Anime & Manga > One Piece/All'arrembaggio!
Segui la storia  |       
Autore: KH4    19/12/2012    2 recensioni
Quando Nami aveva espressamente detto di non combinare alcun guaio, intendeva cose del tipo “Non attirate troppo l’attenzione con le vostre buffonate”, “Non fatevi vedere dalla Marina” o “Evitate di scatenare l’ennesimo pandemonio”. Insomma, i classici avvertimenti che non mancavano mai di essere ripresi e ripassati. Ma tra questi e l’infinita serie di avvertimenti da lei elargiti, nessuno aveva mai parlato di ragazze isteriche trasportanti in spalla, come sacchi di patate, fratelli mezzi dissanguati e seguite a ruota da innocenti bambine con grandi occhi azzurri. Un evento decisamente più normale del solito, umano, per dirla nella giusta maniera, ma, sicuramente, non privo di sorprese, se si teneva conto del fatto che, a portarli sulla nave, era stato proprio Rufy. (estratto del capitolo quattro).
 
Il Nuovo Mondo è pronto ad accogliere Rufy e la sua ciurma, tornati insieme dopo due anni di separazione; lasciatisi alle spalle l'isola degli Uomini Pesce, i pirati approdano su di un'isola, dove incontreranno un piccola amante della pirateria, bisognosa di aiuto. Spero di aver stuzzicato la vostra curiosità, ragazzi!
Seguito di “Giglio di Picche.”
Genere: Avventura, Azione | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Monkey D. Rufy, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A



Obbedire non era mai stato il forte di Azalea Gallower, nossignore.
Era una certezza seconda solo alla morte, una scommessa che neppure il più furbo dei furbi avrebbe accettato con la pretesa di vincere. Significava perdere ancor prima di iniziare e scavarsi la fossa con le proprie mani, se quest’ultima poi aveva una buona ragione per tirare dritto e passare sopra a chiunque tentasse di fermarla. A volte neppure esisteva, questa fantomatica ragione, o era talmente insensata o idiota, che la ragazza nemmeno si prendeva la briga di illuminare la gente con cui aveva a che fare. Troppo pigra per farlo.

Sparire dalla biblioteca era stata l’ennesima e più recente stupidata che si fosse auto-impartita, e fintanto che si appellava al suo “Faccio quello che mi pare, come mi pare e quando cavolo mi pare!”, non c’era pericolo che provasse rimorsi di coscienza o che decidesse di fare la brava bambina.
In fondo, il suo stile di vita era tanto aperto e colmo di superficialità, che questo non era che il minimo: se una persona, un oggetto o un’isola non le andavano a genio, Azu era perfettamente capace di liquidare il tutto senza ripensamenti, con un distacco emotivo da far paura. Quanto alle eccezioni – rarissime -, si trattava soltanto di prendere un bel respiro e trattenere il fiato per cinque secondi abbondanti, ma a prescindere dal fatto che la pazienza della ragazza peccasse di abbondanza, non era così stupida da non accorgersi dell’evidenza.
Sin dalla prima occhiata, l’albina aveva capito che un così poco lasso di tempo non le sarebbe mai bastato.

San Lorein poteva anche essere un leggendario regno dei cieli divini o un’isola antica quanto il mondo stesso, ma puzzava di antiquato e stantio, e se non si fosse venuto a creare quel punto d’equilibrio che l’aiutava a non dare di matto, poteva anche andare a quel paese, per quello che gliene importava. Con le persone era un po’ diverso, perché non le poteva certo prendere e gettare in un cestino – non subito, per lo meno -: tralasciando le sue maniere manesche, era una ragazza socievole, che non si tratteneva dal dispensare una bella risata in compagnia di qualcuno che le andava a genio e che non avrebbe esitato a difendere le persone care. Non le interessava sapere cosa cavolo passasse nella testa di quella gente, con quale mentalità vivessero le loro giornate o il perché si ostinassero a indossare quelle orrende tuniche bianche: riuscire a seguire suo fratello e quel Eli o come accidenti si chiamava, senza farsi beccare come una novellina, era stato il suo unico pensiero. Aveva concentrato tutti i suoi sforzi per fondersi con la colonna che la nascondeva dagli occhi dei due ragazzi e le era mancato pochissimo per arrivare a trattenere l’ossigeno; data la sua tendenza a essere rumorosa, celare la propria presenza era un’abilità che spesso le mal riusciva, specie se l’inseguito era Lars, ma il realizzare che quel tipo dai capelli nocciolati non si era accorto del suo spionaggio e che suo fratello se ne era andato senza voltarsi indietro, le aveva permesso di segnare un punto alla sua autostima.

Dal canto suo, Eliah Van Incardine dovette ammettere che la sua ospite si era dimostrata piuttosto scaltra: non gli era mai capitato di essere pedinato senza che se ne rendesse conto, il che gli fece intuire la sua anormalità. I suoi occhi erano troppo vispi e sfacciatamente sfrontati per appartenere a un debole.

Una Gallower in tutto e per tutto, pensò lui, ricordando le volte in cui Lars gli aveva parlato della sorella.

Non l’avrebbe neppure considerata la sorella dell’albino, se non fosse stato per i capelli. Non percepiva alcun punto in comune col fratello, nessuna somiglianza sul piano caratteriale e sui modi di fare: erano completamente diversi, tanto che non si astenne dal pensare che quella avesse più probabilità di essere imparentata con qualche animale selvatico del mondo esterno, che con un comune essere umano. Il venir guardato con fare spavaldo, la bocca storta e le mani appoggiate su candidi fianchi scoperti, era una provocazione alla sua autorità, già messa in discussione dalla libera uscita che la ragazza aveva effettuato senza la dovuta autorizzazione. Non poteva tardare ulteriormente alla riunione col consiglio, non con novità del genere in mano, ma gli fu fin troppo facile intuire la ferrea volontà della ragazza e quanto poco fosse disposta a rimandare o attendere un momento più propizio.

“Immagino a grandi linee quanto tu sia impegnato”, cominciò quest’ultima “Quindi, mi limiterò a rubarti giusto un paio di minuti, se per te va bene.”

Come se realmente le importasse dove doveva andare o per quale motivo…
Eliah lesse anche questo sul suo viso, ma era talmente palese che non ci badò più di tanto.

“Chiedi quello che vuoi, te lo meriti”, le concesse gentilmente.
“Per non essermi fatta beccare da te o da mio fratello?” domandò lei, col sopracciglio inarcato.
“E’ raro che mi si arrivi alle spalle senza che me ne accorga”, ammise il Master con sincerità “E poi, non vedo per quale motivo non dovrei stare a sentirti.”
“Sei gentile, ma evita di fare il carino con me: non sono mica nata ieri”, sbottò l’albina, incrociando le braccia “Rispondi solo alle mie domande e basta.”
“Come preferisci. Allora, di che cosa vuoi parlarmi?”
“Semplice: di mio fratello”, gli rispose prontamente “Voglio sapere tutto.”
“Sii più specifica.”
“Tutto”, ripeté lei “Il suo legame con questo posto, il vostro odio nei suoi confronti…scegli tu. Basta che vuoti il sacco.”

Se Lars fosse stato presente, anzi, se si fosse anche solo accorto del suo pedinamento, non ci avrebbe pensato due volte a placcarla, legarla, imbavagliarla e metterla dentro a una botte di vino. Sua sorella aveva il brutto vizio di autodistruggersi con le conseguenze della sua stessa cocciutaggine, di prendere in mano una semplice questione e trasformarla in una crociata grande quanto un transatlantico. Toccava le cose e le faceva esplodere, anche con l’intenzione più nobile e sincera di cui fosse capace. Il poveraccio ci aveva rinunciato a capire come un simile tocco potesse essere tanto devastante, ma se davvero si fosse accorto di sua sorella, non avrebbe mai permesso che lei ed Eliah rimanessero da soli e nello stesso corridoio. Purtroppo le condizioni del signor Eliorath avevano sbaragliato qualsiasi altra possibile priorità e ora i suddetti si stavano reciprocamente studiando. Molto probabilmente, se Azu avesse afferrato anche solo un terzo della reale profondità di quello che pretendeva di sapere, forse non avrebbe trovato così impellente il desiderio di pedinare quei due e scoprirsi a uno di questi con assoluta nonchalance. Quella faccenda era molto più grande di quanto desse a vedere e implicava consapevolezze che lei ignorava e mai avrebbe potuto capire pienamente, sicché si ostinava a tirare avanti a modo suo. L’aver nascosto a dovere la propria presenza fino al momento dovuto era stato l’unico suo asso nella manica non previsto da Eliah, la cui mente aveva già delineato la prevedibilità del suo carattere; la sfrontatezza dell’albina era considerevole, quasi ammirevole, ma non esente da lacune e difetti grandi quanto la sua testardaggine. Lei stessa era cosciente di essere una persona impulsiva e con quanta facilità quel tale lo avesse capito, ma non gliene importava un fico secco: non aveva passato gli ultimi minuti appiccicata a quella dannata colonna per essere rispedita in biblioteca a becco asciutto.

“E così vorresti sapere che cosa lega tuo fratello alla nostra isola…”, fece lui, ruotando il busto verso la finestra e avvicinandovisi “Beh, un po’ me lo aspettavo. Lars non è esattamente una persona che va a sbandierare ai quattro venti i suoi affari privati.”
“Questa non è una novità. Ora, dimmi qualcosa che non so”, pretese lei, appellandosi ancora una volta alla poca pazienza donatale alla nascita.

Seguì i movimenti di Eliah con attenzione scrupolosa, partendo dai cadenzati e lenti movimenti del lungo cappotto di pelle rossa, fino a scorgere uno scintillio rosso e argentato che le fece socchiudere le palpebre. Un piccolo raggio di sole lo illuminò per pochissimo e il brivido che calcò sulla sua spina dorsale assottigliò pericolosamente la sua concentrazione.

Merda!

Imprecò mentalmente, dandosi della cretina per l’essersi lasciata cogliere così alla sprovvista.
Ci aveva visto giusto: Eliah aveva una spada simile a quella di suo fratello, se non che il senso di disagio che l’aveva appena toccata era diverso: Saphira la congelava sul posto, assorbendo il suo calore corporeo e lasciandola rigida e vittima di brividi sempre più lenti e crescenti. Quella invece l’aveva semplicemente trapassata da parte a parte in un solo colpo, bruciandole le viscere interne e gli organi. Una sensazione che non le piacque neanche un po’.

“Prima di parlare, rispondi alla mia di domanda, Azalea Gallower”, parlo poi il Master, guardandola con la testa girata verso di lei “Quanto sai sulla spada che Lars si porta dietro?”
Una domanda su Saphira? Che cosa centrava con quello che aveva chiesto?
“Non molto. So che il suo soprannome è Regina dei Ghiacci e che può comandare quell’elemento e plasmarlo”, rispose.
“E ti è mai capitato di vederla sveglia?”
“Un paio di volte. Ha importanza?”
“Molta, perché è evidente che dovrò spiegarti parecchio, se vuoi avere un’idea chiara di che cosa significhi vivere qui da noi”, le rivelò lui, incrociando le braccia.

Parlava come se volesse accrescere una presunta paura all’interno del suo cuore, come a volerla far cadere vittima dell’insicurezza, ma le uniche cose che all’albina sarebbero potute cadere, erano le braccia, e non certo per la paura. Ma davvero quel cretino era convinto di ridurla a una femminuccia tremante e incapace di reggersi sulle proprie gambe, con solo un pietoso avvertimento? Che dilettante.

“Fai pure con calma. Non ho impegni”, acconsentì la ragazza, esibendo un grazioso e sfrontato sorrisetto.





La stanza del signor Eliorath si affacciava su un bellissimo giardino floreale, dove l’anziano soleva passare gran parte del suo tempo. Passeggiare per le vie gli era sempre piaciuto, ma le ossa delle sue gambe si erano assottigliate parecchio in quegli ultimi anni, troppo perché si mettesse a correre e saltare come invece facevano i giovani allievi dell’accademia. Camminava ancora, così come adempiva al suo compito di membro del consiglio, ma non doveva sforzarsi eccessivamente o spingere i propri arti laddove non potevano più. Era vecchio e aveva accettato l’inevitabile ciclicità del tempo con tutte le sue possibili conseguenze, salvo le amare brodaglie con cui aveva regolare appuntamento almeno una volta al giorno. Sia a venti che a ottantacinque anni suonati, Eliorath Van Incardine avrebbe sempre trovato la forza di strizzare la faccia rugosa davanti a quei preparati a base di acqua e verdure insipide; sua nuora gliele preparava quotidianamente perché preoccupata solo per la sua salute, su questo non si discuteva, ma nel caso la vecchiaia non fosse riuscita a portarlo alla tomba, ci avrebbero pensato quelle minestre.
Quella mattina era a letto, con le coperte che gli arrivavano fino alla pancia, numerosi cuscini ad ammorbidirgli la schiena e una larga e decorata veste indosso. La porta della sua stanza era chiusa, ma lui ne fissava comunque la maniglia con silenziosa insistenza: i suoi occhi erano diventati molto resti a rimanere aperti più del dovuto, ma il pizzico di trepidazione guizzante come una piccola onda ne impediva la chiusura, incentivandoli a non distogliere l’attenzione. Le notizie erano dilagate velocemente, arrivando ai suoi appartamenti come una ventata d’aria inaspettata. Era questione di minuti, massimo di un’ora: il suo intuito non sbagliava mai su certe cose e quando sentì qualcuno bussare, si limitò semplicemente a dire:

“Avanti, è aperto.”

I cardini della porta cigolarono leggermente, mentre questa si apriva parzialmente.
L’anziano si rallegrò nel vedere entrare la persona di cui i ricordi avevano cominciato a riaffiorare solo pochi minuti prima. Lars si era irrobustito dall’ultima volta che l’aveva visto, ormai era un uomo in tutto e per tutto. Se ne rese meglio conto quando il ragazzo avanzò di qualche passo, uscendo dalla penombra che investiva il corridoio.

“Salve signor Eliorath”, lo salutò l’albino.
“Lars, ragazzo mio, ne è passato di tempo. Non rimanere in piedi, avvicinati”, lo invitò cordialmente, col sorriso sulle labbra.

Non aveva avuto dubbi su chi avesse potuto suscitare tanto scalpore fra i corridoi del palazzo. Le parole si erano ripetute freneticamente, quasi sul punto di esplodere e considerando l’accoglienza riservata, il signor Eliorath si sentì in dovere di offrire al ragazzo una lunga, sana e immediata boccata d’ossigeno. Neanche farlo apposta, il suo sguardo si riversò sull’evidente cicatrice che segnava il volto dell’albino, appena sedutosi sulla sedia dove solevano sostare sua nuora o suo nipote. Il contrasto con la pelle chiara e quella rossastra era evidente: tirata e deturpata, quella parte di viso spiccò abbastanza perché il suo saluto si trasformasse in una mesta constatazione.

“Ti ha lasciato un bel segno, vedo.”
“Niente che non sia guarito con riposo, garze e disinfettante”, lo rassicurò placidamente Lars, accomodandosi meglio contro lo schienale della sedia “Lei come sta?”
“Oh, che posso dirti…sto invecchiando, ancora”, gli rispose, alzando di poco le spalle “E la cosa comincia a seccarmi. Solo perché una persona non riesce più a reggersi in piedi come una volta non significa che la si debba rinchiudere in una stanza e aspettare che passi a miglior vita, ma a quanto pare..”, e cercò di issarsi meglio “Non sono nella posizione per replicare.”

Una smorfia di dolore s'impresse sul suo viso. Cercò di accoccolarsi meglio fra i cuscini, ma solo con l’aiuto dell’albino il fastidio svanì. Per quanto la situazione lo scocciasse, il signor Eliorath sapeva benissimo quanto il suo minuto corpo fosse diventato gracile; per evitare scricchiolii o dolori muscolari che appesantissero le sue ossa, ogni suo movimento era lento e strascicato, a volte addirittura esitante.

“Sì, non è più come un tempo…”, mormorò poi quest’ultimo, appoggiando la nuca su uno dei cuscini.
“Non deve dimostrare nulla, signor Eliorath, meno che mai a me”, gli disse il ragazzo, risiedendosi sulla seggiola.
“Oh, non era nelle mie intenzioni”, ridacchiò flebilmente lui intrecciando le dita “Piuttosto, perché non mi dici che cosa ti ha riportato qui da noi e come mai sei in compagnia di un gruppo di pirati? Personalmente, non credo che siano brutali, vista la tua presenza, ma giusto una mezz’ora fa le guardie hanno dato l’allarme a causa di un uomo che stava tentando di scalare il palazzo. Devo forse preoccuparmi?”





“Salvatore? No, scusa: hai proprio detto “Salvatore”?”
“Esatto.”

Quaranta minuti e diciassette secondi.
Era il tempo trascorso dall’inizio di quella discussione e un record per la pazienza di Azu, più piatta di un mare senza vento. Tra il cercare di seguire il filo del discorso e il capire se quanto le stava venendo detto avesse fonti storiche attendibili o fosse una scemata colossale, i suoi neuroni si stavano avviando al surriscaldamento. Le loro vocine acute e sofferenti le rimbombavano in testa come tanti campanelli asfissianti e lei non poté fare altro che stropicciarsi l’incavo degli occhi e maledirsi per la quarta volta di seguito; aveva chiesto a Eliah di raccontarle tutto, col risultato di trovarsi invischiata in una lezione su vita, morte e miracoli di San Lorein.

Una genialata che la sua perfida coscienza le avrebbe rinfacciato per il resto dei suoi giorni.
Ma perché diavolo non rifletteva prima di agire?

“Senti, apprezzo il fatto che tu voglia rendermi partecipe della storia della tua città, ma non è quello che mi interessa”, riuscì a dire, dopo che un altro dei suoi neuroni aveva fatto i bagagli e se l’era squagliata. Fra demoni, saggi e un’accademia per apprendisti spadaccini, tutto il suo sistema nervoso stava seriamente prendendo in considerazione il suicidio.
“Lo so, ma è indispensabile perché tu abbia un’idea chiara di tutta la faccenda”, si giustificò placidamente il ragazzo, staccando la propria schiena dal muro.

Non si erano spostati da quel corridoio nemmeno per cercare un posto più appartato e comodo. Azu se ne stava lì, con le braccia incrociate, lo sguardo perennemente puntato sul capo dell’isola e quell’agonia verbale che le impediva di concentrarsi su altro.

“Rahel e il suo operato stanno alla base di una lunga tradizione che onoriamo e rispettiamo da secoli”, spiegò lui, cominciando a passeggiare lentamente “Salvando l’isola dall’orlo della distruzione, ha stabilito un ordine che abbiamo il dovere di proteggere e tramandare alle generazioni future, ma non è la sola cosa che ci ha lasciato.”

Fermatosi appositamente, Eliah scostò con la mano il proprio cappotto, rivelando la spada che portava appesa al fianco.
Azu la guardò senza timore, riuscendo a respingere l’ondata di malessere che percepì distintamente roderle la pelle.

Eccola lì, la diavoleria rossa.
L’impugnatura, le guardie crociate e perfino la coccia erano avvolti da disegni rappresentanti spirali intrecciate che sporgevano addirittura fuori dalla base. Si univano inestricabilmente, formando un disegno che non riuscì bene a delineare; magari non avrà avuto una collana di perline che la rendesse più vistosa, ma l’eleganza di quel motivo era comunque notevole. L’argento prevaleva solo in alcune rifiniture; il resto era scarlatto, di un rosso sangue battuto solo dal rubino incastonato nel pomo. La lama, lunga e affilata, sotto la luce del sole, era lucida quanto uno specchio, con riflessi che ne schiarivano il colore in tantissime sfumature. Eliah l’aveva impugnata appositamente perché lei ne vedesse il totale e incandescente splendore, perché si facesse un’idea di quanta diversità ci fosse fra il suo mondo e quello esterno, ma Azu si limitò semplicemente a stare zitta e immobile.

“Il Master non è soltanto una persona che ha il dovere di difendere la città, ma il guerriero scelto da una delle cinque armi sacre. Vincere il torneo finale ed essere giudicati idonei dai saggi è solo una parte della cerimonia”, riprese poi “Perché il campione acquisisca a pieni diritti il titolo di Master, deve superare la seconda parte della cerimonia, quella che si tiene nel santuario di questo palazzo.”
“E in che cosa consiste, quest’altra prova?” domandò l’albina.
“A un’accettazione spirituale.”
“Una cosa?”
“Un’accettazione spirituale”, ripeté il castano, riponendo al proprio fianco la preziosa Magdala “Un confronto che prevede il crearsi di un legame fra l’anima del vincitore e lo spirito di una delle cinque armi. Magdala, Erath, Baranshi, Aritles e Saphira sono diverse sia nell’aspetto che nella personalità: hanno caratteri e poteri differenti e come tali, scelgono solo una persona che abbia un’anima idonea con almeno una di loro. Dopo Rahel, nessun’altro Master è riuscito a farsi accettare da tutte e cinque le armi, ma era sufficiente che il campione intrecciasse il proprio spirito con anche solo una di queste per garantire l’armonia della città.”
“Quindi, se ho capito bene…”, ricapitolò Azu, unendo tutte le informazioni assimilate “I soli che possono brandire queste armi e che possono ottenere il titolo di Master, sono i guerrieri che vincono il torneo finale e che superano questa accettazione spirituale, giusto?”
“Precisamente. Si tratta di una tradizione che San Lorein tramanda unicamente alla sua gente. Un’arma per un solo Master.”
“E mio fratello, allora? Lui ha Saphira e non è nemmeno di queste parti.”

Arrivati a quel punto, per Azu fu impossibile non chiedere che tipo di relazione ci fosse fra Lars, Saphira e l’intera città. Aveva ascoltato per filo e per segno tutto quello che Eliah le aveva detto, tutto ciò che bisognava sapere per non arrivare impreparati a un compito in classe su San Lorein, ma ora pretendeva di conoscere la verità che stava dietro il periodo d’addestramento del fratello. Ne doveva aver passate di cotte e di crude, indubbiamente, ma nel suo costruirsi un’idea mentale riguardante ciò, Azu non dimenticò di tener conto di una cosuccia che la accomunava al più grande: la caparbietà.
Lars Gallower preferiva gli approcci diplomatici a quelli maneschi, rifletteva almeno cinque volte prima di fare una cosa e vantava un controllo emotivo e razionale che lei non avrebbe mai posseduto. Era freddo, pacato e di poche parole, quasi le relazioni umane lo disgustassero, a volte addirittura inquietante, ma soprattutto testardo. Lo era eccome, solo in una maniera più sottile della sua, quasi strategica. Non si passano dieci anni su un’isola come San Lorein senza una buona ragione: quella di Lars era il voler diventare uno spadaccino degno di nota e se aveva sopportato quello che stava facendo venire a lei un esaurimento totale, non era certo merito della sua pazienza!
No, no, lì era tutta questione di testardaggine. Suo fratello accettava le sfide per vincerle, ed era capace anche di tenere sott’acqua la testa e affogare, pur di farcela. Sottostava a tutte le regole, non fiatava, ma s'impuntava e vinceva, e questo perché aveva un orgoglio smisurato.

Ma questo non era sufficiente per capire.
La lacuna che galleggiava nella testa di Azu era ancora lì, vuota e insoddisfatta. Tutto ruotava attorno all’accademia, al torneo finale, alla cerimonia d'iniziazione e a quella leggenda che vedeva al proprio centro cinque armi uniche al mondo. Una sola arma per un solo Master, questo le aveva appena detto Eliah. Ci poteva essere un solo capo, una sola persona scelta sia dalla gente che da uno dei cinque tesori di Rahel, così doveva essere. Ma così non era stato con Lars, il cui possesso di Saphira lo poneva su un piano terribilmente vicino a quello di Eliah.
Quella spada l’aveva insospettiva fin dal primo giorno, ma l’alto muro del silenzio che l’albino tirava su a ogni suo interrogatorio, le aveva sempre impedito di saperne di più al riguardo. Che fosse chiaro! Non era affatto preoccupata per il fratello! Solo non trovava giusto rimanere all’oscuro di qualcosa che le stava contorcendo le viscere per l’acidità! Era sbagliato, e anche se avesse scoperto chissà quale arcano segreto irrivelabile, mica avrebbe fatto la spia – sempre se questo non le avesse fruttato un qualche e irripetibile vantaggio…-.

Con un’idea molto generale su Eliah Van Incardine, la ragazza si aspettò di vedergli fare qualcosa per la quale la sua pazienza le avrebbe chiesto in ginocchio di alzare i tacchi e andare a scolarsi un doppio whisky. Gli individui superbi e sprezzanti di sé rientravano in quel vasto bagaglio culturale maschile che aveva avuto modo di conoscere da vicino negli ultimi anni, quindi, qualunque occhiata quel tale le avrebbe schioccato, di certo non l’avrebbe colta impreparata.

Salvo quella.
Sfogliando velocemente la propria lista mentale e non trovando alcun riscontro, la sicurezza dell’albina vacillò sensibilmente: dopo che si era lasciato attrarre momentaneamente dalla bellezza del giardino stante fuori dalla finestra, il castano le aveva rivolto uno sguardo imperscrutabile, troppo normale e composto perché le concedesse quella piccola e sperata soddisfazione personale. Che diavolo significava?

“Come ti ho già spiegato, qui a San Lorein gli stranieri non sono benaccetti, ma le vedute di mio nonno sono sempre state più accondiscendenti rispetto a quelle degli altri suoi colleghi, tanto da permettersi di uscire dalla città più volte”, raccontò “Nessuno glielo ha mai rimproverato, in passato è stato un valente Master e un saggio condottiero, per questo si è sempre pensato che le sue decisioni avesse un particolare fine.”
“E che centra questo con mio fratello?” domandò l’albina.
“Centra molto, te lo posso assicurare”, le giurò caldamente, incrociando le braccia “Il consiglio e mio padre erano al corrente che mio nonno avrebbe portato un allievo da inserire nell’accademia. Ovviamente la cosa fu molto discussa, perché si trattava di chiudere un occhio sulle leggi, ma alla fine tuo fratello venne ammesso all’accademia. Certo, la decisione non ha riscosso esiti positivi, ma mio nonno aveva una buona ragione per insistere sulla faccenda.”

Parlò dell’anziano parente con rispetto, mettendo in evidenza l’ammirazione che aveva sempre covato fin dalla tenera età, ma passandoci oltre con velocità disarmante, quasi non gliene importasse. Una supposizione del tutto falsa, se si considerava il fatto che Eliah era attaccato al nonno più di quanto desse a vedere in apparenza.
Riflettendo su quella prima parte, Azu si concentrò meglio sulla possibile ragione che aveva mosso quel tale, il signor Eliorath, a sfidare la sua stessa terra natia: non aveva molte idee in testa, ma se era andato a scegliere Lars voleva dire che aveva visto in lui qualcosa di speciale, magari quel talento che lei trovava noioso e senza senso.

Affettare tutto e tutti….ma che gusto c’è? Si era chiesta migliaia di volte.

Fare a botte a mani nude era molto più soddisfacente! L’adrenalina che schizzava dalle vene, i muscoli che bruciavano per la smania di essere strapazzati, per non parlare dei brividi eccitati che le pungevano la pelle quando la situazione la costringeva a stare con le spalle al muro. Dio, quanto avrebbe pagato per avere un ring e un centinaio di uomini da massacrare!
Amava quel mix di sensazioni e impazziva per il sapore del suo stesso sangue quando le bagnava le labbra; risvegliava la parte più contorta e sadica del suo istinto, spronandola a combattere con foga disumana e impareggiabile, niente a che vedere col mondo delle spade, dove il controllo della propria forza fisica era qualcosa di disgustosamente maniacale. Quei coltelli formato gigante non le erano mai andati a genio, ma su suo fratello avevano sempre esercitato un fascino magnetico e se ci teneva a fare luce sull’alone di mistero che svolazzava sopra la testa del più grande, doveva reprimere temporaneamente il suo dissenso per le lame.

“Fra tutti gli allievi, tuo fratello era uno dei più forti. Secondo solo a me, se vogliamo essere precisi, ma non voglio annoiarti con dettagli che a te di certo non interessano”, fece sbrigativo il Master, intuendo la fretta della sua ospite.
Ecco, bravo: vai avanti, lo incitò mentalmente lei. Anche se la tentazione di prenderlo per il codino e lanciarlo fuori dalla finestra era forte, doveva resistere.
“L’ultimo incontro del torneo finale lo disputammo io e Lars”, andò avanti lui “Vincendo, venni portato nel Saidan, dove superai la cerimonia di iniziazione e assunsi il titolo di Master, insieme alla custodia di Magdala. Ci furono dei festeggiamenti, come da tradizione, ma quando mi accorsi dell’assenza prolungata di mio nonno, la cerimonia di tuo fratello si era già conclusa.”

Nella sua sintesi pressoché concisa e perfetta, Azu ricollegò ogni parola a quanto aveva assimilato, riuscendo addirittura a immaginare il contesto. Fu automatico e immediato, di una facilità disarmante e indescrivibile. E non era ancora finita….

“Due cerimonie riuscite e due maestri di spade. Non era mai capitato che due armi sacre manifestassero la loro volontà allo stesso tempo”, mormorò il ragazzo, lasciandosi scappare una flebile risata “Il consiglio dei saggi era sconvolto, restio a credere che Lars fosse stato scelto da una delle cinque armi di Rahel, da Saphira, per giunta.”
“Per via della sua...ehm...silenziosità?”

In mezzo a quegli argomenti farciti di dettagli sonnolenti e noiosi quanto la vita di un bradipo, le notizie riguardanti Saphira erano le sole che riuscissero a venirle subito in mente. Che quella spada fosse un’anomalia bella e buona l’aveva capito immediatamente, e grazie ai dettagli aggiuntivi forniti dall’elegantone che le stava di fronte, ora ne aveva la prova concreta.

“Secondo la leggenda, la Regina dei Ghiacci ha perso tutto il suo potere per aiutare il nostro fondatore, per questo non ha mai manifestato la propria volontà davanti ai miei predecessori”, narrò Eliah “Gli anziani supposero che Lars l’avesse rubata, ma non era un’ipotesi plausibile: dormienti o no, le armi di Rahel respingono qualunque persona indegna, pertanto non rimase altro da fare che accettare la veridicità della versione di mio nonno. La  seconda cerimonia di iniziazione si era svolta regolarmente, ma viste le circostanze e la posizione di tuo fratello…”, e tergiversò giusto un paio di secondi “Non potevamo non prendere dei provvedimenti.”

Vedendolo passarsi diagonalmente l’indice sul viso, Azu strizzò le labbra convulsamente. Il suo sguardo perlaceo s'immobilizzò lì, riluttante all’idea di focalizzare la propria attenzione su qualunque altra cosa che non fosse il nauseante e insopportabile ghigno di quel tizio, amabile quanto uno spigolo nel fianco.
Aveva capito, altroché se aveva capito. La mano di Eliah non si era mossa casualmente, aveva compiuto quel semplice gesto per calcare il suo ruolo in quella faccenda, enfatizzandone l’importanza. Doveva pur essere stato qualcuno, Lars non era così rimbambito da inciampare nelle stringhe dei suoi stivali. Era lei quella che non guardava mai davanti a sé e che sbatteva il naso contro un muro o una palma. Era lei la distratta, non quel perfettino di suo fratello, la cui meticolosità non conosceva limiti.

“L’hai sfregiato tu.”

Quel mormorio uscì dalla sua bocca flebilissimo, appena incredula e sbigottita.

“Non potevamo togliergli con la forza Saphira, saremmo andati contro le leggi di San Lorein”, le disse con ovvietà il Master, allontanandosi di qualche passo dalla finestra “Inoltre, dovresti sapere bene quanto tuo fratello sia irremovibile: neppure il mettere in gioco la sua libertà l’avrebbe fatto desistere.”
“E così l’hai sfidato a duello”, affermò l’albina, riacquistando sicurezza.
“Non c’era altra scelta.”
“E’ forse una giustificazione, la tua?”
“Considerala come meglio credi, ma credimi se ti dico che quella cicatrice è il minore dei mali che poteva capitargli”, le confessò “La sua ammissione è costata non pochi strappi grattacapi e andarsene con uno dei nostri tesori, senza prendere provvedimenti, non era....”

Doveva aver spiegato quella faccenda almeno un migliaio di volte, perché la disinvoltura e l’assoluta mancanza di particolari emozioni nella voce, erano alquanto impeccabili. Parlava bene, troppo bene, e Azu lo aveva constatato, tanto da arrivare al punto di non farcela più. Il pugno era partito all’improvviso, a una velocità che pochissimi avrebbero intercettato. Lo sfregare delle proprie nocche contro la liscia lama rossa della spada di Eliah era vibrante quanto il tremore incazzato delle sue labbra - dolorosamente tenute in ostaggio dai suoi denti - e di tutto il resto del corpo, ansimante e incandescente. Il signorino era riuscito a salvarsi la faccia e di questo Azu non fu affatto contenta: la bolla di indefinibile consistenza che le stava bruciando in petto era scoppiata , ma il senso d’oppressione le pervadeva ancora gli arti chiedeva ancora e ancora.

“Se hai finito con le stronzate, ora toccherebbe a me”, sibilò lei, ritirando lentamente il pugno e raddrizzandosi. 

La sua voce era quanto di più spaventoso potesse esistere al mondo ed era assolutamente restia a trattenersi.

“Io e mio fratello…. ci sopportiamo a malapena”, ringhiò, in un ansimo pesante e mal controllato “E l’idea di avere qualcosa in comune con lui mi fa vomitare, ma se vi ho seguito, è perché voglio mettere in chiaro una cosa: di quello che mi hai rifilato negli ultimi minuti, la storia della tua isola, della tua città, non me ne frega un bel niente. Puoi anche essere il capo di questo posto, il Dio indiscusso, ma solo io ho l’autorità per infierire su Lars, quindi vedi di imprimerti bene in testa le mie parole, perché le ripeterò una volta sola”, e lì lo guardò con occhi colmi di scintille omicida “Tu azzardati a fare anche un solo passo di troppo , a toccare la mia di gente, e io smonterò la tua preziosa isoletta pezzo per pezzo, a cominciare da questo palazzo. Credimi.”

In vita sua, Eliah Van Incardine, non aveva mai avuto il piacere di assaporare una minaccia. Ne conosceva il significato, ma la sua inesistenza a San Lorein – come molte altre cose -, gli aveva sempre dato un vago senso di vuoto. Non necessariamente colmabile, ma comunque presente, e il parare il gancio sinistro dell’albina glielo ricordò. L’avvertire il proprio corpo venire spinto all’indietro di quasi un metro all’indietro, lo vide alzare la testa e schioccare uno sguardo strafottente a quella ragazza dall’indole suscettibile e intrattabile, riponendo Magdala al proprio fianco.

“Lo trovi divertente?” 
“La tua minaccia? No, si capisce benissimo che non avresti problema a radere al suo San Lorein, se te ne offrissimo la possibilità. Ma anch’io ci terrei a precisare un’ultima cosa, prima di lasciarti.”
“Cosa? Che devo stare attenta a non farti perdere la pazienza?” lo provocò l’albina, appoggiando le mani a fianchi e storcendo il sopracciglio con arroganza “Non pensare di farmi paura: noi Gallower siamo di parola e non ci facciamo spaventare dal primo che passa. Men che meno da uno come te.”
“Io dico che dovresti, invece”, replicò seccamente lui, osservandola con occhi taglienti e voce fredda “Ti aiuterebbe a essere meno cieca e stupida.”
 “Che cos…?!”
“Hai volutamente ignorato il mio ordine e sei uscita dalla biblioteca”, la bloccò prontamente “Mi hai seguito e hai preteso che ti spiegassi perché tuo fratello è tornato da te con una cicatrice sul viso e, infine, minacciato di non toccare i tuoi cari. Se c’è una cosa che ho imparato a rispettare è il coraggio delle persone, ma credimi anche tu, quando ti dico che potrei non rispondere più di me stesso, se proverai a fare del male agli abitanti di quest’isola.”

Stavolta per Azu, fu impossibile replicare.
Ci provò, si strinse il collo con la mano destra e provò ad urlare, ma niente: la lingua si era ribellata alla sua volontà, annodandosi da sola e impedendole di prolungare quello scambio di minacce aperte. Ne riprese possesso solo dopo che Eliah se ne fu andato, inchiodandola al pavimento con sguardo assassino.

“Dannato bastardo!” imprecò infine, astenendosi a fatica dal colpire il muro a lei più vicino.

Mai si era sentita tanto umiliata in vita sua. I pugni le tremavano per il forzato contenimento, accompagnati da un respiro smorzato e irregolare. Non era la fine che si era immaginata, per nulla: avrebbe dovuto concludersi tutto a suo favore, con la sua sorprendente e alquanto concisa minaccia, non con quell’orribile senso di insoddisfazione e una minaccia a proprio carico. Il trovarsi sola, frustrata, in quell’accidente di corridoio e con ancora appicciata addosso una considerevole quantità di tensione elettrica da smaltire, non fece altro che rafforzare il suo desiderio di andarsi a scolare tutto il liquore stipato nelle dispense della Thousand Sunny.

La via più rapida e semplice per mettersi a ballare nudi in strada, decretò, stupendosi di avere ancora la forza di accingere al sarcasmo.

Memore delle disgustose e doloranti conseguenze che seguivano a una bevuta con i fiocchi, l’albina inspirò profondamente. Aveva appena minacciato di morte il Master di San Lorein, inimicandoselo per bene e fregandosene delle conseguenze.  Era pentita? Neanche un po’. La sua parte l’aveva fatta, ma ora doveva escogitare una maniera per impedire che la situazione degenerasse.

Peccato solo che non avesse uno straccio di idea da cui partire.





Gli umani sono esseri davvero complicati.
Almeno, questo avrebbe detto Red, se avesse avuto il dono della parola. Da intelligente scimmia Cresta di Fuoco quale era, sapeva capire più di quanto una persona normale potesse pensare, compiendo gesti che altri suoi simili, invece, trovavano contorti e difficilissimi. Quelle come lei potevano distinguere un frutto marcio da uno buono senza assaggiarlo, organizzare attacchi strategici multipli e anche ideare trappole contro i loro più grandi nemici, i gorilla Pugno di Roccia. Cose semplici, indispensabili per la sopravvivenza del gruppo e di vitale importanza quanto la memoria, ma non estendibili a tutti i campi; in quanto animali, le scimmie Cresta di Fuoco possedevano spiccate abilità, indubbiamente, ma non erano in grado di comprendere l’intricata profondità che rendeva gli esseri umani così diversi da loro, così complicati.
Red non aveva fatto fatica ad ambientarsi fra di loro, si era subito trovato bene, imparando a non mettere dappertutto le sue zampe pelose: i pezzi di carta di Nami e Nico Robin, gli assurdi oggetti metallici multiformi di Sanji e quelli lunghi e affilati di Zoro erano solo alcuni dei molti tabù impostigli per la propria incolumità. Non li doveva assolutamente toccare, specie quando i proprietari li usavano; non che non avesse mai provato a guardarli da più da vicino e ad annusarli come era solito fare con tutto quello che gli capitava in mano, ma Shion era stata chiara e lui non voleva certo correre il rischio di perdere il posto sulla spalla destra di lei. Viveva, mangiava e dormiva lì sopra come se ci fosse stato incollato forzatamente, guerreggiando morbosamente contro quell’acida strega isterica che cercava i tutti i modi di spellarlo vivo. Fosse stato quello il problema attuale, della bella Sunny sarebbe rimasto soltanto un piccolo e grigio mucchietto di cenere, ma gli insuccessi che stava attualmente incassando non riguardavano l’ennesimo accapigliamento con quella stupida rompiscatole.

Shion era lì, di fronte a lui, seduta sull’altalena del ponte di coperta e con il visino più triste che il genere umano avesse mai visto. Un muro incrollabile per il povero Red e per il suo super ciuffo a banana, identico a quello di Franky, ora disfatto; se lo era fatto da solo, con il pettine che il carpentiere gli aveva generosamente regalato insieme a uno dei migliaia occhiali da sole che questo custodiva gelosamente in una scatola sotto il letto. Lui ci aveva provato, a capire che cosa avesse di tanto strano la padroncina da renderla così mogia e poco giocherellona, ma neppure l’inclinare a destra e a sinistra la testa col rischio di svitarla o il compiere acrobazie sul ponte e il rugoso contatto con le sue zampe, appoggiate sopra le ginocchia scoperte della piccina, avevano sortito particolare effetto. Sì, gli umani era veramente troppo complicati, per i suoi gusti.

“Allora?”
“Niente. E’ ancora lì.”
“Yohohoho! E se provassi a suonarle qualcosa?”
“Non penso che funzionerebbe.”


Da un’abbondante mezz’ora, Chopper, Usopp, Franky e Brook si stavano scervellando sul come sollevare il morale di Shion. Fra invenzioni da ultimare, piccole mansioni – e un progettino in dirittura d’arrivo -, avevano fatto a turno per sorvegliarla, nel caso avesse deciso di fare qualcos’altro che non fosse il dondolarsi pigramente sull’altalena, ma senza vedere miglioramenti nel suo umore: stava seduta con lo sguardo fisso sui fili d’erba e non prestando attenzione al balletto improvvisato di Red. I quattro membri della ciurma rimasti a bordo non riuscivano a spiegarsi come fosse stato possibile che la loro piccola amica avesse perso, di punto in bianco, tutta la sua vivacità, perché non era mai capitato che questa sprofondasse in un’improvvisa e così evidente apatia. Era stato fin troppo facile accorgersi di quel cambiamento, ma non altrettanto il farsi coraggio e cercare di identificare quale fosse il problema che tanto la assillava. Il suo faccino roseo era il ritratto per eccellenza di chi aveva bisogno di una risposta, ma non un semplice “Si” o “No”: una risposta lunga, rivelatoria, un’illuminazione che le facesse apparire tutto più chiaro.

Questo, i pirati lo avevano capito, ma nonostante la loro sincera e buona volontà, Shion non aveva accennato ad aprirsi: sembrava preferire di gran lunga il rimanere chiusa a mo’ di riccio, anziché giocare o fare qualcosa che rendesse meno pressante l’attesa. Con il tramonto quasi del tutto consumato, Rufy e gli altri sarebbero dovuti tornare o avvisarli, ma all’orizzonte non si intravvedeva ancora nessuno; c’era solo il sole, il cielo arancione, un mucchietto di nuvole mangiucchiate e un Roronoa Zoro reduce da un intenso allenamento.

“Si può sapere cosa state facendo?” domandò lo spadaccino, passandosi l’asciugamano attorno al collo “Che ha Shion?” domandò poi, guardando nella medesima direzione dei suoi compagni.
“E’ triste, non lo vedi?” gli fece notare Usopp.
“Perché?”
“Non lo sappiamo”, bisbigliò Chopper, con vocina preoccupata.
“Chiedeteglielo”,  suggerì il ragazzo.
“Non ce lo vuole dire”, arrivò Brook.
“Lasciatela perdere, allora.”
“Aw! Fratello! Come puoi essere così insensibile davanti al viso rattristato della sorellina?!” esclamò Franky, indignato.
“Se non vuole parlare, non vedo motivo per cui intromettersi”, sbuffò l’ex Cacciatore di Pirati, incrociando le braccia “Però, se ci tenete così tanto a sapere che cos’ha, potete sempre costringerla a sputare il rospo.”
“Costringerla? Ma che razza di mostro sei?!” strillò il Re dei Cecchini, con i denti aguzzi.
“Cattivo!” lo rimproverò il Tenero Peluche, agitando le zampette.
“Gorilla affettatore”, rincarò la dose il Cyborg.
“Yohohoho! Buzzurro!” si aggiunse per ultimo il Canterino.
“E DATECI UN TAGLIO!” esplose il ragazzo, alterandosi vistosamente.





“Palla! Palla! Torna qui!”
“Shion, dove vai? C’è la discesa! Shion!”

A nulla valse l’avvertimento di Azalea Gallower, quattordicenne, e neo guardia del corpo della piccola Shion Yokozomi, di appena tre anni. I pomeriggi di inizio Luglio erano troppo soleggiati per rimanere chiusi in casa a fare la muffa, specie per una bambina iperattiva e tutta felice di poter finalmente uscire all’aria aperta. Shion correva a destra e a sinistra, lanciando e afferrando al volo il suo nuovo pallone blu adornato di stelline bianche, senza prestare attenzione a null’altro. Abituatasi a marine e omaccioni che avevano provato spudoratamente a palparle il sedere, Azu faticava a starle dietro: i bambini erano di tutt’altro stampo e anche con tutta la buona volontà del mondo, le sue braccia non sarebbero mai riuscite ad acchiappare  quella piccola trottola ambulante. La bambina era troppo presa a giocare per accorgersi della sua fatica, ma come lanciò la palla in alto, la sua bocchina rosea si schiuse leggermente, sospendendo momentaneamente l’allegria: il suo giocattolo stava scendendo a terra, ma lontano da lei, verso la discesa che portava alla spiaggia.

“Palla! Palla!”

Inutili furono i suoi richiami: la palla rimbalzò un paio di volte, per poi rotolare via. Con il suo grazioso vestitino a fiorellini e le mani tese in avanti, Shion cominciò a correre giù per la discesa, muovendo il più velocemente possibile le sue corte gambette. La palla rotolava con sempre maggiore velocità e nonostante l’impegno della piccola - e il suo buffo chiederle di fermarsi -, la distanza fra lei e l’oggetto era troppo grande.

“Aspetta, palla! Asp…Whaaa!!”

Attorcigliatasi i piedi per il correre senza controllo, la bambina finì per sbilanciarsi e cadere in avanti. Fu una fortuna che il sentiero non fosse pieno di sassi o detriti, ma il capitombolare a quella velocità non la esentò dal procurarsi delle belle sbucciature su ginocchia, gomiti e mani.

“Ahia….”, pigolò con voce rotta.

Era finita a faccia in giù. Avvertì il dolore quasi subito: da semplice pizzicore, divenne un bruciore persistente e calcato sulle parti picchiate. L’accorciarsi del fiato e il gonfiore degli occhi per le lacrime si intensificarono non appena riuscì a mettersi seduta, scoprendo che anche il suo bel vestitino aveva risentito del volo. Si era sporcato e strappato, ma la bimba non ci badò e affondò i palmi incandescenti e pulsanti nella gonna impolverata, stringendo le labbra a più non posso; non era la prima volta che cadeva, ma non si era mai fatta tanto male come in quel momento e non occorse molto prima che cominciasse a piangere per il dolore.

“Ahiaaa…sigh, m-mamma…whaa…!”
“E’ tua?”

Il singhiozzare incontrollato diminuì  non appena la bambina si accorse della grossa ombra che la riparava dal sole. Quasi le si annodò la gola nel vedersi porgere il giocattolo creduto perso e non mancò di sbattere gli occhi per l’incredulità: la sua palla era lì, a pochissimi centimetri dal suo nasino, sorretta da uno strano signore che lei non aveva mai visto.

“Allora, piccina: è tua questa palla?” le domandò gentilmente il misterioso individuo.

I secondi passarono, ma Shion non si mosse ne parlò. Con le spalle strette, la boccuccia chiusa e gli occhi immobili, era troppo presa a non riprendere a piangere per dare importanza al fatto che quel tipo era un perfetto sconosciuto e  che aveva la faccia semi-bendata. Un dettaglio notato, ma che non vinse contro il dolore pulsante, che le fece riprendere quel pianto sospeso precedentemente.

“Hai proprio fatto una brutta caduta”, constatò il sorridente sconosciuto, arruffandole amorevolmente la testolina dorata.
“Sniff….whaa…voglio il papà…!”, singhiozzò lei, con i pugni stretti e vicini alle guance.

Lo sconosciuto si fece scappare un altro fievole sorriso; non era esattamente l’inizio che si era prefissato, ma non era neppure così irrimediabile come molti lo avrebbero visto. Appoggiò l’enorme zaino a terra, estraendone una borraccia e un grosso fazzoletto bianco; bagnando d’acqua quest’ultimo, prese in braccio la piccola, tamponandole i graffi e le ferite con attenzione, lasciandola anche sfogare per benino. Fu una buona mossa: pochi istanti dopo, attenuata la botta, gli occhioni azzurri di Shion erano nuovamente puntati su di lui.

“Va meglio?” le domandò lui.

Lei annuì debolmente, ma senza spiccicare una parola.

“Cos’è, di colpo hai perso la parola?”

Stavolta, la piccola rimase a fissarlo, senza neppure muovere di mezzo centimetro la testa.

“Dì un po’, sai che è pericoloso correre in discesa?”
“S-Si, ma la mia palla non voleva fermarsi. Non mi ascoltava”, cercò di giustificarsi lei, con vocina ancora rotta.
“Ah, ma allora la lingua ce l’hai ancora”, ridacchiò il più grande.

Shion provvide a tapparsi immediatamente la bocca, suscitando l’ilarità dello sconosciuto; se sua madre avesse saputo che stava dando confidenza a un perfetto estraneo, sicuramente le avrebbe fatto una ramanzina con i fiocchi, ma il gran pianto e l’indolenzimento del suo corpicino le avevano fatto venire un mal di testa troppo pesante perché riuscisse a concentrarsi su più cose contemporaneamente. Inoltre, le bende che coprivano il viso di quel signore che poi non gli era sembrato così vecchio e i suoi occhi color ghiaccio, non lasciavano spazio a null’altro.

“Perchè hai la faccia tutta bendata?” domandò per l’appunto.
“Sono caduto”, gli rispose placidamente l’individuo.
“Non ci credo. Gli adulti stanno sempre attenti a quello che fanno”, fu la replica della bambina.
“Si vede che non sono un adulto normale.”
“E’ perché hai i capelli grigi? Anche Azu-chan ce li ha e lei è tanto distratta!”

Ricordava quel momento perfettamente. Era uno dei pochi che fossero completi, con tanto di particolari e dettagli che una bambina di tre anni non sarebbe mai riuscita a tenere a mente, ma Shion era speciale, troppo sveglia e attenta per dimenticare qualcosa o qualcuno che le stava tanto a cuore. Lars faceva parte dalla sua vita da troppo tempo, non poteva cancellarlo su due piedi, non era una persona qualunque su cui si potesse tirare una riga e via. Scordare la prima volta che lo aveva incontrato, il suo volto bendato, gli occhi dello stesso colore del ghiaccio……no, non ne sarebbe mai stata capace. La sua voce carezzevole e gentile l’aveva sostenuta in ogni momento, giungendole al cuore come un suono caldo e sicuro. In quanto figlia unica, era bello avere tutte le attenzioni dei propri genitori, ma il vivere su un’isola della Marina comportava anche dei limiti, quali l’amicizia: salvo qualche bel viaggetto, tutta la sua vita si concentrava a Shirama, nella base numero diciassette, con la sua famiglia e la sua istruzione privata.
Azu-chan e Lars erano i suoi più grandi e unici amici: due presenze ampiamente consolidate nella sua vita, perfettamente alla pari con la sua mamma e il suo papà. E la tristezza che imbrigliava ogni singolo centimetro della sua piccola anima ingenua , era la prova di quanto tenesse al legame che li univa.
Aveva trascorso le ore successive allo sbarco stando seduta sull’altalena, dondolandosi ogni tanto, ma senza uscire da quell’antro profondo e silenzioso dentro cui si era rintanata. Capire le era impossibile, così come l’aggrapparsi a qualcosa di allegro e sorridere con spontaneità; l’apatia dipintasi sul suo viso respingeva ogni tentativo, inibendo la vivacità che avevano sempre reso particolarmente luminoso l’azzurro dei suoi occhi. L’arrivo a San Lorein si era rivelato radicalmente diverso da come se lo era aspettato e il freddo comportamento di Lars l’aveva fatta indietreggiare da qualsiasi intenzione venutale in mente. Non c’era stata alcuna spiegazione o una frase che la rassicurasse: solo un ordine conciso e riluttante ad accettare repliche. Una novità sconcertante per lei, abituata a ben altro tipo di voce.

Lars era stato duro, più silenzioso del solito, ma dopo quanto aveva visto, Shion non aveva avuto più bisogno di chiedere il “Come” e il “Perché”. Non era ancora brava a formulare ragionamenti complessi o lunghi, però non era così piccola da non accorgersi di quello che le stava intorno, specie se si trattava di persone che conosceva sin dalla più tenera età. Che quell’isola bianca rappresentasse una qualche memoria dell’amico, questo lo aveva realizzato, ma non era stato lo scoprire quell’inaspettato legame o il repentino cambiamento dell’albino a farla rabbuiare sino a quel punto. L’aveva scossa, certo, ma il venire messa da parte e il non riuscire a fare niente….quello le pesava veramente.
Il rimanere sulla Thousand Sunny con il solo e misero compito di fare la brava e aspettare, le aveva aperto gli occhi su una realtà che si era sempre limitata a guardare fino ad un certo punto: Lars l’aveva aiutata così tante volte, che lei era sicura che un giorno all’altro avrebbe ricambiato il favore, dimostrandogli di essere diventata forte. Sognava di viaggiare ovunque ci fosse un indizio che contribuisse alla ricerca di Endora, di scoprire le meraviglie che ancora si nascondevano all’occhio umano; non aveva mai mostrato cedimento davanti all’insistenza del suo professore, aveva sempre sostenuto le sue idee con tutta la testardaggine di cui era capace, rivelandosi l’avversario più cocciuto che quel vecchio bacucco avesse mai incontrato. L’ostinarsi era il suo modo di mettere in risalto quella vivace grinta che aveva ereditato da suo padre, un punto a favore di cui era sempre andata orgogliosa, in un certo qual senso.

Eppure….la facilità con cui era stata lasciata indietro, con la quale era stata messa da parte, aveva distrutto quella certezza in un solo colpo.
Non era per cattiveria che l’albino le aveva detto quelle cose, ma il sentirsi negare la possibilità di fare qualcosa, di essere d’aiuto, andò a rafforzare ulteriormente quel malessere interiore. Sembrava divertirsi a sottolineare quanto poco potesse fare una bambina di undici anni, alle cui spalle vantava già un paio di rapimenti - di cui uno era all’oscuro -, e il ricordare l’abissale differenza che stava fra le sue capacità e quelle dell’albino, la fece sospirare per l’ennesima volta.

“Oi, com’è che hai quella faccia?”

Al sentirsi chiamare, Shion sobbalzò all’istante, facendo scattare la testa all’insù con la stessa velocità di una molla-giocattolo. Zoro era di fronte a lei, con l’occhio severo e autoritario puntato sulla sua testolina e su quella di Red, nascostosi fra le sue gambe.

“Ciao, Zoro”, lo salutò piano la bambina, asciugandosi velocemente gli occhi umidi col dorso della mano.
“Allora? Che ti succede?” le domandò nuovamente il più grande.
“N...Niente. Voglio solo stare un pochino sola”, rispose lei, titubando appena.

Dedicandole un altro paio di secondi, lo spadaccino la osservò ancora, interpretando il suo lungo silenzio come un non voler continuare a parlare. Era troppo sudato e assetato per fare qualcosa che non fosse il passarsi l’asciugamano sui muscoli e, in tutta franchezza, preferiva impiegare il proprio tempo in qualcosa di più redditizio di una lunga conversazione. L’immagine del sakè comprato dal cuocastro gli ronzava in testa sin da quando aveva messo giù i pesi e vista l’assenza di quest’ultimo, una bevuta coi fiocchi non gliela toglieva nessuno.

“Zoro.”
“Che c’è?” il solo sentirsi chiamare, mandò letteralmente in fumo il suo progetto.
“Se tu….se tu avessi un amico, ma non riuscissi ad aiutarlo…”, iniziò Shion, incespicando con le dita e con le parole “Cosa faresti?”

Come se quella fosse stata una domanda a dir poco indicibile, il ragazzo torse il collo verso la bambina, aggrottando la fronte abbronzata.

“Si, ecco….”, continuò lei “A me piacerebbe aiutare una persona, perché so che non sta bene, ma quando ci ho provato…..”
“Non ci sei riuscita, giusto?”
La bambina annuì debolmente “La guardavo da un po’…sapevo ce c’era qualcosa che non andava, però sapevo anche che non è bello impicciarsi delle cose degli altri. Io volevo…volevo solo….”

Era cosciente di doversi spiegare un pochettino meglio, ma la sua voce si rifiutava di obbedirle. L’immagine di Lars era impressa nella sua testolina e non accennava a volersi schiodare; le emozioni, i sentimenti, tutti i ricordi costruiti erano lì, insieme a quello sconfinato affetto che la univa al ragazzo. Le regalavano un piacevole tepore all’altezza del torace, un sollievo che si accompagnava sempre a un suo piccolo e sincero sorriso. Un dono che aveva provveduto a sostituire la sua curiosità col volere vedere sempre sereno l’albino e sua sorella. Le bastava questo, cosicché la loro amicizia durasse per sempre, ma lo scoprire la propria debolezza e quel brutto peso che la opprimeva aveva oscurato e oscurava tutt’ora quei bei momenti passati. Non riusciva a dargli un nome adatto, era inesprimibile, nonostante lo percepisse nitidamente; calcava la mano in ogni suo angolo emotivo, la scoraggiava e annebbiava ogni soluzione a cui potesse arrivare.

E poi, c’era quella domanda che la spaventava....

“Zoro, secondo te sono debole?” chiese timidamente la piccina, amareggiata.

Seguì un silenzio dalla durata interminabile, dove l’occhio smeraldino del pirata la suggestionò così tanto da farla riprendere a parlare.

“Ecco, io ho… sento come un peso”, confessò lei, indicandosi il minuto torace “E’ così strano, sta sempre nello stesso punto e non riesco a toglierlo. Mi viene ogni volta che penso a La…cioè, a quella persona, ma non so come si chiama…”, si corresse subito “Tu lo sai?”
“No. Non mi è mai importato dare un nome alle cose. Se vanno contro al mio obbiettivo, le affronto e basta. L’esitazione mi costerebbe la vita”, le rispose concisamente.

Il che sottointese l’inutilità del suo cruciarsi per qualcosa di così apparentemente invalicabile. Parlare non era il forte dell’ex Cacciatore di Pirati, ma Shion capì all’istante cosa volesse dirgli con quella frase: era debole agli occhi del ragazzo. La cosa la ferì più di quanto avesse previsto e neppure il ringhiare di Red e il vociare indignato del resto della ciurma – opportunatamente nascosto dietro l’albero maestro - le sollevò il morale.
Zoro non conosceva mezze misure: lui era un tipo che preferiva l’azione al riflettere, l’immediato al prolungato. Un modo di fare che andava a nozze con quello del capitano. L’orgoglio e l’istinto di spadaccino si mischiavano con le sferzate scintillanti che le sue lame producevano negli scontri, caricando l’aria di tensione elettrica e scintillii di colori indescrivibili. Combattere con le proprie spade, allenarsi morbosamente come solo un pazzo devoto alla propria scelta sapeva fare, equivaleva a respirare. Il sangue si scaldava, gonfiandosi di adrenalina e tutto il corpo diventava più leggero, troppo se non si faceva attenzione. Una sensazione palpabilissima, che vibrava ogni qualvolta il ragazzo stringeva l’elsa delle proprie katane, da tenere attiva con la propria ostinazione. La sua intera esistenza si riduceva a ben poche cose, tutte importanti, tutte riunite su quella nave. Ma c’era una domanda che poteva incrinare quell’ammirevole costanza. Una domanda così naturale e spontanea che Shion non aveva faticato a formulare nella sua piccola e pensierosa testolina.

“Esitare è pericoloso..”, mormorò fra sé e sé. Poi, alzò la testa automaticamente “Ti è mai capitato di farlo? Di esitare?”
“Come a chiunque”, le rispose, grattandosi distrattamente la chioma verdastra “Con la differenza che ho imparato a tenere lontano il lusso di concedermelo.”

Anche uno come lui, che non si era mai tirato indietro o rifugiato in una qualche realtà illusoria, aveva sperimentato a proprie spese quanto le parole – in particolare, quelle più salde e importanti – potevano venire spezzate.

Mihawk era stato il primo a mostrarglielo, Orso Bartolomew il secondo.
Entrambi maledettamente forti, entrambi maledettamente irraggiungibili e fin troppo capaci di rompere le sue due più solide promesse. Lo spadaccino più forte di tutti gli oceani aveva squarciato la sua carne e la sua presunzione con un solo fendente, costringendolo ad aprire gli occhi su quanto lavoro dovesse ancora fare per realizzare il sogno suo e di Kuina, mentre l’altro lo aveva fatto scomparire da Shabondy, sancendo quella seconda sconfitta che, teoricamente, non avrebbe mai dovuto verificarsi.
Era stato umiliante, devastante e, cicatrizzate o meno, quelle ferite influivano tutt’ora sulla sua volontà.

“Cos’è? Pensavi che non fosse possibile?” le chiese Zoro, notando l’espressione incredibilmente sorpresa di lei.
“Ah…io…si”, ammise lei, arrossendo e gesticolando nuovamente con le dita “Io vi ho sempre visti così forti….” si interruppe nell’accorgersi di come l’occhio smeraldino dello spadaccino la stava osservando con maggiore autorità; sapeva di tacito rimprovero e provvide a legarsi la lingua.

Nonostante volesse un mondo di bene al suo papà e al lavoro che faceva, il mondo piratesco l’aveva sempre affascinata. Sua madre era sempre stata contraria a parlarne, considerava quella realtà pericolosa e piena di persone spregevoli, ma questo non aveva impedito alla bambina di avere un quadernino pieno di foto segnaletiche e ritagli riguardanti i fuorilegge che più l’affascinavano. Aveva sempre ammirato i pirati di Cappello di Paglia, ma non aveva mai riflettuto sul fatto che anche loro fossero degli esseri umani.

“Scusami, Zoro, io non…”, tentò di rimediare la piccina.
“Non devi: due anni fa la pensavo esattamente come te”,  la fermò lui.
“Eh?”
“Pensavo di essere forte, abbastanza da sconfiggere qualsiasi ostacolo mi si parasse davanti”, le rivelò, sedendosi a gambe incrociate davanti a lei “Ho giurato sul mio onore e a Rufy che non avrei mai più perso contro qualcuno. Ne valeva del mio sogno e di una promessa che ho fatto a una mia amica, ma venendo a meno sia a questa che a quella fatta al capitano, non ho fatto  altro che deludere me stesso.”

Mandare al diavolo il proprio orgoglio di uomo, chinare la testa davanti a quello che rappresentava il suo più grande ostacolo per la realizzazione del proprio sogno e riconoscerne la superiorità era stato necessario e bruciante allo stesso tempo . Lo aveva fatto di sua spontanea volontà, senza nessuno che gli puntasse una pistola alla tempia, con la chiara consapevolezza di dover mettere da parte la propria testardaggine per poter migliorare come desiderava.

“Però, adesso sei qui”, mormorò Shion “E sei forte.”
“Lo sono perché voglio esserlo”, le rispose severo. Poi, con un gesto del tutto inaspettato, allungò il braccio verso di lei e le picchiettò il dito indice contro la fronte “Piagnucolare non ti servirà ad aiutare le persone che ti stanno a cuore. Non stare a chiederti cosa puoi fare, concentrati su cosa sai fare e impegnati di conseguenza. Diventa più forte.”
“Concentrarmi…su cosa so fare?” ripeté, scandendo lentamente le parole dettele.
Diventare più forte?

Se non si riusciva in una cosa, ci si riprovava ancora e ancora. Impegnarsi e non arrendersi, capire e far proprio l’errore commesso. Questo significava migliorarsi, diventare più forte, ma nonostante ciò le fosse stato ben insegnato, a Shion suonò come qualcosa di nuovo e di mai udito prima.

“Scusa, Zoro, non ti seguo bene…”, si mostrò confusa lei.
“Ognuno di noi ha il proprio ruolo, su questa nave”, cercò di venirle incontro lui “Io sono uno spadaccino perché ho deciso di seguire la via della spada e se venissi meno a questo stile di vita, disonorerei  me stesso e i miei compagni. Sono quello che sono per le scelte che faccio e per quello che so fare ed è questo che mi permette di essere forte e proteggere gli altri della ciurma. Tu sei tu per le stesse ragioni, devi solo capire cosa puoi fare con quello che hai.”
“Quello che ho?”

Corrucciò il visino rosato, intensificando lo sforzo contro quel disordine che regnava nel suo minuto corpicino; c’era un continuo accavallarsi di sensazioni strane, parole e tutta una serie di cose che Shion non riuscì neppure ad afferrare in maniera grossolana e generale. Stava con le spalle al muro, senza niente che la potesse aiutare, senza qualcosa che le permettesse di comprendere quali, fra le poche cose che sapeva fare, fosse la più giusta per aiutare Lars. Il puro e innocente affetto che serbava nel suo cuoricino scalpitante non faceva altro che imporle quel riflettere mai sperimentato, quello scavare in se stessa al fine di trovare la risposta a tutte le sue preoccupazioni. Chiedere aiuto non era ammesso: le sfumature verdastri che dipingevano l’occhio smeraldino di Zoro erano riluttanti all’idea di qualsiasi appoggio o indizio che le facilitasse il compito. Perfino Red se ne era accorto.

“Penso di aver capito quello vuoi dire” esordì poi la piccola, col morale più allegro e saltando giù dall’altalena “Grazie, Zoro! Ci rifletterò su!” e corse via con la scimmia Cresta di Fuoco appresso.
“Buon per lei”, bofonchiò quello, massaggiandosi il collo.
Se non altro, ora poteva dedicarsi alla ricerca del sakè in tutta tranquillità. Conoscendo quel dannato cuoco riccioluto, doveva aver sicuramente imboscato le bottiglie in uno dei nascondigli segreti della cucina.
“Zoro.”
Non era nemmeno arrivato a metà della rampa di scale, che il ragazzo dovette girarsi e guardare il visino di Shion sorridergli.
“Adesso che c’è?” brontolò lui.
“Secondo armadietto a destra dei fornelli” disse lei, con le mani dietro la schiena.
“Eh?” e la guardò con la fronte aggrottata. Ma che accidenti voleva dire?
“Ha un doppio fondo”, gli rivelò la piccola “E’ lì che Sanji nasconde il sakè, ma non dirgli che te l’ho detto io.”
Un  grato e furbesco ghigno fece capolino sulle labbra del pirata “Sarò un tomba”, le assicurò.
 
 



Un aggiornamento prima delle vacanze natalizie mi sembrava giusto, visto che è da una vita che non aggiorno questa storia. Chissà che durante le vancanze non mi venga la giusta ispirazione. Auguro a tutti voi un felicissimo Natale e un indimenticabile Capodanno! A presto!
  
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > One Piece/All'arrembaggio! / Vai alla pagina dell'autore: KH4