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Autore: margheritanikolaevna    29/12/2012    9 recensioni
Dal capitolo terzo: " “Ascoltami” disse Stella, con voce improvvisamente ferma “C’è una cosa che devi sapere: io non sono chi pensi che sia. Non sono la persona che credi di conoscere”.
La poliziotta era consapevole che un solo gesto avrebbe persuaso Mac più di mille parole, che lui avrebbe tenacemente bollato come sciocche credenze popolari, impossibili da credere: per questo, lesta come un fulmine s’impossessò della pistola che il collega teneva alla cintola e prima che lui - interdetto da quel gesto inaspettato - riuscisse a muovere un muscolo puntò l’arma verso il proprio petto ed esplose un colpo".
Racconto primo classificato al Goth Contest, indetto da CarmillaLilith su efp
Questo è il link: http://freeforumzone.leonardo.it/discussione.aspx?idd=10338285
Genere: Dark | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Mac Taylor
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Allora, amiche di efp, avete trascorso un buon Natale? Vi preparate e far follie nella notte che si porterà via quest’anno bisestile?
Nel frattempo, qualcosa della storia di Stella vi sarà svelato; non tutto, però…
Grazie infinite per il vostro sostegno così gentile, sono contentissima che questa storia sia stata ben accolta.
Alla prossima.
 
Capitolo quarto  
 
Mac Taylor gettò un grido e si slanciò verso Stella, aspettandosi di vederla crollare agonizzante sul pavimento; al contrario, non appena il fumo dello sparo si diradò, la scorse in piedi davanti a lui, apparentemente indenne, con ancora nella mano destra la pistola.
Sgranò gli occhi per la sorpresa, mentre la sua mente confusa cercava di attribuire a quel fatto inspiegabile una qualche improbabile causale razionale: quella era la sua arma, l’aveva caricata lui stesso poche ore prima! Com’era possibile che Stella fosse sopravvissuta a un colpo del genere?
Con la bocca spalancata, incapace di articolare una sola parola di senso compiuto, vide l’amica gettare l’arma per terra e fare un passo verso di lui; istintivamente lo sguardo gli cadde sul suo petto, dove si sarebbe aspettato di vedere sgorgare un fiotto di sangue vivo e dove, invece, scorse solamente un foro dai bordi grigiastri aperto nel golf di lana.
Prima che potesse anche solo tentare di riprendersi dalla sorpresa, Stella gli afferrò la mano e, tenendola tra le sue, la appoggiò pochi centimetri sopra il buco lasciato dalla pallottola. Con un tremito, Mac si rese conto che il battito del cuore era talmente flebile da non poter quasi essere percepito; con un moto d’orrore cercò di ritirare la mano, ma lei glielo impedì, tenendola ferma con una forza che gli parve disumana e contribuì ad accrescere il suo atterrito stupore.
“Ma?” esalò a quel punto il poliziotto, tentando di svincolarsi e di arretrare di un passo.
“Ascoltami” ripeté Stella senza distogliere lo sguardo dal suo viso, né permettergli di allontanarsi da lei “Devi ascoltarmi. E non interrompermi, ti prego, perché è la prima volta che racconto la mia storia a qualcuno e se mi fermo non credo che riuscirò più ad andare avanti”.
“Quello che hai visto ti ha sconvolto; mi dispiace di essere stata costretta a farlo, ma era l’unica maniera per convincerti che ciò che ti dirò è la pura verità. Il solo modo perché tu mi creda, anche se i fatti che sentirai ti sembreranno folli e sovvertiranno per sempre le convinzioni sulle quali hai basato la tua vita finora”.   
Lasciò andare la sua mano e trasse un respiro profondo, come sperando di riuscire a trarre da questo la forza necessaria. Dopo una pausa che al detective parve infinitamente lunga, disse:
“Io non mi chiamo Stella Bonasera. Il mio nome è Asteria Sophia Iannellis e sono nata nell’isola di Chios il 21 dicembre 1661. Mio padre era un soldato e morì che io ero praticamente in fasce, servendo sotto le insegne della Sublime Porta.
Così rimanemmo io e mia madre: ero solo una bambina e lei poteva avere sì e no venticinque anni. Era così bella: sottile, sorridente, con lunghi capelli scuri, una curva dolce degli zigomi e il portamento altero. Nonostante la nostra povertà e la sua bellezza, era conosciuta da tutti come una donna onesta; poiché da ragazza aveva lavorato come cucitrice da una modista, manteneva se stessa e me cucendo per la gente del circondario.
Riuscimmo a cavarcela fino a che la nostra strada non incrociò quella di Theodora Vaxevanis: era una vicina, rimasta anche lei vedova, e faceva lo stesso mestiere di mia madre. Entrarono in competizione e ben presto tra loro sorsero discordia a gelosia.
Dopo un po’ accadde che il braccio e la mano destra di Theodora si gonfiarono e divennero violacei, tanto che lei soffriva di dolori atroci e non poteva più cucire; si rivolse al dottore del villaggio, che provò tutti i rimedi conosciuti per far sparire i sintomi senza riuscire però a trovare una cura.
Ben presto le vecchie del paese, che già guardavano male mia madre - una donna ancora giovane, bella e soprattutto sola - diffusero la voce che lei avesse stregato il braccio alla sua rivale: Dio Santo, quante sciocchezze furono in grado di inventare, con terribile crudeltà! La nostra vicina, poi, aggiunse di avere scorto mia madre che più di una volta se ne stava alla finestra sfregandosi il braccio destro e fissando con occhi torvi casa sua; lei si stava solo massaggiando le ossa indolenzite a causa delle tante ore di lavoro e invece…”.
La poliziotta scosse tristemente il capo, mentre la voce le si incrinava nel ricordare il momento più doloroso della sua lunga vita.
“Il processo fu breve e spietato: c’ero anche io nell’aula e non ho mai dimenticato le parole sprezzanti del giudice Nikos Constantopoulos che interrogava mia madre, mentre lei cercava di trattenere le lacrime per non sconvolgermi. Fuori, la folla rumoreggiava come impazzita, covando il proposito di strapparla alle guardie per darle una morte ancora più raccapricciante.
Alla fine lei, sotto minaccia di tortura, confessò di essere una strega e fu condannata all’impiccagione; morì una pallida mattina di novembre e io non ebbi nemmeno la possibilità di salutarla un’ultima volta…
Il braccio di Theodora guarì misteriosamente lo stesso giorno e tutto il villaggio ne trasse la conferma che la mia povera madre era davvero una strega. Avevo appena sei anni ed ero già sola al mondo: per fortuna, una signora di buona famiglia ebbe pietà della mia situazione e mi prese a vivere con sé”.
Mac vide passare negli occhi lustri di Stella una strana vaghezza, tanto da non comprendere se stesse parlando a lui, oppure a se stessa.
“Ricordo molto bene mia madre, anche se ero così piccola allora: era dolce e affettuosa e il pensiero di lei mi ha sempre accompagnato, rincuorandomi nei momenti di difficoltà e tristezza”.
La sua voce si ruppe in un gemito: “Ho desiderato mia madre, nessuno sa quanto! Lei era tutta amore e tenerezza, mentre il mondo non è altro che solitudine e crudeltà…
Ma il mio calvario non era finito: sventura volle che tempo dopo un pomeriggio - non avevo nemmeno diciotto anni - mentre tornavo dal mercato incontrassi per strada il giudice Constantopoulos.
Capii che mi aveva riconosciuta immediatamente, poiché avevo risvegliato in lui il ricordo di mia madre: come le assomigliavo, allora! Ero solo più giovane, più fresca ai suoi occhi lussuriosi, ma avevo gli stessi riccioli neri, la stessa vita sottile, il medesimo portamento. Ero molto diversa soltanto nell’espressione del viso: quanto lei era incline al sorriso, altrettanto io avevo spesso un’espressione tesa, timida, triste. La vita mi aveva insegnato così…  
Mi fermò, mi chiese il mio nome e, sebbene io non avessi usato con lui altra cortesia che quella di fermarmi, compresi che quel maledetto aveva messo gli occhi su di me e non si sarebbe fermato fino a che io non avessi ceduto alle sue squallide pretese.   
Qualche giorno dopo - ero andata a raccogliere erbe e radici alla periferia del villaggio -  me lo vidi comparire davanti: mi sbarrò la strada e venne verso di me con la fronte aggrottata e negli occhi un baluginio disgustoso che compresi immediatamente, sebbene non fossi che una ragazzina.
Mi si avvicinò e mi sollevò il mento con due dita verso il suo volto severo, adesso deformato dalla gioia di avermi così vicina; io ero troppo spaventata e sorpresa per riuscire a reagire e fui costretta ad ascoltare le oscenità che provenivano dalla bocca di quell’indegno servitore del Sultano. Mi appariva vecchio e orrendo, con le sue guance vizze e gli acquosi occhi grigi, ma anche se fosse stato bello come Apollo per me sarebbe stato sempre colui che aveva decretato la morte della mia povera madre, condannandola per una sciocca superstizione.  
Insomma, il solo tocco delle sue mani mi faceva venire i brividi; quando mi afferrò per le spalle e mi attirò a sé, quando per una frazione di secondo le sue labbra esangui toccarono un angolo della mia bocca nonostante istintivamente avessi girato la faccia per evitarlo, il disgusto supremo mi diede la forza di pestargli un piede, strappargli le mani dalle mie spalle e liberarmi.
Poi gridai con tutto il fiato che avevo in corpo: “Così, questo è l’onorabile Nikos Constantopoulos?  Un nobile che amministra la giustizia, oppure solo un aggressore di fanciulle? Fatevi avanti di nuovo, se avete il coraggio, perché non esiterò a cavarvi gli occhi con le mie mani!”.
Lui esitò un istante, anche perché lungo il sentiero stavano scendendo due cavalieri e avrebbe fatto una ben magra figura se fosse stato colto mentre cercava di insidiare una ragazzina.
“Strega figlia di strega!” sibilò allora contro di me, furioso per non aver ottenuto ciò che gli pareva ormai tanto vicino “Dovevo immaginarlo: hai la stessa anima nera di tua madre!”.
Quella frase fu per me più dolorosa di una pugnalata; trattenni il respiro e con fatica repressi l’impulso di saltare al collo di quel bastardo.
Non riuscii però a trattenere le parole che segnarono la mia sorte: “Sapevo che la vostra bocca volgare avrebbe offeso la memoria della mia sfortunata madre” risposi, fissandolo in volto e senza accorgermi di quanto si fossero avvicinati nel frattempo i due cavalieri “Proprio così: sono abbastanza strega da sfuggire alle vostre mire perverse, per quanti sforzi potrete mai fare…”.
Il clima di superstizioso terrore era tale in quel momento nel mio paese che bastarono le mie parole imprudenti, unite al ricordo della sorte che dodici anni prima era stata riservata a mia madre, perché fossi subito arrestata e sottoposta a processo con l’accusa di stregoneria.
Fui rinchiusa in cella - nella medesima cella dove era stata imprigionata lei - sotto la pressione della folla, che rumoreggiava e minacciava di linciarmi, gridando che non si era mai visto un caso tanto lampante di trasmissione ereditaria di poteri magici.
Ovviamente il giudice aveva avuto un ruolo non trascurabile in tutta la faccenda e compresi subito che intendeva usare il suo ruolo e il suo prestigio per costringermi a cedere: mi lasciò per ore da sola nella prigione umida e fredda, con l’unica compagnia del ricordo di ciò che mia madre aveva sofferto entro quelle stesse mura rese viscide dal muschio.  Poi, quando ritenne che la solitudine e la paura mi avessero resa più malleabile, venne a farmi visita: lo ricordo ancora, col volto solcato dalle rughe reso ancora più spaventoso dalla luce incerta della candela che teneva tra le mani e che appoggiò sul tavolaccio che fungeva da letto.
Nell’altra mano stringeva un involto si stoffa, che posò per terra, mentre con la destra trasse dalla tasca della giacca un plico recante il suo sigillo impresso nella ceralacca. Col trionfo negli occhi, lo aprì e me ne mostrò il contenuto: si trattava di una Grazia, redatta da lui stesso in mio favore e che mi avrebbe evitato il processo e la sicura condanna a morte. Me la sventolò davanti alla faccia e disse senza mezzi termini che avrei avuto salva la vita a condizione di cedergli la mia innocenza. Una volta e fino a che ne avesse avuto desiderio…     
Il disgusto e la rabbia mi impedirono di rispondergli come avrei dovuto, come mi era stato insegnato a fare; sapevo che ero perduta e la disperazione si stava rapidamente impadronendo di me.
Mi disse che sapeva che sarei stata ragionevole, che comunque, se anche avessi rifiutato, era nelle condizioni di prendersi da me con la forza ciò che adesso mi stava offrendo gentilmente (disse proprio così, quell’essere infame!) e che se non avessi giocato bene le mie carte avrei perso sia l’innocenza che la vita per mano sua.
Prima di andarsene, indicò il fagotto sul pavimento e concluse che mi avrebbe aspettato quella notte nel suo palazzo; le guardie della prigione avevano già ricevuto l’ordine di farmi uscire e di scortarmi fin lì.
Quando ebbe richiuso dietro di sé la porta, con le mani che mi tremavano aprii l’involto e la luce tremolante della candela che lui aveva lasciato lì apposta rivelò il frutto deforme delle fantasie perverse del mio nemico: una croce tempestata di pietre preziose, costose rose rosse, guanti di pizzo e un abito di seta bianca, raffinato e costoso, ma degno della più lercia sgualdrina dell’isola e non di una timida vergine com’ero io… ecco cosa voleva fare di me! Non solo sottomettermi, mostrandomi la sua forza e il suo potere, ma umiliarmi, trasformandomi in una sudicia puttana pronta a soddisfare ogni suo capriccio!
Ero talmente terrorizzata da non riuscire nemmeno più a piangere: non avevo nessuna via d’uscita, ero in trappola. Potevo decidere di accettare e diventare la concubina del mostro che aveva ucciso mia madre, oppure scegliere di lottare e perdere anche la vita, oltre che l’onore. Con un gesto di rabbia cieca scagliai il fagotto e tutto ciò che conteneva contro la parete e così facendo la candela cadde al suolo e con un guizzo si spense. Adesso mi circondavano le tenebre più fitte, ma non me ne importava perché sulla terra non esiste luogo tanto buio quanto lo era il mio cuore in quel momento.
Man mano che i miei occhi si abituavano all’oscurità della stanza, scorsi nell’angolo più lontano come un’ombra più densa e scura delle tenebre che la circondavano: era enorme e si contorceva come un serpente. Sbattei le palpebre, incredula, e mi alzai in piedi: mi sentivo talmente devastata che non pensavo sarei riuscita a provare altro spavento, né altro dolore, e anzi dentro di me speravo in una morte più rapida e onorevole di quella che mi era stata prospettata. (segue)
 
Perdonatemi se ho spezzato in due il capitolo, lasciandovi in sospeso, ma altrimenti ho temuto che sarebbe diventato troppo lungo da leggere e forse un po’ contorto da seguire.
Il racconto di Stella è liberamente ispirato alla novella dei primi del ‘900  dal titolo “Progenie di strega”, scritta dal giornalista americano Henry Wire.

  
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