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Autore: yoshimoto    26/12/2012    1 recensioni
Sul mio piccolo quaderno rosa iniziai a buttare giù appunti su appunti, rispondendo a volte alle domande che la professoressa ci poneva.
«Richardson, mi dica.»
La professoressa ora aveva mosso il viso lungo e rugoso verso gli ultimi banchi.
Mi voltai curiosa. Un ragazzo con i capelli lunghi aveva alzato la mano, facendo sbattere con forza il suo bracciale borchiato sul banco.
«Ho una domanda.» parve alquanto scocciato.
La professoressa annuì, incitandolo a parlare.
«Io odio la scuola. Odio lei, odio questo posto. Perché dovrei ascoltare questa inutile lezione?»
Fu come se stesse parlando direttamente con me. Lo fissai, mentre cercava di avere un’aria strafottente, con gli occhi fuori dalle orbite. Nella mia mente sognai di essere io la professoressa e di poterlo mandare direttamente in un carcere per gli ignoranti. Un posto che avevo inventato io per le persone che non avevano rispetto per gli altri, né tanto meno per la cultura.
Ginnie Pywett te la farà pagare, Richardson.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Scolastico
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 Sprawl




 

«Devi stare attenta alla media scolastica!» mi ripeté per l’ennesima volta mia madre, portandomi ancora allo sfinimento.
Le sorrisi cordialmente portando alla bocca il cucchiaio pieno di cereali integrali. È vero, avevano un sapore orribile e di certo non mi saziavano come avrei voluto, ma la dieta parlava chiaro: poche calorie per tanti risultati.
La mamma, in particolare, era entusiasta della mia vita. Ogni minimo particolare che non le andava bene veniva cambiato da mio padre, il preside della scuola, un pezzo grosso della città.
A Londra non c’era uomo che non lo temesse, in senso buono, però. Era colto, saggio e soprattutto ci sapeva fare con le persone. Guai a chi osava contraddirlo: con una serie di giochi di parole riusciva a rigirare la frittata in men che non si dica, rendendo addirittura ridicola la persona che aveva obiettato.
A volte gli dicevo che per me non andava bene quel suo comportamento da sapientone. Molte persone avrebbero potuto prendersela, ma lui mi rispondeva che nella vita bisognava essere proprio come lui. Pronti a tutto, sempre con la risposta pronta.
Anche lui era orgoglioso di me e della mia vita. Mi lodava talmente spesso che ormai se non sentivo almeno un complimento al giorno la mia routine sarebbe andata in frantumi.
Certamente la mia era una di quelle famiglie allegre e piene di spirito. In realtà mi stupivo anche che potessero esistere famiglie diverse dalla mia. Per me, il mio nucleo famigliare era totalmente perfetto. Erano gli altri ad essere strani.
Il mio cellulare, tenuto a debita distanza perché secondo mia madre tenerlo troppo accanto portava lentamente alla formazione del cancro, squillò all’improvviso, facendoci sobbalzare.
Mentre mi alzai per recuperarlo sul bancone della cucina i miei iniziarono a ridacchiare per una notizia relativa alle leggi scolastiche appena varate. Erano chiaramente in disappunto con il presidente.
Come ogni mattina, Claire mi chiamò per sapere se saremmo andate insieme a scuola. Accettai e mi diressi a dare un bacio ai miei carissimi genitori, che ora discutevano ancora sul da farsi in tutta l’Inghilterra.
«Dovreste smetterla di rimanere qui e proporvi, invece, come presidenti» scherzai.
«Ah, fosse facile piccina mia!» esclamò la mamma.
«Ginnie, tesoro, mi raccomando: anche oggi acqua in bocca.»
Tipico.  Dovevo tenere nascosto il fatto che lui fosse mio padre, così da non destare sospetti in quanto figlia del preside. Aveva paura che qualche ragazzo potesse sfruttare l’occasione per avvicinarmi e poi provare a fare l’amicone con lui, nonostante sapesse che lui non avrebbe mai dato ascolto a nessuno, specie se questa persona fosse stata minorenne e avesse avuto voti al di sotto della A.
Annuii velocemente, raccogliendo lo zaino. Non avevo avuto il permesso di prendere la moto, quindi mi trovai costretta a raggiungere casa della mia migliore amica a piedi.
Quattro isolati e Claire avrebbe cominciato a raccontarmi dell’ultima festa a cui aveva partecipato e quanti ragazzi aveva adocchiato.
Oramai era una consuetudine.
 
 
«Va’ avanti» incitai la mia amica nel bel mezzo di una discussione riguardo l’abito che ora non trovava più.
«E’ da quando esco con Charlie che non trovo più il vestito!»
«Probabilmente l’hai lasciato a casa sua» ammiccai, conoscendo i suoi vizi.
«Probabile. Sai Ginnie? Sei un angelo.»
Arrossii. «Oh, sei adorabile quando fai così!» continuò lei.
Mi stritolò le guance rendendole ancora più rosse di quanto non fossero normalmente. Di solito, però, la mia carnagione abbastanza scura nascondeva i miei momenti di imbarazzo. Una volta, quando io e Claire ci trovavamo a casa di Sophie, entrambe mi confessarono che avrebbero voluto avere il mio colore di pelle. La mia era una carnagione strana. Io la chiamavo mulatta, ma mamma e papà mi riprendevano dicendo che era l’insieme di due culture racchiuse in un unico grande amore: la mamma di origini africane, il papà un europeo di origini orgogliosamente inglesi.
Nel tragitto per andare a scuola incontrammo un po’ di ragazzi che conoscevamo, tra cui Matt, uno dei tanti ex di Claire.
«Buongiorno bellezze!»
La mia amica, da buona ammaliatrice, gli saltò addosso sotto gli occhi dell’intero corpo studentesco.
«Matt, quanto tempo!» esclamò fingendosi entusiasta lei. probabilmente aveva in mente un’altra notte insonne con il ragazzo. Quest’ultimo, ovviamente, non si oppose, anzi, iniziò a parlarci come se niente fosse.
Scossi il capo divertita dalla mia amica che, con il suo solito occhiolino, mi liquidò. Non me la presi. Come al solito aveva il suo da fare e io avevo il mio.
L’essere una studentessa modello era un dovere per me.
Schiena dritta, libri in mano. Il mio portamento era decisamente impeccabile. Anni ed anni di danza portarono ad una ragazza totalmente piena di spirito e in gamba. Si, ero decisamente in gamba.
Da lontano scorsi una figura non molto magra che scoprii essere Sophie. Lei mi si avvicinò con una barretta di cioccolato tra le mani, mandandomi uno dei suoi soliti baci volanti.
«Oh, non squadrarmi così»mi sorrise «ho bisogno di zuccheri, non iniziare con i tuoi soliti discorsi sulla salute.»
Quella ragazza era una forza. Bella si, ma se solo avesse avuto il fisico migliore i ragazzi l’avrebbero desiderata come voleva lei. Ogni giorno aveva un nuovo gossip riguardo questo e quel ragazzo, cercando, ogni volta invano, di far colpo.
«Sophie, hai intenzione di partecipare a qualche corso, quest’anno?»
Gli occhi della mia amica si illuminarono.
«Credo cucina, si.»
Risi a quella sua affermazione. L’aveva detto con tanta nonchalance che aveva reso il tutto ancora più divertente.
«Hey, miss confettino» mi ammonì dandomi una leggera pacca sulla spalla «non osare dirmi che anche quest’anno tu rinuncerai ai corsi per quella stupida danza.»
Tornai di colpo seria, usando il consiglio di mio padre: battuta sempre pronta.
«Si da il caso che la danza sia la mia vita. Se quest’anno accettassero la mia richiesta per un corso di danza magari lo farei anche volentieri.»
Ripensai al giorno in cui cercai di convincere mio padre a creare quel maledettissimo corso. La sua fu una risposta totalmente scontata. «Potrebbero capirlo. Un preside normale non acconsente a certi corsi, specie se non sono molto richiesti. probabilmente potrebbero collegare il fatto che entrambi viviamo nella stessa casa e non mi va di crearti problemi» e bla bla bla.
Sophie ingurgitò l’ultimo pezzo di cioccolato rimastole.
«E la nostra papera dov’è?» chiese riferendosi a Claire.
Scrollai le spalle e lei intuì. Sapevamo entrambe che non l’avremmo vista prima della seconda ora.
Col sorriso sul volto mi diressi verso il mio armadietto, il 57C.
Sophie mi salutò per correre in classe per prendere il posto dietro per poter sgranocchiare meglio i suoi snack. Che ragazza irrecuperabile. Però le volevo bene perché non nascondeva il fatto che mangiasse troppo, e in più era consapevole del suo peso notevole. Dietro di me scorsi due ragazzi che ridevano per un motivo a me sconosciuto. Indicavano un punto in lontananza. Probabilmente qualche loro stupido amico stava facendo il bullo con qualche povero ragazzo. Lasciai perdere concentrandomi sul codice da immettere per aprire l’armadietto. Nel frattempo i due avevano taciuto.
Senza dare importanza ai loro comportamenti da bambini, passai per il corridoio principale, scrutando la figura di mio padre dietro la sua sontuosa scrivania alle prese con una ragazzina dai capelli rossi. Pensai che probabilmente aveva fatto una delle solite ragazzate come l’essersi chiusa negli spogliatoi con un ragazzo. Sicuramente però papà me l’avrebbe detto una volta a casa.
In classe era rimasto solo un posto davanti alla cattedra, ma non mi dispiacque. Avrei avuto un motivo in più per seguire al meglio la lezione di Inglese. Odiavo la professoressa, ma la materia mi interessava non poco.
Sul mio piccolo quaderno rosa iniziai a buttare giù appunti su appunti, rispondendo a volte alle domande che la professoressa ci poneva. Ecco, ci poneva, non mi poneva. Non avevo mai imparato a lasciar spazio agli altri quando sapevo di essere tra i migliori. Mi sembrava come se dovessi dar troppo spazio agli altri quando non se lo meritavano. E poi loro non si lamentavano nemmeno, anzi, credo gli facesse piacere non rispondere ma continuare a fare quel che stavano facendo, o meglio oziare.
Credo proprio che il comportamento di mio padre mi avesse condizionato a tal punto da esser diventata quasi come lui.
«Richardson, mi dica.»
La professoressa ora aveva mosso il viso lungo e rugoso verso gli ultimi banchi.
Mi voltai curiosa. Un ragazzo con i capelli lunghi aveva alzato la mano, facendo sbattere con forza il suo bracciale borchiato sul banco.
Ah, se papà ti avesse visto, pensai.
«Ho una domanda.» parve alquanto scocciato.
La professoressa annuì, incitandolo a parlare.
«Io odio la scuola. Odio lei, odio questo posto. Perché dovrei ascoltare questa inutile lezione?»
Fu come se stesse parlando direttamente con me. Lo fissai, mentre cercava di avere un’aria strafottente, con gli occhi fuori dalle orbite.
Nella mia mente sognai di essere io la professoressa e di poterlo mandare direttamente in un carcere per gli ignoranti. Un posto che avevo inventato io per le persone che non avevano rispetto per gli altri, né tanto meno per la cultura.
  
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