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Autore: Shiki Ryougi    08/12/2012    2 recensioni
[Vincitrice della SFIDA 36 del forum WRITER'S DREAM]
“Il tempo passa per tutti, è un ciclo senza fine, è sempre uguale…”, pensò.
“Sara si sbagliava” rispose la voce.
“Le stelle sono morte”, concluse Daniele.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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SFIDA 36
Sfidante: Shiki Ryougi
Sfidato: Ray
Arbitro: swetty
Genere: Drammatico
Tema: Progressiva insanità mentale/malattia psichiatrica
Boa: Riferimenti temporali che diano l'idea dello svolgimento ciclico del tempo.
Caratteri: 8000
Termine: 29 ottobre, ore 23:59 


Racconto che ha partecipato e vinto alla SFIDA 36 (la trovate nel link, 44esimo messaggio del topic) del forum WRITER’S DREAM.
Racconto dello sfidato: QUI 

GIUDIZIO di swetty:
Il primo fendente l'ha lanciato Shiki, con una storia piena di stelle, facendoci capire che non era una timida gattina. Ray ha prontamente risposto, sfruttando il tema a suo vantaggio, e creando una discesa nella follia per il suo personaggio. Sono stati colpi duri, con una scivolata di entrambi nel finale, ma alla fine l'agilità e la poesia di Shiki hanno prevalso, e Ray ha scontato la mancanza di dettagli e la velocità, che gli hanno impedito di assestare i suoi colpi migliori.
Pertanto quello che vedete nel fango qua fuori è Ray, e la vincitrice è Shiki. 

Autrice:
Una competizione nata al puro scopo di divertirci :D.
Mentre questo racconto nasce da qualcosa di molto più profondo. Tengo molto ad esso perché parla di una storia vera, rielaborata, di due cugini che si volevano bene.
Buona lettura.

 

 

 

 

 

Sara aveva un desiderio.
In realtà ne aveva molti, ma quello era il più intenso.
Lei voleva uccidere suo zio.
Doveva morire, scomparire, perché l’odiava con tutto il cuore.

“Quello che faccio non è mai abbastanza. Quello che sono è pura merda. Colui che dovrei essere non è mai nato, al suo posto sono arrivato io”.
Daniele stava seduto sul piccolo divano della cucina. Lo sguardo era basso, i pugni serrati, il cuore martellava nel petto e le labbra tremavano. Era in procinto di piangere, ma con tutte le forze cercava di trattenersi, soffocando ogni lacrima, percuotendo l’anima.
«Stai dritto, cazzo. Tieni quelle spalle dritte! Sembri un handicappato, capito? Io non voglio un figlio handicappato in casa!» tuonò suo padre, con il volto freddo come il ghiaccio.
Questa era la routine.
La sorella era chiusa in camera, con la musica a tutto volume sparata nelle orecchie.
La mamma stava davanti ai fornelli, facendo finta di tenere d’occhio la cena; zitta, ubbidiente e assente.
Infine c’era lui, Daniele, un dodicenne ritardato, o almeno questo gli diceva suo padre, seduto sul divano, piegato e inferiore.
«Che dovrei fare? Dimmelo!» esclamò, le lacrime già gli bagnavano gli occhi arrossati, senza il suo permesso.
Il padre fissò lo sguardo duro, accusatore, penetrante, nei suoi occhi e rise: «Assolutamente niente, tu sei un caso perso. Perdente sei nato, tale rimarrai. Smettila di sognare cazzate, scendi sulla terra».
Questo ferì l’animo di Daniele, per l’ennesima volta. In silenzio si alzò dal divano e uscì dalla cucina. Si chiuse in camera e sprofondò nel letto.
Diede il via libera alla lacrime, che cominciarono a scendere come un fiume in piena.
“Cosa ho fatto di male?” si chiese.
La risposta arrivò nella sua testa: “Sei nato disgraziato, non sei come lui. Tuo padre ha ragione, smettila di sognare le stelle, sono solo cazzate”.
Si addormentò, cadendo nel nulla.

“Le stelle non muoiono mai”.
Sono bellissime, immutabili, il ciclo inarrestabile del tempo non le sfiora. Ogni notte sono sempre lì, come incastonate in quel manto blu profondo che è il cielo notturno.
A Sara piaceva osservarle. Passava il tempo a contarle per poi perdersi, erano decisamente troppe.
Sorrideva, si annotava il numero a cui era arrivata e poi andava a dormire.
Però sapeva benissimo che era tutta un’illusione.
“Le stelle muoiono”.
Ma lei preferiva credere il contrario, per avere un rifugio dove nascondersi, lontana da quella spirale, il tempo, che senza pietà risucchiava tutti.
Aveva soltanto dodici anni, sapeva che i pensieri che le affollavano la mente non erano normali. Aveva tutta la vita davanti, perché mai si sarebbe dovuta preoccupare del tempo che passava?
Forse perché, anni, mesi, settimane e giorni, tutto si ripeteva senza sosta. Nulla cambiava, ma si trasformava e di solito mai niente migliorava.
Magari era soltanto paranoica, ma, giorno per giorno, qualcosa dentro di lei cresceva, un macigno nello stomaco si faceva sempre più largo e pesante.
Sara non ne conosceva la natura ma le faceva paura. Quindi la notte fuggiva, raggiungendo le stelle.
“Hai paura, Sara?” mormorò a se stessa.
«Sì» sussurrò.
“Perché?”.
«Di cosa, sarebbe meglio chiedersi».

Daniele stringeva la mano di Sara.
Entrambi erano sdraiati sull’erba. Guardavano il cielo. Intorno a loro i suoni della natura notturna echeggiavano, facendo da colonna sonora a quel momento di pace.
La ragazzina, sul punto di addormentarsi, sentì il cugino tremare; piangeva in silenzio.
«Daniele, quante sono le stelle?».
Il ragazzino ci mise un po’ a rispondere. «Non lo so». La sua voce era un sibilo, rotto dai singhiozzi che cercava di trattenere, «Tu lo sai?».
Sara rimase in silenzio. Il macigno che lentamente la schiacciava aveva cominciato a prendere forma, ma non ne distingueva ancora i tratti e il significato.
«Sara?».
Lei annuì.
«Ti voglio bene».
Annuì di nuovo.

“Siamo cugini?”.
“Sì, quasi fratelli”.
Quelle parole le risuonavano nella testa.
“Quasi fratelli”, questo aveva detto Daniele e lei sentiva nel cuore che era la verità.
Quanto tempo era passato?
Facevano le elementari, appena usciti da scuola Sara s’era avvicinata a lui e gli aveva sussurrato all’orecchio quella domanda. Prendendole la mano, aveva risposto con un sorriso: «Sì, quasi fratelli».
Perché adesso Daniele non sorrideva più?
Si rifiutava di guardare le stelle, ma le faceva comunque compagnia, ogni notte piangendo in silenzio.
Ed ora Sara conosceva la forma di quel macigno.
Aveva il volto di suo zio.

Era buio.
Quella notte la finestra della camera di Daniele era spalancata. Il freddo penetrava ovunque; soffiava, sibilava, pronunciava parole crudeli.
Il ragazzino era rannicchiato a terra, nudo.
La schiena incollata al pavimento di marmo, gli occhi spalancati e vuoti. Sussurrava, rispondendo alla voce, tanto simile a quella del padre.
Come un cancro, era nella sua testa, la sentiva crescere.
“Chi sei?”.
“Daniele”.
“Ti sbagli”.
Cominciò a ridere senza motivo, scosso dagli spasmi si alzò da terra. Sembrava un cadavere; freddo e pallido.
“Il tempo passa per tutti, è un ciclo senza fine, è sempre uguale…”, pensò.
“Sara si sbagliava” rispose la voce.
“Le stelle sono morte”, concluse Daniele.

«Non sogni più le stelle?» domandò Sara, mettendosi davanti alla porta.
Daniele non rispose. La scansò, uscendo dalla classe.
Rimase ad osservarlo, mentre si dirigeva verso i bagni. Mani in tasca, i capelli folti e spettinati a gettare ombre sul volto diventato inespressivo.
Sara trattenne le lacrime, mentre ignorava i compagni, che la fissavano incuriositi e divertiti.
Che volevano capire?
Cosa pensavano di sapere?
Gente idiota che sa solo gettare sentenze, prese in giro e cattiverie verso cose che nemmeno conoscono e troppo grandi per essere comprese.
Non vedevano che qualcosa non andava?
Non notavano che Daniele era cambiato?
Non scrutavano i suoi occhi, simili a pozzi neri, senza fondo?
Gente idiota, mondo schifoso.
Tutto era uguale a prima, soltanto che Daniele era scomparso, lasciandola sola. Al suo posto esisteva un fattoccio, vuoto e troppo simile a lui.
Non studiava, stava sempre solo, l’aspetto e il vestiario erano trasandati. Non veniva più a piangere da lei.
Il padre aveva distrutto il suo sogno e con esso era morto anche Daniele, quello che era stato suo fratello?
Sara non sapeva più nulla di lui; si rifiutava di parlarle, di spiegarle almeno il perché di quel comportamento. Da quando era ricominciata la scuola si comportava in modo strano; a ricreazione usciva dalla classe e nessuno lo vedeva più. Si ripresentava alla fine, quando suonava la campanella e si posizionava in fondo, lontano da tutti.
Non parlava mai.
Ogni giorno era la stessa storia. Immutabile, senza nessuna trasformazione.
Daniele era stato risucchiato?
Sara voleva scoprire la verità, voleva riportare indietro suo cugino, il ragazzo speciale a cui voleva un’infinità di bene.
Così quel giorno decise di seguirlo.
Fece due enormi respiri e tenendosi a dovuta distanza cominciò a pedinarlo. Daniele camminava tenendo la testa bassa e le mani in tasca, percorrendo il lungo corridoio.
Superò i bagni e prese le scale che portavano al piano sotterraneo.
Sara sapeva benissimo che era vietato andare lì. Doveva saperlo anche Daniele.
Sempre più preoccupata, anche lei imboccò le scale. Erano scure, piene di polvere e ragnatele. Lì non ci andava mai nessuno, non c’era niente lì sotto, cosa ci andava a fare Daniele?
Le sudavano le mani, nonostante sentisse freddo.
Si fermò, osservando il cugino che apriva la porta piena di polvere e se la chiudeva alle spalle.
“Che cosa fai? Ora lo vedrò anche io…”.
Sara riprese a scendere le scale. Era come sprofondare sottoterra, nel regno del buio.
Tremante, si posizionò davanti alla porta chiusa. Afferrò la maniglia e, deglutendo, l’aprì.
Le bastarono pochi centimetri per sentire dei sussurri. C’erano due persone li dentro?
Una voce era quella di Daniele, ma l’altra di chi era?
Sbarrò gli occhi, non voleva crederci. Era suo zio, era dentro il sotterraneo, e stavano litigando.
Le lacrime le bagnarono i occhi. Cominciò a piangere senza controllo.
Urlando diede un calcio alla porta, che si spalancò all’istante.
Quello che vide la pietrificò.
Dentro c’era soltanto Daniele e la voce del padre gli usciva dalla bocca. Proveniva da dentro di lui.
Come un demone, si era impossessato per sempre di suo cugino.

   
 
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