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Autore: Martu89    02/07/2007    1 recensioni
Luca è un uomo triste e solo, vive la sua esistenza nell'autocommiserazione, pensando alla sua vita non vissuta, finchè un giorno incontra il suo Doppio che desidera parlargli? Ma riguardo cosa?
Genere: Triste, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“Meglio essere protagonisti della propria tragedia,

che spettatori della propria vita.”

(Wilde)

 

“Destino: l'autorità di un tiranno per un crimine e

  la scusa di uno sciocco per un fallimento.”

  (Bierce)

 

Camminava a piccoli passi, tutti della stessa lunghezza, la sua andatura non sembrava né frettolosa né calma, semplicemente pareva errare senza meta, eppure sapeva benissimo dove si stava dirigendo.

Calzava un paio di mocassini fuori moda in finto camoscio, indossava dei pantaloni che a malapena gli coprivano i calcagni, di un color blu notte, puliti ma dall’aria dimessa; una camiciola bianca appena stirata avvolgeva totalmente il suo busto, sopra portava una giacca disadorna leggermente più chiara dei pantaloni e infine nella mano sinistra teneva una borsa nera logorata dal tempo e dalle molte volte che era stata usata. Era alto e dinoccolato, dalle spalle ciondolanti e dalle braccia troppo lunghe e sproporzionate al suo corpo, la sua magrezza rasentava l’umano possibile, era così scheletrico che faceva quasi paura. Il suo viso, poi,  faceva ancor più spavento. Appoggiati sul lungo naso adunco, un paio di grosso occhiali dalla montatura antiquata nascondeva degli occhi di un verde acquoso, sormontati da delle sopracciglia cespugliose, dello stesso biondo cenere dei capelli.  I suoi occhi erano sempre velati da una certa mestizia, come se la sua anima trascinasse sempre con sé stancamente un enorme e insostenibile peso, forse quello di sentire che la sua vita non gli apparteneva totalmente. Chiunque a guardare quest’uomo si sarebbe sentito pervaso da una tristezza profonda, una vampata di malinconia, non per quanto fossero trasandati e logori i suoi vestiti, non solo per i suoi occhi appannati dall’infelicità, ma soprattutto la sua andatura e gestualità sofferta rendevano la sua visione così patetica.

Si chiamava Luca Ricci e aveva 46 anni, sebbene ne dimostrasse molti di più. Lavorava presso un’azienda che produceva materiale da ferramenta, insomma, era semplicemente un impiegatuccio che ogni giorno si destreggiava tra ordini di martelli, chiodi e chiavi inglesi. Viveva in un monolocale in un condominio di modeste dimensioni nella periferia della città, teoricamente abitava lì da solo, ma in pratica sua madre, ormai vedova da parecchi anni, risiedeva in un altro appartamento nello stesso pianerottolo, ed era quindi una presenza costante, quasi soffocante, nella vita del figlio. Luca non si era mai sposato, forse aveva amato una volta, ma ormai i ricordi della sua giovinezza andavano sempre più scemando, e l’unico sentimento che riusciva a provare era l’autocommiserazione.

Anche quel mattino in cui per la prima volta incontrammo Luca, mentre arrancava lungo il marciapiede, stava pensando a sé stesso. Non riusciva a comprendere perché mai la sua vita non avesse mai preso la piega che lui desiderava. Un tempo era pieno di sogni, desiderava ardentemente diventare ingegnere, aveva frequentato una modesta università, ma aveva dimostrato capacità fuori dell’ordinario, aveva tutte le carte in regola per essere chiunque volesse. Ma ciò che più avrebbe voluto, ciò per cui avrebbe perfino mandato a monte la sua carriera, era una famiglia. Ambiva ad avere una moglie che lo amasse per ciò che era, e dei figli, meglio se erano un maschio e una femmina, che lo chiamassero “papà”. Una famiglia felice, insomma, una con cui stare insieme il giorno di Natale, una con cui passare le vacanze estive al mare, una con cui festeggiare i compleanni e le occasioni importanti, una per cui valeva la pena vivere, perché essere sicuri di essere amati è ciò che ognuno di noi infondo desidera di più. Luca sapeva che quello a cui aspirava era estremamente idilliaco, ma non gli importava, sognare gli era permesso. Già, sognare era tutto quello che gli era stato concesso dalla vita. Si chiedeva tutti i giorni, perché mai il Destino non gli avesse dato la possibilità di realizzare i suoi desideri, non tutti, ma almeno qualcuno. Quando, ormai ultratrentenne, si era reso conto di come stava andando la sua vita, come avesse sprecato gli anni migliori, pensò all’unica soluzione che potesse alleviare la sua frustrazione: il suicido. Meditò a lungo su come far avvenire il “fatto”, pianificò tutto nei minimi dettagli, aveva acquistato già il veleno che gli era necessario (valutò che il veleno fosse il modo migliore e indolore per andarsene), ma quando stava per assumere le pillole e si trovò davanti ad una possibile morte, cambiò subito idea: non aveva fatto i conti con la paura. Lasciò perdere altre possibili soluzioni e continuò ad andare avanti come se nulla fosse accaduto.

Luca non viveva davvero, semplicemente esisteva, come esiste una roccia, un albero, una carota o una casa. Lui, come la maggior parte della gente avrebbe fatto, non aveva mai ammesso a se stesso la condizione in cui si trovava; sapete, è una verità troppo amara da poter essere accettata da chiunque.

Perché il destino si era così accanito contro di lui?

Perché non gli aveva mai dato la possibilità di vivere? Non se lo meritava, forse, più di molti altri?

 

Luca guardò l’orologio, mancavano esattamente dieci minuti alle otto, doveva accelerare il passo se non voleva arrivare in ritardo al lavoro. Stava passando davanti ad una pasticceria, che emanava un invitante profumo di croissant misto a caffè, quando lo vide per la prima volta. Inizialmente non vi fece caso, non lo distinse più di altri uomini d’affari che giravano freneticamente, ma quando gli fu vicino a pochi metri, se ne rese conto. Sgranò gli occhi verde acqua e lo fissò a lungo, mentre l’altro uomo chiacchierava al telefono. Nel momento in cui l’uomo terminò la telefonata e guardò davanti a sé, per Luca non vi furono più dubbi. L’uomo che gli stava camminando davanti era un suo doppio, un suo sosia, cioè era proprio lui; stessa fisionomia, stessi capelli, ma c’era qualcosa di estremamente diverso, i suoi occhi non erano velati di malinconia, la sua visione non era patetica, i suoi vestiti non erano trasandati come quelli di Luca. Ma, allora, chi era costui? Che avesse un gemello era impossibile e improbabile, lo avrebbe già senz’altro saputo. In gioventù, Luca era stato un buon lettore, si era dedicato alla grande letteratura, e rammentava di un libro di Dostoesvkij intitolato “Il sosia”, che narrava le vicende di un uomo pazzo che aveva iniziato a vedere dei suoi sosia dappertutto (ora, quel che ricordava era solo questo). Ma Luca sapeva di non essere pazzo, la sua esistenza non era un granché, ma essere matto era fuori discussione. Davvero, chi era quest’uomo?

Ormai i due erano così vicini da potersi parlare, anche il Doppio si era accorto di Luca, e lo fissava sorridendo, non pareva affatto spaventato. Luca non sapeva come comportarsi, forse poteva passargli accanto facendo finta di niente, poteva farlo, no? Eppure quel uomo lo incuriosiva enormemente, doveva assolutamente sapere chi fosse. Quando furono l’uno davanti all’altro piombò un silenzio imbarazzante, Luca continuava a guardare esterrefatto l’uomo davanti a sé, gli sembrava di vedere il proprio riflesso in uno specchio, era davvero inquietante in un certo senso, ma arrivato a quel punto una conversazione era d’obbligo. 

“Chi sei?” domandò Luca all’uomo, guardandolo con aria diffidente. L’altro parve aspettarsi una domanda del genere, anche se sentirsela chiedere doveva avergli fatto un certo effetto.

“Io chi sono? – rispose il Doppio – Io, Luca, sono ciò che tu avresti voluto essere.”

“Come scusa?” chiese Luca, guardandolo con gli occhi sbarrati. L’altro sorrise apertamente, la qual cosa rendeva la situazione ancora più angosciante, come biasimare una reazione del genere?

“Luca, io sono te. Non lo vedi? Siamo uguali, certo c’è qualche differenza, ma fondamentalmente siamo identici.”

“Ma… Ma… – Luca boccheggiò – come è possibile? Non può essere la realtà… Come mai sei qui?”

“Diciamo che in un certo senso questa è la realtà. Sono stato mandato per farti comprendere…”

“Comprendere cosa? Mandato da chi?” lo interruppe bruscamente il Doppio.

“Non credo sia il momento migliore per discutere dell’esistenza divina. – replicò pacato il Doppio – ti basti sapere che non ti farò alcun male fisico. Ti parlerò e ti mostrerò delle cose. Se vuoi, ovviamente…”

Luca, che mentre stava parlando il Doppio lo aveva guardato fisso negli occhi, sperando di carpire il suo segreto, sembrava indeciso sul da farsi. Aveva paura, e quando non ne aveva avuta? Eppure era attirato da ciò che l’altro doveva dirgli. Ma non poteva arrivare in ritardo al lavoro… ma, al diavolo il lavoro! Probabilmente ciò di cui voleva discutere l’altro, di qualunque cosa si trattasse, era molto più importante e interessante dell’ordine di chiodi che avrebbe dovuto fare quella mattina.

“Ti ascolto, ma non dovrò mica incontrare i fantasmi del Natale presente, passato e futuro[1], vero.” affermò Luca asciutto, guardando il Doppio sempre un po’ diffidente.

L’altro ridacchiò un poco e poi invitò Luca ad entrare nella pasticceria davanti alla quale si era incontrati: si sarebbe discusso meglio davanti ad una bella tazza di caffè bollente. Luca non era mai entrato in quella pasticceria, anzi, a dirla tutta non sembrava mai averla notata, sebbene ci passasse davanti ogni santo giorno. L’intera pasticceria era composta essenzialmente da una sola stanza dalle dimensioni piuttosto notevoli, finemente arredata e dai colori pastello. Davanti alla porta d’entrata a dare il benvenuto ai clienti si ergeva un omino di marzapane, e subito dopo si estendeva fino all’altro capo della stanza, un enorme espositore che metteva in bella mostra una quantità infinita di dolciumi di ogni sorta: cioccolatini dai gusti più disparati, biscotti dalle forme bizzarre, torte a più piani che sembravano più che altro monumenti, insomma, il paradiso per ogni goloso. Il resto della stanza era occupato dai tavolini di varie forme e colori, e sopra ognuno era appeso un lampadario dalle fogge stravaganti. Nel complesso dava l’impressione di un luogo accogliente e piacevole, e non a caso vi era una grande quantità di gente di ogni specie. C’era una coppietta di anziani intenti a mangiare una gigantesca fetta di torta al cioccolato, un uomo d’affari era alquanto indaffarato a gustarsi una brioche e a leggere un quotidiano, qualche tavolino più in là c’era una mamma con due figli, una bambina e bimbo deliziosi, impegnati a fare colazione con tè e biscotti.

Luca e il Doppio si sedettero nel più remoto tavolino della pasticceria e dopo aver ordinato un caffè e qualche dolcetto, si accinsero ad affrontare il famoso discorso.

“Luca, come descriveresti la tua vita usando un solo aggettivo?” iniziò il Doppio, guardando serio Luca al di sopra degli occhiali. Luca sospirò, come poteva definirsi con una sola parola?

“Bah, direi, mediocre” rispose mestamente.

“Come mai?”

“Credo che ci siano persone alle quali il Destino elargisce doni a piene mani, io purtroppo non sono mai entrato nelle sue grazie.”

“Quindi accusi il Destino di ciò che sei divenuto…”

“Sì, senz’altro. C’è gente che ha tutto, una famiglia, una carriera, sono felici. Io non ho mai avuto nulla, perché? Non me lo merito come gli altri?”

“Solitamente si dice che il Destino dà una possibilità a tutti, a te non l’ha data?”

“Sembrava che me l’avesse data, ma se l’è subito ripresa. Vedi, quand’avevo 25 anni, fresco di laurea in Ingegneria, mi venne offerto un ottimo posto di lavoro in un’azienda rinomata, era un’occasione da non farsi sfuggire. Ebbene, la mattina che avrei dovuto avere il colloquio, ebbi un contrattempo e persi il treno che avrei dovuto prendere per andare nella città in cui si trovava l’azienda. Lo interpretai come un segno. Il Destino mi aveva fatto perdere l’occasione che mi aveva appena dato.”

“Quindi, mi vorresti dire che non hai atteso il treno dopo per poter raggiungere l’azienda e fare quel colloquio, anche se un po’ in ritardo?”

“Per quale motivo avrei dovuto prendere l’altro treno? Avevo perso la mia occasione. Da quel momento in poi nella mia vita non è mai accaduto alcun fatto di rilevante importanza. Mediocre, ecco cos’è la mia vita. Sono costretto a fare un lavoro che odio, sono asfissiato da mia madre, non ho amici, né una moglie, né figli. Come vedi sono completamente senza una storia, non ho nessuno per cui vivere.”

Il Doppio si lasciò scappare uno strano suono, a metà tra una risata e un sospiro: Luca era un caso disperato.

“Davvero speri che io abbia pietà di te?” saltò su il Doppio guardando chi gli era seduto davanti con disprezzo. Infatti, egli aveva cambiato completamente atteggiamento nei confronti di Luca, sapeva già da tempo com’era lui e quali erano i suoi modi di fare, però trovatosi di fronte a certi ragionamenti, senza senso secondo il Doppio, non ce la fece a rimanere calmo.

“Magari la gente guardandoti potrà anche provare pena per te, ma non ti aspettare lo stesso da me.” Continuò il Doppio fissando Luca negli occhi.

Luca rimase impietrito da questa affermazione del Doppio, non si sarebbe mai aspettato una reazione del genere, l’uomo gli era parso pacato, calmo, gli sembrava perfino buono; sicuramente uscire con certe frasi, disdegnando ciò che gli aveva appena raccontato sulla sua infelicità, non era da lui.

“Cosa intendi dire?” chiese Luca mettendosi sulla difensiva.

Il Doppio non aveva quasi voglia di rispondergli, perché non se lo meritava; certa gente bisognerebbe lasciarla a sé stessa, pensava irato, ma infondo era stato mandato lì proprio per farlo cambiare.

“Ricordi che ti dissi di essere ciò che tu avresti voluto essere? – disse il Doppio, Luca annuì lievemente – Ecco, ti sto per raccontare la mia di storia. Avevo 25 anni, appena uscito con ottimi voti dalla facoltà di Ingegneria, mi venne offerto di fare un colloquio per un ottimo posto in una rinomata azienda. La mattina che avrei dovuto il colloquio, ebbi un contrattempo e persi il treno che dovevo prendere. Ero piuttosto disperato: avevo perso l’occasione della mia vita, diventare ciò che avrei voluto di più al mondo. All’improvviso però mi resi conto di una cosa, perché mi dovevo piangere addosso? Io ho in mano le sorti della mia vita, nessun altro può decidere per me. Chiamai al più presto l’azienda, avvertendoli del mio ritardo, presi il treno un’ora più tardi, feci il mio colloquio e mi assunsero. Sono più di vent’anni che lavoro lì, amo ciò che faccio e sono pure diventato vicepresidente, sai? So di essere un uomo felice, e non solo per la mia professione. Vedi, non ho mai creduto che la carriera fosse tutto, certo se c’era non l’avrei rifiutata, però io ho sempre desiderato una famiglia, solo questo mi avrebbe reso, come posso dire… vivo, sì vivo. Ebbene, mi ero trasferito solo da poche settimane nella nuova città, quando conobbi la più bella ragazza che avessi mai visto, appena incrociai i suoi occhi del colore degli smeraldi, m’innamorai di lei. La dovetti corteggiare a lungo, ma alla fine riuscii a portarla all’altare, sono ormai quindici anni che siamo sposati. Ma ciò ancor di più reso felice sono i nostri due figli, Laura e Marco, sono la cosa più bella del mondo, non lo credi anche tu?”

Mentre raccontava l’ultimo parte della sua storia, al Doppio vennero gli occhi lucidi, l’ira di prima aveva lasciato spazio ai ricordi e all’amore; l’uomo, inoltre, continuava a fissare sorridendo la madre e i due bambini che stavo facendo colazione pochi tavoli lontano da loro. Ad un certo punto la donna si voltò a guardare il Doppio, abbozzandogli un sorriso e facendogli un lieve cenno di saluto.  All’improvviso Luca capì. Quella era la famiglia che avrebbe avuto, se… non sapeva bene come dire, se avesse preso il treno dopo e non si fosse rassegnato. Luca si girò a contemplare quel quadretto famigliare, che sarebbe potuto essere il suo.

La donna era davvero di una bellezza molto singolare, lunghi capelli castano scuro le coprivano dolcemente mezza schiena, un dolce sorriso era dipinto costantemente sulle sue labbra e i suoi occhi di un verde talmente particolare avrebbero potuto scintillare anche nella notte più scura.  Laura doveva avere all’incirca sei anni, assomigliava incredibilmente alla madre, indossava un vestitino rosa davvero grazioso e inoltre la bambina sembrava incredibilmente obbediente e vivace allo stesso tempo. L’età di Marco doveva aggirarsi tra i quattro e cinque anni, ma non sembrava un bambino normale, sebbene fosse molto tranquillo.

“Marco ha qualche problema?” chiese in soffio Luca al Doppio.

“È nato con una deformazione genetica, – rispose – è un bambino molto speciale, dico sul serio, è intelligente quasi quanto gli altri, però farà molta fatica ad essere accettato in futuro, ma credo che se lavorerà a lungo sulla comunicazione, perché è in questo che è carente, riuscirà ad essere normale.”

“Non è un peso per voi?”

“Per nulla, lo amiamo per quello che è, gli altri pensino di lui ciò che vogliono. Tu come avresti interpretato la sua nascita, eh? Il Destino che ti odia, vero?” domandò il Doppio con un sorriso amaro, guardandolo negli occhi. Era incredibile come fosse in grado solo con il tono della voce di far sentire in colpa Luca, lui che non si era mai incolpato di nulla e aveva scusato tutti i fallimenti della sua vita, perché era il Destino il mandante della sua condizione, che lo aveva semplicemente fatto esistere e non vivere.

“Probabilmente, sì” sospirò Luca, abbassò gli occhi, non riuscendo a sostenere lo sguardo del Doppio.

“Hai già capito perché sono qui, vero? – Luca annuì mestamente – Scusami se ora sarò duro con te, ma mi è impossibile non esserlo. Quando ti ho chiesto di descrivere la tua vita con un aggettivo, mi hai detto “mediocre”, concordo con te; ma come ti ho già detto, conoscendoti non riesco a provare pietà per te, né ora né mai. Hai preferito sederti su una poltrona davanti al palcoscenico della tua vita, aspettando di goderti lo spettacolo, perché tanto sono gli attori e il regista che muovono le fila della storia, e sebbene ti fossi accorto che era una rappresentazione davvero pessima, sei rimasto spettatore. Perché allora non sei salito su quel palco improvvisandoti attore e sceneggiatore della tua stessa vita? Era troppo difficile, giusto? Era troppo faticoso, c’erano troppe responsabilità, faceva troppo male...

Noi siamo gli architetti del nostro Destino, scegliamo noi come costruire la nostra vita e con quali materiali, e se crolla, che facciamo? Abbiamo due possibilità: arrabbiarci col terremoto che l’ha buttata giù o preparare cemento e mattoni e ricominciare daccapo e dare origine ad una nuova vita. Servono coraggio ed energia, ma sai che soddisfazione quando ci si rende conto che ciò che si è creato è stato fatto completamente da noi, e non da altri. Siamo persone, non siamo esonerati da commettere degli errori, ma non vi è nulla di completamente irreparabile, se si ha la forza di volontà di riattaccare di nuovo insieme tutti i pezzi.

C’è stato dato il libero arbitrio, ognuno può fare quello che desidera, quindi se rompe qualcosa paga con la propria moneta e non chiedere il risarcimento dei danni a qualcun altro, perché non ci si vuole dare la colpa. Tu cosa hai fatto, Luca, se non questo? Vivi nell’autocommiserazione, vivi un’esistenza mediocre, perché solo di esistenza si può parlare, dando al Destino la colpa di tutto, sperando che dal cielo ti piova la felicità. Non sei voluto andare alla ricerca di ciò che ti avrebbe potuto rendere un uomo felice, bene, è una tua scelta. Ma dopo non puoi lamentarti di non avere ciò che molti altri hanno. Dovevi lottare, ma hai preferito sederti in panchina, tu l’hai voluto, e quindi non puoi arrabbiarti con l’allenatore che non ti fa entrare in campo. Non è giusto! Gli altri non devono farsi carico dei tuoi errori, hanno già i loro di cui occuparsi. Non puoi andare in giro per la strada urlando il tuo dolore, sperando che altri abbiano pietà di te e che ti aiutino; o convivi con ciò che ti fa male, senza lamentarti o lo cacci via. Tutto dipende da te e da ciò che vuoi. Il Destino è una creazione degli uomini come te, che non vogliono addossarsi le conseguenze delle proprie scelte e credono più facile dare la colpa a qualcun altro, perché sembra lenire il dolore delle loro ferite, ma non è così, credimi, perché ciò che ti ha tormentato tornerà indietro e farà ancor più male.

Non era mia intenzione farti soffrire, ma ora vedi come brucia la verità che in passato hai rifiutato?”

“Potrò mai rimediare?” chiese debolmente Luca, guardando il Doppio da dietro gli occhiali appannati dalle lacrime. L’altro sorrise, finalmente nei suoi occhi non vi era più un briciolo di rimprovero.
“Cosa ti ho appena detto? Tu puoi fare quello che vuoi, non è mai tardi per riprendere gli attrezzi e ricominciare a curarsi del proprio orto. Vai, sei ancora in tempo, esci, pagherò io il conto!” rispose il Doppio facendogli l’occhiolino.

Luca non se lo fece ripetere, salutò velocemente il Doppio e la sua famiglia e uscì dalla pasticceria. Appena varcata la soglia della porta, si svegliò nel suo letto. Si mise gli occhiali, guardandosi attorno e riconobbe la sua camera. Aveva due opzioni ora: disperarsi e rimpiangere una vita non vissuta, o alzarsi e andarsi a preparare per salire sul palcoscenico e diventare il protagonista della sua vita. Scelse la seconda possibilità.



1 Luca si sta riferendo al celeberrimo “Canto di Natale” di Charles Dickens. La storia narra la vicenda di Scrooge, il protagonista, uomo avaro ed egoista, che durante la notte di Natale compie un viaggio con dei fantasmi nel passato, presente e futuro, così da comprendere la malvagità delle proprie azioni ed imparare cos’è la solidarietà. Ndr

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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