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Autore: Kim NaNa    28/12/2012    3 recensioni
"C’è qualcosa che dovrei sapere anche io? Ti puoi fidare di me, lo sai…“
I suoi serafici occhi abbandonarono lo spettacolo incessante di quell’inclemente cielo grigio e si posarono sulle mie iridi castane, rallentando i battiti del mio cuore.
“Non adesso, Gabrielle. Non ancora…“
Questo mi disse.
Genere: Drammatico, Romantico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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La bottiglia.
 
Il 30 di Ottobre, dopo giorni di digiuno, ripresi a mangiare, ma il mio fu solo un atto convulso, disperato e pieno di rabbia.
«Devi mangiare.» Non mi dicevano altro.
E io mangiavo. Tutto, con una voracità pazzesca, senza neanche assaporare il gusto di quel che ingurgitavo. Mangiavo tutto, fino a scoppiare, fino a sentire il bisogno di andare in bagno e lavare il mio peccato, vomitando meticolosamente qualunque sostanza avessi in corpo.
In quei giorni non vidi mai Anthony. Pensai che non mi piaceva sapere così poco di lui e provai ad immaginare la sua vita.
«Chissà, magari la sua vita è più incasinata della mia.» Mi dissi.
Mi mancava e, per la prima volta, mi resi conto di quanto mi facesse paura la solitudine.
Quel pomeriggio lasciai la mia camera per raggiungere un piccolo parco, non lontano dalla mia casa.
Era un bel posticino per una come me, aveva solo qualche panchina, una piccola fontana e una vecchia altalena sulla quale mi sedetti.
Non c’era quasi nessuno, solo un anziano con il suo cane.
Appoggiai le mani alle catene dalle quali pendeva l’altalena e, a capo chino, cominciai a dondolarmi in silenzio, accompagnata dal cigolio delle catene.
Udii qualcosa scricchiolare alle mie spalle, ma continuai a dondolarmi, incurante, fino a che qualcuno non cominciò a spingermi.
Era lui, il mio Anthony.
Non dissi niente, il mio corpo era vuoto, poco prima, nel bagno di casa mia, mi ero liberata di tutto, anche delle parole.
«Che fai?» Mi chiese, spingendo l’altalena.
«Aspetto» dissi.
«Chi?»
«La solitudine.»
Arrestò l’altalena e mi fu di fronte in un attimo.
«L’hai vista?»
Feci un cenno di assenso col capo e ripresi a dondolarmi.
«E com’è?» insisté.
«Silenziosa.»
Mi fissava con quella forza e profondità che avevo imparato ad amare.
«Ma non sa di eternità…» Disse, guardando il cielo.
Sbuffai.
Ecco che ricomincia con la storia dell’eternità! Pensai.
Mi sorrise e, dalla tracolla blu che indossava, tirò fuori una piccola bottiglia di Coca-cola.
«Non c’erano più lattine.» Aggiunse, togliendo il tappo.
Ne bevve un po’ prima di offrirmela.
«No, grazie.» risposi, agitando le mani.
«È la mia Coca-cola, Gabrielle…» il suo sorriso si perse e mi parve di vedere un alone di tristezza nei suoi occhi.
Mi sentii colpevole, rea di avergli strappato quel tenero sorriso dalle labbra.
«Ecco…» cominciai. «Non ho mangiato nulla e berne un po’ non mi farebbe bene…» mi giustificai.
Sorrise di nuovo, scompigliandomi i capelli con una mano.
«E che problema c’è?»
Mise nuovamente le mani nella sua tracolla e sorrisi guardando la sua espressione buffa.
Ne tirò fuori una scatolina di biscotti al cacao con zuccherini e granella di nocciole.
«Toh! Sono i miei preferiti e non li divido con nessuno.» disse, porgendomi la scatola.
«E perché li dividi con me?» chiesi, prima di sgranocchiarne uno.
«Perché tu sai di eterno.»
Scoppiai a ridere, una risata un po’ esagerata per l’affermazione appena udita, ma sentivo il bisogno di tirare fuori la mia voce, quella voce che proprio non riusciva a piacermi e allora rise anche lui. Così, senza motivo. Rideva solo perché ridevo anche io.
Dopo qualche biscotto e un paio di risate ingenue, mi porse di nuovo la Coca-cola e la bevvi tutta. Non mi ero mai data una spiegazione plausibile, ma la sua Coca-cola era diversa, migliore delle altre.
Mi alzai per cestinare la bottiglia, ma Anthony me la strappò dalle mani e l’appoggiò sul fondo della fontana, aprendone piano il getto.
«La vedi, la bottiglia?» mi disse.
Fissai quell’oggetto, cercando di comprendere cosa volesse farne, ma fui costretta ad affrontare i suoi occhi nero ebano per cercarne spiegazione.
«La bottiglia scivola, rotola a tocchi leggeri spingendo le zigrinature del vetro in una sorta di scala che né sale né scende, semplicemente rotola, scivola, sul fondo di questa piccola fontana.
Senza tappo. L’abbiamo tolto per bere. Senza tappo.»
«Ma chi io o la bottiglia?» Non riuscivo proprio a seguirlo.
«Entrambe Gabrielle, entrambe.»
Poi continuò.
«Deglutisce il vetro bolle d’aria e d’acqua, sembra la tua apnea di vita. Solo che nei tonfi in caduta tu sei più discreta, somigli al silenzio, perché il dolore ammutolisce qualsiasi anima spaventata di sé. Ma chi vi ha spinte, poi? Non importa, affoga il vetro, poi il pomello disperde dietro il flusso d’acqua tutta la sua regolare forma, solida, si disfa pure il colore, grigio, poi il legno, e se ci metto questo fazzoletto vedrai che da spugna raccoglie l’errore d’equilibrio di una effervescente bottiglia e di una spenta ragazza.»
«Ma io o la bottiglia?» domandai ancora.
Il tempo dilatato, mi accorsi di essere seduta sul prato, il corpo stretto nelle ginocchia.
Anthony mi parlava ancora, fissando l’acqua che batteva violentemente contro la bottiglia.
«Vedi, l’acqua nel collo singhiozza forza, l’ultima speranza per trattenere un po’ di vita. È solo acqua. Poi vince il vuoto dentro. E se insisti, se l’acqua continuasse a picchiare su quella bottiglia, quella si infrangerà. E una volta chiusa la fontana guarderai la bottiglia. A terra. In cocci acuminanti ripari. O prigioni.»
Mi passai una mano sui capelli , confusa e ancora una volta domandai: «Ma io o la bottiglia?»
«Entrambe Gabrielle, entrambe…»
Mi alzai di scatto, pulendomi le mani sui jeans scuri.
«Accidenti! Rinuncio a capirti! Sicuro di essere un terrestre? Parli una lingua che proprio non riesco a capire.» Incontrai i suoi occhi neri e solo allora mi accorsi di sentirmi più leggera.
Quel peso che portavo sempre con me, sembrava essere stato lasciato in qualche angolo di mondo, nascosto dalle ombre provocate da tutta quella luce che mi aveva portato lui.
«Hai niente da dire?» Mi chiese, fissandomi.
Mi allontanai appena da lui, non troppo, solo lo stretto indispensabile per non essere inghiottita dal suo profumo.
 «È guerra dentro il mio corpo. Vincitori? Chiedi dei vinti? Non lo so… sono seduta tra lo sferragliare dei due, con le ginocchia fradice, le mani umide, lo stomaco sottosopra, la gola in fiamme… se non mi sentissi respirare, giurerei di non esserci…»
Lo avevo detto.
A voce alta.
A qualcuno che non fossi sempre io.
Raggiunsi l’altalena sotto il suo occhio vigile e mi sedetti.
«Vorrei sparire.»
«Lo stai facendo.»
«No. Non è vero. Sono ancora qui, sono sempre io… sono sempre Gabrielle, quella diversa, quella sbagliata…» c’era rabbia nelle mie parole.
«Diversa? Sbagliata? Siamo tutti diversi e siamo tutti sbagliati. Conosci qualcuno perfetto?» mi chiese, ironico.
Pensai che sì, lo conoscevo e ce l’avevo davanti a parlarmi con quel suo tono profondo e serio.
Sembrò leggere nei miei pensieri.
Rise.
«Io? Perfetto? Gabrielle… non lasciarti ammaliare dalle apparenze… lo so, hanno fascino, ma sono delle grandissime stronze ipocrite. Impara che ci sono parole come delusione che resteranno sempre lì dove sono andate a finire. Non cesseranno mai di farti male. E torneranno, di continuo, per ricordarti che lei è lì, immobile, ma viva.
La gente non cambia e neanche le cicatrici che ti restano addosso. Saranno sempre le stesse, si riapriranno per tornare a sanguinare, poi cesseranno di farlo e poi di nuovo.
È così che gira il mondo. E gira così per tutti. Devi solo imparare ad incassare il colpo e a preparare l’attacco di difesa. Sì, hai ragione. Sei in guerra, ma dovresti esserlo con il mondo che è qua fuori, non con quel tuo corpicino stremato che non ha neanche il coraggio di chiedere aiuto.»
Non piangevo.
Ero lì, sull’altalena che mi dondolavo.
«Come fai?» domandai.
«Come fai, cosa?»
«A sapere sempre cosa dire e a chi dirla?»
«Non lo so. Lo sento e lo faccio.»
«Tu perché ti fai del male?»
Tacqui, abbassando gli occhi.
«Non lo sai. Lo senti e lo fai. Certo, avrei un’infinità di obiezioni da fare, ma so quant’è complesso il mondo che hai rinchiuso dentro.»
Ecco, l’aveva fatto di nuovo. Mi aveva capita senza che gli avessi detto una sola parola. Lui mi leggeva dentro, capiva ogni mio sguardo, ogni mio passo, ogni mio gesto.
«Io lo so perché lo faccio.» dissi, strisciando le scarpe sulla terra.
«Dimmi, perché?»
«Il mio peso è la sola cosa che posso tenere sotto controllo. Se qualcosa nella mia vita va storta e non posso cambiarla, perdo peso. Digiuno. E quando le parole di chi mi sta intorno mi assillano la testa, allora mangio, mangio così tanto da stare male, da sentire il bisogno di infilarmi qualcosa in gola e cacciare tutto fuori dal mio corpo. Perché è peccato. Perché sono colpevole di aver reso la mia vita un inferno, colpevole di non essere mai stata all’altezza degli altri.»
«Non dirò salvati… non mi ascolteresti. Ma lo sai che seguo le tue ombre e che non smetterò mai di fare luce per vederti. Non importa quanto ti nasconderai, quanto buio sarà il tuo inferno. Io sarò lì. Io ti sostengo i passi, Gabrielle… perché anche nel buio tu possa trovare le mie mani a sorreggerti, perché tu possa sentirti sicura, qualsiasi cosa accada… Se forza toglierai, forza t’imboccherò! Te l’ho detto, tu sai di Eternità… quella che sto cercando.»
Mi parlò senza preamboli, arrivando dritto al dunque, dritto al mio cuore, quello stesso cuore che sentivo sciogliersi nell’udire le sue parole. E poi mi guardava, mi amava, tutta, senza escludere niente. E mi guardava, come solo gli occhi che cercavano l’Eternità sapevano fare.
   
 
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