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Autore: avalon9    25/06/2007    1 recensioni
Gli youkai sono essere terribili: affascinano e uccidono. Sono esseri diversi. I ningen sono insignificanti, per uno youkai; creature semplici, irrazionali, che trascinano la vita senza comprenderla. Dei ningen gli youkai non si curano; li ignorano con superiore indifferenza.
Sesshomaru è youkai ed è orgoglioso della sua essenza. Ma un inverno, incontrerà una ningen e, da quel momento, la linea netta che separa uomini e demoni inizierà ad assotigliarsi.
Genere: Romantico, Malinconico, Avventura | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Sesshoumaru
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Carissime lettrici e carissimi lettori,

Carissime lettrici e carissimi lettori,

 

rieccomi a voi. Vi ringrazio infinitamente per la pazienza che mi mostrate. Dunque, ormai siamo in dirittura di arrivo: quarantunesimo capitolo. Ne mancano pochi. Finalmente, direte voi. Già: dopo quasi un anno, finalmente questa prima parte si avvia alla sua conclusione. Un epiglogo che però è ben lungi dall'essere totale e che prima dovrà passare fra molte sofferneze, violenze, costrizioni. Ma anche fra amore e snesualità. Eh sì. Avete capito bene. Sensualità...Ma come e fin dove, questo non dipenderà da me: in fondo, spetta a Sesshomaru e Alessandra stabilire ritmi e tempi, no?

 

Per il momento, gustatevi questo capitolo: è uno delgi ultimi relativamente tranquilli. Ma presto, molto presto, le vicende subiranno una brusca impennata.

 

A presto, e grazie infinite a tutti coloro che mi leggono e commentano. La vostra genitlezza è immensa.

 

Un abbraccio,

 

Avalon

 

 

 

 

 

CAPITOLO 41

CONFIDENZE

 

 

Incoscienza.

Lo aveva permeato a lungo. Per moltissimi giorni. Lo aveva gettato in un limbo buio e agitato, in cui fluttuavano immagini, sogni, illusioni, incubi. Avrebbe voluto svegliarsi, ma non ci riusciva; non era neanche certo se stesse semplicemente dormendo, o se invece quello fosse il destino che lo attendeva oltre la morte. Non sapeva nulla. Non voleva sapere nulla. Si dava del vigliacco, ma una tale frustrazione lo assaliva al pensiero di aver sempre fatto il gioco di suo padre, di aver sempre ignorato la verità e di essersi lasciato plasmare come meglio conveniva, che l’idea di lottare per cambiare quella sua situazione di totale e straniante sospensione era subito accantonata. In quello stato, almeno, non avrebbe dovuto vedere nulla di ciò che lo disgustava, non sarebbe stato costretto a battersi per motivi futili e a lui totalmente estranei. Avrebbe continuato a vagare. Abbandonato a se stesso. Naufrago forse della propria mente, forse di un universo che non gli interessava conoscere, avvolto da spire nere e fredde.

 

Strinse appena gli occhi, senza quasi accorgersi del passaggio dall’incoscienza alla veglia. Era tornato. Riemerso da quel suo stato catatonico senza aver coscienza di essersene lentamente allontanato. Forse qualcuno lo aveva chiamato, forse era stato il suo innato istinto di sopravvivenza a impedire al suo corpo di cedere, benché l’animo fosse provato a tal punto da non desiderare altro che l’oblio. Eppure, la rassegnazione non gli era mai appartenuta. Era nella sua natura fiera non arrendersi mai, portarsi al limite se fosse stato necessario, e ancora superarlo, dando tutto se stesso a ciò in cui credeva. Alle persone cui aveva giurato di vivere. Quelle persone…I suoi fratelli…Gli avrebbero dato una bella strigliata: farsi fregare a quel modo da Naraku, come un dilettante. Lui, abituato a calcolare ogni possibilità, ogni pericolo, a soppesare ogni azione, si era lasciato trascinare dalla foga, ignorando la più semplice delle opzioni: il suo avversario doveva aver subodorato qualcosa, e di certo non si sarebbe presentato inerte al loro appuntamento. Si era giocato con le sue stesse mani.

 

Shin aprì lentamente gli occhi, faticando a ridare consistenza alla luce che gli parve subito opprimente. Era come se avesse un sole in faccia, che lo accecava e gli impediva di definire i chiaroscuri del mondo attorno a lui. Bianco. Bianco. Con alcune chiazze nere. Fastidiose. Dannatamente fastidiose. Sentiva il bulbo oculare tremare nello sforzo di non sottrarsi alla luce, lo sentiva contorcersi nel disperato tentativo di convincere il suo padrone a restituirlo al buio, facendo smettere quella tortura. Niente. Il ragazzo non prestava ascolto alla sua supplica, e alla fine riuscì a ridare consistenza all’ambiente.

 

Con incredulità, si accorse di trovarsi in una stanza. Il soffitto ligneo decorato con motivi floreali, le eleganti fusume dipinte e le shoji da cui filtrava quella debole luminescenza che prima gli era parsa insostenibile. Poi, venne una sensazione di tepore diffuso e, muovendo appena le mani, avvertì la morbidezza di una trapunta e del cotone caldo della yukata. Ancora stordito, si lasciò cullare da quella piacevole sensazione, che lo riportava indietro nel tempo, al rassicurante calore del suo palazzo, sul Continente, all’abbraccio di sua madre.

 

Istanti. Il suo totale rilassamento durò pochi secondi, e subito la mente del giovane fu attraversata da una consapevolezza che portava con sé una forte sensazione di pericolo e insicurezza. Sconosciuta. Quella stanza gli era totalmente estranea. La consapevolezza dello scontro con Naraku, il ricordo della caduta nel crepaccio e la sensazione di esser entrato a contatto con qualcosa di freddo e poi trascinato senza possibilità di opporre resistenza lo assalirono con prepotenza. Dove si trovava? Dov’era?! Con amici o nemici? Ancora nei territori di Kansai, oppure era stato trascinato altrove?

 

In un impeto di preoccupazione e tensione cercò di alzarsi, ma il movimento brusco gli trapassò la mente con fitte di dolore all’addome, alla spalla e ad una gamba, quasi strappandogli un gemito. Rimase steso, boccheggiando alla ricerca di aria per calmare le scariche di dolore che lo attraversavano. Solo in quel momento si accorse di esser stato fasciato e medicato, e che le ferite infertegli da Naraku era ancor ben lontane dalla completa guarigione. Il suo gesto, inoltre, aveva risvegliato i centri nervosi, e non c’era parte del suo corpo che si esimesse dal comunicargli la sua condizione sofferente, in una miriade di sensazioni che lo stordivano.

 

Shin strinse i denti, storcendo la bocca in una smorfia. Doveva andarsene da lì; alzarsi e cercare di capire se si trovava presso amici o nemici. Benché l’ultima ipotesi gli sembrasse molto improbabile, visto che si trovava in una stanza e non in una prigione, non poteva tuttavia restare inerme mentre si consumava una guerra che trascinava i suoi fratelli. Una guerra estranea alla loro vita. Inutile. Insensata. Dovunque fosse, avrebbe trovato il modo per andarsene, e raggiungere i suoi fratelli. Non avrebbe più permesso che loro scontassero l’invidia e la rabbia paterne. La verità. Avrebbe detto loro la verità. Come avrebbe dovuto fare già da tempo. Fin da quando sua madre gliela aveva racconta, durante quella notte trascorsa nel relitto della sala del trono. Avrebbe dovuto parlar con loro, invece di prestar attenzione al suo stupido orgoglio, che gli aveva imposto di cercare prima la vendetta. Aveva voluto prima assicurarsi che ogni sospetto, ogni voce raccolta, ogni pensiero fugace che gli avevano attraversato la mente trovassero esatta conferma nei fatti. Allora, e solo allora, avrebbe parlato. Anche per quello che riguardava Koji. Perché non poteva permettere che il suo fratellino fosse coinvolto in una realtà che gli era totalmente estranea. Aveva una sola certezza: era un ookami. Lo aveva capito fin dal suo arrivo a palazzo, sul Continente, moltissimi anni prima. E ciononostante lo aveva adottato come fratello, senza mai tradire quel segreto. Ma adesso, era tempo di scoprire tutte le carte.

 

Di nuovo, lentamente, cercò di alzarsi, facendo forza prima sui gomiti e poi sulle braccia. Riuscì a mettersi seduto che già ansimava e la fronte era imperlata di sudore. La ferita al fianco gli doleva e non sarebbe stato indicato sforzarla oltre, ma Shin strinse i denti. Aveva sopportato di peggio, ricordò. Non sarebbe stata una ferita del genere a decretare la sua fine. Con meticolosa lentezza si alzò in piedi, arrancando e ondeggiando nel tentativo di mantenere il precario equilibrio raggiunto.

 

Riuscì a compiere solo pochi passi che la stanza iniziò a vorticare. Impazzita. Shin ebbe una mezza esclamazione di disappunto, mentre perdeva il senso dell’equilibrio ed era costretto a piegare un ginocchio a terra. Dannazione! Si passò una mano sul volto, sentendo uno strano freddo corrergli sotto la pelle. Era ancora troppo debole. Cercò di calmare i conati e la sensazione di malessere che lo aveva preso allo stomaco. Inutile. Inutile. Tutto continuava a ondeggiare pericolosamente. Aveva l’orribile sensazione che anche la sua sensibilità diminuisse progressivamente. Distingueva a malapena la consistenza del tatami sotto le dita, mentre nella testa il sangue pulsava tanto forte da ottenebragli la mente e i sensi.

 

“Cosa fate? Non dovete alzarvi! Siete ancora debole!”

 

Una voce…Una voce di donna lo raggiunse attraverso il ronzio che gli assordava le orecchie. Non riuscì a opporsi mentre qualcuno lo aiutava a tornare al futon, facendolo nuovamente stendere. Avrebbe voluto sottrarsi a quelle mani e fuggire, ma la nausea non accennava minimamente a passare. Gli occhi gli restituivano solo un’immagine sfuocata e incerta. Una chiazza scura, forse di capelli, attorno a un contorno più chiaro. Ad un viso…indefinibile. Appoggiò la testa sul piccolo cuscino, e finalmente la stanza sembrò fermarsi.

 

“Chi sei?”

 

Debole. Anche solo parlare gli costava uno sforzo immenso. Ma doveva sapere se si trovava al sicuro o in una situazione incerta. C’erano molte cose che voleva sapere: quanto era rimasto privo di conoscenza; voleva notizie della guerra che infiammava i territori dell’Ovest, se fosse finita o ancora in corso. Voleva sapere dei suoi fratelli, di sua madre e …di suo padre.

 

Homoe, hime delle Terre del Nord” rispose la voce, mentre un nuovo cuscino si aggiungeva a quello già presente, sotto le spalle del ragazzo, permettendogli di restare un po’ più sollevato col busto e ponendo fine alla sgradevole sensazione di inabilità.

 

Shin riuscì a definire la sua interlocutrice: una yasha, dai capelli color della notte e occhi d’acciaio. Una yasha molto bella, e potente, almeno a giudicare dall’youki che le aleggiava attorno. Continuava a guardarlo con un’espressione dolce e quasi materna, senza perdere però in dignità. La dignità di una regina. Una hime…Una principessa. La donna che gli sedeva acconto poteva stargli alla pari per lignaggio, e lui l’aveva trattata come una serva, anche se lei non sembrava aver dato importanza al suo tono irriverente.

 

Le terre del Nord… Si trovava, dunque, nei territori più settentrionali di Honshu, nel regno di quel generale che era stato un tempo amico anche di suo padre. Come fosse finito in quei territori, oltrepassando quelli di Sesshomaru, non avrebbe mai saputo dirlo. Ma almeno, dato che non lo avevano ucciso e non si trovava in una prigione, in balia di se stesso, poteva considerarsi al sicuro; avrebbe chiesto ospitalità per il tempo appena sufficiente a reggersi in piedi. Non poteva certo aspettare di rimettersi completamente. Solo le forze necessarie. Gli bastava recuperare solo le forze necessarie per tornare al suo accampamento e avvertire i fratelli. Poi, avrebbero pensato assieme ad una soluzione per porre fine a quell’efferato e inutile scontro.

 

La mano che gli sfiorò la fronte lo risvegliò dai suoi pensieri. Una mano delicata, aggraziata. Gli aveva scostato i capelli neri e sfiorato appena la pelle, regalandogli una sensazione di benessere. Probabilmente, il suo corpo reagiva a quel gesto, quasi fosse il migliore dei calmanti. Nei giorni trascorsi, quando doveva trovarsi preda del delirio, era possibile che quella mano avesse più volte cercato di calmarlo, e adesso lui, inconsciamente, la riconosceva. Rispondeva per un riflesso istintivo a quel gesto tanto semplice e innocente.

 

Homoe ritirò compiaciuta la mano, dopo aver constatato che la febbre era scesa. La resistenza di quel ragazzo era ammirevole. In un mese era riuscito a riprendere coscienza e le sue ferite, nonostante le tracce di veleno che comunque dovevano essergli entrate in circolo, iniziavano, pur se molto lentamente, a rimarginarsi. In breve, sarebbe stato in grado di alzarsi e camminare, se non le faceva un altro scherzo come quello di prima. Alzarsi nelle su condizioni…Delirio puro. Anche se, in realtà, la yasha si era aspettata una reazione simile. Anche i suoi fratelli erano sempre stati restii a restare distesi in un letto, nonostante la possibile gravità delle loro ferite. Ciononostante, lei era ben intenzionata a non fargli ripetere la trovata. Gli era stato affidato perchè lo curasse e sarebbe davvero stato un peccato che tutti gli sforzi suoi e di Alessandra venissero vanificati solo dall’orgoglio di un ragazzo.

 

“Come sono giunto nei vostri territori?”

 

Non capiva. Shin non riusciva a capire come avesse potuto scavalcare le terre dell’Ovest. Chiunque lo avesse portato nel regno del Nord, doveva aver avuto ottimi motivi per sfidare l’ira di Sesshomaru. Benché il demone fosse impegnato in un assedio, era poco probabile che non avesse spie in ogni angolo del suo regno, pronte a riferirgli qualsiasi movimento sospetto. Inoltre, sembrava che non lo avessero riconosciuto e forse era quello il motivo che spiegava il trattamento di favore riservatogli, per quanto lui non sapesse quali rapporti intercorressero fra i Principi delle terre dell’Ovest e del Nord.

 

Comunque fosse, era però ben intenzionato a far chiarezza sulla sua identità, su come fosse giunto in Hoshu del Nord e magari avrebbe anche tentato di stringere un’alleanza con il padre di Homoe. Avere dalla sua almeno uno degli otto Clan principali della Famiglia sarebbe stato un grande vantaggio nel momento in cui avrebbe dovuto affrontare suo padre e il suo Clan. La risata leggera che sentì lo lasciò sorpreso, ma ancor più sconcerto gettarono le parole che udì subito dopo.

 

“Non siete nelle Terre del Nord, Principe Shin. Vi trovate nel kyuden di Sesshomaru-sama”

 

Homoe prevenne il suo movimento brusco, dettato dalla sorpresa di sentirsi chiamare per nome e soprattutto dal sapere dove si trovasse, premendogli leggermente le spalle, facendo attenzione a non stimolare la parte lesa all’altezza dell’omero. Solo quando fu certa che Shin non avrebbe tentato nulla di avventato lo liberò dal suo tocco, restando pazientemente ad aspettare. Sapeva che il ragazzo doveva digerire le lapidarie ma sconcertanti informazioni che gli aveva fornito. Prima fra tutto il fatto di trovarsi nella casa del suo nemico. Vivo.

 

Shin chiuse gli occhi, incapace di razionalizzare le parole della yasha. Impegnato a digerire quelle spartane e sconvolgenti informazioni. Vivo e nella reggia di Sesshomaru. Impossibile. Inconcepibile. La sua testa continuava quella cantilena snervante. Se anche fosse stato vero e ancora si trovava nei territori dell’Ovest, perché mai l’inuyoukai non aveva approfittato delle sue condizioni e non lo aveva ucciso? Avrebbe potuto infierire su di lui, inerme e privo di coscienza, e poi rimandare il suo cadavere al campo, monito per chi osava sfidarlo. O anche appendere le sue spoglie alle mura del palazzo. Una coreografia macabra e disgustosa, ma di sicuro effetto sul morale delle truppe avversarie. Avrebbe galvanizzato i suoi uomini e gettato nella costernazione i soldati di Morigawa. E invece, con sua sorpresa, Shin apprendeva che non solo Sesshomaru non lo aveva ucciso, ma lo aveva anche fatto curare, alloggiandolo in una stanza vera e propria e non in una cella. Forse voleva tenerlo in vita perché ponderava l’ipotesi di un possibile ricatto o di uno scambio. Ecco, quello sarebbe stato un ottimo stratagemma, peccato solo che a suo padre di lui non importasse più nulla. Lo aveva totalmente cancellato dalla sua mente, e la prova l’aveva avuta quando lo aveva condannato al disonore. Lui, Principe dei kuroinuyoukai, costretto a subire l’oltraggio solo perché aveva cercato di mantenere alto il nome della sua stirpe.

 

C’erano molti interrogativi nella mente di Shin. Domande e supposizioni che si avvicendavano veloci, trascinate dalla frenesia di comprendere in quale reale frangente si trovasse, spronate dal desiderio di far chiarezza prima che la debolezza lo cogliesse di nuovo, gettandolo nel buio dei sogni. Una smorfia gli storse le labbra. Patetico. Lui non avrebbe mai tradito il suo Clan, anche se significava condannarsi a morte, e poi, suo padre non lo metteva a parte delle sue intenzioni da molto tempo. Da quando quel maledetto hanyou era apparso. Socchiuse gli occhi, liberando un leggero respiro. Falso. Falso. La nomina di Naraku a luogotenente era stata la molla che lo aveva costretto ad aprire gli occhi, che gli aveva fatto balenare nella mente particolari e dubbi che si erano accumulati negli anni e che lui aveva sempre, cocciutamente, accantonato, tuffandoli in un anglo nascosto della sua mente.

 

Richiuse completamene gli occhi, abbandonandosi nel futon. Si sentiva così stanco. Annullato. Svuotato. Cercò di rilassarsi completamene e lasciò che i pensieri fluissero senza controllo, senza preoccuparsi del loro avvicendamento logico. Non gli interessava più che avessero una logica. Non l’avevano mai avuta. Carrellate di sensazioni, immagini, ricordi, realtà e fantasie sfilarono lente e dolorose, sferzanti. Mille particolari…e la consapevolezza che si stava consumando qualcosa che forse si sarebbe potuto evitare. La sensazione orribile di esser stato solo una pedina, un pezzo da giocare al momento opportuno e togliere dalla scacchiera appena divenuto ingombrante.

 

Shin si lasciò travolgere da rimorsi e critiche così pungenti che gli laceravano lo spirito, ignorando completamente Homoe che si era chinata su di lui per controllare lo stato delle ferite. La yasha lo aveva sfiorato molte volte, mentre era incosciente; gli aveva cambiato le bende e terso il sudore che gli imperlava la fronte. Aveva sentito il suo corpo teso a contrastare inconsciamente il dolore, percosso dai tremiti del freddo, accaldato dal veleno che lo divorava. Eppure, in quelle settimane non aveva mai percepito una tensione simile a quella che adesso contraeva i muscoli del ragazzo.

 

Shin sembrava dormire, completamente rilassato e immobile. Eppure, bastava soffermarsi un istante sul suo volto scavato e pallido per cogliere la leggera smorfia di disappunto che gli storceva la bocca. Le membra tese e percorse da un fremito sottile, quasi impercettibile. Si stava dominando. Era palese. Ma tutta la sua frustrazione era evidente da semplici accenni: un gesto nervoso spezzato d’inconscio, uno scarto frenato, un’imprecazione inghiottita. E poi, quella maledetta domanda che gli ronzava in testa. Assillante. Perché era vivo? Perché? Perché?!

 

Non aveva mai avuto alcuna intenzione di morire, ma se lui si fosse trovato al posto del Principe dell’Ovest non avrebbe esitato un solo istante e avrebbe ucciso il suo nemico. Forse avrebbe commesso uno sbaglio, ma non avrebbe lasciato in vita e anche curato uno dei responsabili di un’offesa arrecatagli. E Sesshomaru non aveva la fama del sovrano clemente e misericordioso. Al contrario, era noto in Nihon e anche sul Continente per la sua glaciale indifferenza, che a volte scadeva nell’efferatezza. Per la sua potenza che si basava sul sangue. Le caratteristiche che lo avevano portato, giovanissimo, al vertice della Famiglia e a capo del Consiglio.

 

Si risolse a voltarsi verso Homoe, senza la certezza di trovarla ancora accano a lui. Era rimasto in silenzio per molto tempo, smarrito in echi mentali e perdendo completamente la cognizione del tempo. E invece, la yasha aveva aspettato pazientemente che lui tornasse a concentrarsi sul presente. Non furono necessarie parole perché Homoe capisse cosa l’youkai desiderava sapere. Era una richiesta più che legittima, naturale in definitiva. Chiunque si sarebbe interessato al perché un nemico, con una guerra in atto, si dovesse far degli scrupoli e risparmiare un avversario, anche considerando il fatto che la morte di Shin avrebbe arrecato non poco danno al nemico. In effetti, probabilmente, se Sesshomaru si fosse trovato da solo davanti al ragazzo non avrebbe esitato un istante a ucciderlo. Anche senza nessun motivo reale. Avrebbe potuto eliminarlo semplicemente perché gli aveva intralciato il cammino. Per fortuna di Shin, invece, quando alcuni demoni lo avevano trovato e trasportato a palazzo scambiandolo per uno dei loro, Kumamoto lo aveva riconosciuto ed era riuscito a ottenere dal Principe il permesso che fosse alloggiato a palazzo e curato dall’archiatra di corte.

 

Alessandra aveva dedicato molto tempo ed energie alla persona di Shin, chiudendogli le ferite da arma da fuoco e medicandogli quelle che il letto sassoso del fiume gli aveva provocato. Infatti, benché la corrente impetuosa e le pietre aguzze avessero martoriato il corpo si Shin, il ragazzo doveva la sua salvezza proprio a quell’acqua limacciosa, che aveva lavato i proiettili nel suo corpo del veleno di cui erano imbevuti, impedendo così che entrasse in circolo in quantità mortale. Quello che era stato inevitabilmente assorbito era sufficiente a paralizzare le facoltà rigeneratrici di un demone, ma non bastevole a ucciderlo.

 

“Perché sono vivo?”

 

Un respiro, quasi un pensiero sussurrato, ma pronunciato abbastanza chiaramente da esser udibile a Homoe. Shin voleva sapere. Doveva sapere. Per dipanare almeno un po’ la confusione che gli attanagliava la testa. Per cercare di estorcere qualche informazione e potersi regolare di conseguenza. In definitiva, non poteva dimenticare che si trovava nelle mani del nemico. Un nemico che forse ignorava la realtà della situazione, gli avvenimenti di quattrocento anni prima. Si voltò con un movimento lento della testa verso la yasha. Voleva sapere. E nei suoi occhi Homoe lesse disperazione e un fuoco oscuro e ammaliatore.

 

*****

 

Nigatsu.

Il mese più corto. L’ultimo dell’inverno. Presto, la neve si sarebbe sciolta del tutto e il vento e le stagioni avrebbero ripetuto il loro eterno gioco. Un avvicendarsi lento, scandito da ritmi arcani. Cadenze che il suo mondo aveva dimenticato da tantissimi anni. Che forse aveva volutamente accantonato. In nome di un progresso che non sapeva se migliore o peggiore.

 

Nigatsu…Sei mesi…Erano quasi sei mesi che era in quel mondo, in quell’epoca antica e pregna di consuetudini dal sapore arcano. Magiche. Sei mesi da quando si era risvegliata in un bosco bianco, sotto un cielo che vomitava neve. Sola. Distrutta nell’animo. Ma ancora aggrappata alla vita il necessario per non lasciarsi andare. Per trascinare lentamente la sua esistenza. Fra altalene emozionali e brevissimi istanti di tranquillità.

 

Sei mesi…Da quanto aveva incontrato lui. Da quanto aveva ingaggiato una sfida muta. Disperata. Chissà perché l’aveva fatto. Quando lo aveva incontrato per la prima volta, avvolto dalla luce del crepuscolo, non lo aveva nemmeno notato. Era solo riuscita a pensare che era l’uomo che Rin cercava. Troppo concentrata su se stessa, sullo spasmodico tentativo di allontanare da sé il mondo e qualsiasi cosa che potesse nuovamente ferirla, anche solo per realizzare l’assurdità di quell’incontro. Si era trovata di fronte un demone, e non aveva avuto una minima reazione di stupore o sconcerto. Aveva, invece, avuto la folle idea di sfidarlo; di mantenere gli occhi fisi sul suo volto. Aveva avuto la sfacciataggine di rispondergli, senza piegarsi. Un sorriso ironico. Leggero. A ripensarci, le sembrava incredibile. Come minimo, avrebbe dovuto farsi cogliere dal panico. E non solo perché gli si era materializzata davanti uno creatura mitologica, una creatura che non avrebbe mai dovuto esistere, ma perché era pericoloso. Mortale.

 

Scosse le spalle, sistemandosi meglio lo scollo del kimono. Era appena l’alba e la pioggia che cadeva incessante dalla sera prima lasciava sulla pelle un’umidità pesante, opprimente. Le era sempre piaciuta la pioggia. Più del sole. Eppure, nonostante in quel momento permettesse al palazzo di rifiatare e allentare la tensione, le sembrava racchiudere un presagio orribile. O forse, era lei che somatizzava troppo ogni situazione. Comunque, il cielo piangeva. Lacrime fredde e continue. Assordanti nel loro sibilo. Piangeva per tutti quelli che erano morti in quegli ultimi giorni.

 

Alessandra si formò sull’engawa, lasciandosi scivolare a terra lungo uno dei sottili sostegni di legno. Benché fossero ormai quasi due mesi che l’assedio era iniziato, lei non era ancora riuscita ad abituarsi all’odore di morte che costantemente aleggiava attorno ala palazzo. Abbassò lo sguardo alle sue mani. Quanti demoni erano morti, senza che lei riuscisse a far nulla per aiutarli? Quante volte aveva dovuto reprimere conati e svenimenti per restare al suo posto, a ricucire ferite, bendare arti amputati, a operare e medicare?...

 

Nascose le mani nelle lunghe maniche e si abbracciò stretta. All’improvviso, sentiva freddo. Tanto freddo. Un gelo che neanche il kimono awase riusciva a frenare. Assolvere il suo compito di archiatra le costava ogni volta un grande sforzo, una violenza che faceva a se stessa, costringendosi fra sangue e dolore. Eppure, sapeva che non si sarebbe mai tirata indietro. Aveva accettato, anche se Sesshomaru l’aveva messa di fronte al fatto compiuto senza accennarle nulla in proposito. Ormai, quello era il suo compito. Tuttavia, negli ultimi giorni più volte aveva dovuto allontanarsi dal padiglione. Aveva davvero raggiunto il limite.

 

Quei corpi…Quella teoria sanguinante, spettrale…Nel giro di poche ore, tutto era cambiato e la freddezza che aveva costruito attorno a sé per non cedere mentre prestava alla sua opera di chirurgo si era frantumata. Spezzata come cristallo. Non ricordava più neanche quante volte aveva dovuto farsi sostituire e allontanarsi. Anche solo per raggiungere la piccola zona della tenda che le era riservata e coprirsi le orecchie. Con disperazione. Inutilmente. Perché le grida non venivano attenuate e le rimbombavano nella testa dolorose. Devastanti.

 

Molte lingue, imprecazioni, esclamazioni, invocazioni…ma soprattutto urla. Urla strazianti. Disumane. E alle grida si sommavano le immagini cariche d’orrore che ogni giorno le sfilavano davanti agli occhi. E l’odore nauseante della carne che brucia. L’odore acre del fumo mescolato all’incenso. I morti erano tanto numerosi che era stato dato l’ordine di bruciarne i corpi, per evitare il diffondersi di malattie. Spesso, capitava che nel groviglio sanguinante di carne si trovasse un demone ancora vivo. Una maschera orribile di sangue. Non era più neanche riconoscibile. Sfigurato dal dolore e dal ferro.

 

Granate. I nemici avevano iniziato a ricorrere alle granate. Appena erano riusciti a far breccia nelle mura, avevano scoperto la loro ultima arma: quei maledetti proiettili metallici. Appena toccavano terra, esplodevano in una miriade di schegge di metallo e ferro. Penetravano la carne, laceravano muscoli e giunture, strappavano urla che si confondevano con detonazioni che squassavano il campo di battaglia, salendo fino al cielo. E quando la polvere si diradava, il risultato era una carneficina. Impossibile da ignorare. Da dimenticare. Perché se anche i corpi venivano sgombrati, restavano i solchi prodotti dall’esplosione. Ferite nere nella rena della piazza d’armi.

 

Alessandra strinse con più forza la stoffa del kimono, rannicchiandosi su se stessa nel disperato tentativo di proteggersi da quella realtà che non avrebbe mai voluto conoscere. Dall’orrore di una guerra che era insensata. Inutile. E che mieteva ogni istante vittime. Demoni. Di tutti i livelli. Una guerra che avrebbe potuto portarle via anche lui. Lui!

 

Non lo vedeva quasi mai. Non potevano quasi mai trascorrere un istante assieme. Da quando la situazione era degenerata, in quegli ultimi giorni, Sesshomaru non si era concesso un solo istante di riposo. E non l’aveva concesso nemmeno ai suoi subordinati. L’attenzione al castello era sempre massima, e lui si era dovuto districare fra moltissimi impegni e prendere decisioni basilari in pochissimi secondi. Aveva anche dovuto accettare l’aiuto che Miroku gli aveva offerto. Un’umiliazione di cui non si era curato. In quel momento, l’unica cosa che sembrava importante per il Principe era la vittoria. Una vittoria che si stava rivelando troppo lunga da ottenere. E che lo spazientiva.

 

Sesshomaru era abituato ad attaccare, non a difendersi. Non era uno sciocco né un impulsivo, e non era facile esasperarlo, se in gioco c’era il suo onore. Ma, al contempo, era estremamente suscettibile se si trovava ad affrontare una situazione di cui non aveva il diretto controllo o in cui non era lui a condurre il gioco. E in quella guerra lui era quello svantaggiato. Asserragliato in casa sua. Ferito nella sua persona, nel suo orgoglio. Bastava un nonnulla per scatenare la sua collera. Gelida e spietata. E per questo ancor più pericolosa.

 

Alessandra si era accorta che attorno a Sesshomaru tutto ruotava posandosi sulla violenza e sul timore. La maggior parte di chi lo serviva era accondiscendente solo per paura. Lui era il più forte, e per questo gli andava portato rispetto e obbedienza. Sesshomaru possedeva sui suoi subalterni pieno potere di vita e di morte. Poteva mandarli a morire con un semplice cenno, quasi con sufficienza. E loro avrebbero dovuto piegare il capo ed eseguire. Senza possibilità di protestare. Eppure, lei non temeva l’inuyoukai. Non lo aveva mai temuto.

 

La prima volta che lo aveva visto, all’inizio, lo aveva scambiato per un ragazzo. Per un essere umano. E ancora in lui cercava i segnali di quel giorno. Lo vedeva sempre e solo come un ragazzo. Il demone le si mostrava estremamente di rado, e quasi mai quando erano soli. Neanche in condizioni normali Sesshomaru l’avrebbe palesemente cercata,di questo era certa; la sua educazione lo portava a reprimere qualsiasi tipo di manifestazione emotiva, lasciando trapelare solo piccoli accenni che rendevano i pochi attimi che trascorrevano assieme avvolti da un sentimento così difficile da definire…Eppure, Alessandra era convinta che il demone non le avrebbe mai fatto del male. Non ne aveva paura, perché le permetteva di vivere. Le aveva ridato la vita.

 

Sesshomaru…C’erano istanti, come quando l’angoscia le attanagliava lo stomaco o le condizioni dei feriti erano davvero raccapriccianti, che le risultava insopportabile la sua lontananza. Momenti in cui chiudeva gli occhi alla disperata ricerca del ricordo di un suo abbraccio, di una sua carezza. Le bastava riuscire a ricordare anche solo il calore del suo corpo e il profumo della sua pelle per riceverne un effetto calmante. Bastava solo il profilo fiero e austero del suo viso. C’erano volte che avrebbe voluto vederlo comparire nel padiglione, vederlo entrare per portarla via. Lontana da quel mondo. Lontana dal sangue.

 

Scosse la testa, mentre un sorriso amaro le storceva le labbra. Fantasie. Sesshomaru non sarebbe mai andato a prenderla. Non avrebbe mai rinunciato alla battaglia. Al sangue. Non lo faceva per cattiveria, non lo faceva perché voleva costringerla fra orrori e morte, ma semplicemente perché la sua natura lo spingeva a non ignorare la provocazione, l’offesa.

 

Le mancava. Tanto. Troppo, a volte. La frenesia delle giornate non le impediva di rivolgere a lui i pensieri delle rare pause che aveva. Quasi un’ossessione. Lentamente, stava vedendo scemare la forza che l’aveva sorretta fino a quel momento. Trasportata via dalla stanchezza, dalla frustrazione, dall’ansia. Ansia per lui. Per la sua sorte. Ansia dettata dal fatto che non poteva mai chiedere nulla. Doveva sempre aspettare; attendere se l’avrebbero chiamata perché era stato ferito o se invece avrebbe dovuto medicare solo soldati. Momenti trascorsi con il fiato annodato fra la gola e lo stomaco. Costretta a dissimulare.

 

 Fingere. Aveva sempre dovuto fingere. Con la corte, ma anche con tutte le persone con cui condivideva le giornate. Mentire a Kagome, Inuyasha, a Koga e Ayame…a tutti. Mostrare un volto ipocrita e falso. Una faccia che la nauseava. Eppure, non poteva fare diversamente. Non poteva permettere di tradirsi. Anche se era sempre più difficile.

 

Controllarsi. Doveva sempre domare le sue reazioni, gustandosi le poche fuggevoli occhiate che lei e Sesshomaru riuscivano a scambiarsi. Da lontano. Non riusciva quasi più neanche ad avvicinarlo. Rapito dal vortice della guerra. Assorbito in una realtà militare che lei conosceva, e che sapeva necessitare di tutte le attenzioni del Principe.

 

Eppure, Alessandra lo avrebbe voluto accanto a sé. Anche solo per una notte. Anche solo per poche ore. Perché, da quando lo aveva conosciuto, aveva imparato che pochi istanti possono valere quanto un’intera esistenza. Lo avrebbe voluto con sé. Egoisticamente. E lo sapeva. Sapeva che quello era solo un capriccio. Lo sciocco desiderio di una ragazza innamorata, insignificante davanti alle molte vite che ogni giorno si spegnevano. Eppure, non poteva esimersi da formulare quel pensiero. Non voleva esimersi.

 

Chiuse gli occhi, inghiottendo le lacrime. Bruciavano dannatamente la gola, scendendo ad aumentare il nodo che le rendeva penoso il respiro. Si stava comportando come una stupida. Ma non le importava. Per un istante, voleva davvero lasciare libero sfogo a tutto quel groviglio emozionale che teneva dentro di sé. I suoi nervi erano davvero al limite. Gettò indietro la testa, mentre alcune lacrime sfuggivano al suo controllo e scendevano a disegnarle il viso. Un pianto muto e disperato. Un pianto per sfogarsi.

 

Perché, a volte, il vedere il rapporto che intercorreva fra i suoi amici, la spontaneità di alcuni gesti, la dolcezza di una carezza o di uno sguardo, erano stilettate che le facevano sanguinare il cuore, andando ad aggiungersi a frustrazione e stanchezza. Perché? C’era solo quella domanda nella sua testa. Perché loro sì? Perché anche lei non poteva vivere il suo sentimento?

 

Sapeva che quello era solo uno sfogo. Il risultato di giorni, mesi di rigido autocontrollo. Sapeva che non le sarebbe mai uscito un lamento dalle labbra. Tuttavia, Alessandra non riusciva proprio, in quel momento, ad articolare coerentemente il suo pensiero. Aveva visto, in poco tempo, troppe cose che l’avevano segnata nel profondo. Facendo riaffiorare ferite non ancora del tutto chiuse, gettandola in una realtà che non era minimamente pronta ad affrontare. Si passò una mano nei capelli. Si stava dimostrando debole. Pietosamente debole. Incapace di reagire. Si stava mostrando indegna di Sesshomaru.

 

Lui così perfetto, così intoccabile. Sempre ordinato e composto. Sempre controllato. Lui così…affascinante. Quanto tempo era dovuto trascorrere perché ne subisse il fascino malinconico e fiero? Non lo sapeva. All’inizio, la sua bellezza l’aveva colpita, ma non conquistata. Come la sua voce. Era stato il dopo, a farla innamorare. Un qualcosa di imprecisato. Non un atteggiamento, né uno sguardo o una parola…erano state tutte queste cose insieme, ma nessuna di preciso. Semplicemente, si era lasciata avvicinare dai suoi modi freddi, ma rispettosi.

 

Quanti altri demoni l’avrebbero trattata allo stesso modo? Sesshomaru l’aveva minacciata, la prima volta che i loro occhi si erano incrociati, ma poi…poi aveva mostrato l’educazione che probabilmente gli deriva dal suo rango. L’autorità mescolata alla freddezza e alla determinazione, cui si associa un’affabilità strana. Ma per nulla stridente. Un’affabilità che il Principe aveva mostrato solo a lei. Per motivi sconosciuti.

 

Sesshomaru l’aveva rispettata. Anche quando dormivano assieme, Alessandra non aveva nessun timore. Sapeva perfettamente che il ragazzo non avrebbe mai approfittato di lei nel sonno. Che quel pensiero gli era totalmente estraneo. Di lui si fidava ciecamente. Una sensazione sentita a pelle. Senza una ragione precisa. Ma che l’aveva portata fra le sue braccia.

 

Si rilassò contro la colonna sottile. Sesshomaru non le avrebbe mai detto di amarla, ormai lo sapeva. Né si sarebbe mai dichiarato apertamente. Effusioni e dimostrazioni d’affetto gli erano totalmente estranee in pubblico, e anche nell’intimità delle sue stanze erano sempre filtrate da una specie di freno. Come se il lasciarsi andare completamente gli fosse impossibile. Alessandra non poteva comunque rimproverargli di trattarla con indifferenza quando erano soli; con pochissime azioni era capace di farla sentire la persona più importane del mondo.

 

Glielo aveva detto. A palazzo, lui sarebbe stato diverso. La complicità che si era creata fra loro avrebbe dovuto trovare nuovi mezzi di espressione. Capaci di non insospettire minimamente la corte. Un gioco interessante, senonchè era estremamente servante. L’unica consolazione, era il premio finale: la labbra del bel demone sulle sue. E i pochi istanti che Alessandra e Sesshomaru riuscivano a trovare bastavano a ripagarli anche di molte ore di lontananza. Ma soprattutto, era straordinario il legame che si era creato fra loro. Non avevano mai bisogno di parlarsi. Benché la cecità precludesse al demone la possibilità di leggere le emozioni della ragazza, riusciva sempre a intuirne lo stato d’animo. Come Alessandra riusciva sempre a trovare le parole o i gesti adatti per spronarlo o rilassarlo.

 

Si sostenevano a vicenda, poggiando il loro reciproco equilibrio si istanti labili ed effimeri. Quasi inconsistenti e che avrebbero sorpreso chiunque. Erano capaci di amarsi, gustandosi solo pochi minuti, e poi di comportarsi con estrema indifferenza con gli altri. Come se non si fossero mai scambiati neanche un bacio o una carezza. Alessandra lo amava in tutte le sue sfaccettature. Dalla più infantile a quella terribile della morte. E Sesshomaru traeva da lei la forza per non abbandonarsi mai alla brutalità del massacro e al richiamo del sangue.

 

Alessandra si sfiorò le labbra. Cercava di richiamare la sensazione che provava nell’avvertire quelle del demone sulle sue. I brividi piacevoli che le trasmettevano. Si era accorta spesso che i loro corpi si chiamavano, e doveva essersene accorto anche Sesshomaru, ma non aveva mai fatto nulla per forzarla. L’aveva sempre lasciata libera di condurre il gioco della seduzione, accontentandosi delle carezze innocenti e dei baci. Senza mai dare segni di fastidio o impazienza. Il bel demone, il Principe dell’Ovest, si lasciava domare solo da lei. Le permetteva un controllo totale della sua persona. E la ragazza sapeva che quello era il suo modo per dimostrare che l’amava. Non con le parole, che a volte gli risultava così difficile usare. Quasi le temesse. Quasi percepisse in loro un potere magico. Arcano. Non le diceva nulla, ma le dimostrava il suo amore con le azioni. Con un rispetto che, Alessandra era certa, non era affatto comune nei demoni. Soprattutto nei riguardi di una ningen.

 

Si passò le mani sul volto, asciugandosi le scie umide delle lacrime. Una sensazione piacevole: le sue mani calde sulla pelle fredda e bagnata. Un gesto che la rilassò maggiormente, facendole socchiudere gli occhi. Aveva lasciato che i pensieri fluissero spontanei e illogici. Non si era minimamente preoccupata di articolarli in modo coerente e dar loro un andamento logico. Se ne era semplicemente lasciata investire. Schiacciare, per potersene liberare. Ne aveva preso coscienza. Era consapevole del fatto che quella non era la soluzione migliore, perché in un simile frangente converrebbe esser propositivi, ma lei, invece, aveva fatto di testa sua. Come al solito. Preferendo affogare in dubbi e dispiaceri, abbandonandosi a una fiumana mentale pericolosa, ma che le dava la forza di andare avanti. Un controsenso, in apparenza. In realtà, la piena consapevolezza dei suoi limiti, dei suoi punti deboli, era stata da sempre la sua arma migliore. Per non trovarsi mai impreparata. Per non permettere che odio e gelosia facessero presa in lei oltre il minimo naturale.

 

Gelosia…Era gelosa. Di Sesshomaru. Ma non in modo possessivo. Forse, anche quel sentimento era dovuto alla loro relazione difficile e al poco tempo che potevano passare assieme. Alessandra, però, era gelosa dei generali, dei soldati, che potevano vederlo, ascoltare la sua voce, fissare il suo viso. A lei, quei piccoli piaceri erano quasi negati. Sì. Era gelosa. Ma una gelosia sottile che la faceva arrossire, di vergogna e imbarazzo. Perché l’invidia che provava non era nulla di strano. Era normale che si sentisse sola e isolata; era normale che il Principe passasse molto tempo con i suoi subalterni, e che lei soffrisse la sua lontananza. Era tutto maledettamente normale. Umano. E lo accettava, gustandosi anche quelle emozioni contrastanti.

 

Ale-chan…”

 

Un sussurro fra la pioggia. Catturò la sua attenzione e la riportò alla realtà, su quell’engawa dove era rimasta seduta per un tempo indefinito. Al riverbero rosso del fuoco, distinse la sagome di Rin. Non si sarebbe mai aspettata di vederla a quell’ora. Era ancora prestissimo, e se lei ormai era abituata a seguire i ritmi del demone, Rin era ancora troppo piccola per adattarvisi completamene. Allora, cosa ci faceva lì invece che al caldo nel suo lettino?

 

Le sorrise rassicurante, perché aveva capito che qualcosa non andava. Rin aveva ancora gli occhi pieni di sonno e lo yukata che indossava per dormire. Inoltre, non c’era neanche Kiba con lei. E la cosa era davvero inusuale visto che il lupacchiotto non lasciava mai la sua padroncina. Probabilmente, era successo qualcosa che aveva spinto la bimba a uscire dalla sua stanza in fretta. Tanto in fretta da non svegliare nemmeno il suo amichetto.

 

Alessandra le tese le braccia e un attimo dopo stringeva a sé il corpicino tremante di Rin. Non piangeva, ma non occorreva avere il fiuto di un demone per accorgersi della sua paura. Probabilmente, in quei giorni, Rin si era sentita abbandonata: né lei né Sesshomaru potevano passare del tempo con la bimba e anche Inuyasha e i suoi amici erano pieni di compiti e incombenze che li portavano lontano dagli appartamenti privati. Lontano da Rin. Homoe aveva provato a tenerla con sé, alcune volte, ma la visione della frenesia che attraversava il palazzo, il senso di agitazione e apprensione, erano deleteri sulla psicologia di Rin. Era meglio lasciarla al sicuro, nelle sue stanze. Con la presenza vigile di Kiba e di un soldato della guardia scelta.

 

Rin si rannicchiò fra le braccia di Alessandra. Tremava leggermente, un po’ per il freddo, un po’ per la sottile agitazione che da giorni le attraversava il corpo. Sapeva che fuori le mura si stava facendo la guerra, e che anche il suo signore andava ogni giorno a combattere. Sapeva che Ale-chan era sempre occupata, perché era il medico e doveva aiutare molti demoni a guarire; sentiva tutti i giorni dei boati simili al tuono, ma molto più forti e spaventosi. Le entravano dentro, facendole sussultare il cuore e rimbombavano nella cassa toracica.

 

A Rin non piacevano quei suoni. Quei cupi rimbombi. Quando li sentiva, si tappava le orecchie accucciandosi a terra, nel tentativo di farsi piccolissima e di scomparire, e si rannicchiava nell’angolo più nascosto e buio della stanza. Se qualcuno fosse entrato in quei momenti, avrebbe faticato a distinguere la figura della bimba, accoccolata a terra e protetta dal copro di Kiba.

Non le piacevano quei suoni, ma non le piaceva neanche il colore del cielo. Soprattutto la notte. Un cielo sempre rosso e arancio. Infuocato. Piene di colonne di fumo che si alzavano scure nella luce spettrale. Fuoco. Tanto fuoco. Per notti intere, il fuoco arrossava il cielo.

 

Rin ormai temeva anche solo ad aprire le shoji della sua stanza, perché aveva paura di vedere sempre quel cielo. Non le piaceva proprio. Le faceva tornare alla mente una notte lontana. Lontanissima nella sua memoria di bambina. Una notte che aveva infestato a lungo i suoi incubi Quando era ancora sola e, se si svegliava sudata e tremante nel cuore della notte, non c’era nessuno accanto a lei. Una notte maledetta, in cui aveva gridato tanto, ma senza che la voce le uscisse dalla gola. Aveva gridato con gli occhi, con le membra contratte in spasimi lancinanti, con l’orrore che sentiva invaderla e gettarla nel panico più totale.

 

Non le piaceva il cielo rosso, perché le faceva ritornare alla mente la notte in cui i briganti avevano ucciso la sua famiglia. Una bella notte d’estate, arrossata dal fuoco appiccato al suo villaggio. Una notte in cui l’inferno era sceso in terra. Rosso il cielo, rossa la terra, rossa ogni figura, ogni corpo straziato. Rosse anche le sue mani mentre scuotevano i corpi dei suoi genitori, di suo fratello…Rosso…Troppo, per una bimba di soli quattro anni.

 

Anche in quel momento il cielo era infuocato. Rin ne aveva visto il riflesso oltre i pannelli di carta di riso. Un riverbero tenue che lambiva la sua stanza, quasi un improbabile tramonto estivo. Aveva sentito l’agitazione farsi lentamente strada in lei, assieme alla paura. Aveva steso la mano, chiudendo gli occhi. Aveva aspettato. Tanto. Infine, era stata costretta a riavvicinare la manina al petto. Era fredda, la sua mano. Tanto fredda. L’aveva coperta con l’altra e l’aveva stretta forte. Piangendo piano.

 

Non c’era la mano di Sesshomaru a farle coraggio. Non c’era il suo signore accanto a lei, a vegliarla e proteggerla. Era sola, e aveva freddo. Tanto freddo. Aveva teso la mano, e chiuso gli occhi. Avrebbe voluto sentire gli artigli del demone sulla sua pelle. Avrebbe voluto sentire la stretta calda e discreta del suo signore. Come quella volta. Come in una notte ormai trascorsa, quando lui l’aveva presa con sé e lei ancora non parlava. Una notte come le altre, in cui gli incubi continuavano a tormentarla: il rosso del fuoco, il nero della morte, i colori spenti di un sentiero che non aveva mai visto prima di allora. Gigio e triste. Tanto triste. Aveva aperto gli occhi e aveva visto il Signor Sesshomaru seduto poco distante. Indifferente. Forse era stata la disperazione, forse la sua ingenuità di bambina, ma Rin aveva teso la mano verso quell’algida figura. Verso il bianco.

 

L’aveva allungata sul terreno per quanto il suo piccolo corpo stanco glielo aveva permesso. Non lo aveva raggiunto. Non era neanche riuscita a sfiorarlo. Lui era lì, davanti a lei, ma irraggiungibile. Aveva chiuso gli occhi e iniziato a trascinare la mano sulla terra. Non avrebbe mai potuto toccarlo…Dolcezza. Uno carezza leggera, e una mano grande. Molto grande. Aveva raccolto la sua. L’aveva allontanata dalla terra fredda, e chiusa al caldo. Al sicuro.

 

Sesshomaru non era riuscito a ignorare quel gesto. Quel tendersi disperato della bimba umana che aveva iniziato a seguirlo senza un perché. Lo spietato demone non era riuscito a guardare con indifferenza quella mano gracile e pallida, abbandonata sulla terra nera. Qualcosa lo aveva costretto ad allungare i suoi artigli. Ad afferrare quella mano. Qualcosa che lui non conosceva e che non aveva mai provato.

 

Quella notte, Rin aveva dormito per la prima volta tranquilla dopo tanto tempo. Con la sua mano stretta a quella di un demone. Con la sua piccola manina cullata dal discreto calore di un essere che avrebbe potuto ucciderla. E che invece le dava sicurezza solo con la sua presenza.

 

Adesso, invece, Sesshomaru non era con lei. Sesshomaru non c’era mai. Era sempre lontano. Tanto lontano. E Rin aveva paura che non tornasse più da lei. Che si dimenticasse di lei in una stanza di quel grande palazzo. Lei aveva provato a cercarlo. Aveva camminato per i preziosi corridoi, aveva aperto stanze e salito scale. Niente. Il bel demone sembrava esser sparito. Ma Rin aveva paura che non si facesse trovare solo da lei. Che Sesshomaru fosse arrabbiato con lei.

 

“Perché Sesshomaru-sama non va più da Rin? È arrabbiato con Rin?”

 

Un sussurro pieno di curiosità. Ma non quella gioiosa di un bimbo che vuole esplorare, che si avventura in un mondo fantastico. La curiosità di un bimbo che non capisce. O che ha paura di aver capito troppo bene e non vuole accettare. Una curiosità disillusa, quasi uno scoglio cui aggrapparsi, prima di esser trascinato in fondo. Prima di affondare.

 

Alessandra la strinse a sé con tenerezza, accarezzandole la testolina arruffata. Le mancava. A Rin mancava la presenza del suo signore accanto a sé. Le mancava la figura attorno cui ruotava tutto il suo mondo. Per la bimba non poter vedere Sesshomaru, non potergli regalare il suo sorriso, non poter raccogliere per lui fiori o ghiande, o anche semplicemente non poter più scrutare curiosa il suo viso impassibile, era come la morte. Era come se le avessero portato via l’aria. Non era facile capire che rapporto intercorresse fra il demone e la bimba, ma era un qualcosa di cui necessitavano entrambi. Qualcosa che permetteva loro di non smarrirsi e di andare avanti. Rin si rapportava all’youkai senza alcun timore, con rispetto privo però di ogni possibile traccia di paura. Lo vedeva come un fratello, o forse come un padre. Ma era anche possibile che non si fosse mai soffermata a rifletterci. Per lei, era solo il Signor Sesshomaru. Il demone algido che l’aveva strappato alla morte. Ad una signora nera e triste. Sola.

 

Per Sesshomaru invece era più difficile stabilire il rapporto. Alessandra aveva visto l’affetto che voleva alla bambina, ma non sarebbe mai stata in grado di dire cosa esattamente Rin rappresentasse per lui. Forse una sorellina da proteggere, forse una figlia. O forse, più semplicemente, la prima creatura che lo aveva guardato senza timore. Il primo essere vivente che gli avesse mostrato un po’ di affetto. Folle. Irrazionale. Ma sempre affetto.

 

E adesso, l’assenza di Sesshomaru, del destinatario di quel legame, stava facendo soffrire Rin. La gettava nel buio del dubbio e dell’angoscia. In ragionamenti forse troppo difficile anche per una bambina abituata a trascorrere la sua vita con i demoni. Soprattutto per una bambina che sulla presenza di un demone aveva rifondato la sua vita.

 

“Sesshomaru ha molto da fare”

 

Voce pacata, per tranquillizzarla e dissipare le sue paure. Alessandra cercava di spiegare a Rin la realtà della guerra, che costringeva l’youkai ad essere sempre presente sul campo, vigile e attento. Che lo costringeva a tralasciare quel piccolo mondo che si era costruito attorno a lui, forse senza che lui se ne rendesse realmente conto. Un universo schivo e fragile, in cui rifugiarsi per rifiatare e non essere giudicato. Un universo quasi clandestino, che difficilmente il demone avrebbe fatto accettare alla corte, e che forse, lui stesso, doveva realizzare con piena cognizione di causa. Un mondo in cui rientravano solo due persone. Due ningen: Alessandra e Rin.

 

La bimba sembrò capire. Mente ascoltava le spiegazioni soffuse della ragazza, mentre sentiva quelle parole scivolare lentamente in lei, la paura di essere rimasta sola si attenuava lentamente, diventando un lumicino che un semplice soffio avrebbe potuto spegnere. Un soffio che però, Alessandra ne era consapevole, non sarebbe mai potuto scaturire dalle sue labbra o da quelle di un’altra persona. L’unico che avrebbe potuto spegnere definitivamente quella debole luce che ancora minacciava un fuoco di terrore, era solo Sesshomaru.

 

*****

 

“Non dovresti essere qui, ma a riposare”

 

Kagome sollevò stancamente la testa, regalando un fugace sorriso all’amica. Un sorriso lontano. Triste. Si era aspettata che sarebbe venuta. Quasi scontato, anche se sperava che dormisse ancora un po’. In definitiva era da poco passata l’alba e la pioggia avrebbe regalato almeno un po’ di riposo. Avrebbe dovuto restare a letto, invece che alzarsi per andare a cercare lei. In definitiva, non c’erano molte possibilità a quell’ora a palazzo. Perciò…perciò non avrebbe dovuto, accidenti a lei! La stanchezza che gravava su entrambe era diversa, e Kagome lo sapeva bene: non erano toccate a lei le sfibranti battaglie dei giorni precedenti. Non era stata lei a dover respingere demoni che ti assalgono da ogni lato, attenta che nessuno superasse la difesa e colpisse le mura. Non era stata lei a vedersi scagliar contro proiettili e granate, e a correre col respiro interrotto, con la paura di non farcela.

 

No. Non lei. Non l’avevano voluta con loro sul campo. Non glielo avevano permesso. Lui non glielo aveva permesso. Kagome lo sapeva che la decisione era dettata solo dal desiderio di proteggerla e non dal fatto che la ritenessero incapace di difendersi. In fondo, avevano già combattuto molte battaglie, si erano già scontrati con youkai potenti e agguerriti. Negli anni trascorsi, vagabondando alla ricerca della Sfera, fra loro si era creato un affiatamento unico, quasi irripetibile. Si capivano e si completavano a vicenda, nonostante i caratteri e i temperamenti diversi. Litigavano, e l’intesa non era sempre perfetta. A volte, non si capivano e capitava che il lato più estremo di uno di loro prendesse il sopravvento. Eppure, neanche in quei casi il loro legame si scioglieva. Neanche la lontananza riusciva a piegare ciò che loro avevano faticosamente costruito. Loro erano una squadra. Comunque e sempre.

 

Una squadra che adesso era divisa. Perché solo due di loro scendevano sempre sul campo, unici ningen fra le file del Signore dell’Ovest. Unici cui fosse stato dato il permesso di intervenire. E Kagome era certa che Sesshomaru avesse ceduto solo per lucido e semplice calcolo militare. Accettando, anzi meglio dire sopportando, due esseri umani immetteva un elemento di disturbo non indifferente sulla scena militare. I demoni conoscevano il reciproco modo di combattere, ma davanti a due umani si erano trovati più volte interdetti e avevano confidato solo sulla loro forza. Venendo sconfitti. Certo, anche i suoi amici si erano trovati più volte in pericolo, ma erano sempre riusciti a cavarsela egregiamente, suscitando la disapprovazione della gran parte della corte inuyoukai. Come erano corse voci di incredulità e sconcerto alla notizia che il Principe aveva deciso di “arruolare” i due ningen arrivati a palazzo.

 

Kagome sospirò, passandosi una mano nei capelli. Non le piaceva dover restare a guardare, ma Inuyasha era stato categorico: non le avrebbe permesso di muovere un passo su quel maledetto campo di battaglia; non avrebbe fatto di nuovo lo stesso errore. Lo stesso errore…quello di costringerla a combattere…come aveva fatto con Kikyo…L’hanyou non voleva rischiare di perderla; di vedersi di nuovo strappare la donna che amava, di non riuscire a salvarla…Non lo avrebbe permesso. Lo aveva giurato: Kagome non sarebbe stata coinvolta in una guerra che riguardava solo loro inuyoukai. Anzi, che riguardava solo suo fratello.

 

Non aveva avuto la forza di opporsi e così aveva accettato di aiutare Alessandra all’ospedale. Anche perché scendere in campo voleva dire costringere Inuyasha ad una costante tensione psicologica. Benché si mostrasse spesso con Koga, aiutasse all’ospedale e sgombrasse la corte interna dai cadaveri dei soldati, l’hanyou non aveva alcun ruolo all’interno del palazzo. Era solo una presenza scomoda e irritante. Almeno per la corte. Sesshomaru, stranamente, non aveva fatto nulla perché se ne andasse. Non lo aveva cacciato né gli aveva detto di non immischiarsi in quella faccenda. Si era limitato a sopportarne la presenza coatta per gli allenamenti e a evitare accuratamente di incrociarlo nei corridoi. Un comportamento davvero insolito, soprattutto considerando il fatto che il demone non si era mai fatto problemi nel rinfacciargli la sua origine illegittima e l’isolamento in cui era cresciuto. Non era forse stato Sesshomaru a sbattere in faccia al fratello la realtà, quando avevano combattuto contro Sounga? Inuyasha non solo, al tempo, non conosceva tutti i trascorsi prima della sua nascita, ma non sapeva nulla neanche del padre. Un’ignoranza che, Kagome lo sapeva bene, lo faceva soffrire e riusciva a gettarlo in un baratro nero e disperato. La consapevolezza della sua condizione e la sua estraneità a quel mondo si poteva riassumere in quel semplice fatto: lui non aveva mai incontrato suo padre.

 

Sango si lasciò sfuggire un mezzo sospiro, mentre si sedeva accanto all’amica deponendo in un angolo hiraikotsu. Anche se non c’era nessun pericolo imminente, la ragazza non si arrischiava mai a girare per il palazzo senza almeno un’arma di offesa. Era coscia dell’astio che si era venuto a creare attorno a loro da quando erano piombati all’improvviso a palazzo. E soprattutto da quando, reclutati nell’esercito, avessero ottenuto più risultati in pochi giorni loro di quanti ne avessero conseguito i demoni durante i mesi d’assedio. Un’apparente superiorità che la gelida e fiera corte inuyoukai non riusciva a digerire e che Sesshomaru non mancava mai di sottolineare con frasi allusive o taglienti. Un modo per tenere tranquilli i cortigiani e impedir loro di creargli troppi problemi. Finchè la corte si fosse trovata di fronte all’abilità del monaco e della sterminatrice, non avrebbe più pesato ad Alessandra. I pensieri del Principe erano oscuri per chiunque, ma la sensazione che l’inusuale accondiscendenza dell’inuyoukai celasse un altro obiettivo era palpabile. Quasi palese. Perché lui non degnava di alcuna considerazione i nuovi alleati, le nuove reclute, e lasciava che fossero Kumamoto o Koga a trasmetter loro i suoi ordini.

 

Certo, non erano mai stati impiegati in campo aperto e il loro compito si limitava, essenzialmente, alla difesa della parte delle mura che avevano ceduto. Un punto nevralgico, ma cui gli uomini di Sesshomaru non lasciavano quasi avvicinare nessuno e i pochi che superavano la linea di difesa incontravano la morte per mano della ragazza o del potere spirituale di Miroku. E molti demoni preferivano la morte in battaglia che essere purificai dal potere spirituale. E il Principe lo sapeva. Conosceva perfettamente la leggenda che si tramandava fra loro youkai: chi fosse morto purificato per mano di un monaco, sarebbe precipitato nel regno della terra, equiparato ad un qualsiasi ningen e costretto a rivivere come uomo, conscio del suo glorioso passato demoniaco. Una fine, insomma, che non allettava nessun youkai, neanche il più codardo e subdolo, comunque orgoglioso della sua origine semidivina. Sesshomaru lo sapeva, e aveva usato la leggenda a suo vantaggio. E si era portato così in discreto vantaggio. I suoi uomini continuavano a morire, falciati dal fuoco delle granate, ma gli avversari non osavano più spingersi fin sotto le mura. Erano giunti, in sostanza, ad una situazione di stallo. Maledettamente snervante.

 

Sango appoggiò il viso alla mano e si voltò verso le shoji aperte. Poteva avvertire lo scroscio sommesso dell’acqua e un leggero odore di terra bagnata. Socchiuse gli occhi e ispirò a pieni polmoni l’aria fresca. Era abituata a combattere fin dall’infanzia, ma quella battaglia era diversa. Non le apparteneva. E poi, era strano battersi a fianco dei demoni, accanto a chi si è sempre combattuto. Inoltre, la sua mente era sottoposta ad una continua e snervante tensione psicologica. Ogni volta che prendeva posizione, i suoi occhi correvano febbrili alle file avversarie, scrutando i volti dei suoi nemici. Cercando un volto. Erano pochi attimi, per sapere se avrebbe rischiato di vedersi comparire di fronte Khoaku o se invece non era stato mandato sul campo. Erano pochi attimi, ma sufficienti a farle dimenticare ogni altra cosa. Secondi in cui si trovava esposta all’avversario, incapace di reagire prontamente in caso di attacco. E la cosa snervante era che ne era perfettamente consapevole, ma non poteva farci nulla. Non riusciva a evitarlo. Doveva frugare le file avversarie ogni volta. Doveva. Punto e basta.

 

“Tieni”

 

Kagome le porse una scodella di natto con un sorriso rilassato. Era da tanto che non avevano occasione di fare colazione assieme. Di respirare un po’ di tranquillità. Sapevano entrambe che era un’illusione, che fuori da quella stanza si stavano preparando morte e distruzione, ma i quel momento preferivano non pensarci. Non volevano farlo. Semplicemente. Illudersi per un istante. Bastava questo, per ritrovare il motivo per cui combattevano. Perché, anche se quella non era la loro battaglia, Sango e Miroku avevano un motivo valido per continuare a battersi. E quel motivo si chiamava Inuyasha.

 

Era stato per lui che si erano avventurati nei territori dell’Ovest, era stato per lui che avevano lasciato Musashi; era stato per lui che avevano accettato di battersi sotto il comando di Sesshomaru ed era per lui che affrontavano ogni giorno i pericoli della battaglia. Non ne avevano neanche discusso. Era stata una decisione spontanea. Quasi naturale. Forse un modo per dimostrare all’hanyou che anche loro erano forti, forse l’occasione per sdebitarsi con lui di tutte le volte che gli aveva aiutati. Le motivazioni erano molte e non sempre chiare, nemmeno nella mente di Sango e miroku l’unica cosa certa era che non era stata la pietà a muoverli. E neanche la compassione. E questa consapevolezza bastava a renderli orgogliosi di essere lì, benché l’orgoglio non fosse la gioia di dover lottare.

 

Kagome si soffermò un attimo sul viso dell’amica: era pallida e provata nel corpo e nello spirito. Benché abituata alla morte, un conflitto di quelle dimensioni non era mai stato affrontato da nessuno di loro. E in più, la ragazza non poteva dimenticarlo, Sango era costantemente in tensione per il fratellino. C’era una domanda inespressa nella mente di tutti: cosa avrebbe fatto la sterminatrice se se lo fosse ritrovato di fronte? Sarebbe riuscita a combattere contro di lui? Un profondo respiro sfuggì al controllo di Kagome, mentre posava sul loro sostegno gli hashi. La risposta era così scontata che nessuno avrebbe potuto ignorarla: Sango non avrebbe mai combattuto il fratellino. Piuttosto, si sarebbe fatta uccidere.

 

Morire al posto del fratello…Un concetto del tutto estraneo alla mentalità demoniaca. Un legame di sangue, fra i demoni, non significa per forza qualcosa. E la prova era il rapporto conflittuale che da sempre intercorreva fra Sesshomaru e Inuyasha. Un legame che aveva sempre provocato disgusto nel primo e frustrazione nel secondo. Perché, comunque, il loro sangue si riconosceva, e anche solo nell’aspetto i due fratelli si richiamavano. Un sottile filo che sosteneva un peso enorme. Nessuno di loro si sarebbe mai immaginato Sesshomaru intervenire a difesa del fratellastro. sarebbe stato delirio anche il solo pensarlo. Eppure, era ben viva nella memoria di tutti la notte del shingetsu: la notte in cui il demone aveva evitato la morte di Inuyasha. E in cui lo aveva chiamato Principe.

 

Consapevolezza? Accettazione? O, più semplicemente, solo un modo ancora più sottile per ferire l’hanyou? Appellandolo a quel modo, cosa voleva dire l’inuyoukai? Lo aveva riconosciuto o semplicemente gli aveva sbattuto in faccia di nuovo la differenza che c’era fra loro? Kagome non avrebbe mai dimenticato l’espressione che Inuyasha aveva stampata in viso quando era rientrato dalle stanze del fratello. Incredulità pura. E forse una punta di speranza. Si era lasciato andare a terra scivolando lungo ala parete ed era rimasto a lungo in silenzio. Ignorando totalmente le voci allarmate dei suoi amici. Nulla. Non aveva voluto dire nulla. Prima, aveva avuto bisogno lui stesso di razionalizzare quello che aveva sentito. Di renderne totale coscienza. Ma invece di andare nella sua stanza o in un qualsiasi punto tranquillo del palazzo, aveva preferito recarsi dai suoi amici. Aveva bisogno di sapere che loro c’erano. Che Kagome c’era. Alla fine, aveva raccontato loro di quelle poche parole che il fratello gli aveva rivolto e di quanto accaduto sul campo di battaglia. Non si era illuso, ma ne era rimasto comunque sorpreso: Inuyasha aveva sempre immaginato che suo fratello avrebbe goduto nel vederlo morire, magari proprio in forma umana. Non si sarebbe mai immaginato, neanche nei suoi più rosei pensieri, che Sesshomaru avrebbe intercettato un colpo diretto a lui. O forse, il vero punto della questione era: perché?

 

Un nuovo sospiro. Dopo quella notte, tutto aveva ripreso a scorrere normalmente. Inuyasha non aveva nessun incarico ufficiale a palazzo né Sesshomaru lo aveva presentato alla corte riconoscendolo come principe cadetto. C’erano state solo quelle parole. Dal significato ambiguo. Due braccia forti attorno alla vita e un respiro caldo a solleticarle il viso. Kagome trasalì quando avvertì l’abbraccio di Inuyasha, alle sue spalle, arrossendo per l’imbarazzo. Benché ormai i suoi amici sapessero del legame che li univa, non era abituata alla plateali manifestazioni d’affetto dell’hanyou. Anzi, solitamente era molto timido e si imbarazzava facilmente. Ci aveva messo degli anni a dichiararsi, e ancora avrebbe voluto mantenere segreta la cosa per evitare, aveva provato a giustificare, le allusioni maliziose di Miroku.

 

“Che Koga non mi senta, ma…ho una fame da lupi!”

 

Inuyasha lasciò a malincuore la ragazza e le sedette accanto. L’aveva sentita irrigidirsi al suo abbraccio e si era accorto del rossore che le aveva colorato il viso. Gli piaceva imbarazzarla quando sapeva che i presenti non l’avrebbero canzonata malignamente. Gli piaceva vedere il suo viso arrossato dal suo semplice tocco; gli trasmetteva un’eccitazione che lo percorreva in ogni parte, una scarica di brividi intensa e piacevole. La osservò mentre gli riempiva la ciotola di riso, pesce e sottaceti: le vesti sacerdotali che indossava le disegnavano appena il corpo, in modo dannatamente conturbante. Il volto pallido, incorniciato dall’ebano dei capelli, risaltava ancora di più, in contrasto con il rosso acceso dell’hakamana. Con il chihaya, Kagome richiamava pericolosamente la figura di Kikyo, e per questo la ragazza aveva inizialmente rifiutato di indossarlo. Tuttavia, alla fine Kagome aveva dovuto riconoscere che quell’abito era la garanzia migliore per la sua incolumità. Inoltre, il ragazzo omai non associava più le due figure: Kikyo era la donna che aveva amato e che gli aveva mostrato che il mondo non è sempre spietato. Kikyo era stata la sua ancora di salvezza, priam che il dolore e la disillusione lo trasformassero davvero, prima che perdesse completamente il lato timido e infantile della sua anima. Ma Kikyo era il passato. Il presente invece era Kagome, con la sua solarità, l’ingenuità della sua età e la fiducia totale che aveva in lui. Era stata lei a finire il lavoro della miko. Lei era riuscita a farlo volare lontano da un mondo che lo soffocava. Lei lo aveva accettato semplicemente per quello che era.

 

La ringraziò con un sorriso quando gli porse la ciotola, ignorando volutamente l’occhiata stupita e sospettosa della ragazza. La stessa che attraversava gli occhi di Sango e che aveva caratterizzato Miroku poco prima. Effettivamente, non era facile vederlo separarsi dal suo karingiru, ma dopo la notte trascorsa ad assolvere l’odioso compito di sgombrare la corte interna dei cadaveri dei demoni che erano stati dilaniati dalle granate, l’abito era talmente pregno dell’odore di sangue e carne bruciata che gli dava la nausea. Era stato costretto a toglierselo e Jacken gli aveva portato quel tsukesage nero con ricamato in cremisi un dragone sulla manica destra e sull’orlo inferiore. Probabilmente, lo aveva preso dall’armadio di Sesshomaru; un vecchio tsukesage che il Principe non indossava più. D’altro canto, non era neanche il caso di sprecare soldi e stoffe per fargli avere un kimono degno di un principe cadetto. Lui era un bastardo, quella era la realtà. Costretto ad elemosinare anche un pezzo di stoffa nella casa di suo padre. In una casa che non gli era mai appartenuta, e che disperava di riuscire mai a sentire, almeno un po’, parte di sé.

 

Si passò una mano nella lunga frangia, abbassando inconsciamente le orecchiette. Si sentiva completamente inutile. Insensato. Sesshomaru lo aveva chiamato Principe, ma non aveva fatto nulla per dimostrare di averlo riconosciuto. Inoltre, poteva benissimo essere una nuova trovata per esasperarlo. Gli era sempre piaciuto giocare con la sua psiche. Alludere, dribblare fra realtà e ricordi lontani, per poi lasciarlo nel dubbio o sbattergli in faccia la verità. Eppure, Inuyasha era certo di aver sentito un tono diverso nella voce del fratello. Qualcosa che non si sapeva spiegare e neanche riusciva ad accettare razionalmente, visti i precedenti, ma che non riusciva assolutamente a negare. Non voleva negare quel qualcosa di indefinito che sembrava aver iniziato ad avvolgerli. In bene o in male.

 

Sbirciò i suoi amici, dall’altro lato del tavolo. Sango, tralasciando il leggero pallore dovuto alla stanchezza e alla tensione che neanche il sonno riusciva a cancellare, nel complesso si poteva dire che stava bene, pronta a scendere in campo in ogni momento. Un sorrisetto, quasi di orgoglio, gli piegò le labbra. Aveva sperimentato sulla sua pelle, anni prima, la forza e la determinazione della taijiya ed era sempre stato fiero di averla al suo fianco in battaglia. Non glielo aveva mai detto, perché parlare era una cosa che in certi momenti gli risultava estremamente difficile, tuttavia era davvero onorato di potersi battere con lei.

 

“Maniaco!”

 

Il rimprovero e l’eco di uno schiaffo lo risvegliarono dalle sue considerazioni. Miroku aveva tentato di nuovo di lusingare Sango, col risultato che adesso si stava massaggiando la guancia rossa con un sorriso a metà fra l’ebete e l’imbarazzato. Inutile farsi false speranze: il monaco non sarebbe mai cambiato. Tuttavia, il fatto che avesse voglia di scherzare era un elemento positivo, come era palese agli occhi di Inuyasha e Kagome il fatto che lo schiaffo di Sango era stato meno forte del solito. L’hanyou sospirò, tornando a concentrare la sua attenzione sull’amico, che cercava inutilmente di riappacificarsi con la sterminatrice. Miroku era pallido, il viso scavato e segnato da profonde occhiaie; anche la veste sacerdotale gli cadeva addosso con poca grazia, sottolineando quando fosse dimagrito in poco tempo. Tenere in piedi una barriera spirituale per quasi ventiquattr’ore al giorno non era certo un compito indifferente, neanche per un monaco anziano e molto allenato. E Miroku era ancora un ragazzo; eppure, non si sottraeva mai all’incombenza che lo chiamava a erigere una barriera a difesa della breccia nelle mura, concedendosi pochissimo riposo, giusto quello necessario a riprendere un poco le forze. Se Kagome non gli trasmettesse, quotidianamente, un po’ della sua energia di miko, probabilmente il ragazzo avrebbe ceduto già da tempo.

 

…vi ho trascinato in una situazione che vi sta distruggendo…Voi rischiate ogni giorno la vita, e io non posso neanche uscire da queste stanze…non posso neanche essere con voi in battaglia…

 

Si voltò lentamente verso Kagome. Sorrideva. Scherzava. Rideva. Anche in quella situazione precaria, la ragazza non perdeva il suo sorriso. La sua vitalità avvolgente. Quella forza che lo aveva incantato e che lo spingeva avanti. Seguì il profilo del viso: la fronte coperta dalla frangia corvina, il naso piccolo, le labbra carnose. Giù-giù lungo il mento, il collo elegante e snello, lungo quella linea aggraziata e conturbante che spariva oltre l’orlo del date-eri. Quanto tempo era trascorso dall’ultima volta che era tornata a casa? Mesi di certo. Il numero esatto non lo ricordava, ma dovevano essere almeno due mesi. Si era offerta di accompagnarlo a palazzo. Si era offerta di stare con lui. Non lo aveva voluto abbandonare. Non lo aveva mai abbandonato, nonostante tutte le volte che in passato l’aveva fatta soffrire, lei era sempre rimasta al suo fianco. Discreta, ma costante. Sicura.

 

Inuyasha rubò un pezzetto di tamago-yaki dal piatto di portata comune, assaporandolo direttamente con gusto e fregandosene dell’etichetta. Aveva fame. Una maledetta fame. Dovuta al nervosismo. Avrebbe preferito sfogarsi in altro modo, magari con una bella scazzottata con Koga, ma in mancanza di meglio andava bene anche il cibo. E non era solo la situazione di assedio endemico a fargli mantenere un atteggiamento di continua irrequietezza, ma anche il fatto che, in circa due mesi, non era ancora riuscito a capire cosa diavolo passasse per la testa di suo fratello e di Alessandra. Chiedere loro era pressoché inutile: Sesshomaru non gli avrebbe mai perdonato la sua indiscrezione, specie in un momento del genere, e la ragazza non si lasciava sfuggire una sola parola. Anzi, nei rari casi in cui erano tutti assieme si comportava verso il Principe con fredda cortesia. Quasi con indifferenza.

 

Ignorò i rimproveri di Kagome e rimase sdraiato sul tatami, le braccia dietro la nuca. Lo sapeva anche lui che era da maleducati stendesi subito dopo aver mangiato, soprattutto se gli altri commensali non avevano ancora finito, ma rispose ai richiami della ragazza con una smorfia e strizzando gli occhi: aveva solo voglia di esser lasciato in pace a pensare. Alla fine, Kagome si rassegnò e lo lasciò tranquillo a fissare il soffitto a cassettoni finemente intagliati.

Inuyasha non riusciva a mantenere la sua attenzione su un solo pensiero che subito un altro si affacciava alla mente. Erano troppo le novità che lo avevano investito in quei giorni, e non ultima la storia che il Sensei aveva raccontato loro: le origini di quella guerra, vecchie più di quattrocento anni. Un conflitto che aveva riguardato suo padre, che lo aveva toccato molto da vicino. Aveva provato a saperne di più da Kumamoto, ma il vecchio generale si era mostrato piuttosto restio a parlare. E lui credeva di poter capire quello che provava.

 

“Dolce Alessandra! Fate colazione con noi?”

 

Si rimise a sedere di colpo, con una spinta di reni. Non si aspettava di vederla così presto. Sembrava quasi che i suoi pensieri sconclusionati l’avessero evocata. Purtroppo, in un momento per lui poco opportuno. Non era facile che Alessandra avesse un momento libero, e lui non riusciva mai ad avvicinarla in privato. E anche se ce l’avesse fatta, non era certo che sarebbe riuscito a intavolare il discorso senza arrossire e balbettare. Non era faccende adatte a lui, quelle. Maledizione! Sapeva benissimo che se voleva risposte doveva chiedere, ma come si fa a porre una domanda tanto personale senza essere indiscreti? Inuyasha sospirò. Avrebbe rimandato ancora, benché la curiosità lo stesse divorando. Una curiosità cui si sommava l’incredulità che suo fratello potesse provare qualcosa per la ragazza, anche se aveva avuto personalmente prova del fatto che non gli era indifferente. Tuttavia, riuscire a capire se l’interesse del demone verso qualcosa fosse dettato da semplice calcolo o da altre motivazioni era una cosa che Inuyasha non era mai stato abituato a fare, da sempre costretto a scrutare il volto del fratello alla ricerca solo del sorrisetto di scherno che precedeva un attacco.

 

Alessandra, ferma vicino alle shoji socchiuse, storse la bocca. Non che l’idea di mangiare la nauseasse, ma non l’allettava una colazione come quella che stavano consumando i suoi amici. Certo, era un pasto nutriente, molto adatto alle giornate sfibranti che vivevano, ma lei non era mai riuscita ad abituarsi ad una colazione salata con riso, sottaceti, natto, miso, frittata e pesce salato e cotto alla griglia, e magari anche un piatto di bollito e di alghe. Tuttavia, quando intravide anche dei wagashi e un kyusu, si risolse ad accomodarsi di fianco ad Inuyasha, mascherando il leggero sorriso che le aveva attraversato le labbra. Aveva riconosciuto il tsukesage che indossava l’hanyou: un abito di Sesshomaru. Il demone lo aveva consegnato di persona a Jacken con apparente malagrazia, ma Alessandra non aveva potuto evitare di notare che fra tutti i kimoni, lui aveva scelto uno dei più belli. Forse inconsciamente, forse con piena cognizione di causa, il Principe stava lentamente iniziando, se non proprio a riconoscere, almeno ad accettare la figura del fratellastro. Peccato solo che di tutto quello che era successo negli appartamenti del Principe Inuyasha non sapesse niente. In caso contrario, ci sarebbe stata la speranza di veder sparire almeno per un po’ la sua espressione crucciata e affranta.

 

Alessandra scosse la testa. Inutile farsi illusioni. Sesshomaru aveva non poche difficoltà anche solo a parlare con lei; era quasi impossibile sperare che sarebbe riuscito a intavolare una conversazione pacifica con il fratello. Meglio aspettare, e lasciare che il tempo faccia elaborare sensazioni e percezioni, creando nuove certezze e facendogli accettare una realtà che si era modificata lentamente sotto i suoi occhi e che lui ancora rifiutava. In definitiva, anche il loro rapporto si era evoluto lentamente, e non esisteva parola capace di definirlo. Si cercavano, ma nessuno di loro aveva mai detto all’altro di amarlo. Si accontentavano della sicurezza che i loro gesti, le parole inespresse e le sensazioni regalavano loro. Comportamenti ambigui, di cui Alessandra aveva piena coscienza. Come sapeva perfettamente che le occhiate curiose che gli amici le lanciavano, anche in quel momento, celavano il desiderio di porre domande anche impertinenti. Per sapere. Per vincere una curiosità che li stava divorando. E che prendeva soprattutto Inuyasha. Era quasi comica la situazione. Probabilmente, se non si fossero trovati nel mezzo di un assedio, avrebbe dovuto sopportare quasi quotidianamente un vero e proprio interrogatorio. Un pensiero che la faceva sorridere, e al contempo l’intristiva. Perché ormai sapeva che, almeno a breve, non avrebbe potuto rivelare nulla del reale rapporto che la legava a Sesshomaru. Ancora per molto, probabilmente, sarebbe rimasta un’ombra della vita del demone. Anzi, una macchietta che la corte avrebbe voluto eliminare alla prima occasione.

 

Basta! Non voleva più pensare. In quel momento, desiderava soltanto gustarsi quei minuti di tranquillità, ascoltando le conversazioni e le battute dei suoi amici. Sì…Amici. Poteva chiamarli così. Si sentiva di chiamarli così. Di riusare un vocabolo che credeva di aver dimenticato. Con Sesshomaru aveva realizzato nel modo più profondo possibile il peso che anche una singola parola può avere. Il demone calibrava ogni sospiro, ogni suono. Non si lasciava sfuggire nulla che non avesse un suo preciso valore. Lapidario. Incisivo. Mordente. Sapeva essere spietato anche solo con il tono freddo e distaccato della voce. Quella voce che, quando era con lei, cambiava. Veniva modulata con maggior dolcezza, piegandosi in inflessioni strane e seduttrici. Poche parole. Sesshomaru non le sprecava mai, sia che comandasse sia che…amasse. Tuttavia, ad Alessandra andava bene così. Sapeva di non poterlo cambiare più di tanto, e sapeva anche di amarlo proprio per come era, con la sua sfacciata sicurezza e l’autorità austera, con le sue piccole manie e i suoi limiti. Con la sua gentilezza discreta e la passione nascosta.

 

Appoggiò il mento alla mano e si finse interessata alla conversazione. In realtà, si limitava a gustare le sensazioni che l’oribenishiki le trasmetteva. Lo sentiva sciogliersi morbido sulla lingua, con il suo sapore di castagna. Lo zucchero che scricchiola sotto i denti. La marmellata che bagna il palato, mescolata al sapore forte del tè. Le piaceva. Semplicemente.

 

“Avete visto Rin? Non riesco a trovarla”

 

Jacken. Era entrato senza molte cerimonie nella stanza, tormentando fra le mani secche il bastone Ninto. Ancora non riusciva a capacitarsi del fatto che il suo signore permettesse a dei ningen di risiedere al castello e di combattere per lui. E soprattutto non riusciva ad accettare che un hanyou come Inuyasha potesse muoversi quasi in assoluta libertà. Era intollerabile. Non riusciva neanche a guardarlo senza dissimulare un moto di stizza. Anche in quel momento. Perché, con addosso il tsukesage del fratello, il ragazzo richiamava pericolosamente, pur se a sua insaputa, la figura del Principe. E il piccolo kappa non riusciva ad accettare che un miserabile mezzo-sangue si pavoneggiasse con quelle vesti lussuose indegne di lui. Chissà poi perché il padrone aveva scelto proprio quell’abito, quando poteva benissimo ignorare le necessità del fratellastro o magari fargli avere uno dei cenci dei servi.

 

Aveva ingoiato fiele prima di trovare la forza di entrare in quella stanza. Non gli piaceva l’idea che lui, diretto subordinato del grande Sesshomaru, doveva ridursi a mendicare alcune informazioni da dei miserabili umani. Tuttavia, la bimba sembrava sparita, e più che al suo sottile orgoglio, Jacken teneva alla sua vita. Sentiva i brividi percorrergli tutto il corpo al solo pensiero di cosa sarebbe stato capace di fargli il suo signore se fosse capitato qualcosa a Rin.

 

Inuyasha e i suoi amici ne ebbero quasi pena; Jaken sembrava prossimo ad una crisi isterica, tanta era la tensione che lo attanagliava. Tuttavia, loro non avevano visto la bimba dalla sera prima, e quindi non potevano essergli di nessun aiuto. Jacken respirò rumorosamente. Mai che quegli stupidi fossero utili a qualcosa, davvero il padrone doveva esser ammattito per aver accettato di ospitarli. Anzi, se non fosse che erano tutti più grandi di lui e che, quando voleva, anche Inuyasha poteva essere crudele come il fratello, Jacken li avrebbe volentieri messi tutti alla porta. Guerra o non guerra.

 

Ma in fondo, non era neanche certo che fosse stato il suo signore a volere quella situazione. Anzi, ne era sicura. la colpa di tutta quella situazione che rasentava l’assurdo era di quella ragazza che se ne stava tranquilla in disparte a grattare la testa di Kiba, appena entrato dall’engawa. Se non fosse mai comparsa lei, forse Sesshomaru non sarebbe mai cambiato. Prima, Jacken non sarebbe mai stato concepire il suo padrone capace di preoccuparsi per qualcuno che non fosse Rin. E in quei casi era sempre un interesse quasi impercettibile. Non che con Alessandra il demone fosse più espansivo di attenzioni, ma per chi, come lui, lo conosceva da anni certi piccoli particolari non sfuggivano.

 

“E tu? Non ne sai niente neanche tu?”

 

Voce scocciata, finto autoritaria. Non ci riusciva. Proprio non riusciva a rivolgersi a lei come se fosse la padrona. Sesshomaru glielo aveva detto chiaramente: avrebbe dovuto trattarla con tutti gli onori, con deferenza, ma Jacken proprio non ci riusciva. E la sua repulsione non era motivata semplicemente da un sentimento come la gelosia. Ammetteva di esser infastidito dal fatto che la ragazza aveva occupato una posizione di tutto rispetto. Come archiatra, avrebbe potuto godere di un prestigio non indifferente, capace di mettere in ombra anche lui, che a palazzo, in condizioni normali, era secondo solo al Principe. No. Non era neanche questa la causa originaria del suo fastidio. Jacken sapeva bene che un giorno accanto al suo signore ci sarebbe stata una donna. Anche solo per necessità dinastiche. E si era sempre preparato psicologicamente al fatto che, a quel punto, lui sarebbe stato messo da parte. Una donna lo avrebbe scalzato dalla sua posizione. Una yasha. Bellissima e fiera. Una yasha potente, degna di padron Sesshomaru. Una yahsa. Non una semplice ningen. Era quello che Jacken proprio non riusciva ad accettare: il suo padrone non poteva davvero voler al suo fianco una misera donna umana. Averla come diversivo, come passatempo, era accettabile. Un giocattolo, con cui divertirsi prima che la corte gli imponesse un legame consono al suo rango.

 

Tuttavia, Alessandra era trattata dal demone con un’affabilità che Jacken non gli aveva mai visto usare con nessuno. E adesso, anche lui si trovava costretto a parlarle. E non sopportava l’idea che lei avesse la risposta. Come gli risultava odioso il leggero sorriso, innocente, rilassato, che accompagnò la risposta della ragazza, che continuava tranquillamente a coccolare il lupacchiotto.

 

“Non preoccuparti. Sono sicura che sta bene”

 

*****

 

Stizza.

Una sensazione sgradevole, che gli faceva arricciare le labbra, in un moto di rabbia mal repressa. Che lo portava a scoprire i canini appuntiti. Un fremito leggero a incurvare le labbra sottili, unico accenno su un viso che si ostinava a non tradire un’emozione. Imprigionato nella sua consueta glacialità. Forse, ancora più sinistra in quel momento; la freddezza degli occhi spenti cozzava terribilmente con la figura ancora giovane. Era estremamente difficile capire se si avesse davanti un ragazzo o un uomo adulto. L’aurora sottolineava la pelle quasi diafana, addolciva i tratti e gli conferiva un aspetto etereo e infantile. I lineamenti sottili e affilati sembravano quelli di un ragazzino. Quelli della sua apparente età. Ma gli occhi…Quegli occhi inespressivi, maledettamente freddi. Sembravano incapaci di trasmettere qualcosa che non fosse rabbia e disgusto.

 

C’erano momenti, come quello, in cui davvero neanche Kumamoto sapeva come prenderlo. In Sesshomaru sembravano convivere e scontrarsi due nature: la forza selvaggia e indomita della sua razza, la fierezza che gli veniva dalla madre, e anche barlumi di infanzia, piccoli particolari che rivelavano la sua giovinezza rubata, piegata ad una causa più grande di lui. In quei momenti, nel volto del Principe, Kumamoto rivedeva i tratti di Inutaisho. Rivedeva l’austerità cui il suo amico doveva costringere se stesso contro sua volontà. In quei momenti, inconsciamente, Sesshomaru soffriva ciò che aveva sofferto suo padre.

 

“Esigo una spiegazione”

 

Voce tremante. Di rabbia. Di indignazione. Forse, di paura. Kumamoto si era abituato in fretta a cogliere le sfumature del suo Principe. Ed era sicuro che ci fosse anche paura nella sua voce. Il sospetto di venir ritenuto inadeguato, di esser paragonato al genitore uscendone sconfitto. La paura di non aver superato un esame che esisteva solo nella testa del Principe. Il vecchio generale sospirò. Se Sesshomaru aveva deciso che lo stava esaminando, difficilmente sarebbe riuscito a fargli cambiare idea. Era cosciente che sarebbero state inutili anche le rassicurazioni. Lui non ci avrebbe mai creduto. Diffidente, come sempre. Insicuro.

 

Un sorrisetto gli increspò le labbra. Era davvero incredibile pensare al Principe come ad una persona insicura. Lui sempre distaccato e controllato; lui che non sembrava minimamente in grado di distinguere una battuta da un’offesa. Eppure, Sesshomaru era profondamente insicuro. Soprattutto, quando si trovava a dover parlare con il vecchio amico di suo padre.

 

“Sto aspettando, Principe di Kita

 

Kumamoto socchiuse l’occhio sano. Se usava quell’appellativo doveva essere proprio infuriato. In tanti anni, in quei mesi, non lo aveva mai chiamato in quel modo; si era sempre rivolto a lui come al generale di suo padre. Mai come al Principe del Nord. In quel momento, Sesshomaru stava rivestendo anche il ruolo che la sua discendenza e il suo potere gli conferivano: lo stava interrogando non più come Principe dell’Ovest, ma come Primo della Famiglia. E il motivo era quasi infantile: si sentiva violato nella sua autorità. Si sentiva scavalcato. Anzi, probabilmente, la sua mente non riusciva che ad elaborare una parola: inadeguato.

 

Spiegare…Trovare le parole giuste, per fargli capire che aveva agito solo per il suo interesse. Senza alcuna volontà di offenderlo. E nel pieno dei suoi diritti. Lo sapevano entrambi: Kumamoto non aveva fatto nulla di scorretto, limitandosi ad avvertire gli altri clan inuyoukai del conflitto in corso. Quella era una prassi rara all’interno della Famiglia, ma il generale l’aveva ritenuta importante in quel frangente. Uno scontro fra due dei sei principali clan dei demoni-cane poteva provocare ritorsioni e astio nei riguardi di Sesshomaru da parte degli altri. Già quattrocento anni prima, durante il primo scontro con Morigawa, si era rischiata una guerra interna che avrebbe potuto compromettere enormemente il prestigio e l’influenza degli inuyoukai all’interno del Consiglio. A quel tempo, l’abilità diplomatica e la fermezza di Inutaisho erano riusciti a reprimere i contrasti, ma in quel momento suo figlio non era ancora capace di esercitare la stessa influenza e soggezione. Era ancor troppo giovane.

 

Per questo, Kumamoto aveva preferito chiarire con gli altri clan. Per evitare possibili futuri conflitti. Non per mancanza di fiducia verso il Principe dell’Ovest. Solo, aveva cercato di guardargli le spalle. Una premura che il bel demone non sembrava comprendere; o più semplicemente non voleva accettare, arroccato nella sua testarda convinzione di essere totalmente e sempre autosufficiente. Lo sapeva. Il vecchio generale riusciva a intuire i mille pensieri che gli attraversavano la mente con una facilità disarmante. In quei mesi, da quando era tornato agli ordini del Principe come suo generale e alleato, aveva imparato a interpretare ogni suo gesto, come riusciva a capire, un tempo, anche Inutaisho. Sesshomaru era più sfuggente, e molti dei suoi atteggiamenti erano spesso indecifrabili, tuttavia c’erano momenti, soprattutto quando la rabbia lo prendeva e lui cercava di dominarla, in cui era più facile intuirne i pensieri.

 

Il Sensei aveva voluto raccontare l’origine di quella guerra insensata. Una guerra nata dall’invidia, da un semplice sentimento umano, e che aveva già portato numerosi lutti. E adesso, il suo fantasma era ancora incombente, pronto a mietere altre vittime. Kumamoto non aveva fatto obbiezioni alla decisione dell’anziano Maestro. Di chi era agli ordini del Principe, solo loro due conoscevano la storia nella sua interezza, ed entrambi concordavano nel fatto che fosse ora che i figli conoscessero la storia dei padri. Quello che però il Sensei non aveva detto era la sua volontà di non far ripetere la storia. A qualsiasi costo, questa volta non ci sarebbe stati errori o ripensamenti.

 

Sesshomaru strinse la mascella, indurendo maggiormente la sua espressione. Non gli piacevano proprio le parole di Kumamoto. Lui non temeva certo la Famiglia; anzi, se avesse voluto, avrebbe potuto annientarla subito. Senza alcun ripensamento. Tutti. Per questo non riusciva a vedere l’azione del generale sotto una luce diversa dalla mancanza di fiducia. E la cosa gli faceva rabbia. Rabbia. Rabbia. Folle. Devastante. Perché voleva dire che, nonostante tutti gli sforzi fatti, non era ancora riuscito a raggiungere i livelli di suo padre. Gli era ancora inferiore. Inadeguato. Indegno di succedergli. Era ancora un pivello, bisognoso di esser guidato per mano. Una situazione che lui, per troppo orgoglio, non voleva neanche dover considerare.

 

“L’ho fatto per il tuo bene, ragazzo. Ficcatelo in testa!”

 

Inconsciamente, la rabbia dell’inuyoukai dileguò e i suoi occhi si rilassarono, diventando quasi malinconici. Tristi. Lontani. Ragazzo…Lui era l’unico che lo chiamasse così. L’unico che gli si rivolgesse con quel tono confidenziale. Neanche Alessandra gli usava il rispetto che gli sarebbe dovuto, ma con lei era diverso. Anche solo il modo in cui lo chiamava era diverso. Era sempre il suo nome, quello che pronunciava, anche se privo del suffisso onorifico. Kumamoto, invece, era l’unico che ancora gli rivolgesse quell’appellativo. L’unico per cui non smetteva mai di essere il bambino che in un passato orami remoto gli correva in contro sorridendo.

 

Ragazzo…Non ricordava che suo padre avesse mai usato una parola tanto confidenziale nei suoi riguardi. Lo chiamava figlio, lo chiamava per nome, ma non ricordava di avergli mai sentito rivolgere una parola a metà fra l’orgoglioso e il canzonatorio. Suo padre lo aveva sempre trattato con distacco, ma Sesshomaru era pronto a scommettere che con Inuyasha non avrebbe mai avuto lo stesso atteggiamento. Lo avrebbe coperto di premure e attenzioni, lo avrebbe chiamato figlio, lo avrebbe chiamato forse proprio in quel modo. Con parole che a lui non aveva mai rivolto.

 

Appoggiò la fronte alla mano, oscurando parzialmente il volto. Ricordare l’atteggiamento di suo padre nei suoi confronti gli faceva sempre male. Evitava di pensarci il più possibile, ma sapeva che il pungolo del rimorso era sempre in agguato, pronto a stuzzicare il suo senso di inadeguatezza in qualsiasi momento. E da quando era iniziata tutta quella storia, lui sembrava non trovare più un attimo di respiro. Si sentiva continuamente in tensione, sotto analisi, costretto a dimostrare a tutti chi fosse; costretto a dimostrare il suo valore al Sensei, a Kumamoto. Costretto a non cedere mai, per impedire che anche solo il sospetto di un possibile confronto con Inuyasha si affacciasse. Non voleva esser raffrontato al fratellastro. Non sopportava quell’idea, perché, lentamente, stava prendendo sempre più corpo in lui la convinzione che da un passibile paragone lui ne sarebbe uscito sconfitto. annientato. Suo fratello lo avrebbe di nuovo battuto. E non su un campo di battaglia, dove si può rimediare con un nuovo duello. Lo avrebbe surclassato in quello che era il suo orgoglio, la sua ragione di vita: lo avrebbe mostrato indegno dell’eredità che portava.

 

Stupido! Era da stupidi farsi prendere da simili pensieri. Sesshomaru ne era pienamente consapevole. Si stava comportando come un bambino, quasi crogiolandosi in quella situazione sfiancante. Perché non lo cacciava? Perché non riusciva ad allontanarlo dal palazzo? Non sarebbe neanche stata necessaria una scusa. Lui era il Principe, ed era a sua discrezione decidere chi potesse restare al palazzo e chi invece dovesse andarsene. Eppure, niente. Non lo avrebbe mai ammesso, neanche a se stesso, ma il saperlo lì gli dava una sensazione indefinibile. Quasi di sicurezza. Di certezza. Inconsciamente, il pensiero di averlo al fianco, di poter contare su quella forza che non avrebbe mai riconosciuto ma che sapeva che c’era, la certezza di potersi fidare, perché Inuyasha non lo avrebbe mai colpito a tradimento neanche in quel frangente erano tutte sensazioni che gli impedivano di cacciarlo. Era stato per quelle sensazioni che lui si ostinava a non voler decifrare che aveva consegnato a Jacken un suo tsukesage. Un gesto insensato. Perché avrebbe potuto benissimo ignorare quella necessità del fratello o approfittarne per stuzzicarlo nuovamente. E cosa aveva fatto, invece? Gli aveva dato un kimono della stoffa più pregiata e preziosa. Il kimono degno di un Principe.

 

Principe…Già; lo aveva chiamato proprio così. Lui. Lui che aveva sempre cercato di ucciderlo, proprio perché nessuno potesse mai anche solo pensare di dargli quel titolo. Ucciderlo per lavare l’onta della dinastia disonorata. Ucciderlo per non vedersi affiancare un fratello mai voluto e detestato. Tragica ironia! Alla fine, era stato proprio lui a dargli quel titolo per primo. A chiamarlo come mai nessuno, ningen o youkai, aveva mai fatto. Perché? Buona domanda. Peccato che non ce l’avesse, la risposta. Aveva parlato senza pensare, e la voce si era modulata da sola fino a comporre quelle parole. Quella parola. Quasi avesse voluto proteggerlo. Come se quello fosse l’inizio di una serie di insegnamenti. Un qualcosa che sapeva di conosciuto.

 

Sesshomaru trasalì impercettibilmente. All’improvviso, si era ricordato perché quelle parole gli suonassero così familiari. Quelle parole…Il primo, forse l’unico, consiglio che suo padre gli avesse mai dato: non abbassare mai la testa. Non arrendersi mai. Sempre e comunque. Andare sempre avanti, fregandosene degli altri. Attenti solo a fare quello che veramente si crede giusto. Andare avanti, per qualcosa di veramente importante. Rialzò il viso verso Kumamoto. Stava aspettando un suo giudizio. L’anziano generale, da cui lui avrebbe avuto molto da imparare, stava aspettando una sua parola come un discepolo aspetta la verità dal maestro. Sesshomaru sospirò. Aveva agito d’impulso, spinto dalla rabbia, e non aveva considerato tutte le circostanze. Si era lasciato andare, convinto di aver trovato un capro espiatorio al groviglio emozionale che lo sfibrava. Invece, aveva solo rischiato di compromettere un’alleanza atavica. O forse, un rapporto di amicizia che lui non voleva riconoscere.

 

“Torna ai tuoi compiti, generale”

 

Lo sentì alzarsi con un leggerissimo mormorio, non avrebbe saputo dire se di approvazione o delusione. Sesshomaru sapeva che avrebbe dovuto aggiungere ancora qualcosa, anche solo una parola. Ma non ci riusciva. A volte, parlare gli sembrava la cosa più difficile al mondo.

 

Quando Kumamoto fu uscito, si portò la mano alla testa. Fitte gli attraversavano il cranio, facendogli rimbombare le tempie. Ronzio nelle orecchie. Si trascinò fino alla finestra, sedendosi con una gamba stretta al petto e il capo abbandonato sulla braccia conserte. Non riusciva più a riconoscersi. A comprendere lo sconforto che a volte lo coglieva. Il desiderio di liberarsi di qualcosa che non conosceva, ma che sentiva benissimo che lo stava soffocando. All’inizio, aveva pensato che il motivo di quel nodo alla gola fosse Alessandra. Il loro rapporto difficile. Ambiguo. Ora, non ne era più così sicuro. Con la ragazza stava bene. Riusciva di nuovo a respirare, senza alcun pensiero. Riusciva a sentirsi accettato senza condizioni. In ogni suo aspetto. Da quelli che lui ancora non conosceva a quelli su cui per secoli aveva basato la sua vita. Rimaneva sempre il problema di come riuscire a farla accettare a corte, e fino a quel momento lui non aveva mai voluto pensarci seriamente, tuttavia era ben intenzionato a non dover rinunciare a lei. E a dare finalmente un nome a quel sentimento che li univa. Ad accettare quel nome.

 

No. Il problema non era Alessandra. Era qualcos’altro. Qualcosa che non riusciva ad afferrare; gli scivolava irritante fra le dita, gli si mostrava per istanti troppo veloci perché riuscisse ad afferrarlo. Che si sentisse…stanco di essere da solo? Possibile che esistesse una simile solitudine? Una solitudine che neanche Alessandra e Rin riuscivano a colmare. Più che altro, una mancanza. Ma di che cosa? Di chi? Sesshomaru strinse forte gli occhi, come a reprimere lacrime che non esistevano, mentre un respiro lungo e profondo gli sfuggiva dalle labbra sottili, simile a un singhiozzo inconscio.

 

“Signor Sesshomaru…”

 

Rin. Profumo di bambina. Odore di carne tenera e fresca. Odore di erba bagnata. Odore di pioggia. Sollevò la testa con uno scarto nervoso. Era lì. La bimba che lo aveva salvato tre anni prima era davanti a lui. A pochi passi da lui. Timida e sorpresa. Forse, un po’ spaventata. Sesshomaru sorrise fra sé. Era davvero patetico. Non si era nemmeno accorto di non esser più solo nel kuroshoin. Decisamente, si stava rammollendo. La percepì avvicinarsi, più silenziosa del solito però. Forse, il trovarlo in quella insolita posizione l’aveva un po’ scossa. In definitiva, Rin era abituata a vederlo smarrito nei suoi pensieri, ma mai di certo lo aveva visto vicino allo sconforto. Quello era un lusso che non si era mai permesso. Una concessione cui non aveva mai indugiato. Non si era mai sentito, in passato, come in quei giorni. O forse, era sempre riuscito a farci fronte senza il minimo sforzo. Ma allora perché non era più così? Cosa era cambiato? Cosa?!... Un dubbio: davvero era cambiato qualcosa? Non era, più semplicemente, lui stesso che iniziava ad accettare inconsciamente i suoi limiti e le sue debolezze?

 

Mughetto. Profumo dolciastro di fiori. Riportò la sua attenzione a Rin. Ormai, gli era davanti. Lo scrutava a metà fra la curiosità e il sospetto. Quando era entrata, si era un po’ spaventata nel vederlo rannicchiato in un angolo, vicino alla finestra. Una figura bianca contro il nero della parete. Avvolta da una luce di pietra. Rin non aveva mai visto il suo signore in un simile atteggiamento. Le era sembrato un bambino. Le era sembrato piccolo e fragile. Le era sembrato…strano. Non era più il demone. Era diventato qualcosa che lei non aveva mai visto. Lo aveva chiamato e lui l’aveva fissata. Quasi spaurito. Non doveva neanche essersi accorto dello sguardo smarrito che le aveva lanciato. Oro opaco traballante. Occhi infinitamente tristi. Disperati. Lo spazio di un respiro, e avevano riassunto la loro solita sfumatura ambrata, gelida. Era stato questione di pochissimo, ma Rin era sicura di averlo visto davvero quello sguardo negli occhi del suo signore.

 

Era andata da lui perché voleva regalargli quei fiori. Quei piccoli mughetti che aveva visto bucare la neve e crescere, verdi e bianchi. Alzarsi nel freddo del vento, a dispetto di un inverno che ancora non voleva cessare. Quei fiorellini coraggiosi. Bianchi. Come lo era lui. Come solo il suo signore sapeva essere. E adesso che poteva darglieli, che ne stringeva il gambo tenero e verde fra le manine ancora sporche di terra e fango, si era anche dimenticata del suo regalo. Vedeva solo il signor Sesshomaru, con la sua apparente freddezza. E l’ombra che aveva attraversato prima i suoi occhi.

 

“Perché siete triste, Sesshomaru-sama?”

 

Il demone chiuse gli occhi, rilassandosi con un respiro impercettibile contro la parete. Triste…lo era davvero? Non sapeva esattamente cosa significasse esserlo. Non sapeva quasi nulla dei sentimenti che provava. Li avvertiva, ma non si era mai curato di classificarli, di attribuir loro un nome. Li aveva sempre considerati seccature transitorie. Inevitabili, ma facilmente ignorabili. Aveva visto la tristezza sul viso di Rin; si era intestardito perchè l’ombra inquieta sparisse dagli occhi di Alessandra. Si era trovato più volte di fronte a sentimenti che ignorava, e non si era quasi mai preoccupato di capirli. Si era semplicemente impegnato ad allontanarli. Come si farebbe per un fastidio. Per un qualcosa che non si riesce e non si vuole afferrare, convinti che non abbia alcuna importanza.

 

Triste…Poteva essere triste anche lui? Ma perché? Preoccupato avrebbe potuto esserlo. Avrebbe avuto senso esserlo, con un assedio in corso. Eppure, Rin gli aveva chiesto se fosse triste. Non preoccupato. E non poteva di certo trattarsi di un errore. Lui avrebbe anche potuto confondere i due atteggiamenti, ma non la bambina. Lo conosceva bene orami. E conosceva le sfumature che le emozioni lasciano negli occhi.

 

“Non sono triste”

 

Mentire; senza neanche sapere se si sta dicendo la verità. Negare qualcosa che non si riesce a definire. Che si ha paura ad affrontare. Perché non era quello il momento per simili sensazioni. Prima aveva un assedio da sbaragliare e una guerra da vincere. Avrebbe battuto un antico avversario di suo padre. Un taiyoukai. Avrebbe affermato la sua forza e la sua potenza. Si sarebbe dimostrato invincibile. Pari a suo padre. Anzi, superiore a lui. Avrebbe finalmente messo a tacere tutte le voci che lo volevano inadatto, tutti i sospetti che, nonostante la sua freddezza, non sarebbe mai riuscito a raggiungere i livelli del genitore e ripristinare l’antico onore. Avrebbe estirpato una volta per sempre la malalingua che lo voleva destinato a commettere i medesimi errori di suo padre: il sangue non può mutare, dicevano, e lui avrebbe condotto la sua stirpe di nuovo al disonore.

 

Lo sapeva. Sesshomaru era perfettamente conscio delle voci che da sempre erano circolate all’interno delle mura del suo palazzo. Se, negli anni, con la sua condotta feroce e spietata, irreprensibile da un punto di vista demoniaco, sapeva di averle messe a tacere, era altresì conscio che il suo arrivo con Alessandra le aveva ridestate. E i corridoi risuonavano di sussurri di commiserazione e risatine ironiche: neanche il nuovo Principe era riuscito a restare immune al fascino delle femmine umane. Era un debole.

 

Debole…No. Assolutamente falso. Alessandra non lo aveva minimamente indebolito. La donna umana che teneva accanto a sé non lo avrebbe mai privato di quella forza di cui andava fiero, non lo avrebbe mai costretto a dimenticare la sua indole demoniaca. Per questo, era deciso a vincere: per dimostrare a tutta la corte che la sua forza non era minimamente scemata. Per sancire con le azioni una realtà, un’autorità, che la presenza di Alessandra non aveva assolutamente mutato. Allora, e solo allora, Sesshomaru si sarebbe sentito pronto. Sicuro. Determinato. Avrebbe imposto il suo volere senza tentennamenti: lui voleva Alessandra al suo fianco, e l’avrebbe avuta. Nessun youkai avrebbe mai osato contraddirlo, se ci teneva alla vita. Lei sarebbe rimasta con lui. Per sempre.

 

“Non dovete essere triste, Sesshomaru-sama. Se Sesshomaru-sama è triste, lo è anche Rin”

 

Una mano sul viso. Piccola, un po’ tremante. Gli scostava i lunghi capelli d’argento, disegnandoli il profilo elegante e severo. Qualcosa di strano. Di nuovo. Una sensazione che lo sorprese, facendogli dilatare leggermente gli occhi. Un respiro leggermente accelerato a sfiorargli la guancia, e un profumo penetrante di terra e di pioggia. Sentì il proprio braccio muoversi, incapace di controllarlo. Lo sentì sollevarsi, dimentico dei suoi comandi di restare fermo. Dimentico della sua freddezza. La mano si soffermò con delicatezza su quel corpicino che ora gli era vicinissimo, tremante e timoroso di aver davvero osato troppo. Di essersi spinto troppo aldilà di un limite che pure poteva superare.

 

Rin aveva chiuso gli occhi appena aveva visto la mano del suo signore muoversi. Sapeva che aveva fatto una cosa proibita. Sapeva di aver infranto un tabù, ma non riusciva proprio a capire perché dovesse esser sbagliato. Non le era piaciuta la risposta del suo signore, perché era falsa. E Rin non era abituata a sentir mentire il demone. Distante, freddo, anche sbrigativo. Ma non le aveva mai mentito. In quel moneto, invece, Sesshomaru aveva detto una bugia. E lei aveva capito che con le sue parole semplici, troppo infantili per esprimere quello che voleva dire, non sarebbe mai riuscita a parlargli. A offrirgli quella consolazione che l’inuyoukai sembrava chiedere inconsciamente con il suo atteggiamento distante. Non aveva trovato altro modo di non farlo sentire solo, se non avvicinandosi a lui fino a sfiorargli il viso con una carezza. Un contatto timoroso di sbagliare e sporcare quel viso irraggiungibile, quel viso perfetto, con la sua mano sporca di terra. Gli aveva dato una carezza e si era sollevata sulle punte, fino a riuscire a depositare un piccolo bacio sulla guancia del suo signore. Un qualcosa di mai fatto prima. Perché, se anche Sesshomaru le aveva permesso un contatto fisico, non era le aveva mai permesso di andare oltre un semplice abbraccio. Non le aveva mai permesso di toccarlo in quel modo. Di sfiorargli il viso. Neanche quando avrebbe voluto curarlo da graffi sottili che possibili combattimenti gli lasciavano.

 

Rin aveva chiuso gli occhi, incassando leggermente la testa nelle spalle. Aspettava. Aspettava con le labbra serrate e il respiro spezzato. Aspettava uno schiaffo che non arrivò mai. Al suo posto, la mano del suo signore le sfiorò il viso, salendo fino agli occhi e tergendo le piccole lacrime di sconforto e agitazione che la bimba non era riuscita a frenare. Rin, al contatto, socchiuse gli occhi, sbirciando fra il velo leggero e tremante che le offuscava la vista. Sesshomaru manteneva con ostinazione un viso impassibile, ma dai suoi occhi trapelava qualcosa che, forse, si sarebbe potuta dire commozione. L’youkai non si era mai aspettato un gesto simile, neanche dalla bambina. Era cosciente che Rin lo abbracciava appena ne aveva occasione, ma l’aveva sempre interpretato come un gesto dettato dalla necessità di assicurarsi della sua presenza. Per i bambini, il contatto fisico è importante, in quanto permette loro di mantenere saldo il mondo che li circonda. Sesshomaru aveva sempre pensato che gli abbracci di Rin fossero solo dettati dal bisogno di rassicurare se stessa della sua vita. Del fatto che lui non era una creatura della sua mente. Forse per pigrizia, forse proprio in virtù di quel circuito mentale che lo vedeva sempre dominatore e assogettatore, si era sempre convinto che Rin lo seguisse mossa soltanto da riconoscenza e timore. In definitiva, era stato lui a riportarla alla vita, anche se, ancora, cocciutamente, si diceva che lo aveva fatto solo per testare Tenseiga. Era sempre stato convinto che, un giorno, non avrebbe più travato la bimba ad attenderlo. L’avrebbe vista uscire dalla sua vita con lo stesso passo timido con cui le si era avvicinato la prima volta. Si era sempre convinto che Rin, prima o dopo, avrebbe avvertito il richiamo del mondo umano e sarebbe fuggita da lui, perché sapeva bene che, altrimenti, lui non l’avrebbe mai lasciata andare, anche solo per non dover separarsi da un qualcosa che diceva appartenergli. Come se fosse un oggetto.

 

Rispetto e paura. Ecco cosa aveva sempre ritenuto presente nell’animo della bambina. I soli sentimenti che lui aveva ritenuto possibili, almeno fino a quando non aveva incontrato Alessandra. La misura della sua autorità. Invece, era un altro il legame che aveva tenuto Rin accanto a lui. Qualcosa che l’aveva spinta a ritrovare la parola per il solo piacere di fargli conoscere la sua voce; qualcosa che l’aveva spinta a mostrare a lui il suo sorriso aperto e infantile. Ingenuo. Qualcosa che le diceva di raccogliere fiori per lui, di confidare in lui, di non lasciarlo mai. Un sentimento che Sesshomaru non sapeva definire, ma che in quel momento aveva avvertito chiaramente. Un sentimento che Rin avrebbe tranquillamente chiamato affetto.

 

Rin seguì la mano del demone che scendeva fino alla sua, liberandola dei mughetti che aveva raccolto per lui e che venivano deposti con attenzione sul tatami. Sembrava quasi che l’youkai temesse di rovinarli, di poter spezzare con un gesto brusco i loro calici delicati. Rin si sentì sollevare da due mani forti e, senza neanche aver il tempo di rendersi conto di quanto stesse effettivamente accadendo, si ritrovò seduta sulle ginocchia del suo signore. Stretta a lui. Vicina come solo poche volte le era stato permesso. Un pigolio leggero le uscì dalle labbra, un sussurro che faticava a mutarsi in suono.

 

“Sesshomaru-sama è arrabbiato con Rin?”

 

“No”

 

Rin sorrise, stringendo la stoffa del karingiru del suo signore e tuffando la testa nel suo petto. Contenta. Sesshomaru-sama non era arrabbiato con lei. Sesshomaru-sama le voleva bene. Perché aveva accettato il suo regalo; perché l’aveva presa in braccio e ora non dava segni di esser infastidito dalla sua presenza. Percepì la mano del demone sorreggerla e sistemarla meglio contro al suo petto, mentre il sonno si impadroniva di lei.

 

Sesshomaru piegò il viso verso la bimba che teneva stretta a sé. Aveva acconsentito che Rin lo seguisse convincendosi che fosse un suo capriccio. Aveva accettato di proteggerla nell’ottusa convinzione di star difendendo un oggetto di sua proprietà. Un leggero sorriso gli attraversò le labbra. Rin aveva infranto per prima la sua fredda corazza. Si era avventurata in un mondo nuovo e pericoloso senza timore. All’improvviso aveva deciso che tutto quello che le era stato detto fino a quel punto era sbagliato. Sbagliato considerare i demoni cattivi. Sbagliato pensare che gli uomini devono fuggire dagli youkai. Giusto stare con lui. Giusto sorridere per lui. Sesshomaru non era certo che un giorno sarebbe riuscito a comprendere qual era stata la molla che aveva spinto Rin a prendersi cura di un essere pericoloso e rosso di sangue. A restare con lui, a portargli cibo e acqua anche se lui l’aveva trattata male, a sorridere felice con la bocca sdentata e il viso coperto di lividi solo perché le aveva chiesto il modo in cui se li era procurati. Non sapeva se sarebbe mai riuscito a comprendere i ningen, ma non gli importava neanche. Era cosciente del fatto che Alessandra e Rin avrebbero sempre atteso pazientemente che lui capisse, che lui accettasse le loro particolarità, le loro diverse capacità di esprimersi. Come loro accettavano le sue.

 

Sfiorò il viso della bimba con una carezza. L’avrebbe protetta. Sempre. Perché lo voleva, non perché la considerava una sua proprietà. L’avrebbe protetta da tutto, perché lei fosse libera di poter restargli accanto, senza alcun timore per se stessa.

 

  
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