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Autore: Klavdiya Erzsebet    22/12/2012    1 recensioni
Parte della serie Until Death Do Us Part
(Tornano Greg e Sophia Lestrade protagonisti. È dichiaratamente romantico, anche se l’amore non è il genere principale. E pensare che non credevo di essere capace di trattarlo anche solo minimamente.)
Una strana malattia colpisce Sophia Lestrade, e un caso particolarmente inspiegabile approda nell’ufficio di Greg. Due misteri, collegamenti inaspettati, una corsa contro il tempo e una modesta ipotesi di come l’amore per la vita abbia potuto portare alla morte: tutto è contorto. Talvolta è difficile determinare l’impossibile.
{Attenzione: fanfiction Greg–centrica a livelli vergognosi}
Genere: Mistero, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Lestrade , Nuovo personaggio, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Until Death Do Us Part'
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Cap.XIV

Phoenix

 

C’era una bella ragazza nella stanza d’ospedale di Sophia Lestrade. Abbronzata, vestiti succinti, capelli lunghi e scuri e labbra dipinte di rosso. Era sporca di sangue (doveva essere Annemarie, Annabel, o come si chiamava). Le sue impronte sporcavano il pavimento dell’ospedale in tutte le direzioni: fuori e dentro dalla stanza, fuori e dentro dal reparto, e John le vide anche disegnare un percorso che usciva dall’ospedale. Doveva essere nervosa.

Gli lanciò un’occhiata sola, non particolarmente interessata. Avrebbe dovuto dirle di allontanarsi. Dio mio. Sophia era contagiosa.

Sherlock gli aveva detto quelle cose nella stanza del motel e sull’ambulanza – quelle cose incredibili che come mai prima di allora gli avevano fornito un’idea precisa di cosa davvero significasse essere dalla parte di Sherlock Holmes.

In qualche modo voleva dire essere disposti a credere a cose disumane e impossibili e definibili con qualunque altro aggettivo che fosse l’opposto di normali, o semplici. John non ci aveva capito granché.

L’immersione di Sherlock nella follia del caso era stata totale. Aveva usato termini senza senso come Burattinai, Esecutori, Capostipiti. E la cosa peggiore era che non aveva prove per affermare che poverino, gli era andato in pappa il cervello.

Ma lui era l’assistente di Sherlock Holmes: l’unica persona che, per grazia divina (o punizione), era stata scelta per stare al suo fianco e aiutarlo e sopportarlo (anche se alla fine non era sempre così difficile). Doveva avere una qualche struttura mentale particolare, per sopportarlo, o cose del genere. Quando Sherlock parlava, lui doveva crederci – e lui si fidava, lui ci credeva, perché glielo diceva lui e non importava se il prezzo era la sua salute mentale o la sua reputazione. Lui credeva in Sherlock Holmes.

Quindi doveva tenere lontana Annemarie (o Annabel o come si chiamava); ora che sapeva quelle follie, Sophia era più importante e pericolosa ai suoi occhi (Sophia Lestrade era la prima pedina di un gigantesco domino che puntava all’intera specie umana. Pazzesco. Folle).

Aprì la porta timidamente e si schiarì la voce, cercando una bugia credibile.

“Mi scusi. Chi è lei?”

“Stephen” disse d’istinto. “Il fratello di Sophia”.

Cercò di apparire affranto; non ce ne fu bisogno. La ragazza annuì con aria grave. “Buongiorno” lo salutò con tono rispettoso. “Io sono Annabel. Un’amica di sua sorella”.

“Oh” disse John. “Oh. Sì, Greg mi ha detto… che è stata lei a chiamare l’ambulanza per mia sorella. Beh, grazie. Si sa già cosa…?”

“No” rispose Annabel. Sembrava abbattuta, priva di forza, depressa.

“Potrei restare da solo con…?”

“Certo”.

“Arrivederci. Grazie”.

“Di niente”.

Annabel richiuse la porta dietro di sé con attenzione, lanciando a John e Annabel un ultimo sguardo a metà tra il triste e preoccupato. Il dottore aspettò che il rumore dei suoi passi sparisse.

“Sophia” chiamò quando no la vide più. “Sophia…?”

La donna nel letto sembrava dormire; la carnagione chiara era ancora più pallida e il suo volto sembrava quasi verdastro. John ricordò il suo aspetto quando le aveva riportato a casa Greg ubriaco. Non era molto diverso da come appariva ora.

D’improvviso aprì gli occhi scuri – ma non marroni, quello no. Quando John era bambino, un sacco di gente scambiava i suoi occhi per marroni – ma erano blu, e probabilmente non l’avrebbero mai capito. Alla fine aveva sviluppato una sorta di attenzione particolare per gli occhi della gente (come se quelli di Sherlock necessitassero di un’attenzione particolare per venire notati, davvero). Ne concluse che senza ombra di dubbio gli occhi di Sophia Lestrade erano verde scuro e grandi.

“Sophia” la chiamò di nuovo. Lei sorrise.

“Dottor Watson” disse pacata. A John fece quasi impressione: ricordava il suo nome. “Buongiorno. Dov’è Greg?”

Il suo viso era stanco ma sereno, tranquillo. Si rese conto che avrebbe dovuto deludere orribilmente le sue aspettative. “Greg è…”. Gli occhi di Sophia gli sorrisero, incoraggianti, e John ebbe paura di non averne il coraggio. Non si era mai chiesto cosa pensassero le famiglie dei soldati morti – qualche volta aveva pensato a come avrebbe reagito Harry se lui fosse stato ucciso in missione, ma era una cosa troppo oscura e dolorosa per indugiarci per più di qualche attimo nel silenzio teso della notte, in tenda. “…è stato ferito stanotte, non sappiamo ancora come. Sospettiamo che sia collegato al caso su cui stava indagando”.

Sophia sgranò gli occhi e lo guardò fisso – rivolse il viso verso di lui mentre era chiaro che la sua mente era sprofondata in un’oscurità densa e fitta che John conosceva bene. Si chiese se non facesse meglio a dire a Sophia cos’era successo precisamente a Greg, ma ripensandoci si rese conto di non sapere esattamente nemmeno lui quante ferite gli fossero state inflitte.

Le diede qualche istante per realizzare l’accaduto e quando la vide chinare lo sguardo le afferrò d’istinto la mano; pensò a Greg, e all’espressione dei suoi occhi neri ogni volta che parlava di lei.

D’improvviso la porta si aprì e John sobbalzò; “Mi scusi, Stephen” gli disse Annabel con aria trafelata. “Sophia!” esclamò contenta. “Ti sei svegliata… ero così preoccupata… è venuto tuo fratello a trovarti, hai visto?”

Il viso di Sophia si corrucciò per un singolo istante prima di rilassarsi nuovamente, con naturalezza. “Già” confermò e strinse ancora di più la mano di John. Appoggiò la testa al cuscino e chiuse gli occhi, sospirando; era stanca. “Lasciamola dormire” disse John – un’ordine detto con voce gentile; guidò Annabel fuori e richiuse la porta alle proprie spalle.

Si appoggiò allo stipite con la schiena e sbadigliò sonoramente. Sherlock gli aveva detto che sarebbe andato da Greg; ci avrebbe messo un po’, pensò. Si sedette su una sedia di plastica nel corridoio, reclinò la testa all’indietro e chiuse gli occhi. Probabilmente si sarebbe addormentato, e non era una cosa del tutto spiacevole; se non fosse stato per la certezza che, risvegliandosi, il collo gli avrebbe fatto decisamente male.

Avrebbe dovuto scoprire come stava Greg. Si sarebbe dovuto alzare. Avrebbe dovuto fare un’altra dozzina buona di cosa (le piante! Le doveva bagnare per Mrs. Hudson. Merda).

 

***

 

Sherlock osservò i medici armeggiare intorno a Greg e rimase in disparte, cercando qualunque indizio sul corpo dell’ispettore. Gli avevano sparato poco più su rispetto alla caviglia (preso di striscio); la gamba destra dei pantaloni era insanguinata.

Assottigliò gli occhi e aspettò qualche istante. Ripassò la parte – probabilmente non avrebbe nemmeno avuto bisogno di parlare. Aveva detto che John era appena arrivato lì per cercare una stanza quando aveva trovato Greg, perché aveva avuto la certezza matematica che John era troppo agitato per giustificare la sua presenza lì ai soccorsi. Sherlock invece se ne era stato zitto e li aveva lasciati fare le loro deduzioni. Si era costruito un alibi – era andato a fare un acquisto urgente per Greg, aveva trovato il negozio chiuso e quando lo aveva raggiunto nel motel lo aveva trovato in quello stato. John avrebbe detto di averlo visto a quell’ora, quando era stato svegliato da uno Sherlock allarmato che cercava di entrare nella camera di Greg. Più semplice di così. (Greg lo aveva chiamato poco prima del loro arrivo. Un’altra prova a suo favore).

“Come sta?” chiese preoccupato a un’infermiera. Era consapevole di come cambiasse il suo sguardo quando recitava.

Quella sospirò, abbassando gli occhi. “Starà bene. Lo hanno… torturato, sembra” lo informò con voce grave.

Sherlock alzò la testa verso il soffitto con un sospiro, per scacciare la donna; doveva sembrare preoccupato, distrutto, stupito, mentre in realtà stava pensando. Evidentemente Greg aveva scoperto qualcosa (le stesse cose che aveva scoperto lui?).

Scivolò via fino all’uscita, chiamò un taxi e vide che faceva ancora buio e nevicava. Diede l’indirizzo di Baker Street al conducente e rimase a guardare la città scura fuori dal finestrino. Non era stanco. Dormire era secondario.

Scese e disse al tassista di aspettarlo; prese il portatile di John, dei vestiti puliti di John e pensò all’espressione di John quando glieli avrebbe fatti avere. Risalì nell’auto in fretta e disse al conducente di tornare all’ospedale. Mancava poco all’alba.

Il tassista sembrava indiano e guidava lentamente; eppure Sherlock non aveva tempo. “Più in fretta” gli ordinò e l’uomo ubbidì. Probabilmente pensò che fosse in ansia per qualcuno che era in ospedale; il detective non riuscì ad ammettere che alla fine era vero.

“Eccoci” disse con accento indiano il tassista, fermandosi. Sherlock pagò e scese.

Ebbe l’istinto di mettersi a correre e urtò un paio di infermiere col camice azzurro che se ne stavano in mezzo a un corridoio. Raggiunse il reparto dov’era Lestrade e si fermò, senza sentire il bisogno di riprendere fiato. “Come sta?” domandò nuovamente con lo stesso tono ansioso a un altro infermiere – giovane e inesperto, come diceva chiaramente il suo camice. Sherlock fissò Greg accelerando il respiro.

“Sta dormendo” gli rispose il ragazzo.

“Grazie a Dio. Posso entrare?”

“È un suo parente?”

“Il mio…”

“Okay”.

Il ragazzo (australiano, poca esperienza, ventisei anni) non aveva alcuna voglia di approfondire la spinosa faccenda a quell’ora e lo lasciò entrare senza fiatare, avviandosi con il passo rilassato di chi ha tutto il tempo del mondo verso il reparto di terapia intensiva e – soprattutto – verso la macchinetta del caffè.

Sherlock aspettò che anche l’ultima infermiera si voltasse e si lanciò sull’unica sedia della stanza – piccola e scomoda, in plastica rossa. Prese il pc e lo accese; la sua mano si mosse violentemente in un gesto di rabbia incontrollato quando vide che c’era fin troppo tempo da aspettare. Odiava il pc di John. Era terribilmente lento e vecchio.

Lanciò uno sguardo critico a Greg; era insolitamente pallido e sul viso aveva pochi segni. Aveva un taglio sul petto, un proiettile nella gamba e una spalla malandata. Avevano tentato di strangolarlo; i segni erano quelli di mani piccole, femminili.

Con un suono limpido e breve il computer gli comunicò che era pronto; Sherlock tornò in pochi secondi a La scienza del Male. Andò fino in fondo alla pagina. Era stato messo lì da una certa Phoenix.

Sherlock si infilò una mano in tasca e prese il cellulare; guardò l’ora e vide che erano già le sette. Anderson doveva essere già sveglio, e se non lo era avrebbe dovuto svegliarsi. Non si sarebbe arrabbiato per una chiamata – decisamente importante, poi.

“Pronto?” rispose la sua voce assonnata. Troppo gentile per essere quella di qualcuno che ha riconosciuto il numero di Sherlock Holmes.

“Pronto, Anderson. Cosa mi sai dire di Phoenix?”

Uno, due, tre. Tre secondi per far elaborare la cosa alla mente ancora semiaddormentata dell’agente. “Sherlock” sibilò. Il detective decise di non lasciargli il tempo di aggiungere altro.

“Lestrade è stato aggredito, è in ospedale. Ho trovato un’ottima pista e potrei risolvere il caso”. Silenzio. Anderson aveva capito. “Dimmi cosa sai di una certa Phoenix – è il suo nickname”

Un sospiro. “È stata in contatto con Chris Lawrence” cominciò l’agente, cauto. “Si sono dati appuntamento da qualche parte, un anno fa, non si sono detti granché. Pare che Phoenix sia morta”

“Sappiamo chi è?”

“Si chiamava Marian Benley. Un incidente d’auto, quasi un anno fa. Strano. Aveva coinvolto anche un’intera famiglia – genitori e due figli, morirono tutti. Il caso era stato affidato alla Omicidi. Nessuno aveva saputo dove sbattere la testa” lo informò inutilmente Anderson, enfatizzando fin troppo la parola nessuno.

Sherlock ricordava quel caso: uno dei suoi pochi irrisolti (Dio mio, non aveva senso! Non avrebbero dovuto scontrarsi. Non ce n’era motivo, però era successo); uno dei corpi sembrava sparito per un problema burocratico particolarmente idiota. Non conosceva ancora John, ma stava già cercando un nuovo coinquilino dopo quel disastro umano di Philip Jones. “Sì, ricordo”

“Chris Lawrence si era interessato a una pagina sul satanismo che era stata messa online da lei – è tratta da un libro di un tale Isadore Blackbourne o qualcosa del genere”.

Isidore Blackbourne”.

“Cosa?”

Isidore Blackbourne. Si chiama Isidore. Non Isadore”.

“Sì, beh, okay. È tutto”.

“Okay”.

Beep, fece il telefono, mentre sullo schermo compariva una cornetta rossa che sparì nel giro di un attimo. Si alzò, tenendo il pc sotto braccio, e si rese conto che Greg, in quello stato, non sarebbe stato di nessuna utilità. Starà bene, aveva detto la prima infermiera. Chiese di nuovo delle sue condizioni – a un medico, questa volta. Fu di nuovo terribilmente vago.

Sherlock si avviò verso la stanza di Sophia, poco lontano. Sperò che John avesse avuto il buonsenso di stare lontano da lei, anche se sospettava che il contagio necessitasse di un contatto fisico ben più stretto della semplice vicinanza (Greg era stato contagiato da Sophia. Oh, già, e l’amante?). Lasciò che la borsa con i vestiti di John oscillasse e sbattesse contro la sua gamba a ogni passo; non si sentiva stanco. Qualunque cosa stesse per accadere, era appena cominciata.

 

A/N: grazie mille ai miei lettori, a chiunque abbia aggiunto questa storia alle seguite/ricordate/whatever o abbia aggiunto una recensione: amore eterno per tutti voi. In particolare un enorme grazie a Thiliol che si è presa la briga di recensire quasi tutti i capitoli e a FiNNiE che mi ha dato un parere ultimo su questa mia creatura :')

Questo moto d'affetto nei vostri confronti è per dirvi che nei prossimi giorni sarò bloccata in un paesino nella Germania sudoccidentale e che molto probabilmente non avrò occasione di rispondere o pubblicare... quindi buon Natale in anticipo, Sherlockians!

  
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