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Autore: TheMask    19/12/2012    1 recensioni
Bene, buon salve Efpiani sul fandom del death note!
Questa fan fiction, è collegata a Bakup: http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=828114&i=1
Ma anche se non l'avete letta, potete comodamente capire questa.
Si è a tre mesi dalla morte di Mina, una componente di un gruppo di amici formatosi in un orfanotrofio/gabbia-di-matti diretto da un satanicissimo Wammi. Il sudddetto orfanotrofio, è stato fatto chiudere per via di metodi non molto ortodossi usati la dentro sui ragazzi e bambini.
BB decide di tornare nella camera di Mina, sua grande amica, cercando qualcosa come un diario che gli sveli il misterioso passato di essa e trova molto molto di più...
Avverto che lo stile non è come quello di Bakup, ma forse un po' più... sviluppato. Spero ancora che vi piaccia! :D
Estratto:
Mina era morta da tre mesi precisi quel giorno. Il giorno in cui con un grande sforzo, declinando l’invito di L a venire con me, ero uscito di casa con una grande borsa nera sulla spalla, salito in macchina e guidato fino al grande edificio circondato da un prato ormai selvaggio con una grande targa dorata sul cancello: la casa di Wammy.
Genere: Dark, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai, Shoujo-ai | Personaggi: Beyond Birthday, L, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Era notte fonda, quando mi svegliai. L non era di fianco a me, come immaginavo: spesso la notte stava alzato a risolvere casi o più semplicemente a strafogarsi di torte intanto che io non lo trattenevo…
Soffriva di insonnia a differenza di me che, quando volevo, potevo dormire per ore senza che una bomba atomica potesse svegliarmi, tranquillo come un bambino. Mi venne in mente una volta che mi ero svegliato con gli occhi del panda davanti e mi aveva praticamente fatto venire un infarto. E come risposta al mio spavento lui si era messo a ridere. Alzai gli occhi al cielo al solo ricordo ed entrai nella cucina. Lo trovai seduto a tavola, con in mano una generosa fetta di torta alla panna e il quaderno di Mina davanti, chiuso.
“L?”
“Oh, BB, vedo che ti sei svegliato! Vuoi favorire della torta?” mi domandò con un piccolo sorriso.
“No grazie, non ho molta fame. che cosa stavi facendo?” risposi, mentre lui si mangiava un gigantesco boccone di torta, suo tipico.
“Mmf… niente di che. Mi chiedevo se fosse il caso di leggere ancora un po’, ma mi frenava il fatto che tu non ci fossi.”
“Ora ci sono, se lo desideri possiamo andare avanti.”
“Cosa ne pensi di ciò che abbiamo letto ieri?”
“Cosa ne dovrei pesare scusa?”
“No, niente. Qualche ragionamento sulla morte dei genitori? Dopotutto non hai ancora mantenuto fede alla tua promessa di raccontarmi tutto di te, no?”
“L… vado in bagno un momento.”
“Bella scusa. Non ce n’è bisogno, quando vorrò davvero saperlo, lo saprò.”
Sogghignai alla sua sicurezza, e mi sedetti di fianco a lui, per poi avvicinare il diario e aprirlo alla pagina alla quale eravamo  arrivati.

La scelta cadde su una canzone chiamata Knockin' On Heaven's Door
(http://www.youtube.com/watch?v=2tmc8rJgxUI)
Cominciai a fare i primi accordi, studiando ansiosamente la reazione della gente: alcuni mi lanciavano un’occhiata di sfuggita e andavano avanti pur riservandomi un piccolo sorriso, pochi si fermarono ad ascoltare, altri ancora parevano non accorgersi affatto di me.
Infine, decisi di immaginarmi di essere sola con il mio migliore amico di allora, un bassista pazzo e pieno di problemi che però trovava sempre il tempo di ascoltarmi cantare e di darmi consigli.
Lo pensai seduto davanti a me, a guardarmi con quell’aria a metà fra la risata e la critica a gambe incrociate, con il basso nero in braccio. E per puro miracolo, riuscii a estraniarmi da tutto ciò che mi circondava e diedi il massimo per quella proiezione della mia mente, pur così familiare.
Quando ritornai alla realtà, alla fine della canzone, la prima cosa che vidi, fu la faccia di una signora che teneva il manico di un grazioso passeggino che mi sorrideva apertamente e maternamente. Intorno a me si era formato un piccolo capannello di gente e alcune monete erano cadute nella custodia della chitarra: la mia cena.
Mi sentii decisamente rincuorata e feci a quelle persone un gran sorriso, pensando alla canzone che avrei cantato per seconda. La scelta cadde su una canzone che mi era sempre piaciuta tantissimo: Suzanne, di Cohen.
 (http://www.youtube.com/watch?v=otJY2HvW3Bw)
Quando intonai le prime parole, ero molto più rilassata di pochi minuti prima. Non pensavo più alla mattina di quel terribile giorno. Ne pensavo al futuro che si profilava stentato e pieno di orrore. Pensavo solo al presente. Quei volti attorno a me, che come una fragile campana di vetro mi proteggevano da ciò che c’era all’esterno, mi circondavano e mi facevano sorridere fra le parole.
Alcuni, lo si vedeva negli occhi, erano persi nella melodia che forse ricordava loro qualcosa di lontano.
Finii anche quella canzone, ma non mi fermai. Cantai invece altre tre canzoni che piacquero al piccolo e variegato pubblico, tanto che quella sera a cena mi permisi una pizza con le olive e una lattina di coca cola.
Mentre, seduta su una panchina, mangiavo e bevevo, cominciò a piovigginare e il problema della notte si fece ancora più insistente nella mia testa: dove avrei dormito?
Vagai alla cieca per le strade, cambiando marciapiede appena vedevo qualche barbone. Vidi per la prima volta una prostituta, asiatica, che mi squadrò dall’alto al basso.
Alla fine mi rintanai in un vicolo, dietro e sotto alcune scatole da fruttivendolo. Fu una notte orribile.
La mattina mi svegliai con la schiena a pezzi, la chitarra stretta fra le braccia, una fame lancinante e una puzza di vomito nel naso che proveniva dal fondo del vicolo. Mi alzai, guardandomi intorno, ma fortunatamente non c’era nessuno. Così mi misi la chitarra sulle spalle e ripresi a camminare. In un bar presi una brioche per fare colazione e la trovai stantia, ma la mangiai lo stesso. La fame però non si attenuò. Quanto desideravo la colazione che preparava di solito mia madre. Però mi impedivo di pensarci. Non potevo permettermelo. Così andai avanti a camminare, cercando di capire in che zona di Londra fossi e scoprii di essere a Brixton. Fui costretta dalle circostanze a prendere un biglietto per la metropolitana e mi ripromisi di stare più attenta a dove mi portavano i piedi. Tornai in centro e feci alcuni concerti in giro per la zona, guadagnando tanto da permettermi di prendere delle economiche caramelle per la gola. Evitai di guardare i giornali nelle edicole, per paura di leggere titoli sulla mia famiglia. E su di me. Avevo paura di me stessa in quel momento. Di quello che avevo fatto.
Camminai tantissimo per i miei standard, e capii che sarebbe stata la mia routine. Suonavo, suonavo e suonavo ancora. Ma ero sempre più disperata. Le facce della gente sembravano sempre meno calorose, nel fondo dei loro occhi leggevo sempre che erano tristi. Ed erano così anonimi, certi. Ancora una volta mi frenai poco prima di pensare al mio incerto futuro. I miei giorni in strada erano faticosi e lunghi. Mai prima di allora mi erano mancate le mie amiche, la scuola, i professori… la mia vita. Mi sentivo così spaesata! Non riuscivo a pensare che avrei dovuto vivere quella vita per sempre, e ogni mattina mi svegliavo sperando di essere nel mio vecchio e comodo letto. Ma scoprivo di essere in stazione, su una panchina, per terra. La mia vita fu terribile per poco più di un mese, poi, proprio quando stavo per cedere,  una nota di colore decise di venirmi incontro. Stavo camminando in un parco, in mezzo ai numerosi alberi, mangiando un panino al prosciutto, quando a un tratto scorsi un movimento. Era una donna, piegata in due vicino a un albero, che si guardava intorno guardinga. Mi nascosi per puro istinto e quando mi girai, la donna non c’era più. Incuriosita, mi avvicinai all’albero dove l’avevo vista. Più mi avvicinavo più mi sembrava che qualcosa si muovesse sotto l’erba alta. Infine, mi accucciai davanti all’erba che si muoveva in modo anomalo e la scostai d’un colpo. Immaginati, mio bel lettore, che sorpresa provai nel vedere un piccolo cucciolo di cane nero guardarmi con gli occhietti lucidi e le orecchie tese.
Avvicinai la mano al suo musino ed essa venne accuratamente analizzata dal mio nuovo amico che decise che ero una tipa di cui fidarsi e mi leccò l’indice, per poi lanciare una specie di guaito e rotolarmi incontro. Sorrisi e lo presi in braccio, guardandolo. Si vedeva che sarebbe diventato un cane grande, aveva un musino destinato a diventare lungo,  un orecchio dritto come una puntina e l’altro piegato comicamente.
“E tu chi sei?” gli chiesi con una carezza.
Insomma, finì che lo adottai. Ma cosa potevo fare, lasciarlo in mezzo al parco? Così gli diedi metà del panino, un nome e una corda perché non finisse sotto una macchina.
Lo chiamai Nacho dell’Orecchio e lo tenni con me ovunque andavo. Avevo sempre desiderato un cane, e ora, nel momento in cui ormai non ci pensavo da molto tempo, eccolo cadere fra le mie braccia!
Era un cucciolo intelligente e coraggioso, anche se n po’ imprudente. Pensava che i miei capelli verdi fossero qualcosa di unico e passava metà del suo tempo a tentare di salirmi in testa i primi tempi. Poi vide un ragazzo coi capelli quasi dello stesso colore e la smise grazie a dio.
fu veramente una nota di felicità in quel periodo della mia vita, uno dei peggiori.
Ogni volta che vedeva le mie lacrime, mi saltava in braccio e mi si stringeva al petto. Ogni volta che avevo bisogno di parlare mi guardava dritto negli occhi e alzava l’altro orecchio. E ogni volta che vedeva un mio sorriso lanciava un versetto di gioia e faceva una giravolta. Passarono ancora due mesi. Non mi capacito del fatto di poter racchiudere quei giorni in una frase di sole quattro parole, così banali e semplici. Furono un vero inferno infatti. Ogni giorno era diversamente terribile e se non ci fosse stato quel cane non credo ceh l’avrei superato. Spesso, troppo spesso, guardavo con una sorta di melanconico desiderio le rotaie della metropolitana, ma non arrivai mai a toccarle.
Poi, per la terza volta, la mia vita cambiò. Stavo cantando una canzone dei Beatles quando vidi, insieme a una moneta da un dollaro nella mia custodia cadde un foglietto. Appena smisi di cantare, dopo aver messo via i soldi, lo raccolsi cautamente, chissà cosa mi aspettavo. Lessi, in una frettolosa calligrafia un indirizzo non molto lontano da li e una breve frase: è un centro di accoglienza per quelli di strada.
Mi stupii che qualcuno si fosse preoccupato per me e diffidai per qualche momento di quell’indirizzo. Ma poi, scrollando le spalle e accartocciando il foglietto, mi avviai in quella strada con Nacho al seguito.
Mi ritrovai in una via  molto dimessa e un po’ cadente, davanti a un portone aperto che dava su uno squallido cortile. Mi feci coraggio ed entrai, facendo risuonare per la prima volta i miei passi in quel posto.
Ricordo distintamente che quel giorno pioveva ancora e più che mai quella mattina, avevo desiderato un letto in cui infilarmi, un tetto che mi riparasse la testa, uno scudo fra me e il mondo a cui ormai appartenevo.
Ero dunque fradicia quando entrai, accompagnata da Nacho nell’ingresso dell’edificio, oltre il cortile scarno e puzzolente. L’atrio era vuoto e freddo, ma vidi una rampa di scale di un bianco sporco e decisi di salire. Dopo tutto cos’avevo da perdere? A ogni gradino che facevo mi domandavo se fosse prudente continuare a salire. Alla mia destra, sul muro, c’era una macchia rossa e densa, che poteva essere sangue rappreso, e per terra, al quinto gradino capii il perché della puzza di vomito che avevo sentito poco prima, vedendo una larga macchia verde e liquida che mi affrettai a superare. Sembrava che quel posto non avesse mai visto un detersivo o un moccio.
Ma nonostante l’odore, continuai a salire. Arrivata al primo pianerottolo, sulla porta vidi una targa in finto ottone che diceva: “Centro di accoglienza per giovani di strada”.
Allora era vero, qualcuno si era preoccupato per me! Quasi non ci credevo. Cautamente, aprii la porta e vidi un ingresso con una minuscola scrivania sommersa di fogli e dietro di essi una donna bruna che lavorava. Appena sentì la porta aprirsi, alzò lo sguardo e mi rivolse un caldo sorriso. Mi accorsi di non riuscire a rispondere a quel gesto. Così rimasi ferma sulla porta, impassibile, con Nacho di fianco e la chitarra a tracolla insieme alla borsa con la cinghia allentata.
La donna bruna si alzò e mi si avvicinò porgendomi la mano e presentandosi. Disse di chiamarsi Katie e di essere una volontaria che lavorava li qualche giorno la settimana. Io le risposi stringendole la mano e accennando al fatto di chiamarmi Mina.
“Vuoi fermarti qui per un po’? basta che firmi li e avrai una camera tutta per te, la colazione e la cena ogni giorno. La domenica anche il pranzo! Ti va allora?” mi chiese con una gentilezza che avevo dimenticato.
Guardai un momento il mio cane, che annusava la ragazza tutto felice.
“Emm… ma se mai desidererò andarmene potrò farlo senza vincoli, vero?” le chiesi, pur pensando che avevo ben poche possibilità di trovare un modo per uscire dalla mia situazione.
“Certo che si! Puoi andartene quando vuoi se lo desideri! Dunque, firmi?”
“Ok.” Risposi, prendendo la penna che mi porgeva e mettendo la mia firma su un foglio.
“Bene, ora se mi segui ti mostro la tua camera!” esclamò la bruna soddisfatta incamminandosi per il corridoio.
In quel momento decine di domande mi infestarono la testa. Stavo per trovare una casa? Stavo per cambiare vita? E come? Sarebbe stato bello? Sarebbe stato terrificante? Avrei incontrato qualcuno di simpatico? Mi sarei emarginata? Avrei fatto qualcosa nella mia vita? Quanto sarei rimasta li? Tutta la vita? Pochi giorni? Qualche mese? Avrei conosciuto qualcuno con cui suonare? Avrei vissuto male? Bene? Così e così?
Poi, la bruna aprì una porta e mi lasciò sola davanti alla mia nuova camera. alla mia nuova casa. Aveva le pareti completamente bianche e il pavimento in legno. Un letto rifatto stava a sinistra, contro il muro, e alla sua destra avevano messo una piccola scrivania e una sedia. Sull’altra parete un armadio e di fianco a me un paio di scaffali con qualche libro riposto. Non era un granché ripensandoci, ma a me sembrò un paradiso! Una stanza tutta per me! Con addirittura una serratura e una chiave! Fu allora che il corso di danza diede i suoi frutti e senza pensare cominciai a danzare per la stanza, con Nacho che saltellava intorno contento. Volteggiavo tra ciò che sarebbe stata la casa dei miei pensieri da quel giorno stesso, anzi già lo era! In quel momento, da quel momento, sarebbe stata la custode dei miei sogni, dei miei pianti, delle mie risa, dei miei ricordi, di tutta la mia esistenza, di me insomma! Ero completamente estasiata da quelle quattro mura, soprattutto da quando, avvicinandomi ai libri avevo visto che il primo titolo era quello del mio libro preferito: Romeo e Giulietta! Un’ombra di familiarità passò sul mio volto, mentre lo prendevo e lo aprivo, trovavo la pagina che cercavo e cominciavo a recitare.
Romeo, Romeo, perché tu sei Romeo?

Anche senza il suo nome, la rosa avrebbe il suo profumo e così Romeo, anche senza il suo nome, sarebbe caro com’è!

Non sei Romeo, uno dei Montecchi?
Ne l’uno ne l’altro se non ti è caro ne l’uno ne l’altro!

Sono alti i muri del giardino e aspri da scalare!

Quanti ricordi riaffiorano in me solo a scriverle, queste parole! Mi ricordo che mentre recitavo mi sembrava di vedere i volti dei miei compagni di teatro e di sentire le loro voci! Ero così felice in quei momenti! Dopo aver finito di recitare mi buttai sul letto (e non ci fu modo di convincere Nacho che non doveva dormire insieme a me… ) e in poco tempo, sfinita, mi addormentai così com’ero.

Chiudemmo il libro.
“Allora L, cosa ne pensi della nostra Mina?”
“Sapevo che nascondeva misteri, ma non sapevo che fossero di questo genere. Certo è che ne ha passate di belle e che sono molto combattuto: da un lato sono molto curioso di sapere tutto del suo passato, dall’altro… ”
“Dall’altro?”
“Dall’altro diciamo che mi sento un po’ indiscreto. E non voglio prendere questa questione in modo diverso da quello che è: cioè una questione personale. Ho paura di ricadere nel mio spirito investigativo e trattare la faccenda freddamente. Capisci quello che intendo? Ho paura di leggerlo come si legge un libro. Cosa dovrei fare?”
“L, se ti fai queste domande vuol dire che non lo stai prendendo come un libro, anzi il contrario.”
“Sai sempre cosa dirmi tu, vero?”
“Esattamente. Cos’ho da fare oggi?”
“Sei impegnati tutta la mattina.”
“Che felicità… ”
“Perché non ti piace il tuo lavoro?”
“Assai, ma quando a casa c’è qualcosa di tanto gustoso…”
“Ti aspetterò per leggerlo, non ti preoccupare…”
“Ma io non intendevo il diario, L.”

  
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