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Autore: Mary P_Stark    26/12/2012    1 recensioni
TERZA PARTE DELLA SAGA DI OCCHI DI LUPO. Sono passati dieci anni dalla visita del principe Ellessandar di Akantar nel regno di Enerios. Tra i due regni, da quel giorno, intercorrono rapporti di amicizia e rispetto reciproci, anche grazie all'accorato lavoro di intermediaria portato avanti da Naell, principessa terzogenita del regno di Enerios. Principessa che, incalzata dal Consiglio della Corona e dal suo stesso padre, non può più nascondersi dietro mille scuse per evitare un matrimonio che non vuole. Perché a una principessa di Enerios è vietato vivere liberamente... amare liberamente. E a Naell questo va stretto, molto stretto. Libera di pensiero e d'animo, non vuole rinchiudersi entro quattro mura, con un uomo che non ama. Inoltre, su di lei, incombe ben di più di un matrimonio non voluto. Le parole del Dio-Lupo sono ancora fresche, nella sua mente. Tenebra e Luce devono ancora affrontarsi, e lei ne sarà direttamente implicata. Come, resta da vedersi. La sua unica consolazione è di non essere sola, sulle soglie di quel baratro. Ma i suoi cugini sapranno aiutarla nel momento del bisogno, come le ha predetto il Dio-Lupo? (riferimenti presenti anche nelle 2 storie precedenti)
Genere: Avventura, Fantasy, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Occhi di Lupo Saga'
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••5••

 

 

 

 

Seduto compostamente su una poltrona di morbido velluto, Coryn, figlio del Conte Alderan ed erede del potente feudo del padre, osservò con aria stranita la figura del munifico genitore.

Questi, con espressione meditabonda e distratta, entrò nella biblioteca dove egli si trovava ormai da ore.

L’uomo, senza minimamente accorgersi di lui, si avventurò in direzione degli scaffali più alti dell’imponente libreria e lì, presa una scala a pioli, iniziò una pressante quanto attenta ricerca.

Poggiato sulla poltrona il libro di poesie che stava leggendo, Coryn si nascose in silenzio dietro una delle tante scaffalature dell’imponente stanza di lettura.

Lì, lo fissò di nascosto con i suoi acquosi occhi azzurro pallido, prima di sollevare uno scuro sopracciglio con espressione sgomenta non appena si rese conto di cosa, il padre, avesse preso dalla libreria.

Appariva antico, ai suoi occhi, e stranamente esotico nella copertina, di un cupo color nero dai riflessi bruno-rossastri.

Simboli a lui sconosciuti, e dipinti con un denso color oro, fregiavano il dorso del libro e, senza sapere bene il perché, Coryn preferì non proferir parola, mantenendo segreta al padre la sua presenza.

Rimase in silenzio e perfettamente nascosto – in quello, era sempre stato bravissimo – e, protetto da una delle librerie a lui più vicine, lasciò che il padre sfilasse via senza vederlo.

La porta della stanza venne aperta e richiusa in tutta fretta e Coryn, fissando dubbioso quel battente di quercia, si chiese che diamine fosse quel libro vetusto, e perché il padre ne avesse bisogno.

Solitamente, lui detestava quel luogo, e Coryn lo aveva scelto come suo nascondiglio prediletto per sfuggire alle morbose attenzioni del padre.

Perché, quindi, era giunto lì, quel giorno? E cosa nascondeva quel libro?

C’era una sola persona che potesse rispondergli in merito, ed era il vecchio maggiordomo di famiglia.

Lui, meglio di chiunque altro, conosceva ogni libro presente nella loro vasta collezione, perciò si sarebbe rivolto all’anziano Damenor per scoprire la natura di quel volume così misterioso.

Preso un carboncino da una delle scrivanie presenti nella biblioteca, Coryn tracciò su un foglio pergamenato alcuni dei simboli che era riuscito a scorgere sul dorso del libro.

In tutta fretta, poi, uscì a sua volta dalla stanza per recarsi dal vecchio maggiordomo che, da oltre trent’anni, era al servizio nella loro villa di campagna.

Non aveva ben chiari i motivi, ma quel libro gli aveva messo i brividi, perciò doveva scoprire quanto prima cosa fosse.

***

“Che cosa? Un viaggio nel deserto?! No! Impossibile!” sbottò Kalia, facendo tanto d’occhi non appena Naell ebbe terminato di parlargliene.

Sorda alle sue proteste, Naell mordicchiò un morbido panino dolce e, con lentezza quasi esasperante, lo ingollò prima di sorriderle sorniona e replicare serafica alla sua ira: “E ti metteresti contro re Erenokt, per sostenere questa tua tesi?”

Accigliandosi immediatamente, Kalia divenne paonazza in viso e, con passo nervoso, iniziò a camminare avanti e indietro per l’enorme appartamento che divideva con la principessa.

Ylar e Kessa la osservavano dubbiosi, non comprendendo appieno l’ansia della donna.

Kessa in particolare, dopo qualche istante, si avvicinò alla padrona, uggiolando preoccupato.

Abbozzando un sorrisino nei suoi confronti, Kalia lo accarezzò tra le orecchie, mormorandogli: “Non temere, sono solo in ansia per quella pazza della principessa.”

Kessa allora si volse a fissare Naell, svogliatamente sdraiata su una dormeuse dai cuscini bianco latte e, con un semplice accenno di ululato, le domandò cosa stesse succedendo.

Ylar, nel frattempo, si accucciò a terra accanto alla padrona mentre Naell, rivolgendo la sua attenzione al lupo dell’amica, gli spiegò succintamente: “Voglio uscire da palazzo, e Kalia non è d’accordo.”

Già da anni, Naell non trovava poi così strano il fatto di poter parlare con i lupi che abitavano a palazzo.

Dopo il primo anno passato a sgrossare la conoscenza della lingua di Ylar, aveva impiegato ben poco tempo a farla diventare propria.

Meriton e Staryn si erano affidati a lei per imparare a loro volta.

In non poche occasioni, i tre principi erano stati visti  intrattenersi con i loro lupi in interminabili discussioni fatte di sussurri e di quieti uggiolii dai mille toni diversi.

La Corte, ovviamente, aveva trovato tutto ciò estremamente esotico quanto assurdo ma, a conti fatti, nessuno aveva avuto veramente nulla da ridire su questo fatto.

La faccenda che più premeva alla Corte e al Consiglio era un’altra, Naell lo sapeva benissimo.

E lei, se avesse potuto, li avrebbe mandati tutti debitamente a quel paese.

Non potevano impicciarsi degli affari suoi! Lei non apparteneva a nessuno se non a se stessa! Inoltre, nessuno di loro sapeva cosa realmente gravasse sulle sue spalle!

“Quel che non capisce la principessa…” ribatté sarcasticamente Kalia, osservando il musetto dubbioso del suo lupo, “… è che io sono stata chiamata per proteggerla e, di certo, girare per il deserto non è la condizione migliore per garantire la sua sicurezza.”

“Avremmo una ventina di soldati al nostro fianco, tre figli sacri e un renpardo stellato. Cos’altro vuoi?” brontolò Naell, levandosi a sedere e fissando l’amica con espressione accigliata.

“Cosa voglio? Salvarti le penne, mia amata hillan. Non c’è niente che voglia più di questo, a parte saperti felice, ma andare per il deserto senza un intero esercito a proteggerti, per me, equivale a non adempiere ai miei compiti” sbottò Kalia, agitando le lunghe e forti braccia.

Sollevando un sopracciglio con evidente ironia, Naell le chiese: “Mi vuoi felice? Allora, perché ti rifiuti di portarmi nel deserto? Io ne sarei felicissima.”

La figlia sacra strinse i denti, masticando un’imprecazione non troppo elegante per poi affermare: “Tu sai quanto ti sto odiando, ora come ora?”

“Vagamente” ammise la principessa, allungando una mano per carezzare il capo di Ylar.

“Trenta soldati. Non uno di meno” rilanciò a quel punto Kalia, piantando le mani sui fianchi con espressione arcigna.

“Parlane con Skytana; è lei che organizzerà la nostra scorta” le propose Naell, ormai certa che l’amica avrebbe ceduto.

Con un sospiro esasperato, Kalia assentì.

Dopo essersi infilata le babbucce di seta rosso fuoco, che si abbinavano ai suoi chalwar color ruggine e alla leggera kameez smanicata rosa antico, prese la via della porta, brontolando insulti più o meno generosi sulle principesse e i loro capricci.

Non appena ella fu uscita, il sorrisino di Naell si spense come una candela senza più stoppino.

Sdraiatasi nuovamente sulla dormeuse, scrutò l’alto soffitto dalle controsoffittature a cassettoni bianchi, da cui pendevano eleganti lampadari dalle mille e più candele.

Agli albori della sera, una schiera di servitori accendeva con lunghi bracci lignei le infinite serie di candele di cera, posizionate su quelle elaborate strutture di metallo sagomato.

A ogni alba, poi, provvedevano a spegnerle, in un rituale infinito scandito dal sorgere e dal calar del sole.

In quel momento erano spente e, grazie alla luce del sole che penetrava dalle larghe finestre dell’appartamento, Naell poteva scorgere le sagome cristallizzate delle gocce di cera colate durante la notte precedente.

Nella camera da letto, portava con sé solo un candelabro, che spegneva opportunamente prima di dormire.

Nell’ampio salotto del loro appartamentino, invece, la luce restava accesa fino a quando la servitù non fosse passata per spegnerla.

Le era capitato diverse volte, in quei giorni, di alzarsi la notte e passeggiare nel salotto illuminato a giorno mentre l’oscurità della notte, all’esterno, inghiottiva ogni cosa, ogni colore, ogni movimento.

Tutto quanto.

Più volte si era chiesta cosa avrebbe provato nell’affondare in quel buio totale, in quella totale mancanza di riferimenti.

E più di una volta, si era ritrovata con la mano poggiata sul pomello della porta che conduceva ai corridoi, dove due guardie controllavano notte e giorno i suoi appartamenti.

Nel deserto avrebbe finalmente provato quell’esperienza.

Il totale isolamento, in un mondo a lei del tutto alieno.

Nulla di quanto aveva fin lì sperimentato vi si assomigliava neppure lontanamente.

Ylar le leccò una guancia, uggiolando ansioso e Naell, sorridendo nel volgersi verso di lui, mormorò: “Non temere per me, amico mio. Starò bene, prima o poi.”

Il lupo, però, scosse il muso e puntò il suo sguardo adamantino in direzione delle finestre e Naell, seguendone l’occhiata, gli domandò: “Cosa percepisci, Ylar?”

Un ringhio. Basso, profondo, di gola.

Naell rabbrividì, perché sapeva bene cosa voleva dire quel suono.

Pericolo. Lontano o vicino che fosse, non potevano saperlo. Ma era esistente.

Attirandosi vicino il lupo, Naell lo strinse a sé, sussurrandogli contro la morbida gorgiera: “E’ l’ansia che mi tiene sveglia la notte, la sensazione di essere in balia di due forze contrapposte, e di non sapere che strada prendere per salvarmi.”

Ylar a quel punto uggiolò e la sua padrona, affondando il viso nel suo pelo profumato, esalò: “E’ giunto il momento, dunque.”

Il lupo non poté che annuire.

***

Il grido che si librò dalle labbra morbide di Enyl svegliò di soprassalto il fratello che, sdraiato nell’enorme letto accanto a quello della sorella, sobbalzò stranito tra le coltri.

L’attimo seguente, balzò fuori dalle lenzuola di seta e si avvicinò ansioso alla gemella.

Lei, afferrate le braccia robuste del fratello, gli occhi ancora sgranati e vitrei, esalò con voce gracchiante: “Bianco. Di un bianco accecante. Una lama che sferza l’aria e… e il buio. Tanto buio. Il verso di un corvo. E il suo sangue nero che cade a terra.”

“Sangue nero?” mormorò Rannyl, tenendola saldamente contro il suo petto mentre, con gesti lenti e tranquillizzanti, le sfiorava la schiena e i lunghi capelli biondi.

Lei annuì, lappandosi nervosamente le labbra prima di riprendere piena coscienza di sé e mormorare roca: “Ho avuto freddo, tanto freddo. Mi toccava. Una mano di morte mi toccava dappertutto, ma non stava cercando me.”

Accentuando la stretta sulla sorella, Rannyl le chiese ancora: “Hai parlato di sangue nero. Ne sei sicura?”

Enyl sospirò tremula prima di scostarsi dal fratello, levarsi quasi goffamente dal letto – cosa insolita, per lei – e fissarlo sgomenta, esalando: “Era Haaron, fratello. Il corvo era Haaron.

Rannyl sgrano gli occhi, impallidendo visibilmente prima di levarsi a sua volta da letto, gracchiando sgomentò: “Come può, un dio, essere ucciso?!”

Torva in viso, Enyl scosse il capo, sistemandosi nervosamente una ciocca dietro un orecchio e replicando all’affermazione del fratello.

“Non ho detto che è morto. L’ho visto ferito.”

Imprecando senza mezze misure, Rannyl cominciò a percorrere in lungo e in largo la stanza da letto mentre Enyl, detergendosi il viso utilizzando l’acqua contenuta in un bacile di ceramica, commentò lapidaria: “Siamo giunti al bivio. Ne sono più che sicura.”

“Sei più esperta di me, in queste cose” ironizzò nervoso Rannyl, tentando di sorriderle.

Enyl scosse nuovamente il capo, ribattendo: “Esperta? Io? Ran, non ho la più pallida idea di cosa stia succedendo.”

“Io non vedo quel che vedi tu” le rammentò Rannyl, fissandosi le mani con aria quasi irritata.

La gemella fu lesta a raggiungerlo e, afferrate le sue forti mani di guerriero, gliele strinse prima di rivolgergli un sorriso caloroso.

“Io non faccio quel che fai tu.”

Chinandosi verso di lei, poggiò la fronte contro la sua e, con un sospiro tremulo, mugugnò: “Non voglio lasciarti sola.”

“Non saremo mai soli, Ran” lo consolò lei, accentuando il suo sorriso.

“Fisicamente, sì. Almeno, stando a quello che mi hai detto” brontolò il fratello, svicolando dalla stretta della sorella per abbracciarla con foga. “Ti sono sempre stato accanto! Non sopporto di doverti lasciare adesso, quando il pericolo è più vicino!”

“Così ho visto, Ran. E’ l’unica cosa che ho capito, in tutti i miei incubi” sospirò Enyl, poggiando il capo biondo contro il torace del gemello. “Spero solo di capire qualcosa di più, prima di arrivare al dunque.”

“Avrebbero dovuto dare a me, questo compito” sbottò Rannyl, baciandola frettolosamente sul capo prima di scostarla da sé. “Io sono inutile.”

“Sai benissimo che non è così. Il tuo dono è utile quanto il mio” brontolò Enyl, dandogli un colpetto bonario sulla fronte con l’indice teso.

Ran mugugnò un rifiuto ma Enyl non si lasciò convincere e, tornando a sorridergli, mormorò: “Torniamo a dormire? Ho sonno.”

“Puoi dormire con me, se credi che possa aiutarti” le propose lui, grattandosi nervosamente dietro la nuca scoperta, l’aria vagamente imbarazzata.

Enyl gli sorrise con maggiore calore, memore dei tanti anni passati accoccolati l’uno vicino all’altra.

Si erano stretti in un abbraccio consolatorio, che sapeva di reciproca accettazione di un destino che nessuno dei due aveva chiesto, e di piena consapevolezza della loro missione.

“Grazie, Ran” si limitò a dire Enyl, infilandosi nel letto del fratello e poggiando il capo sul morbido cuscino di piume.

Un attimo dopo, Rannyl la raggiunse e, dopo averla avvolta nel suo abbraccio protettivo, sussurrò: “Vorrei tanto che mamma e papà fossero qui.”

“Non è la loro battaglia, a quanto pare” sentenziò Enyl, lasciando calare le palpebre su gli occhi dorati.

“Spero proprio di evitarla, questa battaglia” mugugnò Rannyl, imitandola.

“Non saremmo nati tali senza un motivo, ti pare?” gli ricordò lei, sorridendo nell’ombra della stanza.

Rannyl preferì non dire niente.

Sapeva fin troppo bene che, di qualsiasi cosa si trattasse, il loro nemico era là fuori, pronto a trafiggerli con la sua malvagità.

Loro dovevano solo essere in grado di muoversi più velocemente dei suoi strali.

***

“E’ dolce!” esclamò una donna con voce cristallina. E gelida.

Spire di fumo biancastro si levavano dai bracieri che si innalzavano ai quattro angoli dell’enorme salone ove, immersa nella penombra della notte, una donna di bianco vestita era assisa come una regina su un trono di niveo marmo.

Le effigi di Haaron erano scolpite a bassorilievo su quell’enorme scranno di pietra, così come i corvi che lo sovrastavano.

La veste di lei, che scivolava come una nuvola candida su un corpo perfetto e di giovane fanciulla, solleticava i primi gradini del podio ove ella si trovava come una dea vivente.

Ai suoi piedi, a qualche metro di distanza, due servitori genuflessi attendevano pazienti che la donna desse loro ordini.

La bianca falce che teneva con una mano scintillò alla luce della luna, che scivolava all’interno del palazzo da un lucernario posto sul soffitto.

Quando la giovane si levò in piedi, emanò scintillii spettrali lungo tutto il salone, come serpi di fuoco freddo sprigionate dal nulla.

Chinandosi fino a sfiorare il pavimento di fredda pietra con il capo, il più alto in grado fra i suoi servitori mormorò ossequioso: “Siete infine giunta a sfiorare la mente della gemella bianca?”

“Sì” esalò eccitata la donna, picchiando a terra il bastone della falce e producendo un rimbombo sinistro per tutta la sala. “Dolce. Ma anche forte. Molto forte. Sarà  un piacere averla tutta per me.”

I passi cadenzati di un paio di stivali riverberarono nel salone e la donna, volgendo lo sguardo dagli occhi di fuoco in direzione di quel suono, ringhiò: “Non ti è permesso stare al mio cospetto, se non sono io a volerti qui!”

L’uomo, del tutto indifferente allo scoppio d’ira della fanciulla, si avvicinò ugualmente al palco, oltrepassando i due servi ossequiosi.

Con un sorriso sghembo sul viso sbarbato, fissò con occhi adamantini la figura longilinea della giovane prima di ghignare tronfio: “Il tuo essere la mia strega, non fa di te la regina di questo palazzo, cara Kennadarya. Io sono il re, non tu. Il palazzo è mio, e sono io che ti ospito.”

“Ma tu hai bisogno dei miei poteri, se vuoi conquistare Akantar” precisò la ragazza, puntandogli contro la falce con disinvoltura.

L’uomo la scostò con un gesto rabbioso della mano e, dopo aver allontanato con un ringhio i due servitori – che fuggirono silenziosi dalla sala – afferrò alla vita la giovane e la schiacciò prepotentemente contro di sé.

“Non ne ho bisogno. Potrei annientare Erenokt quando voglio. Il tuo metodo mi consente soltanto di risparmiare il mio esercito e i miei danari.”

Lei rise, reclinando all’indietro il capo per un istante, lasciando che la sua lunga massa di capelli color della luna scivolasse fino a terra in un fiume niveo e liscio come seta.

Tornando poi a osservare il suo re con i profondi occhi di ghiaccio, adombrati da chiare ciglia arcuate, Kennadarya mormorò maliziosa: “Voi uomini siete così stolti, quando c’è di mezzo qualcosa che volete a tutti i costi.”

Lui strinse maggiormente il braccio attorno alla sua vita sottile, percependo senza fallo il calore della sua pelle eburnea e il battito calmo del suo cuore.

Con un ghigno beffardo, il re replicò: “Tu sei giunta alla mia porta assieme a tua madre, mia cara, non il contrario. Io mi sono solo dimostrato ben lieto di dare una mano a un’Accolita del Signore delle Ombre, di cui io sono devoto servitore.”

Detto ciò, le schiacciò le labbra tinte di rossetto viola scuro con una foga che non lasciò alcun dubbio a Kennadarya, sui reali motivi che avevano spinto re Kevan da lei.

La voleva nel suo letto, anche quella notte.

La sua regina non ne sarebbe stata felice, ma questo a Kevan poco importava. Le sue voglie avevano la precedenza su tutto.

Ma a lei, in fondo, stava bene anche così. Attraverso di lui, avrebbe ottenuto ciò che voleva più di tutto. Il potere degli dèi.

Se, per ottenerlo, avesse dovuto giacere anche altre mille notti con Kevan, l’avrebbe fatto con piacere.

Gli avrebbe anche consegnato su un piatto d’argento Akantar e il palazzo di Yskandar.

Alla fine, però, il vero premio sarebbe andato a lei, e lei sola.

Il potere della divinità della Vita sarebbe stato nelle sue mani e, grazie al suo retaggio, anche quello della Morte sarebbe stato suo.

Si era nascosta per anni, imparando a padroneggiare i suoi immensi poteri grazie ai Prelati dell’Ombra che risiedevano nel palazzo di re Kevan.

Era stata una paziente allieva, pronta a ricevere la sua eredità nel momento in cui il Fato fosse stato pronto per lei.

Abbandonare il luogo in cui era nata, in cui aveva imparato i rudimenti di ciò che era e che avrebbe potuto divenire, era stato difficile, per lei, pur se aveva sempre saputo che quello non era il posto più adatto in cui far prosperare il suo potere.

Lì, in quei luoghi, la Luce era troppo forte, troppo difficile mantenere il controllo sui propri istinti.

No, partire alla volta di un paese straniero era stata la scelta giusta, e sua madre era stata lungimirante in questo, pur avendo avuto a che fare con lei, una bambina petulante e poco propensa a obbedire ai comandi materni.

Ora comprendeva molto meglio ciò che, un tempo, le era parsa una forzatura e, prima o poi, avrebbe ringraziato la madre per averle imposto certe scelte che, all’epoca, le erano parse assurde.

Ora era pronta a rivendicare la sua eredità, a combattere per ottenerla e a schiacciare sotto i suoi piedi coloro che avrebbero tentato di impedirglielo.

Se, nel frattempo, avesse ripagato i suoi debiti con le persone che, fin lì, l’avevano aiutata  a portare a buon fine i suoi sogni, meglio ancora.

Sapeva essere generosa con chi lo meritava.

Ma aveva bisogno della gemella bianca per poter utilizzare appieno i poteri dello Spirito Nero, lo sapeva fin da quando era nata, diciassette anni or sono.

Tutta la sua vita si era basata su quello.

La venuta nel continente di Rellentan della gemella bianca aveva solo accelerato i tempi.

Quanto prima il Libro degli Arcani fosse stato in suo possesso, tanto prima avrebbero potuto dare il via all’intera operazione.

Era tempo che la sua eredità tornasse nelle mani cui apparteneva, e cioè le sue. Era stato confinato al sicuro per fin troppo tempo, così da non essere visibile a occhi nemici.

A quel punto, neppure lo stesso Haaron avrebbe potuto fermarla.

Sciocchi dèi immortali, non hanno ancora compreso quanto il loro dominio sia in bilico su un baratro senza fine, e che sarò io a spingerli oltre quel confine senza ritorno, pensò tra sé Kennadarya, sentendo sulla sua gola protesa la bocca avida di Kevan.

Tutto le sarebbe stato servito su un piatto d’argento perché così doveva essere, così era stato scritto per lei fin da quando il suo primo vagito aveva trafitto le pareti dell’oscuro sotterraneo in cui era nata.

Un Fato bizzarro l’aveva creata, quando le leggi stesse dell’Universo avevano sempre gridato il contrario, e lei avrebbe approfittato di quella fortuita fortuna per avere tutto.

Luce, Tenebra, immortalità.

Le terre?

Che Kevan si tenesse Akantar.

Che il suo munifico genitore adottivo si tenesse la corona, cui bramava da decenni.

A lei non pesava affatto lasciare tutto ciò, a coloro che l’avevano generosamente spalleggiata.

Non Enerios, non Akantar, non Nellassat,… nessuno di loro avrebbe prevalso.

Solo Kennadarya, figlia di Haaron.

 

 

 




________________
N.d.A.: giusto per complicare le cose, ho inserito anche questo ultimo, simpatico personaggio, che risponde al nome di Kennadarya. Di sicuro, complicherà molto la vita ai nostri eroi.
Un grazie a tutti coloro che hanno fin qui letto la mia storia e anche a coloro che hanno commentato. :))

  
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