesse essergli di benché minimo conforto, le ex-gambe osservarono con tranquillità strategica: "Le Deagle si inceppano facilmente, ecco perché ti è andata della polvere da sparo negli occhi."

Sì beh, fantastico, GRAZIE Gambe, poteva anche partire la musichetta di Discovery Channel, adesso, ma lui aveva della polvere da sparo negli occhi! Aveva i minuti contati, stavano per esplodergli! Oh, mamma, doveva vedere Kairi. Se è vero che l’ultima cosa che vedi ti rimane impressa nel cervello, non voleva che quella cosa fosse l’enorme fiocco rosa della dottoressa Gainsborough!

Poi lei, dimostrandosi molto più utile delle gambe (non si meritavano neanche più un nome, aveva deciso), gli sorrise rassicurante: "Non ti preoccupare Yamaguchi, non è niente. Riku? Accompagneresti Yamaguchi in infermeria? C’è dell’acqua distillata."

Sora sfrecciò all’indietro con tanta forza che le ginocchia strisciando contro l’erba gli si sbucciarono come neanche quando cadeva dal triciclo al parco giochi, sulla ghiaia, e cominciò ad agitare le mani, parandole davanti a se come uno scudo: "Non è necessario, grazie! Sono già guarito, ci vedo benissimo!" e per dimostrarlo tenne aperti gli occhi con le dita, mentre piangevano probabilmente lacrime di sangue.

La dottoressa lo guardò per un momento, poi si girò verso Natsume con aria di rimprovero: "Riku, che cos’hai fatto a questo povero ragazzo?"

"E io che ne so?" rispose quello, come se non lo sapesse davvero "Si agita sempre per niente."

"Come sarebbe a dire niente?! Signorina Gaisborough, quel tipo mi ha stuprato!"

Lei rise, e gli batté affettuosamente una mano sulla testa: "Povero Yamaguchi, deve essere stato terribile."

Sora ci rimase malissimo, e senza curarsi minimamente del suo trauma la dottoressa invitò Natsume a non strapazzarlo troppo, poi si alzò e si unì al preside Mickey e agli altri.

Si aspettava che Natsume –quel pervertito- non avrebbe aspettato un secondo di più per trascinarlo in infermeria e approfittare dei suoi handicap per dare sfogo ai suoi istinti primordiali, ma invece era rimasto da parte, con lo sguardo perso nel vuoto. Quasi sicuramente stava progettando qualche porcata in cui coinvolgerlo contro la sua volontà e gli venne un terribile brivido lungo la schiena. Cominciò a guardarsi attorno, per cercare –approfittando della sua apparente distrazione- una via di fuga.

Rimanere solo in un luogo isolato con Natsume normalmente sarebbe stata la cosa peggiore che avrebbe potuto capitargli, ma la cosa veramente significativa era che anche dopo essere stato quasi sbrindellato dalle pallottole bomba di un matto cinefilo con seri problemi ad usare frasi lunghe meno di due righe alla volta, rimanere solo in un luogo isolato con Natsume continuava a sembrargli la cosa peggiore che avrebbe potuto capitargli.

Che cosa poteva fargli Axel, farlo pisciare sotto dalla paura, torturarlo fino alla pazzia, ucciderlo? Era anche relativamente prevedibile. Ma Natsume? Amaterasu si sarebbe guardata bene dall’uscire dalla roccia se avesse saputo che lui era in giro con tutte le sue palle da baseball, i sorrisini abbacinanti e quei capelli che –non ci poteva credere!- trovavano sempre l’unico alito di vento presente in tutto l’arcipelago anche in giornate da quarantadue gradi all’ombra, pur di avere una direzione verso cui svolazzare leggeri e scintillanti. Chi poteva dirlo che cosa un simile genio del crimine fosse capace di fare!

Soprattutto a lui. A quella che era chiaramente la sua vittima designata. Come se fosse stato un ingenuo, l’aveva capito, che cosa credeva? Anche lui aveva visto CSI, prima che mettessero sull’altro canale le repliche di City Hunter. Lo sapeva che certi serial killer si fissano con una tipologia di persona (nel suo caso: adolescente non appariscente, ma più carino della media, pieno di salute, benvoluto da tutti tranne che da un professore yankee), e che una volta individuata la loro preda si mimetizzano nella sua vita e cercano di conoscerla, perché a loro non basta ucciderla, no, devono sviscerarla e seviziarla e poi imprigionarla e infine assassinarla dopo averle tolto tutto.

E’ per questo che sono irriconoscibili. E’ per questo che sembrano gente per bene, anzi, che sembrano la gente più perbene di tutte, all’apice della scala sociale. Uomini d’affari, industriali, rampolli di buona famiglia, sempai praticamente perfetti (anche Arima era davvero inquietante quando si trattava di Yukino).

Sora ebbe la chiara immagine della camera da letto di Natsume tappezzata di sue fotografie e cominciò a scappare gattonando, ma era troppo tardi: Natsume lo prese per il cravattino e cominciò a trascinarlo, facendogli rischiare tra le altre cose un’asfissia. Sora cercò di liberarsi e strillò: "Preside! Dottoressa Gainsborough! Gambe! Aiuto!!", ma in cambio ottenne solo che la dottoressa lo salutasse sorridendo, che le gambe chiedessero "Gambe?" e che il professor Ansem gli ordinasse di tornare in classe appena finito in infermeria. Odiava quella scuola, la odiava!

In uno slancio di rabbia si avventò sul polpaccio di Natsume e lo morse. Funzionò, perché lui lo prese per una manica della camicia e lo mise in piedi. Poi, senza aspettarlo, ricomincio a camminare.

Sora pensò di scappare, ma se apriva gli occhi cominciavano a lacrimare così forte che perdeva di vista dove stava andando, e la sensazione di ondeggiare gli dava la nausea.

Guardò per un attimo la schiena sfuocata di Natsume, e decise che in nome del suo piano per riavere Kairi gli avrebbe dato una possibilità. Ma se lo avesse molestato un’altra volta non gliel’avrebbe fatta passare liscia. Oh, no. L’ultima volta aveva studiato per bene l’infermeria, mentre era in stato semi comatoso per colpa dei suoi baci diabolici, e in una situazione di pericolo poteva giurare che qualcosa di molto appuntito o molto pesante con cui farsi giustizia l’avrebbe trovato.

Chiuse gli occhi e ricominciò a camminare, cercando di concentrarsi sul rumore dei passi di Natsume per seguirlo. Forse stava diventando davvero sordo, ma non riusciva a sentirli. Era come se Natsume camminasse senza fare nessun rumore, levitando da terra come un fantasma. Pensando che fosse ormai lontano aumentò il passo per raggiungerlo, e si spaventò quando invece dopo nemmeno mezzo metro si ritrovò a sbattere il muso contro la sua schiena. Ma che diavolo, aveva un’armatura sotto quel cappotto?! (a proposito: per essere credibile nella sua dichiarazione d’amicizia non aveva fatto commenti a riguardo quando l’aveva visto per la prima volta, ma cavolo, con quel coso addosso sembrava definitivamente il membro di una setta! …e poi perché gli sembrava che fosse l’unico su cui il nero ingrassava…?)

Nonostante tutto, però, con le orecchie che ancora ronzavano, gli occhi chiusi e lui che nemmeno si voltava a guardare se lo stava seguendo, si sentì di colpo smarrito e si aggrappò al suo cappotto con entrambe le mani, tirandolo forte per far pesare la sua presenza, ma facendosi guidare mansueto, come un bambino che si è perso al supermercato.

Era stato per un attimo così tranquillo, in quel momento, che quando furono in infermeria scattò sulla difensiva così all’improvviso che fu quasi uno shock.

Guardò per brevi momenti, con gli occhi socchiusi, Natsume che trafficava con qualcosa che non sembrava niente di losco, e titubante andò da lui quando lui gli disse di farlo.

Quando gli sembrò di essere abbastanza vicino gli ordinò: "Non provare a mettermi le mani addosso, hai capito?!" ma lui non si degnò nemmeno di rispondergli, e posò accanto al lavandino una grossa borraccia d’acqua.

Ancora poco convinto Sora si accostò e mise le mani a coppetta, pronto a saltare e rotolare fuori dalla finestra aperta come Denzel Washington non appena quel viscido avesse provato ad allungare i suoi tentacoli.

Fortunatamente, Natsume si limitò a versargli l’acqua nelle mani, e l’immediato sollievo che provò nel rinfrescarsi gli fece abbassare subito la guardia.

Quando finalmente ricominciò a vedere bene, ancora chinato sul lavandino girò il viso, e vide il profilo serio di Natsume; seduto sul ripiano, guardava davanti a se senza mostrare interesse per nulla. Sora non l’aveva sentito salire, né il mobile muoversi, e cominciò a chiedersi se davvero stesse diventando sordo, oppure lui non fosse una specie di ninja. Sarebbe stata la sorpresa minima, a quel punto, dal momento che il professor Ansem si confermava sempre di più un boss della Yakuza.

Avrebbe potuto andarsene, ma era indeciso: se Natsume non gli fosse saltato addosso, quella poteva essere una buona situazione in cui cominciare a lavorare sulla loro falsa-amicizia. in fondo non sembrava molto in forma. Magari aveva voglia di parlare. Forse gli avrebbe raccontato i suoi problemi, lui gli avrebbe dato dei buoni consigli, magari Natsume avrebbe anche pianto e allora sarebbero diventati sicuramente migliori amici. E’ una cosa matematica. I maschi diventano per forza migliori amici di chi li vede piangere, perché se non lo fanno quello va in giro a sfotterli, e nessun vero uomo giapponese può permettersi che in giro si sappia che ha pianto (veramente nessun vero uomo giapponese dovrebbe fare il pettegolo, però Natsume che ne sapeva se lui si sentiva o meno un vero uomo giapponese…).

Ok, era perfetto. Adesso doveva solamente assicurarsi che la bestia che giaceva dentro Natsume non si risvegliasse fiutando il suo giovane fascino. Cominciò a pensare a come tastare il terreno.

Bene. Che cosa faceva eccitare un maniaco? Forza Sora, pensa ai manga di Katsura. Mmmmh…ah, sì!

Si chinò di nuovo sul lavandino, spingendo il sedere il più in fuori possibile, poi aprì il rubinetto e tenendosi i capelli come avrebbe fatto una ragazza porse le labbra e la lingua per bere, guardando il suo obbiettivo con la coda dell’occhio.

Ok, non succedeva niente.

E ok, era stato sufficientemente raccapricciante da smuovere un morto.

Decise che poteva bastare. Non gli sembrava il caso di cominciare a sbottonarsi la camicia cinguettando "fa caldo qui, non è vero?", perché a quel punto anche Goofy si sarebbe sentito in dovere di stuprarlo per non ferire la sua autostima.

Si appoggiò al mobile, e domandò affabile, un po’ incerto: "C’è qualcosa che non va, Natsume-san?"

"Niente che ti riguardi."

Fu come ricevere un mattone in testa.

Scattò come una molla: "Beh, scusa se te l’ho chiesto!"

"Scuse accettate. Adesso la vedi la porta?"

Sora guardò lui, poi la porta, e infine di nuovo lui. Come osava, quel…quel cretino! Solo poche ore prima si era umiliato ad offrirgli la sua amicizia, e lui che cosa faceva? Lo trattava come se lui non gli avesse mai offerto la sua amicizia!

Sbottò, indignato: "Sì, la vedo. Grazie per avermi accompagnato."

"Dovere." Rispose lui, e così come ne era uscito ritornò nel proprio mondo, in silenzio.

Sora rimase lì ad aspettare che qualcosa accadesse, ancora per un po’, poi offeso per nemmeno lui sapeva cosa uscì dall’infermeria sbattendo la porta.

Quello stupido montato del cazzo! Come osava? Che se la tenesse la sua amicizia, lui ci sputava sulla sua amicizia, puah!

Fece il percorso a ritroso, ribollendo e fischiando come una pentola a pressione, ma si sentiva…oltraggiato.

Come se avesse assistito a qualcosa di incompiuto.

Nemmeno quando il professor Ansem si fece avanti dicendogli che non c’era bisogno che i suoi genitori sapessero di quella storia almeno quanto non ce n’era che sapessero delle sue scorrazzate senza permesso in orario, riuscì a scacciare via quella sgradevole sensazione.

L’unica certezza, irritante, era che Natsume non si era nemmeno accorto che lui era lì.

*

Sarebbe stata una primavera mite, quella, lo sapeva chiunque. Le televisioni e i giorni l’avevano ripetuto da fine febbraio come se fosse stata l’informazione destinata a cambiare il destino degli uomini. Riku non capiva.

Tutte le primavere a Tokyo erano state miti da che ne aveva memoria. Probabilmente lo sarebbero sempre state. Il sole caldo, l’odore dei ciliegi in fiore trascinato insieme a petali dalla brezza rinfrescante.

Niente era cambiato. Niente sarebbe cambiato mai. Se ne era andato solo per ritornare ad un luogo immobile, imprigionato dal mare e arroccato dietro mura trasparenti come dentro ad una boccia con la neve. Ne aveva vista una per ogni città in cui era stato. Volendo essere originali si potrebbero portare Venezia innevate da qualsiasi parte del mondo. Una collezione di Venezia. Decine di Venezia. Venezia chiusa in una pallina delle dimensioni di un pugno dalla città più grande che la ospitava.

I giapponesi avevano fatto di più.

Per poco più di cinquemila yen si poteva entrare a Venezia, fare la spesa, e venire salutato in veneziano dai cassieri. Si poteva entrare a Venezia ed andare a mangiare al ristorante Napoli e poi comprare un paio di scarpe di finta importazione nella boutique Milano. Venezia su tre piani. Comodamente raggiungibile in macchina. Perché prendere un aereo? Perché abbandonare le comodità andando verso una vacanza incerta, con la possibilità di non capire la lingua, o le usanze, e magari di beccare brutto tempo? Il centro commerciale Venezia era perfetto. Venezia in una palla, solo un po’ più grossa.

Il Giappone poteva farlo. Era la palla di neve più grossa di tutte.

"Ragazzo? Trovo incredibile che tu riesca sentire la cerimonia d’apertura da là sopra. Hai tutto il mio rispetto."

Riku aprì gli occhi e guardò giù. Tra i rami un uomo dall’aspetto buffo lo guardava con interesse.

"No, non sento. Se sentissi avrei le orecchie tappate. E starei cantando."

"Ti dispiacerebbe scendere? Se cadi e ti rompi l’osso del collo non saprei come spiegarlo ai tuoi genitori."

"Se cado e mi rompo l’osso del collo, non sarà un problema mio."

"Puoi almeno dirmi come ti chiami? Se la caduta ti deturpa non avrò problemi di riconoscimento."

"Meglio così. Sarà come se non fosse mai successo."

"Ah, ho capito. Sei uno di quelli."

"Quelli chi?"

"Quelli che credono di essere speciali."

"Non è quello che sentono tutti?"

"Lo sentono, non ci credono. Quelli che ci credono sono delle spine nel fianco. Devi sempre conquistare la loro fiducia prima di ridimensionare le loro aspettative."

L’uomo si tolse la giacca, la piegò ordinatamente e la appoggiò a terra. Poi si risvoltò le maniche della camicia, cercò con le mani un punto nel tronco dell’albero e quando lo ebbe trovato si aggrappò e cominciò a salirci coi piedi. Riku aggrottò incredulo la fronte e guardò giù.

"Guarda che ti ammazzi."

"Non mi sembri tanto morto."

"Non hai l’età" e nemmeno il fisico, pensò, ma non glielo disse "Non farmi assistere a spettacoli crudi il primo giorno di scuola."

"Allora ti consiglio di tenerti a quel ramo alla tua destra."

Riku non fece in tempo a chiedere il perché. In un attimo l’uomo saltò con un colpo di reni impressionante dal tronco ad un ramo molto più in alto, e per non farsi sbilanciare dal tremore delle fronde Riku dovette tenersi all’ultimo momento proprio ad un ramo alla sua destra. Nel giro di un attimo l’uomo fu lì vicino, poco più in alto di lui. Non gli si era neppure scomposta la cravatta. I petali, a causa degli scossoni, avevano cominciato a grondare come una pioggia.

"Bene, adesso siamo tra di noi. Non saprà nessuno che sei stato meno figo. Non lo dirò a nessuno, promesso. Qual è il tuo nome?"

Riku lo guardò ancora un po’ perplesso per un attimo, poi rispose: "Natsume Riku."

"Piacere di conoscerti, Natsume Riku" l’uomo fece un cordiale inchino, nonostante sorridesse come se trovasse tutto molto buffo "Io sono il preside di questa scuola. E nemmeno a me piacciono le cerimonie d’apertura."

Da dietro il vetro della finestra in corridoio Naminé osservava il cielo, che nonostante l’azzurro sovrastante era scosso da forti correnti, che non presagivano nulla di buono. Gli angoli plumbei lo rendevano cupo, incorniciato, limitato come un puzzle. Era brutto. Un sacco di gente aveva portato l’ombrello seguendo le previsioni del tempo, e anche la loro madre si era assicurata che lo facessero, ma chiusa la porta Sora aveva guardato il proprio e aveva detto "che diavolo" prima di buttarselo alle spalle, e quando lei aveva chiesto "e se piove?" e lui aveva risposto "ce la prendiamo, no?" gli era sembrato così…ovvio, che anche lei aveva posato il suo accanto alla porta.

Uno stupido capriccio. Non era così che avrebbe imparato a vivere la vita come faceva Sora, limitandosi a prendere quello che gli veniva dato senza questionarlo, senza cercare di evitarlo, ma andandogli invece incontro con l’entusiasmo di chi ha comunque in qualche modo la consapevolezza di stare ricevendo un dono.

Non avrebbe imparato, ma avrebbe dovuto.

Spesso anche Naminé si sentiva in quel modo, ma era…diverso.

A lei non sembrava di meritare niente. Era per questo che accettava qualsiasi cosa le venisse data senza fare storie, ma tenendosi in disparte, osservando da spettatrice il palcoscenico che Sora calcava e viveva tutti i giorni insieme a Kairi e tutte le altre persone come loro.

Naminé guardava, ed era più tranquilla se gli altri pensavano che fosse cieca.

Quando suonò la campanella allontanò le mani dalla finestra, che lasciarono due impronte che subito si diradarono. Non sembrava che il cielo si dovesse schiarire. Forse Roxas l’avrebbe scortata sotto il suo ombrello.

Si girò per rientrare in classe, e in quel momento vide suo fratello, insieme ai suoi amici. Lei aveva smesso di provare ad aggregarsi, e lui aveva smesso di parlarne come se fosse stata una cosa possibile. Loro erano diversi. Roxas sapeva adattarsi alle persone pur continuando a disprezzarle, mantenendo se stesso separato dagli altri, partecipe eppure inscalfibile. Lei non ci riusciva, e le poche volte che aveva provato a farsi delle amiche era diventata una gelatina sciolta nei loro voleri, un camaleonte distratto che prende il colore dell’habitat fino a dimenticare quale fosse la sua forma originale. Era quello che provava con Kairi, a volte. Non voleva essere quel tipo di persona. Voleva diventare grande e forte come un vecchio albero velenoso.

"Naminé" le sorrise Olette "Sei rimasta qui tutto questo tempo?"

Non era una novità, ma Olette si sentiva in dovere di essere gentile con lei perché era la persona più vicina a Roxas, e quella era una posizione che ambiva ad andare ad occupare. Era estremamente facile per lei vederlo. Non pensava che qualcuno potesse voler essere gentile con lei senza un motivo ben preciso, e non perché le altre persone fossero cattive, ma perché lei non era una persona che suscitava sentimento o simpatia negli altri. Non era Olette, o quello che voleva, il problema.

…ma allora perché il sempai Natsume era carino con lei?

Continuava a pensarci, ma non trovava una spiegazione.

"No, sono stata qui attorno, ho camminato un po’…" cercò di sorridere a sua volta. Guardò Roxas e vide che stava pensando ad altro. Chissà come i suoi amici avevano preso la faccenda di Axel. Si augurava per lui, meglio di quanto non stesse ancora cercando di prenderla lei.

Entrarono in classe. Hayner e Pence parlavano tra di loro, cercando di tanto in tanto di coinvolgere Roxas, ma varcata la soglia lui si fermò all’improvviso.

"Che c’è?" gli domandarono gli amici, e Naminé guardò nel suo stesso punto.

Il suo banco e la sua sedia non c’erano più.

Si avvicinò lentamente, come se volesse assicurarsene, mentre Roxas corse velocemente sul posto e guardandosi attorno domandò alle persone già in classe "Che cosa significa questo?!", ottenendo ovviamente poche e insoddisfacenti risposte da persone avviluppate in loro stesse e in un silenzio intimorito.

Anche gli amici di Roxas cominciarono a guardarsi in giro, come se un banco potesse essere nascosto, ma Naminé restava lì. In quello spazio vuoto che in quel momento le sembrava quasi giusto. Era così che doveva essere. Naminé era la metà rifiutata da Roxas. Un errore di calcolo.

Ai suoi piedi, tutti i suoi pastelli spezzati a metà.

"Roxas!" chiamò Pence, indicando fuori dalla finestra. Tutti si sporsero, ed il suo banco era di sotto, sfracellato sull’erba insieme a tutte le sue cose. Immaginava benissimo la cartella aperta, i quaderni e i libri sparpagliati e piegati nell’impatto. Solo l’album si era salvato, seguendola ovunque lei andasse. Non aveva bisogno di guardare.

Roxas dichiarò: "Vado a parlare con il professor Ansem", e Naminé sentì delle ragazze ridacchiare bisbigliando piano alle sue spalle "Perché, c’era qualcuno seduto lì?"

Allungò una mano e tenne fermo Roxas per il braccio. Fece cenno di no con la testa: "Non importa."

"Ma…" "Non importa." ripeté.

Solenne, con tutta la dignità che riuscì ad avere si chinò per raccogliere i pastelli rotti e li buttò nell’immondizia senza pensarci due volte. Era inutile conservarli. Sarebbe stato patetico, e patetica era l’ultima cosa che una persona come lei poteva permettersi di essere. Non le importava, era solo legno. Era quello che ci metteva dentro lei, per pur mediocre che fosse, a dar loro un significato.

Cercò di convincersene.

Il professore entrò in classe e dopo l’inchino lei si sedette a terra come sulla riva di un fiume, con l’album da disegno sulle ginocchia e un’espressione tranquilla. Il professore le chiese dove fosse il suo banco. Lei senza nessun problema rispose: "Mi è stato gettato fuori dalla finestra, signore" come se fosse normale, una cosa che a turno capitava a tutti quanti.

Il professore andò a vedere, mentre Naminé rimase seduta lì, e tutti quanti parlavano, e parlavano, e parlavano.

Grande e forte, si disse, come un vecchio albero velenoso.

  
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