Appartamento
di
Harm
Nulla. Nulla
neppure quel giorno.
Mac non aveva
più continuato il gioco: dopo che le aveva
lasciato la cravatta sulla scrivania, non aveva trovato più nessun
biglietto.
Oh,
dannazione! Cosa gli era saltato in mente di
risponderle a quel modo?
Credeva che
la sua mossa fosse intrigante, la classica
“mossa vincente”, ma ora doveva riconoscere che aveva esagerato.
Probabilmente
lei non aveva apprezzato il gesto, quasi un invito a mettere in pratica
le sue
fantasie, e aveva deciso di smetterla.
Eppure gli
era sembrata l’unica risposta possibile alle
parole che lei gli aveva fatto trovare e che gli avevano fatto andare
di
traverso il tè.
Aveva
apprezzato parecchio la sua audacia: lei sapeva
benissimo che ciò che aveva scritto poteva metterlo in imbarazzo, o
quantomeno
farlo distrarre, confondere, e aveva deciso di divertirsi e far
avvenire il
tutto in pubblico.
La faccia di
Sturgis, consapevole che stava accadendo
qualcosa ma all’oscuro di tutto, era stata impagabile!
Per questo
aveva risposto a quel modo. L’unica cosa che
aveva avuto per la mente durante tutta quella giornata era stata
l’immagine
delle mani di Mac sulla sua cravatta… lasciandogliela sulla scrivania,
era
certo che quell’immagine che lo aveva tormentato per ore si sarebbe
trasformata
in realtà: la cravatta sarebbe stata nelle sue mani.
Se lei si
fosse davvero arrabbiata, si sarebbe aspettato
che il giorno successivo piombasse nel suo ufficio come una furia,
restituendogliela e chiedendogli spiegazioni.
Invece nulla.
Per tre
giorni però gli erano arrivati continui possibili
“porta-messaggi” da parte di Mac: il dossier del caso Grant era passato
nelle
loro mani, per i motivi più svariati – un appunto da leggere, una firma
da
apporre, una trascrizione da correggere…- almeno una decina di volte e
ogni
volta lei chiedeva che le fosse riconsegnato subito dopo. Tiner, che
aveva
fatto da “taxi” al fascicolo, ad un certo punto aveva persino
commentato:
“Certo che
questo caso deve essere davvero importante, Comandante!”.
Poi c’erano
stati il sacchetto con i panini – Mac, ogni
giorno, si era premurata di chiedergli se voleva il pranzo e gli aveva
portato
dei sandwich dal bar all’angolo- e la tazza di tè al mattino e al
pomeriggio,
tanto che lui aveva iniziato ad immaginare che lei avrebbe potuto
mettere un
biglietto persino dentro la tazza, ovviamente senza tè; la busta per
raccogliere i soldi che, come ad ogni Natale, il Jag devolveva in
beneficenza
ai bambini dell’ospedale e il sacchetto contenente il regalo che
avevano deciso
di fare assieme per il piccolo AJ…
Insomma, un
via-vai di possibili “porta-messaggi”. Tutti
assolutamente privi di qualunque foglietto azzurro o anche di altro
colore.
A quel punto,
ormai, era rassegnato che il “gioco” fosse
finito.
Mac, con
quell’andirivieni, si era probabilmente divertita
e si era presa la sua piccola “vendetta”. E lui aveva perso l’unica
occasione
per dare una svolta alla loro storia.
Il suono del
campanello lo sorprese a crogiolarsi
nell’autocommiserazione.
Si alzò e
andò ad aprire: alla porta c’era Jennifer.
“Ciao Jen…
qualche problema? Mattie sta bene?”
“Certo,
Comandante. Stasera dorme da Barbara, ricorda?”
“Oh, sì,
certo. Cosa posso fare per te?”
“Nulla… sono
solo passata a darle questo… “ e gli porse un
pacchetto, lungo e sottile.
“Cos’è?”
“Non lo so,
signore. Credo sia un regalo… stavo entrando
nel portone, quando un fattorino mi ha domandato se conoscevo un certo
Harmon
Rabb… così ho ritirato io il pacco.”
“Grazie Jen”
“E’ strano…
la confezione è identica a quella in cui
vengono solitamente avvolte le cravatte…”
“Cravatte?”,
la interruppe lui, col cuore al galoppo.
“Sì… ma… è troppo
leggero per contenerne una. Pare vuoto…”.
“Ok, vedrò di
cosa si tratta… magari è semplicemente uno
scherzo… Grazie ancora, Jen” disse, congedandola.
Lei lo guardò
un po’ sorpresa, ma alla fine probabilmente
decise che era sufficientemente grande e grosso per aprire un
pacchetto, quasi
certamente vuoto, senza il suo aiuto.
“Di nulla,
signore” e così dicendo si voltò per entrare
nell’appartamento che condivideva con Mattie.
Chiusa la
porta, vi si appoggiò contro e aprì rapidamente
la busta lunga e sottile; non riuscendo ad infilarci una mano, la
capovolse e
cominciò a scuoterla.
Come aveva
ipotizzato Jennifer, non conteneva nulla.
O meglio, non
conteneva una cravatta, come teoricamente
avrebbe dovuto; tuttavia conteneva qualcosa per lui molto più
interessante: un
foglietto azzurro, ripiegato su se stesso.
Staccarmi
dalle tue labbra e perdermi nel tuo sguardo.
Osservare
poi le mie mani, che si muovono dotate di volontà propria, scivolare
sulle tue
spalle e scendere ad accarezzare, attraverso il tessuto della giacca
blu, il
punto esatto in cui ti batte il cuore.
Vederle
sfiorare le ali d’oro che brillano fiere sul tuo petto e che mi hanno
incantato
fin dal primo momento… quelle ali fanno così parte di te che non riesco
neppure
ad immaginarti senza, nonostante il respiro mi si fermi ogni
volta che sei
in volo.
Guardarle
proseguire verso i bottoni dorati, aprire il primo… e all'improvviso,
mentre le
mie labbra ricercano dolcemente le tue, sentire le tue mani sulle mie
che mi
aiutano a liberarti della giacca…
Lesse con
avidità, immaginando la scena nei
minimi dettagli, esattamente come lei
l’aveva così abilmente descritta… riusciva persino a sentire su di sé
le sue
mani che lo toccavano, che armeggiavano con i bottoni della sua giacca
per
levargliela… ed esattamente come lei aveva immaginato, sentiva il
bisogno
prepotente di aiutarla a spogliarlo, mentre si stavano nuovamente
baciando…
Se Mac voleva
farlo impazzire, ci stava riuscendo.
Quando aveva
letto l’altro biglietto con l’inizio del suo
sogno si trovava in ufficio; ciò che vi era scritto l’aveva intrigato
molto, ma
non aveva potuto lasciarsi troppo andare alle immagini suggerite dalle
sue
parole.
In quel
momento, invece, era solo; poteva permettersi di
abbandonarsi alle sensazioni che la fantasia di Mac gli risvegliava
dentro e
viverle a sua volta con la sensibilità di un uomo innamorato.
Sì, perché
lui era innamorato… e la voleva, la desiderava
disperatamente.
Quel “gioco”
doveva per forza condurre a qualcosa.
In quegli
anni erano stati dapprima colleghi, poi amici;
ora era giunto il momento che la loro relazione prendesse in
considerazione
unicamente la loro essenza di uomo e di donna.
Doveva
riuscire a far capire a Mac che era pronto ad
avverare le sue fantasie, perché i sogni e i desideri di Mac altro non erano che i suoi
stessi sogni e
desideri.
Ma come?
Rilesse per
l’ennesima volta le sue parole: “… quelle ali
fanno così parte di te che non riesco neppure ad immaginarti senza…”
Le ali d’oro…
Nella sua
fantasia Mac descriveva una seducente scena in
cui iniziava a togliergli la giacca della divisa e, con la giacca, gli
toglieva
anche le ali d’oro, che per lei rappresentavano idealmente ciò che lo
identificava ai suoi occhi: il pilota, l’ufficiale di Marina… Era sotto
l’uniforme, sotto il distintivo, che vi era l’uomo che lei voleva amare.
Nell’immagine
rievocata dalla sua fantasia, Mac aveva il
controllo della situazione fino al momento in cui “sente” le sue mani
che
l’aiutano… Mac voleva l’uomo, non il collega o l’amico; ma l’uomo che
desiderava, doveva a sua volta essere pronto a spogliarsi di ogni altro
suo
strato, e lasciarsi amare per ciò che era: semplicemente un uomo.
Ebbene lui le
avrebbe dato ciò che desiderava: in risposta
al suo messaggio le avrebbe fatto trovare le sue ali d’oro, a
simboleggiare che
era più che pronto ad amarla libero degli stereotipi che quel
distintivo
rappresentava – il soldato, l’avvocato, il pilota – ed essere
unicamente se
stesso.