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Autore: margheritanikolaevna    15/12/2012    10 recensioni
Dal capitolo terzo: " “Ascoltami” disse Stella, con voce improvvisamente ferma “C’è una cosa che devi sapere: io non sono chi pensi che sia. Non sono la persona che credi di conoscere”.
La poliziotta era consapevole che un solo gesto avrebbe persuaso Mac più di mille parole, che lui avrebbe tenacemente bollato come sciocche credenze popolari, impossibili da credere: per questo, lesta come un fulmine s’impossessò della pistola che il collega teneva alla cintola e prima che lui - interdetto da quel gesto inaspettato - riuscisse a muovere un muscolo puntò l’arma verso il proprio petto ed esplose un colpo".
Racconto primo classificato al Goth Contest, indetto da CarmillaLilith su efp
Questo è il link: http://freeforumzone.leonardo.it/discussione.aspx?idd=10338285
Genere: Dark | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Mac Taylor
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Ecco sabato ed ecco il nuovo capitolo, stavolta un po’ più breve e  - per così dire - interlocutorio: più che svelare, suggerisce e spero che per questo motivo vi incuriosirà.
La prima parte della visione di Stella riecheggia un bellissimo passo di “Pian della Tortilla” di John Steinbeck; l’immagine inserita alla fine è quella facente parte del pacchetto scelto per il contest e che dovevo inserire nel racconto. Quelli in grassetto sono, invece, i prompt.
 
 
 
Capitolo Secondo
 
 
 
 

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Stella Bonasera entrò nella foresta, cominciando a camminare sullo spesso tappeto umido di aghi di pino e foglie secche; la nebbia in alto velava il cielo e al di là di essa splendeva la luna, riempiendo il bosco di una luce che era come una garza biancastra. Avanzava lentamente, le membra imprigionate nello strano torpore proprio dei sogni.
Non si notava traccia di quella decisione di profili che di solito si attribuisce alla realtà: i tronchi degli alberi non erano colonne nere di legno, ma ombre morbide prive di sostanza e le macchie dei cespugli apparivano informi, come galleggianti nel bizzarro chiarore dell’aria.  
Mentre si inoltrava nel folto del bosco sorse un gelido vento da nord, che portò la nebbia a oscurare ancor di più il volto pallido della luna.
Era una notte di spiriti: poteva sentire i passi felpati degli spettri errabondi, poteva vedere - spostando gli arbusti per farsi strada attraverso la macchia - le piccole luci che vibravano dentro alle loro forme trasparenti.
Muovendosi, la coltre d’ovatta lattiginosa regalava alla foresta un aspetto mobile, ondeggiante: ogni albero pareva strisciare via furtivo, ogni arbusto sembrava spostarsi silenzioso e leggero come un enorme gatto nero.
Le cime degli alberi, parlando rauche nel vento, dicevano agli uomini la ventura e la sventura.
Stella seguiva un sentiero che si svolgeva a zig-zag per la foresta, fino a che arrivò a distinguere un dolce chiarore giallastro che si alzava e splendeva una decina di metri davanti lei. Dopo qualche passo si trovò di fronte a un alto cancello di ferro; la caligine era così fitta che si accorse della sua presenza solo quando vi fu praticamente davanti. Lo spinse e, con sua meraviglia, lo trovò aperto.
Entrò e percorse il viale alberato per alcune decine di metri, sempre immersa in un’atmosfera densa e biancastra che le impediva di distinguere chiaramente i contorni degli oggetti: nonostante non riuscisse a orientarsi né a riconoscere i luoghi, tuttavia sapeva esattamente dove andare, come se stesse ripetendo un percorso già compiuto e perfettamente noto.
Si fermò a un tratto alla fine del viale: in quell’istante la nebbia si diradò d’improvviso, rivelando la sagoma di un imponente edificio che si ergeva solitario in mezzo al bosco. La luna piena splendeva alta nel cielo, diffondendo un’incredibile bellezza sul giardino e la villa, che Stella riconobbe immediatamente; l’elegante palazzo scintillava come zucchero, le ombre si rincorrevano nel parco circostante e l’oscurità profonda di alcuni angoli era solcata a metà da un’obliqua colonna di luce lunare.
La luminosità diffusa bagnava i contorni delle alte colonne, dell’ampio timpano che sovrastava la porta, della scalinata che conduceva all’ingresso e degli stipiti delle finestre oscurate da pesanti tendaggi, irraggiandosi poi obliquamente sul cortile sottostante; un lato di questo, quindi, era chiaramente illuminato mentre l’altro rimaneva in ombra, lasciando intravedere unicamente il profilo dei severi frontoni di pietra.
La donna salì le scale e poi si fermò, schermandosi gli occhi con la mano per proteggerli dalla luce lunare, il cui splendore era quasi accecante. Scrutando nel buio scorse - prima vagamente, poi sempre più distintamente - proprio a un paio di metri da lei la sagoma di una porta semiaperta.
Quando la toccò, si schiuse con un sinistro cigolio dei cardini arrugginiti, rivelando un’ampia sala riccamente arredata, ma deserta e semibuia.
Stella l’attraversò senza degnare di uno sguardo i mobili antichi, le tele preziose appese alle pareti rivestite di costoso broccato, i candelabri d’argento scintillanti nella penombra; i suoi piedi nudi calpestavano senza rumore i ricchi tappeti posati sul pavimento di marmo grigio e, sebbene si aprisse davanti a lei una moltitudine di saloni, corridoi e disimpegni, si muoveva senza alcuna esitazione, come se sapesse esattamente dove dirigersi.
La stessa forza misteriosa e inspiegabile che l’aveva guidata in mezzo al bosco ora la conduceva attraverso i meandri di quella magione: ogni stanza, ogni recesso sembrava svelare un ricordo che la donna aveva cercato di ricacciare indietro con tutte le sue forze, senza però riuscirvi del tutto.
Non incontrò nessuno e la cosa non la sorprese: era già accaduto, in un passato lontano ma mai dimenticato.
Stella giunse infine dinanzi a una porta elegantemente ornata di stucchi dorati; la provò e si rese conto che era anche questa aperta. Oltrepassatala, si ritrovò in una camera da letto, vasta e arredata con sfarzo; nella semioscurità scorse le luci tremolanti di alcune candele posate per terra e in mezzo a queste distinse una sagoma di spalle, accovacciata. L’ombra sussultava e si contorceva, china su un’altra massa scura che si allungava sul pavimento e che pareva scossa dai sussulti di una straziante agonia. L’aria era piena di gemiti confusi, misti di piacere e di dolore.
Quando la sagoma sdraiata cessò di dibattersi, improvvisamente anche il silenzio calò sulla stanza: Stella fece un passo avanti e la creatura, senza rialzarsi, si voltò verso di lei.
Stella non urlò, ma tutti i demoni della notte che cavalcano i venti della follia urlarono per lei: in quell’attimo le piombarono addosso i ricordi, non più confusi ma anzi così vividi da schiantarle l’anima.     
Era quasi paralizzata eppure arretrò di un metro, mentre i suoi occhi si rifiutavano di chiudersi, mostrandole in modo distinto la tremenda apparizione.
Di fronte a lei c’era una giovane donna, il cui volto le apparve rischiarato dalla luminosità incerta delle candele: poteva avere al massimo diciotto anni, indossava un abito bianco di foggia antiquata il cui corsetto dai lacci intrecciati le lasciava scoperti il seno e le braccia, d’un biancore tale che al loro confronto l’elegante stoffa pareva grigia e scolorita. Al suo collo splendeva una meravigliosa croce arricchita di pietre preziose, mentre le mani dalle dita affusolate, ornate da lunghe unghie aguzze, riposavano in grembo, avvolte entro raffinati mezzi guanti di pizzo bianco e accanto allo stelo di una rosa bagnata di rugiada.
Rose le ornavano anche i capelli, lunghi e scuri, che le ricadevano in boccoli scomposti sulle spalle e il petto; rose e spine come una corona sul suo capo.
Era immobile e la fissava, il bel viso pallidissimo solcato dalle lacrime, le labbra semiaperte che rivelavano i canini acuminati. I chiari occhi socchiusi esprimevano un godimento selvaggio e Stella, man mano che si abituava all’oscurità della stanza, distinse con orrore crescente le macchie di sangue rosso vivo che imbrattavano il candore dell’abito della fanciulla.
Sangue sul pavimento, sangue sulle cortine azzurro cupo del sontuoso letto a baldacchino accanto al quale la giovane era accovacciata: sangue che gocciolava, saturando l’aria del suo odore disgustoso, dal corpo dell’uomo che aveva intravisto alle spalle della ragazza e che ormai non era altro che un irrigidito cadavere.



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Stella barcollò, incapace di spezzare l’incantesimo in cui la teneva lo sguardo di quella creatura mostruosa; cercò di sollevare una mano per escludere del tutto l’orribile vista, ma i suoi nervi erano tanto scossi che il braccio non le obbedì.
 Il tentativo, comunque, bastò a farle perdere l’equilibrio tanto che incespicò nei suoi stessi piedi e cadde al suolo con un grido.
 
Stella Bonasera sussultò e sbatté le palpebre più volte, ancora sconvolta a causa della scena che le era apparsa davanti agli occhi. Si guardò intorno disorientata e nemmeno il sollievo che le cagionò il fatto di ritrovarsi a casa propria, raggomitolata sul suo divano giallo, bastò a scacciare il terrore che le aveva suscitato la vista di quel volto deformato dall’odio.
L’aveva visto e, cosa anche peggiore, l’aveva riconosciuto.
Si alzò e attraversò il salotto, stringendosi nel vecchio golf di lana mélange a trecce.
Lanciò uno sguardo fuori dalla finestra e, nonostante il tepore dell’appartamento, rabbrividì: in strada, le ombre del crepuscolo sembravano fantasmi. Decine, centinaia di fantasmi che contorcendosi salivano fin lassù.
Le parve a un tratto che avrebbero sfondato i vetri per riversarsi nella camera e che lei vi sarebbe annegata dentro come nell’inchiostro: quanto volentieri vi si sarebbe lasciata sprofondare senza più pensare, senza soffrire ancora…
Nella stanza non restavano colori vivi, l’oscurità gravava su ogni cosa.
Se all’inizio aveva ancora potuto augurarsi che il suo comportamento della notte prima non avesse provocato conseguenze irreparabili, ciò che era accaduto quel giorno era stato sufficiente a cancellare ogni sua residua speranza: lo aveva sentito, prima ancora di averlo capito, nell’istante in cui la visione era tornata a tormentarla di nuovo dopo tanti anni di pace.
Le sue angosciose supposizioni si erano tradotte in certezza, poi, quando aveva visto  
il cadavere della sconosciuta di Stuyvesant Park: il fatto che fosse stata assassinata proprio lì poteva essere una coincidenza, ma le terribili ferite che aveva scorto su di lei non le lasciavano dubbi su chi avesse potuto infliggergliele.
E adesso, si chiese con angoscia la poliziotta per l’ennesima volta, cosa doveva fare?
 
 
 

  
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