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Autore: Eirien    26/12/2012    3 recensioni
La notte degli inganni ha avuto ufficialmente tre vittime: il Gran Sacerdote Shion, Aioros di Sagitter, la sanità mentale di Saga di Gemini.
Questo, perché non tutti sanno che due giorni dopo Mitsumasa Kido è andato in cerca di un Cavaliere d'Oro. E che si può vivere due volte lo stesso destino, anche se una volta sarebbe già troppo.
Genere: Azione, Commedia | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Aquarius Camus, Chameleon June, Nuovo Personaggio, Phoenix Ikki, Un po' tutti
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Modello per Gates of Gods - Da inserire qui il titolo volta per volta TRACK # 13

FRIENDS WILL BE FRIENDS

It's so easy now, 'cos you got friends you can trust
Friends will be friends
When you're in need of love they give you care and attention
Friends will be friends
When you're through with life and all hope is lost
Hold out your hand 'cos friends will be friends - right till the end

(Queen)

Non riusciva a credere ai suoi occhi. Per un attimo si era chiesta se non avesse preso un colpo di calore, o sviluppato inaspettati poteri da medium. Gli alberi attorno allo chalet del Sant’Uomo ancora fumavano in ricordo della battaglia appena terminata, riempiendole i polmoni dell’odore acre della legna bruciata, ricordandole che non stava sognando. Tatsumi blaterava delle scuse lacrimose cui nessuno badava, legato come un salame in un angolo. Il cadavere dell’aggressore, quasi del tutto carbonizzato, giaceva in un angolo, dimenticato. Questa volta ci aveva provato il Nano Ministro in persona, accompagnato da uno dei suoi più fedeli leccapiedi. Un guerriero che manipolava il fuoco con una facilità impressionante, veloce e privo di scrupoli. Avrebbe anche potuto farcela contro Michael, ma non contro il Cavaliere capace di rinascere dalle sue stesse ceneri. E lei, giunta quando la festa era appena finita, non era riuscita che a restare impietrita, incapace di articolare una frase qualsiasi, il labbro tremulo e le gambe ridotte a gelatina. E tutto per colpa sua.
Non riusciva a formulare un pensiero coerente. Tutto ciò che riusciva a rimuginare erano invocazioni sconnesse. "Dave… sei vivo. Dio santo, tu sei vivo…"
Sorrideva, quel gran bastardo. Sorrideva e teneva sollevata la testa di suo fratello, ancora stordito dal calore e dal fumo. Attorno a loro due, una Saori inaspettatamente commossa, suo fratello e il suo… beh, Mark. La reliquia del Sagittario riluceva al sole, forse in segno di ringraziamento per lo scampato pericolo. Nessuno era riuscito a trovare le parole. Occhi lucidi, sguardi da estasi mistica. Ne avevano ben donde: avevano appena assistito ad un’autentica resurrezione."Se non è un’entrata ad effetto non ne vale la pena, eh?"

Il Santo di Phoenix si era voltato dalla sua parte, sempre con quel sorriso sornione stampato in faccia. — Ti trovo bene — aveva sillabato, senza voce.

"‘Ti trovo bene…’ Ti trovo bene?! Dannato stronzo, bastardo egocentrico! Non hai altro da dire?"

Non aveva fatto altro che piangere, la notte in cui aveva creduto di averlo perso. Ora moriva dal desiderio di stringere le dita attorno al suo collo. Sì, torcerglielo. Ucciderlo con le sue mani perché non andasse più a morire altrove. E forse non le sarebbe bastato.

In quello stato di confusione avevano tutti accettato la proposta di restare allo chalet per la notte. Lei aveva partecipato, ancora frastornata, al brindisi alla salute di Lazzaro; si era commossa, aveva riso di nuovo con loro. Mark le aveva dedicato un sorriso complice, destandole nello stomaco un'ombra della vecchia emozione. Si era persino sentita a suo agio.
Era stato tutto così… irreale. Saori non l’aveva rimproverata per le sue sparizioni continue, non le aveva ricordato le sue perenni assenze nei momenti di pericolo. Aveva addirittura proposto qualche giorno di libertà per tutti.
Kelly incominciava a realizzare che qualcosa stava cambiando, nella ragazzetta viziata di cui credeva di aver capito tutto. Il suo portamento si era fatto solenne, colmo di una dignità distaccata, e al contempo amorevole. Lei, più giovane e più immatura di tutti loro, aveva per i suoi svogliati protettori delle premure del tutto materne. Con un sorriso cordiale, la piccola Kido l’aveva semplicemente accompagnata in una cameretta sobria e confortevole, dove aveva potuto finalmente rilassarsi. Le aveva stretto la mano, colma di gratitudine come non era mai stata.
Era di tempo che aveva bisogno, ora.
Di tempo e di meditare. Il ricordo del pomeriggio in cui aveva visto il suo migliore amico inghiottito dalla frana era ancora troppo vivido. Le ritornava alla mente in continuazione, una volta, due, tre, sempre. Una parte importante di lei ancora si rifiutava di credere che il dolore atroce di quelle settimane potesse venire cancellato con un solo, misero colpo di spugna. E al contempo, l’idea di riaprire gli occhi all’improvviso e realizzare di avere soltanto immaginato quella serata la feriva tanto che preferiva non pensarci. Meglio tentare di dormire. "Fosse facile…"

 — Quell’aria incazzata non ti dona, sai? —

Kelly era scattata a sedere, saettando gli occhi in lungo e in largo per la stanza. Lui era lì, inquadrato nel vano della finestra, appollaiato come un uccellaccio. Quel dannato sorrisetto beffardo le aveva tolto il lume della ragione.

 — Tu maledetto… sciagurato… tu… — aveva incominciato, ma le erano mancate le parole. Gliele aveva ricacciate indietro il sollievo. E si era sentita una perfetta stupida, perché quelle nei suoi occhi erano lacrime di gioia. Se le era asciugate in fretta, una risata irragionevole che incominciava a grattarle la gola senza chiedere permesso.

 — Pare che il tuo raffinato vocabolario sia rimasto lo stesso — aveva scherzato lo sciagurato, scavalcando il davanzale con uno scatto felino.

Kelly era balzata in piedi, vagamente consapevole del pigiama rosa con i volant che le aveva prestato Saori, e dell’effetto che poteva fare. — Dovevo immaginarlo. Dave Ruser non crepa tanto facilmente — aveva soffiato, scuotendo la testa.

Il risorto aveva guardato altrove, tentando disperatamente di restare serio. — E' un onore accontentare una signora tanto elegante. — Aveva allargato le braccia, e lei ci si era tuffata di slancio, ridendo come non ricordava neppure di poter fare. Dave l'aveva afferrata per la vita e fatta roteare su se stessa come in una ridicola danza di guerra, la stessa che aveva eseguito una sola volta, quando erano tornati indietro dalla prima missione.

 — Lasciami andare, pezzo d’idiota — aveva squittito, senza fiato. — Sveglierai tutta la casa, accidenti a te. — Le girava la testa, si sentiva ubriaca. Era ricaduta sul materasso come un sacco di patate, la faccia sprofondata nel cuscino, la carogna installata comodamente sul suo fondoschiena.

 — Bene, Chiappe Secche — aveva motteggiato, con l'ineffabile soprannome che le aveva appioppato a dodici anni. — Ora che abbiamo esaurito i convenevoli, raccontami tutto. — Aveva fatto schioccare le nocche in modo plateale. — Chi è il bastardo che dobbiamo ringraziare? —

~.~


 — Vedi, maestro? Alla fine, conviene sempre sperare nei miracoli. —

Kelly aveva concluso il suo resoconto con un risolino represso a metà. Camus distolse lo sguardo dal tetto del Tempio del Capricorno, riconducendolo all’interno della stanza. La piccola peste si era appropriata del suo letto, come se aver incassato senza proteste una sua caduta di stile le avesse conferito chissà quali diritti sulle sue proprietà.
Sapeva che l’avrebbe fatto. Come sapeva che sarebbe rimasta. Forse non ne avrebbe mai compreso la ragione, ma Kelly aveva deciso di non abbandonarlo al suo destino, e tanto gli bastava.
E quella ragazzina, da parte sua, non avrebbe mai saputo quanto la sua sola presenza potesse spingerlo a non arrendersi. Ancora poco…
Si rilassò contro lo stipite della finestra, la fronte poggiata sul vetro freddo.
Pochi minuti, e i suoi sensi acuti registrarono un leggero sibilo proveniente dalle sue spalle. Afferrò al volo l’oggetto, che roteava a pochi centimetri dal suo naso, prima ancora di capire cosa fosse. Se lo rigirò in mano con circospezione. Lungo, piatto e dall’odore appetitoso. "È matta, del tutto. Ed io che l’assecondo sto anche peggio."

Si voltò lentamente. — Che dovrei farmene, di questa roba? —

La matta sollevò il sopracciglio dell’ovvietà. E divenne lirica. — Dei dell’Olimpo — invocò, falsa come Giuda — perché mi punite così? — piagnucolò, con un sospiro sconsolato. — Soltanto tu potevi chiedere a cosa serva una tavoletta di cioccolato. Prova ad usarla per scrivere, chissà che non lanci una nuova moda. —

Un’occhiata omicida doveva essere una risposta esauriente. La ragazzina frugò in una borsa sportiva che lui non aveva ancora notato, e si accoccolò sul pavimento sotto il davanzale. In mano aveva una tavoletta del tutto identica alla sua. — Sai, questo è l’antidepressivo migliore che esista. Perché non ti fidi… e taci, per una volta? —

Camus ribadì a se stesso la sua antica convinzione che strangolare certi allievi non fosse un grave peccato. Con un gesto nervoso spezzò la tavoletta e si cacciò in bocca un pezzo del dolce. Fondente con le mandorle. "Niente male davvero. Per questa volta l’hai scampata, signorina…"

Era calato il silenzio. Con la coda dell’occhio riusciva a scorgere il profilo delicato di Kelly, intenta a masticare con aria assorta. La ragazza riavvolse nella stagnola ciò che restava del suo cioccolato, e si leccò le dita come una bambina.
Camus si sentì come se gli avessero triturato lo stomaco. Si schiarì leggermente la voce.

Lei lo sentì, e rialzò la testa con una piccola smorfia. — Cosa c’è? —

 — Ti sei sporcata — le fece notare, indicando una piccola traccia di cacao all’angolo della bocca.

La ragazza si portò una mano al viso, imbarazzata. Se la passò sulle labbra con un gesto frettoloso. Camus scosse il capo. — Non ancora… —

L’operazione fu ripetuta ancora. — Adesso? —

Lui non rispose. S’inginocchiò accanto a lei e la ripulì con due dita. Aveva pronta una frase sprezzante sulle ragazzine che non sapevano neanche mangiare da sole, ma gli restò strozzata in gola senza poterne uscire. Rimase lì, il braccio paralizzato in quella carezza che non avrebbe dovuto lasciarsi scappare. "Perché non le regali anche un anello, allocco?"

Kelly lo fissò, confusa. Tanta familiarità non era da lui. Anche se… “Potresti ripeterlo più spesso?”  — Grazie — bisbigliò, con un vago senso di disagio.

Camus ritirò la mano. Distolse lo sguardo, si rialzò. Le fece segno di seguirlo. Sedettero in cucina, alla luce di una lampadina agonizzante che non trovava mai tempo di cambiare. Come tante altre cose, in quella casa che sapeva di vecchio. Ci aveva abitato per periodi talmente brevi, che gli era sempre sembrata una fatica inutile sforzarsi di renderla più accogliente. Il risultato di quella decisione era di uno squallore disarmante. Milo glielo aveva ripetuto spesso, e altrettanto spesso si era offerto di aiutarlo con i lavori. Al solo pensiero di offrirgli una simile opportunità di divertirsi alle sue spalle Camus si sentiva accapponare la pelle. "No, grazie. Potrei trovarmi a dormire tra lenzuola tigrate…"
Kelly si era accomodata di fronte a lui. Sembrava pensierosa anche lei, un dito che tracciava disegni senza senso sulla superficie del tavolo.

 — Hai voglia di un caffè? — le chiese. — Turco, però. L’altra caffettiera si è rotta. — Trafficare ai fornelli era una buona scusa per darle le spalle. Avrebbe dovuto usarla più spesso.

"Nessun attrezzo da cucina ti resiste…" — Se non mi avveleni, volentieri — replicò lei. — A cosa devo tanta cortesia? —

"Quella linguaccia non riposa mai?" Camus si voltò con le mani alzate. — Tregua, ragazzina, o puoi prendere la porta. Hai dato abbastanza spettacolo, per stasera. —

Lei abbassò lo sguardo e sorrise, dolce. Era passata a giocherellare con la maschera rituale. I minuti scorrevano lenti, tra brevi rumori di stoviglie. — A volte mi chiedo come hai fatto a sopportarmi per tutto questo tempo. — Una pausa, alla ricerca delle parole più adatte. — Maestro, io… mi dispiace, davvero. —

Aquarius tornò al tavolo, in mano due tazzine di metallo smaltato che avevano conosciuto tempi migliori. — Detto da te è sempre un insolito onore. Per cosa ti stai scusando, esattamente? —

Kelly si rigirò la tazza tra le mani, mentre attendeva che la polvere di caffè si posasse. — Non mi stavo scusando… non proprio. Vorrei solo che tu sapessi… che mi dispiace per quello che è successo… per Crystal Saint. —

Camus si morse un labbro. Non rispose subito. Portò la sua tazza alla bocca, come se stessero parlando del tempo. "Per tutti gli Dei, è più disgustoso del solito…" — Alëša… — la corresse, con una voce a malapena udibile. Faceva male, troppo. E pensare che appena un paio d’ore prima si era proclamato signore dell’insensibilità. "Di nuovo, mi sbagliavo…"

La ragazza ebbe un sorrisetto incerto. — Scusa? —

"C’è ancora qualcosa che posso insegnarti, allora…" — Crystal Saint era un appellativo, una specie di titolo onorifico che toccava per tradizione al custode della corazza di Corona Borealis. — Chinò lo sguardo sulla sua tazza, e a Kelly quasi sembrava di vedere i ricordi ballare sulla superficie liquida e opaca, attraverso i suoi occhi concentrati. — Lo ha sempre portato con orgoglio, era diventato parte di lui. Ma teneva che almeno io continuassi a chiamarlo con il suo vero nome. Forse perché ero l’ultimo a ricordare che l'uomo che aveva reclamato quell’armatura una volta era figlio di quella stessa Siberia e si chiamava Alëkšey Pàvlovič Zarečnov. —

Kelly inghiottì con noncuranza una nuova dose di veleno. "Non credevo d’essere un’attrice tanto brava…" — Alëkšey Pàvlovič … — Lo sbirciò senza parere, chiedendosi se valesse la pena di rischiare. — Hai voglia di parlarmene? — bisbigliò.

 — Quanta voglia hai tu di finire quella porcheria — rispose Camus in tono sbrigativo, togliendole la tazza di mano. — Dalla a me. Ti sei sacrificata abbastanza. — Non riusciva a superare il senso di ridicolo. "Quando sono arrivato a questo punto?" La bambina era cresciuta, e lui aveva tentato in tutti i modi di non accorgersene. Ora si ritrovava a fare i conti con un ingombrante angelo custode, convinto di poterlo salvare da se stesso.

Kelly si sentì come sotto una doccia gelata. E in collera con se stessa. Per un attimo si vide, con imbarazzo, come lui stesso doveva vederla, invadente e inopportuna. Un peso imbarazzante, e un tantino ridicolo.
"Cosa credevo di poter cambiare?"
Sciocca lei, mille volte, ad essere corsa là convinta di poter dividere quel momento con lui. "Non siamo amici, tanto meno confidenti. Non siamo, non saremo mai nulla."
Lanciò un’occhiata all’orologio sportivo che portava al polso. Se il gelo della sua ultima, piacevole gita non l’aveva mandato in tilt, doveva convenire ch’era davvero tardi. — Penso sia ora di andarmene — sussurrò, alzandosi.

Lui annuì in silenzio, ma la trattenne con un gesto. C’era qualcosa che doveva fare al più presto. — Solo un momento, Kelly. Quando pensi che potrei incontrare David? —

Sapeva che glielo avrebbe chiesto. Quello che non aveva previsto era quanto una richiesta tanto semplice avrebbe potuto irritarla. Tentò di nasconderlo, con ben poco successo. — E perché vuoi vederlo? —

Che domanda inutile. Non aveva bisogno di una sfera di cristallo per indovinare che cosa gli stava passando per la testa. Aquarius, il grande guerriero, aveva rispolverato il Piccolo Stratega.
 — Vuoi porgergli i tuoi omaggi? …o forse delle scuse? — indagò, tanto per provocarlo.

Lui la fissò come se volesse passarla da parte a parte, e per una volta fu lei ad abbassare gli occhi. Camus aprì bocca dopo un silenzio che le parve infinito. — Non ho intenzione di chiedere scusa fino alla morte — sibilò, secco. "Ti basterebbe, Kelly? Ne sei sicura?"

Kelly girò attorno al tavolo. Troppo facile rispondere una cattiveria, dare sfogo a quel rancore che ancora sentiva bruciare, in un punto indefinito del suo cuore cui aveva deciso di non dare ascolto.
Facile e ingiusto. Forse perché lui non si era mai difeso, o perché ormai intuiva quanto gli fosse costato, l'unico risultato, era che non se la sentiva più di tormentarlo su quella notte. — Non te l'ho chiesto, maestro — replicò a bassa voce. — Tu non chiedermi di fingere su una cosa tanto importante. Non con lui. —

Lui le voltò le spalle, posando le tazze nel lavandino di porcellana. Restò immobile, stringendo le dita contro il bordo del lavandino. — Kelly… — Sembrava non sapesse da dove cominciare, e la ragazza si sentì di nuovo furiosa e intenerita in ugual misura. Non avrebbe dovuto lasciarsi trasportare, ma era fin troppo facile dimenticare che Camus non era fatto di marmo: dopotutto, lasciarlo credere era il suo sport preferito. "Ottuso malfidato. Quand’è che comincerai ad abbassare la guardia?"

 — C'è qualcosa che vorresti dirmi, maestro? —

 — Niente. Non mi devi spiegazioni. Troveremo il momento adatto — tagliò corto lui. Il tono era educato, ma non c’era da illudersi sul modo in cui stava occhieggiando la porta. Non la voleva lì. Non più. Non per quella sera.

 — Buonanotte, Kelly. E grazie per essere venuta qui a dirmi di David. —

"Mi dispiace…" la ragazza si fermò solo un istante, già sulla porta. Si volse a metà. — A proposito, Camus. Giusto perché tu lo sappia… non ho mai pensato che avresti fatto del male a mio fratello. Neppure per un istante. —

~.~


Mal di testa. Era circondata, accerchiata da mal di testa, accompagnato da tutto gli altri sintomi del dopo sbronza. Katie sapeva riconoscerli tutti, per quanto avesse sempre evitato accuratamente di provarli in prima persona. Ah, era stato prima. Quella squallida sala mensa aveva avuto un altro aspetto, durante la notte passata a festeggiare il nuovo tesserino di Max. Agente operativo, ad appena sedici anni, autorizzato ad uccidere prima ancora che a votare. Che cosa tenera doveva essere stata, anche se loro non avevano potuto vederlo. No, lei e Alex erano scivolati attraverso un finestrino compiacente, dopo che Wood si era allontanato a caccia di un single malt e di una sottana non troppo schizzinosa.
Dopo di lui, si era scatenato il delirio, qualcuno le aveva messo in mano un bicchiere, e l'ultimo ricordo cosciente di Katie era stato un confuso miscuglio tra la risata contagiosa di Mark, il sapore fruttato del tremendo cocktail ammazzagambe di Steve, la chitarra tra le mani di Jason e la sua voce piena e intonata, solo appena velata dalla sbornia.
E così quella mattina, tra le facce tragicamente pallide e sfatte a quel tavolo a malapena illuminato dalla luce dell'alba, la cosa peggiore era lo sguardo da serial killer che Dave faceva saettare ogni tanto, sollevando la testa dalla tazza di caffè quel tanto che bastava a dichiarare guerra all'universo conosciuto. Katie l'aveva perso di vista a metà serata, dopo essere riuscita a salutarlo a malapena. Le aveva gettato giusto un'occhiata e si era volatilizzato alla velocità della luce borbottando qualcosa di indistinto, e lei era rimasta impalata nel suo angolo, sentendosi sommamente stupida per quel trucco che aveva azzardato soltanto per lui, e per quella gonna corta che la faceva morire di freddo.
Kelly, accanto a lei, aveva scosso la testa con disperazione, allontanandosi prima che potesse chiederle il perché.
E ora l'oggetto dei suoi desideri la stava fissando in modo assai poco rassicurante, le pupille dilatate, l'occhio lucido e la maglietta tutta slabbrata. E quel segno sul collo…

La ragazza aveva sospirato, con un tragico sospetto e la discreta speranza che si fosse almeno procurato una malattia venerea. — Tutto quel caffè non ti farà bene, Dave. —

Lui aveva distolto lo sguardo. Tutta la tavolata aveva trattenuto il fiato, in attesa della deflagrazione. E invece, dopo qualche istante, il maniaco si era limitato a servirsi una nuova tazza di veleno, senza degnarla di una risposta.

"Ah, ma perché ci perdo ancora tempo?" Un sospiro, teso e piuttosto rassegnato. — Credo che tornerò a casa, adesso. — si era alzata, sistemandosi la maglietta stropicciata su quel davanzale che proprio non voleva saperne di raggiungere dimensioni rispettabili. Persino Kelly, ad appena tredici anni, sembrava messa meglio di lei. E aveva da tempo smesso di guardare Christine al di sotto delle spalle, almeno quanto bastava per eludere un travaso di bile.
Li aveva passati tutti in rassegna, da Michael con l'aria dell'uccellino caduto dal nido, incredulo di aver fatto una cosa tanto stupida come accettare una birra da Mark per finire a suonare il basso in mutande, ad Alex che, stravaccato su una poltrona da ufficio, era ancora intento a fumare l'ultimo esemplare di qualcosa che certamente non era tabacco. Ed era a lui che si era rivolta, stanca come mai si era sentita prima. — Tu non vieni? —

Una nuvoletta di fumo e un mugugno indistinto, niente altro, ad indicare che no, Alex non se la sentiva ancora di azzardare la posizione eretta. Il morale di Katie era scivolato talmente in basso da farle credere che, provvisti di pala e piccone, persino gli stati d'animo potessero mettersi a scavare.

Si era chiusa la porta della sala alle spalle, incrociando nel corridoio la sagoma ghignante di Martin, avvolto come sempre nella sua nuvola pestilenziale. Accidenti a lui e alle sue nuove, adorate Black Vanilla. Se c'era una cosa di cui non aveva certo sentito la mancanza, erano le sue improbabili sperimentazioni da tabagista incallito. "Al diavolo anche tu."
Si era inoltrata nel reticolo di corridoi che ancora conosceva come le sue tasche, fino a trovare il condotto dell'areazione che l'avrebbe portata al piccolo bagno al piano terra, da cui avrebbe potuto evadere all'esterno.
Bastava stare molto attenti, e Wood non l'avrebbe mai scoperto.
La ragazza si era issata dentro il passaggio, ripercorrendo a ritroso lo stesso cammino dell'andata. Qualche minuto ancora, e si sarebbe trovata di nuovo all'aria aperta, e poi a casa. Sì, a casa, a lavarsi via dal viso quelle stupide speranze deluse e a rimettersi addosso i suoi calzoni di felpa più sformati e ributtanti.

Eccolo lì, il bagno. La finestra della libertà era a pochi passi da lei. Pochi passi pericolosi, allo scoperto.
Katie si era rivoltata come una furia, a quella mano che l'aveva toccata, pronta a lottare e fuggire. "Stupida, stupida, stupida! Ecco cosa succede a non pensare a quello che fai."
Il destro già pronto a colpire si era bloccato a metà, ricadendo mollemente su un fianco. Di fronte a lei, Dave la fissava con un sorrisetto triste.

 — Non hai dimenticato i vecchi trucchi, allora… —

 — Non solo stata io a volermene andare, lo sai. — "Sarei rimasta qui, con voi. E con te."

Lui si era messo le mani in tasca, distogliendo lo sguardo. — Fidati, è stato meglio così. — aveva ribattuto, cupo.

"Va bene. Continuate pure a credere che io ed Alex siamo più felici così, che le nostre esistenze non siano segnate quanto le vostre. Immagino che crederlo vi permetta di dormire meglio." Katie era rimasta ferma, a fissare il piede del suo amico che prendeva a calci un fazzoletto dimenticato da chissà chi. — Perché mi hai seguito, Dave? Sono stanca, e anche tu. —

Lui aveva estratto le mani dalle tasche, rialzando lo sguardo per un solo attimo, sufficiente a farle cogliere un ferreo imbarazzo. — Volevo… chiederti scusa per come mi sono comportato prima. Non ce l'ho con te, Katie. — "Non credo che potrei mai avercela con te."

"Questo mi consola, credimi." —Dave, ti è caduto qualcosa dalla tasca — la ragazza aveva cambiato discorso, rapida. Per non fermarsi a pensare, a ricamare sul fatto che lui l'avesse rincorsa soltanto per chiederle scusa.

Lui si era chinato, afferrando rapido il pezzo di carta. Stava per infilarlo nuovamente in tasca, ma poi aveva cambiato idea. E glielo aveva teso, con un sguardo indecifrabile.
Katie aveva scorso rapidamente le poche righe del messaggio, scritte in un corsivo pretenzioso e svolazzante. Ed era diventata rossa come un peperone.

 — Non. Una. Parola. Con nessuno — aveva sussurrato lui, con un tono supplichevole che faceva a pugni con quelle parole autoritarie. Certo, se quelle iene dei loro amici ci avessero messo sopra gli artigli, sarebbe diventato lo zimbello della base in meno di un nanosecondo. — Niente compassione, capito. È stato… uno scambio di favori, ecco. E non ne parleremo più. —

"E ti ha mollato nudo e addormentato in uno sgabuzzino, in compagnia di una bottiglia vuota e un pezzo di carta. Bel debutto, non c'è che dire." Si costrinse a dominarsi, a non strangolarlo con le sue stesse mani perché il suo bel sogno segreto di essere i primi, l'uno per l'altra, era andato miseramente in fumo. — Almeno si complimenta per… Ecco, dice che non se l'aspettava — aveva commentato lei, senza credere di riuscire davvero a sollevargli il morale.

 — Non ce l'avevo con te, Katie. Spero che tu mi creda — aveva insistito lui, come se fosse quella, la cosa importante.

 — Ti avrei creduto comunque. — "Ti crederei anche se mi dicessi che vuoi cambiare sesso e trasferirti a Rio vestito di piume di pappagallo, idiota con i paraocchi." — Perché me l'hai mostrato? —

 Lui si era ripreso il biglietto, chiaramente riproponendosi di incenerirlo al più presto. — Perché… di te ci si può fidare. Non c'è nessuna… come te. —

 

 — Ehi, McArthur, sei ancora viva? — La voce di Alex, viva e presente. Katie si scosse da quelle fantasticherie troppo lontane, riportando l'attenzione all'interno della stanza. Allen stava aspettando in perfetto silenzio che la tipa dai capelli rossi tornasse con altri documenti che loro avrebbero dovuto assolutamente vedere, bevendo caffè a più non posso e gettando occhiate incendiarie sulla porta.
E i suoi amici, accanto a lei, si stavano chiaramente chiedendo se non si fosse addormentata.

 — Si può sapere a cosa stavi pensando? — sussurrò Max, assottigliando gli occhi ansioso.

 — Penso di conoscere la grafia sul quel pacco di documenti che ho trovato nel mio armadietto… — lasciò cadere, con noncuranza. Poco ma sicuro, Jack non si stava perdendo una sillaba.

 I suoi due amici la fissarono come se si fosse appena spogliata e messa a ballare la macarena, ma prima che potessero dire nulla, la porta si aprì e Claire rientrò nella sala. Katie guardò i suoi amici, poi accennò alla donna con un cenno espressivo.

 

 — Non c'è nessuna come te — aveva bisbigliato Dave, allargando le braccia. Lei si era prontamente accoccolata contro di lui, sotto le lenzuola, godendosi i residui di quel calore che avevano appena condiviso, e quella dolce sensazione di stanchezza felice. Il tempo era passato, e le aveva portato sorprese che neppure avrebbe immaginato, in quell’alba di un paio d'anni prima.

 — Sì, me l'hai già detto un'altra volta — aveva sottolineato, maliziosa.

 — Non dimenticherai mai quella festa e quel biglietto, vero? — si stava fingendo esasperato, ma continuava ad accarezzarle i capelli con quella tenerezza che era come un raggio di sole, tutto per lei.

 — Oh no, caro. Penso proprio che ti ricorderò per tutta la vita che te ne sei andato con una sgallettata qualunque, e vecchia per giunta, quando avresti potuto avere me. —

 — Allora non lo sapevo ancora… posso rimediare? — aveva bisbigliato lui, contrito e falso, lo sguardo pieno di divertimento e di quella cosa che le rimescolava sempre il sangue nelle vene.

 — Ad una sola condizione, però — aveva ridacchiato, sicura di capitolare entro trenta secondi.

David si era rigirato con un colpo di reni, spingendola sotto. E il semplice contatto con tanta della sua pelle nuda le aveva fatto venire di nuovo caldo. Tremendo, adorabile caldo.

 — D'accordo. Tu non abbandonarmi, e non vedrai mai più l'ombra di un'altra donna — le aveva bisbigliato, prima di tapparle di nuovo la bocca.

 

"Non hai rispettato la tua parte del patto, Dave. Tu sei lontano da me, e la sgallettata è proprio qui davanti ai miei occhi."
Katie sorrise, un sorriso poco rassicurante. Quella donna avrebbe fatto meglio a smettere di giocare con le loro vite. A partire da subito.



~.~


Un fazzoletto di terra arida, acqua salata tutt’attorno. Temperature tropicali di giorno e da circolo polare artico di notte. Pioggia neanche a pagarla, se si escludeva la stagione dei monsoni, durante la quale avresti pagato volentieri per non vederne più. L’isola di Andromeda. "Su quale depliant turistico la pubblicizzavano? Probabilmente su qualcuno della Fondazione Grado…"

 — Che bel posticino… mi sento quasi a casa. —

Voce bassa, sguardo vacuo e un’espressione che tentava di somigliare ad un sogghigno. Dave non aveva aperto bocca per cinque minuti, quando avevano messo piede sulla famigerata Isola di Andromeda. Aveva soltanto incrociato le braccia, stretto le mani attorno ai bicipiti con tanta forza che Kelly aveva quasi temuto che si spezzasse le ossa.
Si era guardato attorno, il volto già imperlato di sudore, la schiena insolitamente curva. Era stata quella, la destinazione di Michael. Aveva creduto di proteggerlo, nel suo periodo di follia aveva preteso di fargli pagare il suo destino infame con gli interessi.
Soltanto per scoprire che a nessuno di loro era stata risparmiata la stessa sorte.
Non era stato un povero martire sacrificato alla felicità di un fratello ingrato. Era stato semplicemente un burattino nelle mani di un altro burattino. Dall’altro capo del filo, un essere che aveva fatto dell’odio dei suoi sottoposti la sua arma più potente e subdola. “Il vero nemico è altrove, e ci tiene tutti in pugno.”
Altrove. Dove aveva imparato a non provare nulla. Dove aveva rinnegato tutto ciò in cui aveva creduto. E in cambio aveva ricevuto… niente.
Dave ritornò a fatica con i piedi per terra. Non aveva senso pensarci troppo. Non s’illudeva. Il momento dei conti col suo passato sarebbe arrivato, e forse non sarebbe mai stato davvero pronto. Non aveva il potere d’impedirlo, né di accelerarlo. Ma al momento sentiva di avere cose più importanti cui pensare. Ad esempio, pensò con una fitta di preoccupazione, come impedire alla sua sorella d’elezione di farsi uccidere prima di trovare un modo per tornare a casa.
 
Ruotò su se stesso con uno scatto nervoso, attirato dal rumore di una pietra che veniva scalciata con impazienza. Guardò Kelly, ma lei non si era mossa. Poco più a sinistra, ancora nascosta dai resti di una piccola frana, una presenza familiare si avvicinava.
Dave sogghignò, quando gli parve di riconoscere quell’aura, e ghignò ancora di più sentendola affrettarsi. L’aveva riconosciuto anche lei, ne era certo. Si mosse per andarle incontro.
Christine si portò una mano alla bocca, confusa, talmente sollevata da non riuscire neppure a respirare. Fissò sua sorella, seduta su un masso, impegnata a nascondere l’emozione che le arrossava il viso. Kelly accennò un timido sì, senza una parola.
L'attimo successivo, la maschera del Cavaliere del Camaleonte era volata in aria, David si stava concedendo un vero sorriso, e l'altra sua amica di una vita gli stringeva il collo con la stessa forza che ci avrebbe messo per spezzarglielo, blaterando frasi incoerenti sugli amici bastardi che permettono che li si creda morti.

 — Pancakes — proclamò infine la ragazza, decisa. — Un migliaio di pancakes. Ci devi la colazione per almeno un anno, dopo quello che ci hai fatto. —

E Kelly seppe che sarebbe stata in grado di piangere di gioia. Se qualcun altro di importante fosse stato lì, a dividere quel momento con loro.
Se avessero ritrovato ciò che avevano perduto.
Se solo nessun altro lutto li avesse spezzati, prima della fine.



~.~


Tre giorni erano scivolati via, da quando aveva avuto l'idea balzana di chiedere a Kelly di organizzare quell'incontro, e Camus dell'Acquario si sentiva piuttosto incline all'autoironia. Sacro Guerriero del Santuario della Dea Atena, Custode di una delle Dodici Vesti Dorate, Signore indiscusso delle energie fredde. E da quel giorno, nuovo divertimento di un ragazzino sfacciato. "La mia carriera è ad un punto di svolta, non c'è che dire."
David Ruser, per il Santuario Ikki di Phoenix, lo stava fissando attento, con l’aria del gatto deciso a giocare con un topo più grosso di lui.

 — Tu sei Iceman, allora. — Il marmocchio aveva rotto il silenzio, mano tesa e ghigno che istigava all'omicidio. — Quale onore, conoscere l’uomo cui devo tante delle mie fortune! —

La padrona di casa, sprofondata nel divano, esplose in una risata malamente trattenuta. Camus si girò dalla sua parte. ‘Sto per farti fuori, ragazzina…’ le sibilò con il pensiero.

La risposta, chiara come la luce del giorno, gli diede i brividi. Kelly accennò al suo amico con un’occhiata espressiva. ‘Accomodati, maestro. E auguri. Vedrai, sarà divertente spupazzarti quell’angioletto tutto da solo…’

Camus le voltò di nuovo le spalle, rassegnato ad affrontare l’incontro ravvicinato con quel bamboccio. “Ti metto in conto anche questa, Gran Sacerdote dei miei gambali…”
Sapeva come farsi rispettare, quando voleva. E anche come far pentire uno sbarbato di aver tentato una prova di forza con lui.

 — Mi piacciono le strette calorose — commentò quell’impunito, scuotendo le dita assiderate. Era impallidito leggermente.

Camus si limitò a fissarlo con superiorità. Meglio che almeno ‘quel’ pivello sapesse da subito con chi aveva a che fare. “Uno a zero, poppante”. Non avrebbe ammesso con anima viva di essere stato sul punto di mugolare di dolore. “Finito l’esame o ne vuoi ancora?”

 — Se voi due maschetti avete finito di far sfoggio di testosterone, forse possiamo parlare di cose più serie… — interloquì Kelly in tono divertito.

Camus la guardò di traverso. Lei aggrottò le sopracciglia, fissando un punto oltre la sua spalla. Non si era neanche accorta di lui, tutta la sua attenzione era concentrata su David, che con un gesto poco elegante la stava invitando a farsi gli affari suoi.
La ragazzina strinse gli occhi minacciosamente.
Il suo amico rispose con una scrollata di spalle.
Lei non si scompose. Continuò semplicemente a fissarlo. Pochi attimi dopo, David crollava sulla poltrona gonfiabile con un sospiro melodrammatico.

Kelly sorrise. Un sorriso complice, realizzò Camus, che non lo riguardava. Si diresse verso la cucina. — Qualcuno ha voglia di Irish Coffee? — propose, fissando il suo ospite di riguardo in cerca d’approvazione.

 — Il whisky è irlandese, almeno? — sogghignò quello, con l'aria di tenere pochissimo alla propria vita.

Lei lo fissò come uno chef a cinque stelle cui avessero chiesto se quello nel piatto fosse pesce congelato. — Ora mi offendi, Mio Signore degli Alcolizzati. —

David incrociò le braccia. — Stai cercando di tenermi buono con la lusinga, Chiappe Secche? — Il modo in cui la prendeva in giro era incredibile. E ancora più folle era il sorriso con cui lei accoglieva quelle stoccate che, se fossero venute da lui, sarebbero state ricompensate con un caffè alla cicuta.

 — Ora che mi ci fai pensare, potrei drogarti cibo e bevande… forse diventeresti più digeribile. — Kelly rideva, rilassata e contenta. Irriconoscibile. Scomparve dietro la porta scuotendo la testa.
 
 — Non contarci troppo… — le gridò dietro Phoenix.

Camus non si era mai sentito tanto fuori posto in tutta la sua vita. Avrebbe dovuto sentirsi sollevato: presto Kelly non avrebbe avuto più bisogno di lui. Il suo mondo si stava lentamente ricomponendo, com’era giusto, come doveva accadere. E allora perché quel peso di cui credeva di essersi liberato era tornato ad acciambellarsi sul suo petto? Perché quel senso di… di inutilità? Il solo pensiero di ingerire brodaglia nera con panna gli stava dando il voltastomaco.
Si dimenò sul divano, a disagio, e infine alzò lo sguardo. Trovò un paio d’occhi, grigi e insolitamente seri, ad attenderlo al varco. Lo osservavano con una curiosità sospetta che, nonostante tutto, non aveva nulla di ostile. Piuttosto… sembravano valutarlo. Si chiese se l’esibizione d’imbecillità di poco prima non fosse altro che un tentativo di mascherare il suo reale interesse.

 — Spero tu sappia cosa stai facendo — disse il ragazzo, semplicemente. Camus lo fissò, a metà tra il seccato e l’incredulo. Dave ebbe un sorriso amaro. — Conoscere il nostro beneamato Sacerdote è sempre un’esperienza illuminante… e da lui ho imparato molto — continuò, rispondendo alla domanda che non aveva avuto il coraggio di porgli. — Kelly non ha avuto la stessa ‘fortuna’, ma questo non significa che sia del tutto stupida. Spera soltanto di trovarti il più lontano possibile quando lo scoprirà. —

Saputo e arrogante. Quanto di più irritante ci fosse al mondo. Quasi come realizzare di averlo sottovalutato. — Scoprirà cosa? — brontolò a bassa voce.

Phoenix si piegò verso di lui. Indossava un’espressione da perfetto cospiratore. La sua voce era appena udibile. — Che le stai mentendo ancora, Iceman. —

E Camus avvertì distintamente il sangue ghiacciarsi nelle vene.

~.~










Angolo della vergogna™


Oooh, jingle bombs, jingle bombs…
Oh, siete già qui? *fa sparire il video di Achmed The Dead Terrorist*
Questo capitolo è un traguardo importante. Sono le prime fesserie che non avevo mai pubblicato con la prima stesura, e spero davvero che sia valsa la pena di proseguire con questa cosa folle e infarcita di situazioni da manicomio. Ma anche di Arma Letale, NCIS, Chuck, Scubs, una spolverata di Big Bang Theory e sicuramente qualcos’altro che non ricordo. Ma, alla fine di tutto, conta il fatto che mi diverto a scriverla, sempre nella speranza che un po’ di quel divertimento contagi anche chi legge.
Non l’avevo detto prima, ma, se il disclaimer del sito non dovesse bastare, ribadisco che il merito di aver creato i Saint, il Santuario, Athena di lilla chiomata e tutto il cucuzzaro va a Masami Kurumada, mentre a me dovrete senz’altro riconoscere la colpa di aver partorito la specifica situazione, Kelly e l’allegra banda di pazzoidi che popola l’altro lato del Portale.
E poi chissà, magari questa volta Iceman ce la farà ad accopparmi, sempre se non dovesse optare per un harakiri. Dopo l’incontro con Ikki-David, sta seriamente considerando l’idea di infilare la testa nel forno.
Per il resto, oggi è un’ottima notte per pubblicare, prima che Sagitta mi linci e soprattutto ancora un pochino in tempo per augurare Buone Feste a tutti voi.
Che il capitone vi accompagni, i doni vi esaltino e il pandoro vi sollazzi. Tanti auguri e a presto!

PS: anime sante che mi avete recensito… vi rispondo appena riuscirò a digerire, giuro!

   
 
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