Capitolo due: una lama nella neve
La sveglia suonò sotto il cuscino, erano le tre di notte e in casa mia dormivano tutti. Uscii dal letto, non avevo chiuso occhio, accesi la luce e mi infilai i jeans e una felpa, recuperai la giacca, la kefiah e scesi nel seminterrato. Aprii la porta della lavanderia, misi le scarpe e feci un passo fuori. Imprecai: aveva nevicato; mi piaceva la neve ma così sarebbe stato più difficile raggiungere il mio dolce antro. Salii gli scalini e arrivai nel giardino, lo attraversai e aprii il lucchetto del cancelletto. Camminai lungo il marciapiedi, corsi sulla strada sterrata e raggiunsi la mia adorata casa. Entrai nella mia stanza preferita al primo piano e mi sedetti sul davanzale di cemento, pieno di neve. C'era la luna piena, iniziavo a sentire caldo nella giacca invernale, me la tolsi e rimasi con la felpa, l'aria fredda della notte mi accarezzò il viso, respirai a fondo. Aria pura, non quella nauseante che sentivo solo io in mezzo alla gente, puzza di stronzi. Presi il coltellino svizzero dalla tasca dei jeans, cominciai a giocarci lanciandolo in aria e prendendolo al volo, mi tagliai e mi sfuggì un piccolo gemito. Una goccia di sangue uscì dalla ferita e cadde sul pavimento, andai in giardino e corsi nel campo pieno di neve, tolsi la felpa e mi ci gettai dentro. Sollievo, da bollente che ero diventai ghiacciata, poi il freddo diventò eccessivo cominciai a sentire male, schizzai in piedi e urlai una sfilza di parolacce, funzionò, mi sentii meglio. Tornai dentro la casa e recuperai il coltellino, sentii un rumore di passi, poi vidi una luce, fredda e ferma. Era una torcia elettrica. "Che ci fai tu qui?"
Non potevo crederci, non volevo crederci. Cosa diavolo ci faceva lui nella casa a quest'ora della notte? Non lo conoscevo nemmeno, era un ragazzo che vedevo sempre in autobus; doveva avere circa un anno più di me. Abitava vicino a me, ma lo incontravo raramente. Mi fissava scioccato e mi resi conto di essere in canottiera, infilai la felpa, e, contemporaneamente indossai la maschera che usavo di solito, quella crudele; impugnai il coltello:-Vattene-dissi a voce bassa, non si muoveva-Vattene!-ringhiai, non ero sicura di potermi controllare. Feci due passi con l'arma in bella vista, la lama luccicava al chiaro di luna. Lasciò cadere la torcia e corsa via, sentii i suoi passi allontanarsi, il coltello mi cadde di mano e rimbalzò sul pavimento di cemento, appoggiai la schiena al muro e scivolai a sedere, tenendomi la testa fra le mani, una lacrima mi rotolò lungo il viso, non era di tristezza ma di gioia. Ero da sola, nel mio rifugio felice.