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Autore: missohara    15/12/2012    8 recensioni
Elisa fino a poco tempo fa contava le calorie di ogni pasto e quando doveva mangiare vomitava.
Elisa saliva sulla bilancia decine di volte al giorno, e ogni etto perso era un sospiro di sollievo e ogni etto acquistato una sconfitta personale.
Ora no: ora Elisa ha realizzato di voler bene alla vita e ci prova con tutta se stessa, a uscire dal tunnel dell'anoressia.
Ci prova e non sempre ci riesce, e a mille problemi che le martellano in testa.
Francesco è cieco, invece. Francesco non sa muoversi senza un bastone, legge con le mani e troppo spesso è lasciato in disparte perché non ci vede, e troppo spesso si fa delle paranoie inutili per questo.
Francesco ed Elisa. Stesso liceo, stessa classe, tre anni passati a ignorarsi, o quasi.
Lui non la può vedere, lei non vuole che il suo corpo sia visto...
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Scolastico
Capitoli:
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. A Serena.
I’ll be your mirror
 
Capitolo 1: another day
(Elisa)
 
 
Spengo la sveglia esattamente quattro minuti prima che inizi a trillare.
Odio dormire e sentire quel marchingegno assurdo che spara le note della danza della fata confetto.
Perciò ogni giorno, da tre anni a questa parte, spengo la sveglia prima che trilli.
Però  regolo la sveglia tutte le mattine. Ho il terrore di rimanere addormentata e di restare a letto più del tempo necessario.
Mi alzo in fretta, se stessi a letto un attimo di più mi assalirebbe il desiderio di non andare a scuola e inizierei a pensare a quanto odio questo liceo, queste mura opprimenti, i miei compagni che mi guardano con gli occhi sgranati ed i professori che mi osservano le braccia con pena.
Sono in bagno in un baleno. Odio quando mia madre se ne impossessa prima di me, mi dà fastidio aspettare.
Mi spoglio nella penombra. Mi libero del pigiama e cerco di non far caso alle costole sporgenti ed alle ossa di vetro che si sentono non appena mi sfioro il corpo.
Mi guardo allo specchio con il solito panico, come ogni giorno da tre anni a questa parte.
 
Se prima, quando volevo a tutti i costi dimagrire, mi vedevo enorme e sgraziata, ora mi appare uno scheletro con il viso scavato, la pelle tirata sugli zigomi e le  occhiaie causate dalla mancanza di sonno.
La realtà dei fatti non cambia: sono ugualmente brutta.
Tutti gli psicologi mi dicono che il fatto che veda il mio corpo per quello che è sia una cosa positiva. Purtroppo, non cambia molto nel mio modo di essere. Mi sono vista talmente magra ed orribile da voler respingere gli altri e da desiderare di essere invisibile, incorporea, inesistente.
 
Il mio modo di vestire non è cambiato.
 Felpe  larghe e sformate, tute, scarpe da ginnastica.
E dire che a me gonne e vestiti estivi non dispiacciono affatto.
Dopo essermi rapidamente pettinata mi dirigo in cucina.
È la stanza che odio di più in questa casa. È il posto in cui mi sono abbuffata mille volte per poi vomitare tutto nel lavandino e ripulire in fretta e furia ed anche lo scenario di mille cene interminabili con mia madre che mi supplicava di mangiare ed io che tagliuzzavo in pezzetti microscopici ogni singola fetta di carne, riducendo il tutto ad una pappina che poi puntualmente non mangiavo.
Da quando sto cercando di guarire cerco di compiere cinque pasti al giorno, più o meno regolari. Poco alla volta sto reintroducendo vari alimenti nella mia dieta. Il latte mi fa ancora troppo schifo ed ora come ora faccio colazione con uno yogurt di soia. Mia madre dice che sembra di mangiare cartone ed ha ragione.
Dopo aver svuotato il vasetto esco di casa.
Solo l’anno scorso mi infilavo la colazione nello zaino per poi buttarla nel bidone della spazzatura vicino scuola, ed allo stesso modo eliminavo parte del pranzo.
Sembra assurdo, ma allora mi sentivo bene. Credevo di poter essere Dio, rifiutandomi di mangiare qualsiasi cosa. Era una sensazione esaltante di vertigine.
Passavo le giornate studiando e bevendo caffè e mi nutrivo del minimo indispensabile.
Il fatto che avessi dei cali di zuccheri ogni tre o quattro giorni non mi importava. Mi dicevo che, dopotutto, per raggiungere la perfezione qualche piccolo ostacolo era necessario.
Poi è arrivata la bulimia. Compensavo la mancanza di cibo di certi giorni con le abbuffate violente di altri e, pentita e troppo amareggiata per pensare razionalmente, vomitavo tutto nel gabinetto.
Se l’anoressia è un qualcosa di crudele, doloroso e logorante la bulimia sembra materna, dolce, subdola.
Poi mi sono resa conto che qualcosa non andava. Ho iniziato a perdere i capelli ed ogni volta che guardavo l’acqua del gabinetto era rossastra.
Persino mia madre, sempre assente e capace di offrirmi solo una tenerezza distratta, si era accorta del mio dimagrimento improvviso. Sono iniziate così le “cene-supplizio” di cui ho parlato sopra.
Non mi sono resa conto di essere malata e di voler guarire così, da un giorno all’altro.
Ho realizzato che voglio bene alla vita: ho tanti interessi, tante passioni, tante cose che voglio ancora imparare.
Il problema è che una volta che ti dici: “Voglio guarire”, la strada non è tutta in discesa.
È una lotta quotidiana per non cadere in tentazione e non restringere l’alimentazione o non vomitare, cercando di condurre una vita “normale”.
 
Ho avuto diverse ricadute, la più pericolosa la scorsa estate.
Mi ero convinta che tutto quel che avessi fatto contro l’anoressia fosse inutile, e sono precipitata in un tunnel buio da cui sto uscendo solo ora, con unghie, denti e tante difficoltà.
La scuola è da sempre il teatro dei miei maggiori problemi, nonostante i voti alti.
Compagne che prima mi additavano per le guance paffute ed i fianchi torniti, ora mi guardano con tanto d’occhi alla vista del mio fisico da “manico di scopa”.
 
Non ho amici. Esclusa mia cugina, che è troppo lontana, non ho nessun coetaneo su cui posso contare.
È anche colpa mia. Non sono quel tipo di persona che accusa gli altri di atti commessi da lei stessa, ed infatti dico apertamente che ho fatto di tutto per isolarmi.
Prima perché mi vedevo obesa, ora perché mi vedo malata.
Frequento un liceo sociopsicopedagogico, nella speranza di diventare psicologa ed è appunto lì che sto andando ora.
L’aria è densa di pioggia, umida e pesante. L’odore della pioggia è un qualcosa che mi colpisce da sempre.
Mi ricorda le estati trascorse con i nonni, nella piccola casa di campagna emiliana in cui abitavano e le sere passate sotto il pergolato malgrado la pioggia, in cui la nonna dopo avermi ben avvolta in una coperta di lana mi cantava qualsiasi cosa, pur di farmi addormentare.
Qui invece sono in una grande città, con i muri macchiati di graffiti e le macchine che vanno a tutta velocità. La campagna ed i boschi sono così lontani.
Ed eccolo lì, il liceo. Il solito edificio color grigio fumo, con le solite aiuole tisiche e gli alberelli rachitici.
Mi incammino annoiata verso di esso e vedo all’entrata il solito crocchio di studenti.
Riconosco Vanessa, una mia compagna di classe: anni e anni di danza moderna le hanno regalato un fisico slanciato ed un’aria sana, che io le invidio mortalmente.
Accanto a lei Ludovica, la sua amica di sempre: la pronuncia blesa della s, una cascata di boccoli rossicci e l’aria da brava ragazza la rendono simpatica a tanti.
Mi incammino nel corridoio: l’odore di scuola mi piace. È un misto di carta, caffè e varia umanità che mi conforta, anche alle otto meno tre di martedì mattina.
Arrivo all’A13, la mia classe: pochi sono già dentro.
Individuo il mio banco, quello vicino alla finestra. Da quest’anno ho una compagna di banco, Marta. È una ragazza esile, coi capelli lunghissimi e neri e l’aria di essere sempre fra le nuvole.
Fra noi c’è una sorta di tacito accordo: ci ignoriamo, ma  siamo sempre unite.
Lei a scuola disegna o scrive, sembra incurante dei professori e delle loro parole. Tutto le scivola addosso mentre scarabocchia di continuo su un foglio bianco e non so mai se siano parole o figure quelle che imprime su carta.
Marta vive in un mondo di elfi, gnomi, folletti. Ha una fantasia balzana e spesso durante l’intervallo mi sorprende con racconti al limite del surreale.
È la mia unica mezza amica, qui dentro.
Sto per dirigermi al mio posto, quando inciampo e quasi cado.
Guardo il malcapitato contro il quale sono finita e mi manca il fiato: Francesco.
Francesco è cieco, gira con il bastone bianco ed è più spaventato di me perché gli sono finita addosso.
Gli sono finita praticamente in braccio ed ha un’aria perplessa, e sta per scusarsi quando gli sorrido d’istinto  e gli dico di lasciar perdere, che tanto è colpa mia.
Lui mi guarda, o almeno penso che vorrebbe farlo. Rotea gli occhi qua e   là, batte le palpebre in continuazione e penso vorrebbe sorridermi, se riuscisse.
Tolgo il bastone da sotto al mio zaino e glielo restituisco.
Lui senza dire altro si volta e si siede al suo banco, davanti a quel computer enorme.
Mi siedo accanto a Marta che ovviamente non mi saluta: è troppo presa dai suoi pensieri perché possa far caso a me.
La lezione inizia: due ore di inglese di prima mattina non sono male, anche perché posso permettermi un medio livello di concentrazione.
La professoressa spiega: ha un timbro di voce decisamente troppo alto e squillante per i miei poveri neuroni annebbiati, e a giudicare dagli sguardi straniti che le rivolgono i miei compagni non sono l’unica a pensarlo.
Francesco è protetto dallo schermo gigante del portatile: batte frenetico sui tasti con quelle sue mani magre e lunghe, da pianista.  Non so se suoni, io e lui non abbiamo mai parlato troppo, però ha delle belle mani.
Potrebbe essere carino, se non fosse così trasandato: ha una felpa che non cambia da una settimana, e c’è una macchia di qualcosa sulla manica. Probabilmente nessuno ha fatto caso a come si sia vestito stamattina.
Ha i capelli castani che gli cadono sugli occhi e formano una frangia un po’ sghemba, e lui non si cura di spostarla perché, non vedendo, non si pone il problema che la gente magari vorrebbe guardarlo negli occhi.
Accanto a lui c’è Giacomo, il ragazzo con l’aria schiva ed i capelli pettinati all’indietro. Sospetto che lui e Francesco abbiano, più o meno, lo stesso rapporto che ho io con Marta.
Le ore scivolano piano ed io mi crogiolo in una sorta di apatica indifferenza; non mi va di prendere appunti, oggi, e lo faccio in maniera del tutto sporadica e deconcentrata: so già che me ne pentirò.
Marta dopo l’intervallo ha tirato fuori un libro dalla copertina variopinta e dal titolo che evoca universi paralleli e lontani. Legge tenendo il libro sulle ginocchia, alternando occhiate distratte alla lavagna con sguardi piuttosto assorti alle pagine del libro.
Mi fa ridere, Marta. Sembra sempre seduta su una nuvola, e quando la prof la richiama sgrana gli occhi, in un’espressione sorpresa e stranita che strappa a tutti una risata.
Mi chiedo se ci sia qualcuno che segua la lezione; la prof di storia è uno scricciolo agitato, che snocciola nozioni su nozioni con voce acutissima, incurante del fatto che nessuno la stia realmente ascoltando. Solo Eliana, la prima della classe, prende appunti e annuisce ad ogni frase della prof, con espressione vagamente ebete.
Non vedo l’ora di andare a casa: odio starmene qui, seduta su una sedia, a fissare un insegnante qualsiasi che parla. Mi piace la scuola, di solito. Amo molte delle materie che studio e mi ci applico con passione, ma in classe mi trovo male.
Mi dispiace, perché arrivata al liceo sognavo una classe epica, straordinaria, fuori dal comune.
Invece mi sono ritrovata in un’aula piena di gente, senza saper cosa dire né fare.
Ero ancora una ragazza fin troppo paffuta e mi sentivo una balena, in mezzo alle altre che erano alte, con il fisico da ballerine ben modellato ed esibivano felpe e magliette attillate.
Ho sempre avuto l’assurda convinzione di sentirmi fuori posto in ogni situazione e questo, ovviamente, non ha favorito la mia capacità di relazionarmi con il mondo esterno.
Eccomi qui: è il terzo anno che sono in questa classe e, a parte Marta e poche altre, sono ignorata da tutti.
Finalmente le lezioni sono finite: il trillo della campanella mi riscuote dal torpore in cui sono caduta, e ripongo i fogli in fretta e furia in cartella.
Marta accanto a me sta ancora leggendo, e le poso una mano sulla spalla:
“È suonata la campanella….”, le dico e quella è la prima frase che le  rivolgo quel giorno.
“Oh, davvero? Non me ne ero accorta…”, ammette lei con aria svampita.
La guardo: sembra un autentico elfo, coi capelli scuri che le danzano attorno al viso tondo.
“Senti…. Io oggi proprio non riuscivo a prendere appunti… Non è che tu, visto che sei così carina…. Potresti, ecco….”, inizia lei.
“Marta, tu non prendi mai appunti.”, la rimbecco io e per un attimo, in mezzo alla classe, sembriamo davvero due amiche.
“Eh, ma oggi i protagonisti del libro che sto leggendo stavano scoprendo un antidoto per salvare tutti gli elfi…”, fa lei con un tono troppo convinto.
“Va bene, gli appunti te li mando  per mail quando li scrivo a computer. Però io non è che sia stata troppo attenta, oggi.”, ammetto con tono un po’ mesto.
“Fa niente! Ti voglio bene, sei un angelo!”, e detto questo mi abbraccia e mi supera di corsa, con i capelli scuri  che le frusciano intorno.
La guardo stranita: credo che non abbiamo mai parlato per più di dieci minuti, eppure ora mi abbraccia e mi sorride contenta. Quella ragazza è matta quasi quanto me.
“Elisa…”, mi sento chiamare.
Mi volto e vedo Francesco che esita, il bastone in una mano.
Gli sorrido per incoraggiarlo, per poi ricordarmi che non vede la mia espressione.
“Sono qui…”, dico tentando di mascherare il mio stupore.
Lui tentenna. Vuole chiedermi qualcosa, penso, ma non osa.
“ Ti va di… Beh… Con Giacomo stavamo parlando di andare a mangiare una pizza: verreste anche tu e Marta?”, mi chiede con un tono talmente intimidito da farmi sorridere.
Pizza. Pizza = calorie, calorie = chili di troppo.
Io odio le pizzerie: non mi piacciono i piatti straripanti, la confusione ed ancor meno la forchetta che si riempie di mozzarella e pomodoro.
E la pasta della pizza, così sottile da darmi ai nervi.
Ho declinato talmente tanti inviti in pizzeria, alle medie ed in prima superiore, da far credere a tutti di essere celiaca, o qualcosa del genere.
Però in teoria io starei lottando per uscire dal tunnel dei miei problemi alimentari e questa sarebbe, per me, una vera e propria sfida.
“Va bene! A Marta dovresti chiederlo tu, però. Non so se può venire…. Magari è all’ennesima fiera del fumetto, o ad un ritiro di gente che crede nella reincarnazione.”, scherzo.
Lui abbozza una risata nervosa.
Usciamo dalla classe in silenzio, io sto ben attenta a  non farmi urtare dal suo bastone.
“Prendi l’autobus?”, gli chiedo per spezzare il silenzio imbarazzante che si è venuto a creare.
“Oh, no. Mia mamma viene a prendermi…. Non riesco mai a salirci da solo, sull’autobus.”, ammette in tono di scusa.
Mi ero dimenticata che per lui sarebbe impossibile salire da solo su un autobus, a meno che qualcuno non lo aiuti.
“Oh, scusa….”, farfuglio  ancor più imbarazzata.
Usciamo anche dalla scuola: è una bella giornata, il cielo è di un azzurro limpido e l’aria è fredda, ma non sgradevole.
“Beh… Ci vediamo, allora.”, e corro via.
Non so perché non ho voluto stare con Francesco. Il suo problema mi intimorisce da sempre e, nonostante sappia perfettamente che sia un ragazzo intelligente e sveglio, non mi sono mai voluta avvicinare a lui per paura di non sapere come fare.
Non sono l’unica, a quanto pare, dato che a parte Giacomo in molti gli stanno alla larga.
***
 
(Francesco)
  
Oggi l’aria sa di pioggia: amo l’odore della pioggia quando riempie l’aria, mi fa compagnia.
Temo che dovrò guadare un po’ di pozzanghere con il bastone: a volte mi piace sentirmi un supereroe che, con un bastone bianco come unica arma, affronta le difficoltà di un mondo crudele. Arianna, la mia migliore amica, mi dice che sono demente e che sono solo un ragazzo un po’ diverso dagli altri, ma che devo smetterla di farmi millemila fantasie.
Forse ha ragione lei, io non sono poi tanto differente dagli altri. Eppure a volte è così difficile. È brutta la consapevolezza che tutti ti guardano perché sei diverso  pur non volendolo, giri con il bastone e ti orienti a tentoni.
È brutto essere per tutti “il ragazzo cieco” e non un adolescente normale.
Elisa mi ha superato salutandomi in fretta e furia. Immagino avrà esaurito le cose da dirmi, però ha accettato il mio invito per una pizza.
È strano come in tre anni ci siamo parlati assai di rado: lei e Marta sono, a parte Giacomo, le persone che mi stanno più simpatiche in classe. Marta perché parla sempre a sproposito e non nasconde il suo essere terribilmente fantasiosa ed Elisa perché… Perché so quello che ha passato e spesso credo che possa capirmi.
Anche lei è guardata e giudicata da tutti per il suo essere pelle e ossa. Però è intelligente, ne sono sicuro. Nonostante sia timida,  le poche volte che esprime in classe la sua opinione su un argomento dice sempre cose interessanti e guarda sempre le cose da due prospettive, e questo di lei mi piace davvero. E poi Elisa sa ascoltare, e questa è l’unica certezza che ho su di lei, pur conoscendola così poco. 
Ecco perché con Giacomo ci siamo ripromessi di invitarle: per una volta potremmo uscire anche noi quattro come adolescenti normali.
Non che Giacomo sia maltrattato da tutti, è solo un tipo solitario. A lui piace la musica. Vive di musica, la respira, è come se lui e la sua chitarra vivessero in simbiosi. È un ragazzo timido ed è tutto fuorché un tipo da palcoscenico, devo proprio dirlo.
È l’unico amico che ho nella mia classe: condividiamo il banco e tanto altro.
Forse perché parla poco e non ha una grande stima per la gente in generale, fra di noi c’è una certa empatia.
 
Ecco la macchina di mia madre, che mi chiama con la sua voce squillante. È diversa dal trillio acuto con cui parla la prof di inglese, la voce di mia madre è sempre allegra.
Saluto la mamma e Giulia, la mia sorellina. Non vede nemmeno lei e forse è l’unica che possa capirmi. Ha quattordici anni ed è unica. A differenza mia lei non è timida e non si è mai fatta mezzo problema circa la cecità. È spavalda, chiacchera inarrestabilmente e le sue compagne di classe le vogliono bene, ed è sempre circondata dalla gente.
Giulia sa far finta che il suo problema non esiste: riesce ad accantonarlo in un minuscolo angolo della testa, e  lo nasconde meglio che può.
 
Eccoci a casa: poso la cartella sul mobile e mi lascio andare con un sospiro sul letto.
Accendo l’ipod, dotato apposta di una voce che dice il titolo del brano che sto ascoltando e mi permette di usarlo. Scelgo la riproduzione casuale, e subito parte un vecchio successo dell’inizio degli anni ’80: “Every little thing she does is magic”, dei Police.
Me l’ha fatta scoprire Giacomo, come d’altronde mi ha fatto scoprire la maggior parte della musica che conosco. È solo colpa (o merito?) sua se adoro i Beatles e ho fatto di John Lennon una sorta di idolo perché lui sì, che potrebbe capirmi anche se, come dice sempre Giacomo, John a sedici anni era un tizio con il ciuffo alla Elvis e non si sarebbe fatto scrupolo di prendermi in giro per il bastone.
Poco importa di Lennon, comunque, ora.
Ora devo prepararmi psicologicamente ad uscire con dei compagni, e per me la cosa è e sempre sarà un incubo.
Forse mi faccio troppe paranoie. È che fin da piccolo mi trovo a vivere in una situazione differente da quella dell’altra gente e tendo a credere che non potrò mai stare con gli altri.
L’unica amica che ho, oltre a Giacomo, è Arianna.
Arianna ed io ci siamo conosciuti poco tempo fa, in una colonia per gente con problemi fisici di vario tipo. C’erano più che altro bambini e persone con problemi mentali e noi due eravamo gli unici adolescenti, lì. Arianna è paralizzata: vive seduta sulla sedia a rotelle da quando a undici anni suo fratello l’ha portata in motorino ed hanno fatto un incidente. A lui non è accaduto niente, Arianna invece ha picchiato le vertebre e da allora non muove più le gambe e fatica anche con le braccia. A suo fratello è rimasto un senso di colpa lancinante, me l’ha detto lei.
Arianna è… Incredibile. Ha dei capelli scandalosamente lunghi e ricci, del colore del cioccolato. Una vera e propria criniera da leonessa, ed è appunto ciò che è lei. Arianna è semplicemente quello che io non sarò mai: schietta, combattiva, con una forza immane.  Vuole diventare avvocato, dice, perché deve difendere le millemila ingiustizie che fanno a quelli come noi, svantaggiati dal punto di vista fisico.
E Arianna la stoffa dell’avvocato ce l’ha eccome, con quello spirito polemico e l’abilità di ribattere a qualsiasi cosa.
Con Arianna giochiamo sempre a far crepare i passanti: io spingo la carrozzella, lei mi  dirige dicendomi dove andare. È una delle cose più mitiche che io abbia mai fatto, girare per la città spingendo una carrozzina. Anche perché la gente si volta allibita e spesso ci grida di tutto e a volte creiamo veri e propri tamponamenti, quando attraversiamo la strada.
Se non ci fosse lei, con quella sua logorrea e il suo assurdo senso di giustizia, a volte penso che sbatterei la testa contro il muro. Lei mi fa sentire meno solo, meno stupido, meno inutile. Anche se a volte mi dà dell’idiota demente, e prende a calci le mie mille paranoie.
Arianna ha un ragazzo, il cosidetto principe azzurro che, guardacaso, si chiama Vittorio Emanuele. Di pretenzioso e altisonante  ha solo il nome, lui, perhché è la persona migliore del mondo.
È al primo anno di medicina. Quest’estate ha voluto fare una ricerca su coloro che hanno avuto un problema fisico causato da un incidente, e si è imbattuto nei riccioli castani e nella parlantina di Arianna. E tutto questo l’ha conquistato, pare, dato che sembra il principe azzurro della situazione e, in qualche modo, ha ammorbidito il carattere della mia amica.
  Piacerebbe anche a me avere una ragazza, una di quelle in grado di capirmi alla prima occhiata. Una di quelle che davanti ai miei problemi sorrida con gentilezza e non abbia paura di essere giudicata perché sta con un ragazzo cieco. È pura utopia, insomma, però sognare ad occhi aperti ogni tanto non mi dispiace.
Però un’uscita con tre compagni di classe…. È già un primo passo, no?
**
 
Note:
Dio, dio, Dio.
È difficile scriverle ora, le note, dopo quasi un anno di silenzio.
No, è un anno esatto, o anche qualcosa di più.
Forse a chi apre oggi le mie storie per la prima volta non fregherà niente. Sono sicura di no, però alle mie amiche, a chi mi seguiva, uno “scusate” enorme credo di doverlo.
E anche tante spiegazioni, o forse no… Ho lasciato storie, contest, tutto.
Perché ho avuto un po’ di problemi vari e perché…. Beh, non me la sentivo più di gestire assolutamente niente che riguardasse le storie mie e altrui.
Ho lasciato perdere tutto, nonostante stessi scrivendo tante (troppe) cose, nonostante avessi un po’ di lettori più o meno affezionati… e, questa è la cosa per la quale mi sento più in colpa, nonostante avessi dei contest da giudicare.
 
 Non vorrei essere giudicata male, anche se mi rendo conto che sono sparita senza lasciare spiegazioni.
Per quel che riguarda questa, di storia…
 
Inizio col dire che ci tengo, ci tengo troppo. Tengo ai miei due protagonisti, ancor più che alla loro storia e alla fanfiction in generale.
Perché sono frutto della mia immaginazione entrambi, ma ora come ora è come se esistessero.
Allora…. Comincio col dire che “I’ll be your mirror”, è una canzone di Lou Reed che mi ha fatto scoprire per puro caso la mia nonna.
Io sarò il tuo specchio…. E beh, per una persona che ha problemi col proprio corpo e si vede “sbagliata”, mi sa che come titolo ci può stare.
E “another day”, il titolo del primo capitolo,  è un’altra citazione di Paul McCartney.
In questo capitolo non succede relativamente nulla, soprattutto nella parte narrata da Francesco. Devo presentarli, i miei protagonisti, anche perché vengono da due realtà piuttosto complicate.
Elisa e l’anoressia… Beh, faccio fatica a parlarne perché, non avendo vissuto questo problema in prima persona, non so quanto mi venga bene immedesimarmici. Ci provo, con tutta me stessa, leggendo tanti blog di altrettante ragazze con problemi simili, e cerco di costruirci un personaggio, anche al di là della malattia. Perché Elisa non è solo anoressica, ha tanto altro da dare al mondo.
Cercherò di descriverla in tutti i suoi aspetti, positivi e non. Ci saranno, spero, anche dei flashback in cui posso descriverla prima e durante l’anoressia, perché è essenziale.
Francesco…. Beh, non posso dire che lo conosca benissimo, lui, sta nascendo piano piano.
Mettiamola così: sia per Francesco sia per Elisa sono nati prima i loro problemi che i personaggi, e se per Elisa ho una precisa idea di lei al di là dell’anoressia, per Francesco non ancora.
È mooolto condizionato dalla sua cecità, si sarà capito. Si crea tremila problemi, come Elisa del resto. Hanno una tendenza mostruosa alle paranoie.
E poi… Le ragazze che mi seguivano un tempo lo sanno, altre persone no, ma io non ci vedo.
Non ci vedo e non scrivo mai di persone col mio stesso “problema”, è una cosa che non mi piace fare anche perché quando scrivo cerco di evadere da mondi diversi dal mio. Però per una volta volevo provarci, anche se con un personaggio un po’ diverso da me (non per niente è maschio), e volevo raccontare quella che spesso è la mia, di quotidianità, attraverso gli occhi di un personaggio.
 
Finisco col dire che qualsiasi recensione è gradita, con critiche e consigli!
Oh, e poi…. Spero di poter postare in maniera giusto vagamente regolare, ma conoscendomi non so quanto sarà possibile!
Baci
Ceci
 
  
   
 
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