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Autore: avalon9    16/07/2007    3 recensioni
Gli youkai sono essere terribili: affascinano e uccidono. Sono esseri diversi. I ningen sono insignificanti, per uno youkai; creature semplici, irrazionali, che trascinano la vita senza comprenderla. Dei ningen gli youkai non si curano; li ignorano con superiore indifferenza.
Sesshomaru è youkai ed è orgoglioso della sua essenza. Ma un inverno, incontrerà una ningen e, da quel momento, la linea netta che separa uomini e demoni inizierà ad assotigliarsi.
Genere: Romantico, Malinconico, Avventura | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Sesshoumaru
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Gentilissime lettrici e gentilissimi lettori,

Gentilissime lettrici e gentilissimi lettori,

 

rieccomi a voi con un nuovo capitolo. Capitolo di passaggio, perchè, effettivamente, sarà il penultimo prima dell’inizio dello scontro finale. Niente Sesshomaru e Alessandra. Intendo torturarvi ancora un po’, ma non temete non saranno del tutto assenti. Certo, i personaggi principali sono altri, ma anche il demone e la ragazza saranno costanti nelle conversazioni.

 

Vi ringrazio sempre infinitamente per la comprensione e per la pazienza mostratemi.

Ringrazio Cornelia84, fairyelly83 e Jame che hanno avuto la gentilezza di commentarmi.

 

Buona lettura!

 

Avalon

 

 

 

 

 

 

 

CAPITOLO 42

FRUSTRAZIONE

 

 

Preciso.

La lama falciò di netto il suo bersaglio, con un taglio sottile e perfetto. Nessuna sbavatura, nessuna esitazione. Il ciocco di legna si divise in due, scivolando mollemente lungo quella linea sottile e diritta. Netta. Come un confine. Il prima dal dopo. Ieri e domani. Non c’è un oggi. Solo un respiro, quell’attimo prima di capire quando lanciare e dove. Per colpire. Per tagliare senza nessuna esitazione. Per uccidere.

 

Un tintinnio di metallo, e mentre il legno cadeva a terra con un tonfo sordo, il kusarigama ritornava ben saldo nelle mani del suo proprietario. Una lama lucida, leggermente sbozzata e tozza, ma estremamente pericolosa. Letale. Un’arma fatta di ossa di demone. Un’arma per uccidere demoni. Usata per loro. Per uno di loro. Perché quell’arma era al servizio di un demone.

 

Kohaku rilassò il braccio, lasciando che la catena sfiorasse la terra in un suono sommesso. Chi gli aveva dato quell’arma, chi gli aveva insegnato a usarla? Non lo sapeva. Non lo ricordava. Però, era consapevole di usarla nel modo sbagliato. Contro lo scopo per cui era stata creata; un’arma umana, un’arma di difesa, adoperata per servire uno youkai. Per servire il nemico della sua razza…

Un sorriso gli storse le labbra. La sua razza…Poteva ancora definirsi un ningen?...Ricordi non ne possedeva, ma sapeva che se era in vita lo doveva solo al frammento di sfera nel suo corpo. Solo a quello. Ma il perché di quella sorte, il motivo che lo aveva portato fra le fila di Naraku…quello era un qualcosa che gli sfuggiva. Se provava a ricordare, fitte di dolore gli attraversavano il cranio. Un male sordo, come un sibilo di avvertimento, come lo sforzo di sollevare un macigno franato troppo in fretta e troppo pesante.

 

No. Bugie. Non era difficile ricordare. Sarebbe stato così semplice…Vincere quel male, quella morsa che stringe le tempie e toglie la ragione; avrebbe potuto ricordare, ma la verità e che non voleva farlo. Non aveva il coraggio di farlo. Era come se lui stesso volesse precludersi qualcosa di troppo difficile da sopportare. Qualcosa che non avrebbe potuto vincere e che lo avrebbe prosciugato, distrutto. I ricordi…i suoi ricordi si interrompono ad un massacro, compito da lui. Prima di quell’episodio, il nulla. Una densa nebbia a precludere la memoria. Ma quell’eccidio lo ricordava bene. Gente di un villaggio, ningen…li aveva trucidati senza esitazione, senza distinzione, sotto lo sguardo compiaciuto del suo padrone. Sentendo sulla nuca i suoi occhi e nell’aria il suo sorriso compiaciuto. Poi, un duello…con una ragazza…Con quella ragazza…L’unico volto che la sua mente si ostina a non cancellare…

 

Lei che lo chiama per nome; lei che preferisce farsi ferire piuttosto che combatterlo; lei che lo atterra e piange mentre solleva la spada; lei ferma davanti a lui, trepida e agitata; lei che lo salva e lo medica, che lo difende da Kagura senza motivo. Lei, lei, lei…Sempre lei nella sua mente. Fissa. Indelebile. Ossessiva. Lei che ha voluto salvare, che avrebbe voluto condurre lontano dal monte Hakurei, che avrebbe voluto non dovere combattere. Lei, che gli fa male vedere e prova gioia nell’incontrare…Lei. Lei. Lei. Solo lei.

 

C’erano dei vuoti, nella sua mente. Voragini create forse per non ricordare, forse perché…Non lo sapeva neanche lui, il perché. Più di una volta, si era risvegliato in un luogo diverso da dove era convinto di essere. E la sua arma era sporca di sangue. Più di una volta, non ricordava di aver indossato i suoi abiti da combattimento. Già…i suoi abiti. La veste nera orlata di verde, la maschera metallica, le protezioni in cuoio…Tutto così distante, eppure così normale. Tutto così conosciuto, anche se non ricordava perché li avesse indossati, la prima volta. I suoi vestiti, così simili ai suoi. La stessa maschera a proteggere il viso, le stesse nappe a fermare le protezioni, gli stessi gambali, stretti da un laccio sottile e resistente…Quella ragazza, come lui…Quella ragazza che faceva parte di lui…

 

Kohaku strinse con forza l’impugnatura del kusarigama. Perchè non voleva ricordare? Cosa temeva di ricordare? Solo una parola. La sola che gli rimbombasse nella testa. Ed era riferita a lei. Solo e sempre a lei.

 

<<…Nee-san…>>

 

L’aveva ricordata più volte, l’aveva detta più volte. L’aveva gridata. Senza pensare. Senza associarla ad un volto, riferendola a lei per poi dimenticarsi di averla pronunciata. Quella parola fluttuava irriverente nella sua testa; ma l’immagine della ragazza era sempre lì. Figura dai tratti incerti, ora sfumata ora definita…Figura salda della sua memoria…L’aveva protetta, ci aveva provato almeno. Senza un perché, contro Kaguya si era gettato su di lei per proteggerla. Lo aveva fatto perché aveva sentito che era giusto così. Che doveva farlo. Aveva cercato di allontanarla dalla montagna sacra, di evitare di battersi con lei.

 

Ricordava…di esser stato con lei, da qualche parte. Un luogo rischiarato dalla luna piena, umido d’acqua. Un luogo fantasma, ma…così distante. Forse non era mai esistito, quel luogo che lui avvertiva come familiare. Forse, la sensazione che provava a quel ricordo era solo un’invenzione della sua mente. Una fantasia, il surrogato di un passato che non voleva sapere. Non gli sarebbe servito a nulla, sapere. Non doveva servire a nulla. Perché lui non doveva ricordare nulla. Voleva convincersene. Doveva convincersene. Altrimenti, affrontare lei, sul campo di battaglia, sarebbe stato ogni volta più difficile.

 

Difficile…No. Semplicemente impossibile. Per questo aveva sempre cercato di evitare la breccia nelle mura; per questo aveva cercato di non mostrare mai la sua presenza. Evitare un incontro equivaleva a evitare il disagio che ne sarebbe seguito. Evitare le domande, e la frustrazione di non avere risposte. Evitare il passato. Eppure, lui lo perseguitava, sotto le spoglie di quella ragazza che sentiva così importante, e così pericolosa. Un pericolo rassicurante.

 

Aveva cercato di allontanarla dal palazzo di Sesshomaru, la notte che l’aveva sorpresa nella foresta. Si era mostrato apposta perché lei lo seguisse e potesse condurla al sicuro. Non voleva doversi battere con lei. Non voleva che lei fosse in pericolo. Non sapeva neanche perché si trovasse lì: cercavano Naraku, certo, ma in quel momento chi muoveva ogni cosa era Morigawa, non l’hanyou. E in definitiva, quella, era solo una battaglia fra demoni. Quindi, perché mai lei doveva trovarsi lì? Perché?

 

Non gli era interessato. Aveva solo cercato di portarla via. E aveva sbagliato. L’aveva gettata dritta nelle braccia della morte. Se non fosse stato per il ragazzo che era con lei, sarebbe morta. Sicuramente. E lui non avrebbe potuto far nulla per intervenire. Ma perché quel maledetto drappello d’esploratori era dovuto passare di là proprio in quel momento? Perché?! Aveva rischiato di farla uccidere, di vederla morire…E si era sentito lo stomaco stretto in una morse di colpevolezza e angoscia. Si era sentito…sporco…

 

Come se avesse rischiato di tradire qualcuno di importante. Sporco, come se la situazione venutasi a creare non fosse stata dovuta ad un fatto fortuito, ma l’avesse ricercata lui. Sporco, perché l’aveva tradita. E la cosa che più lo aveva terrorizzato era il sentire nota quella emozione. Il riconoscere quel leggero tremore che gli aveva preso le membra, la difficoltà di articolare suono. La consapevolezza di aver già provato quell’emozione, di averla già tradita. Tradita, delusa, fatta soffrire…lo sentiva d’istinto. Quella ragazza soffriva per lui, a causa sua. Per qualcosa che lui aveva fatto. Per quel passato che si rifiutava di ricordare, che scivolava irritante fra i chiaroscuri della sua mente. Non voleva ricordare, e non poteva ricordare.

 

Anche se, col tempo, aveva imparato a mantenere maggior controllo sulla sua parte cosciente, c’erano occasioni in cui non poteva far altro che restare spettatore di quello che il suo corpo compiva. In lui, nella sua anima, un lumicino di coscienza era condannato ad assistere sempre, senza possibilità di scampo, ad ogni sua azione efferata. Era come se in lui convivessero due nature: esistevano due Kohaku. Quello timido e gentile, obbediente e smarrito nei fantasmi della sua mente; quello spietato e indifferente, il ragazzo dallo sguardo vuoto e privo di emozioni. Il burattino.

 

Kohaku riavvolse la catena dell’arma con gesti lenti e meticolosi. Una marionetta…sapeva di esserlo, di poter diventare un semplice involucro nelle mani del suo signore. Uno strumento perfetto per uccidere, per svolgere quel lavoro sporco che tanto sembrava ripugnare Naraku. Soppesò in mano il peso di piombo. Era stato proprio una volta in cui era soggiogato che qualcosa dentro di lui si era ribellato. Quel lumicino che collegava la sua mente e il suo corpo si era acceso, in quell’occasione. Troppo debole. Non aveva potuto far nulla per fermarsi; solo assistere da spettatore a quello che voleva compiere, dall’omicidio alla provocazione.

 

Si voltò verso l’accampamento, addormentato nella pianura. All’orizzonte si poteva distinguere la massa scura del castello di Sesshomaru. Colonne di fumo si levavano ad avvolgerlo, colorando di cremisi e inchiostro i profili del palazzo. Era imponente in quel riverbero spettrale. Il grande corpo centrale sovrastava la piazza d’armi, chiusa da quelle mura a ventaglio che tanto davano filo da torcere agli uomini di Morigawa e ai demoni di Naraku. Percorse con lo sguardo tutto il perimetro di cinta. Lo conosceva ormai a memoria. Infinite volte, nei giorni passati, lo aveva costeggiato di corsa, protetto dai servi del suo signore. Cercandovi un varco, un sintomo di cedimento. Mai nulla. Quelle mura sembravano di diamante. Impossibili da scalfire. Resistenti, nonostante i profondi solchi che le granate tagliavano nella roccia viva e i fori di proiettile. Le conosceva a memoria, ormai. Dalla porta principale, spingendosi verso Ovest, distanza quattrocento-cinquecento passi, una feritoia; poco più avanti, un castello di guardia del camminatoio di ronda. Ancora più avanti, il muro mostrava i segni di numerosi tentativi di dare l’assolto alle mura; se si aguzzava lo sguardo, era ancora possibile distinguere i relitti di rampini e yari lanciati come arpioni verso le mura. Scale ammucchiate a terra, a ridosso della trincea che, all’inizio dell’assedio, tagliava la piana per tutto il fronte del palazzo. Kohaku procedette ancora. Con la mente, ripassò davanti ai cadaveri dei soldati che crollavano al suolo, scavalcò corpi maciullati da proiettili e squartati dalla violenza delle esplosioni. Avanti, avanti ancora. Senza fermarsi su volti irriconoscibili, su ferite sanguinanti, su scenari raccapriccianti. Sempre avanti. Il limite del muro frontale; adesso si scolta a destra e poi…Kohaku si ferma. Non vuole ricordare cosa si trova in quel luogo.

 

Lì le mura hanno ceduto, appena cinquanta metri sotto l’angolo di svolta. Eccolo, il fianco vulnerabile. Eccola la breccia costata tanto sangue e feriti. Ed ecco anche lei. Kohaku la rivede danti a sé, precisa come se l’avesse realmente dinnanzi: ritta in piedi nel mezzo della breccia, su un cumulo di detriti volutamente non sgombrati. Ferma e determinata. Agguerrita. La rivede stringere la nappa dell’hiraikotsu; sente il fischio che l’arma produce e il rumore di ossa che si spezzano, di corpi falciati. Il rimbombo di quell’arma che attraversa il campo seminando cadaveri. Abbassò gli occhi al suo kusarigama. Ossa di demone…Entrambe le armi erano fatte di ossa di demone. Strinse gli occhi, scuotendo la testa. E’ inutile pensarci. Non doveva pensarci. Armi simili, va bene. Dato di fatto. Punto. Inutile congetturarci sopra. Pericoloso.

 

Kohaku si lasciò cadere sull’erba, le gambe incrociate e le mani in grembo. Continuava a fissare il palazzo del Principe dei demoni. Fra quelle mura, aveva riparo quella ragazza. Per quel demone, lei scendeva ogni giorno in campo. Combatteva. Contro di lui. Il ragazzino non capiva. Non riusciva a capire il perché di quella scelta. Davvero quella ragazza odiava a tal punto il suo signore da accettare anche l’alleanza con un demone pur di ucciderlo? Quelle mura…quelle maledette mura…Se l’esercito di Morigawa fosse riuscito a espugnarle subito, lui non avrebbe dovuto rincontrarla. Lei non sarebbe scesa in campo. Lei non rischierebbe ogni giorno la vita. E invece…invece, quelle mura erano ancora là, a ridere beffarde dei loro tentativi. A sbatter loro in faccia un’invincibilità quasi assoluta. Una resistenza detestabile.

 

Detestare…Kohaku non ricordava di aver detestato davvero mai nessuno, in vita sua. Neanche il suo signore. No. Menzogne. Sapeva benissimo di detestare se stesso. La propria incapacità di ricordare; la costante indecisione fra il desiderio di sapere e il timore di una verità che non si è pronti ad affrontare. Odiava la sua arma, odiava i suoi vestiti, odiava la sua capacità di combattere. Così simili a quelli di lei. Così vicini ad un passato che gli camminava costantemente accanto e che lui voleva solo ignorare. Per paura. Sciocca, stupida, umana paura. Dannatamente umana.

 

Odiava se stesso, e Sesshomaru. Un odio diverso da quello che altri gli portavano; un’avversione che era più simile al rimpianto. Già…Kohaku rimpiangeva l’oblio in cui precipitava un volta, quando la sua mente non era in grado di catturare le sensazioni del suo corpo. Quando uccidere non gli procurava nessun ricordo, e tutto quello che restava era lavar via del sangue che non ricordava di chi fosse né da dove provenisse. Finchè era stato una marionetta di morte, avrebbe continuato ad eseguire senza pensare. Ma poi, era arrivata quella bimba. Rin…

 

Quando l’aveva conosciuta, era da molto tempo che non scambiava parola con un essere umano. E lei di parlare aveva bisogno. Molto bisogno. Per vincere la paura che la prendeva. Per vincere il silenzio e i cupi pensieri che le portava. Aveva parlato con Rin, senza neanche chiedersi il perché. Le aveva raccontato di non riuscire a ricordare il suo passato. Né suo padre né sua madre. Il buio che avvolgeva la sua mente. Non le aveva detto di quella ragazza che non riusciva mai a dimenticare. Non lo aveva ritenuto importante. Semplicemente, aveva voluto proteggersi, impedire che la bimba potesse capire qualcosa, potesse dar voce alle risposte che la sua mente conosceva. In verità, era consapevole di non voler ricordare perché temeva che nel suo passato ci fosse qualcosa di terribile. E Rin lo aveva detto. Aveva dato voce a quelle sue paure. Con un candore e un’ingenuità disarmante. Parole pronunciate a voce bassa, con la bocca ancora impastata dall’anguria e il liquido fresco che scendeva in gola. Un balsamo. Come la voce della bimba, un suono piccolo, un pigolio così consapevole. Anche lei aveva paura del suo passato, paura della notte che si popolava di incubi e fantasmi. Ma gli aveva detto che però, anche se quei sogni non la abbandonavo mai del tutto, lei era tranquilla. Perché non era più sola. Accanto a lei c’era una persona. E sarebbe venuto a prenderla. Ne era certa. Gli aveva anche chiesto se non gli sarebbe piaciuto andare con lei. Il suo Signore non avrebbe detto niente; Jacken di certo avrebbe strepitato, ma non il suo Signore.

 

Il suo Signore…Sesshomaru…Kohaku lo ricordava bene, quel demone freddo e indifferente. Ricordava la sua voce tagliente e ironica, i suoi occhi impassibili fissare prima lui e poi il corpo a terra di Rin. Non aveva fatto una piega. Non un’esitazione. Se non fosse stato per una ragazza, lui non si sarebbe mai inginocchiato a terra a sincerarsi delle condizioni di Rin. Aveva ubbidito, ma in quegli istanti la sua anima era rimasta cosciente. Smarrita la mente, soggiogata da Naraku. Ma la coscienza era rimasta lì, a seguire i movimenti esperti della sua mano, a fissare con occhi vuoti il viso spaventato della bimba. Un attimo prima, stavano parlando, e dopo lui aveva cercato di ucciderla. Un attimo prima, aveva ascoltato la sua voce come un piacevole diversivo; e dopo avrebbe voluto riuscire a schiudere le labbra, a muovere la sua lingua e dirle di scappare. Niente, invece. La sua voce era rimasta muta, annodata in gola. Sentiva nella mente quell’ordine perentorio: uccidila. Aveva agito con meticolosa lentezza. Con apparente sadismo. In realtà, dentro di sé si stava ribellando in ogni modo. Non voleva doverla uccidere. Non voleva dover vedere il sangue di quella bimba.

 

Aveva ringraziato i kami quando si era accorto che c’era un demone. Non avrebbe mai saputo dire come, ma aveva capito che era lui il Signore che Rin avrebbe voluto rivedere. L’uomo di cui parlava adorante, con una luce negli occhi che faceva intenerire. Si capiva subito l’adorazione che aveva per lui, l’affetto smisurato. Affetto per un demone. Non aveva avuto il tempo di sorprendersi a quella rivelazione. Troppo preso dal suo corpo che cercava in tutti i modi di provocare Sesshomaru. Troppo concentrato sul piacere di porre fine alla sua vita. Era disposto a lasciare che le sue membra fossero martoriate, era disposto a farsi squartare da quell’youkai, se questo sarebbe equivalso a smettere di tormentarsi. A smettere di soffrire.

 

In pochi secondi, aveva visto le sue speranze naufragare con l’arrivo di Inuyasha e la sua volontà suicida spingerlo a rialzarsi e attaccare il demone. Istanti, in cui la sua arma era rimbalzata sulla lama di Tessaiga, il tempo di assaporare la frustrazione della delusione, e il sentire gli artigli dell’inuyoukai sulla sua gola. La sua mano a stringere la giugulare, solleticando la pelle con finta noncuranza. Si era anche concesso il lusso di una battutina di scherno, mentre lo teneva sollevato da terra, senza respiro. E dentro di sé Kohaku già pregustava il momento in cui avrebbe avvertito le vertebre del suo collo scricchiolare, gemere sempre più forte fino a spezzarsi. Allora, sarebbe davvero stato simile ad una marionetta. Ma non gli importava. Se avesse potuto, avrebbe supplicato quel demone di ucciderlo. Di smetterla di fissarlo e di ucciderlo. Aveva rapito la sua protetta; aveva cercato di uccidere Rin. Per quale dannato motivo un essere che vive di morte doveva farsi venire degli scrupoli nell’uccidere proprio lui? Perché?!

 

Ricordava bene gli occhi di Sesshomaru. Ambra. Due gocce d’ambra fredde e austere. Adulte. Terribilmente adulte. Uno sguardo capace di raggelare. Non aveva voluto chiedersi cosa vi avesse trovato Rin. Voleva solo sperare che la freddezza di quegli occhi fosse l’ultima cosa che avrebbe visto. Il respiro che si era rimpadronito della sua gola e la sensazione dell’erba umida sotto le mani erano stati come il colpo di grazia. Lo aveva lasciato andare. Senza un motivo. Dopo averlo scrutato dentro, aveva allentato la presa e il suo copro era scivolato a terra. Senza senso. Non aveva senso quel gesto. Non ne aveva. Di quello che era successo dopo, Kohaku ricordava la voce di Rin che gli chiedeva se stesse bene e il suo impellente desiderio di fuggire. Fuggire dalla pietà. Dall’accondiscendenza di quel demone.

 

Se solo Sesshomaru lo avesse ucciso, se solo la sua mano avesse stretto di più attrono al suo collo, se solo non si fosse fermato per un qualcosa che aveva visto solo lui…Rimpianto. Di esser vivo. Di dover vivere. Gli pesava. Tanto. Troppo. Eppure, in cuor suo sapeva che non avrebbe mai voluto morire prima di aver scoperto cosa davvero significasse per lui quella ragazza. Cosa celassero le nebbie della sua mente.

 

Sospirò. Se solo l’indifferenza intrappolata nei tratti duri del demone, quel giorno lontano, si fosse mutata in rabbia, lui, in quel momento, non si sarebbe trovato a dover evitare i suoi fantasmi. Perché Inuyasha lo aveva fermato? Perché sembrava in ogni modo possibile voler impedirgli di ucciderlo? Perché, dannazione, voleva evitare che fosse liberato? La sua non era vita, lo sapeva bene. Era semplicemente schiavitù. Vuota. Incolore. Insensata. Solo servilismo e annullamento. Nient’altro. Aveva la salvezza a portata di mano. Provocare lui, farsi uccidere da lui. Ma niente. Che lo volesse davvero o fosse solo un piano del suo padrone per far soffrire i suoi nemici a lui non era interessato. Almeno, la sua ricompensa sarebbe stata l’oblio. Un oblio simile a quello eterno della sua mente, ma mille volte più rassicurante. Senza rischi, senza pericoli. Senza possibilità di ritorno, di ricordo.

 

“Kohaku”

 

Un sospiro nel silenzio della foresta. Il ragazzino voltò appena la testa. Rassegnato. Era finito il tempo del riposo, il tempo delle domande e dei rimpianti. Adesso, di nuovo, tornava a essere Kohaku il burattino. L’involucro senz’anima obbediente e ossequioso. Tornava ad essere il servo, l’oggetto dei piani del suo padrone. Un pezzo da muovere su una scacchiera sempre più contorta. Ma anche in quei momenti, ormai, Kohaku sapeva di non poter più godere del beneficio della dimenticanza. Chissà…Forse anche il suo mantenere, pur se flebile, uno stato di coscienza quando era sotto il totale controllo del potere della Sfera era voluto da Naraku. Forse tutto, fin nei suoi sentimenti di morte, nei suoi desideri e nella sua frustrazione, era solo un insieme di pensieri che non gli appartenevano. Convinzioni innestate nella sua mente, così radicate che lui le sentiva sue. Ma erano davvero sue? Davvero pensava alla morte come alla liberazione? Davvero non soffriva all’idea di andarsene e non poter più riaprire gli occhi?

 

Si alzò da terra liberando un lungo respiro. Cosa pensava davvero e cosa era indotto a pensare? Fino a che punto era davvero ancora padrone di sé fin dove il suo padrone era riuscito a insinuarsi? Non lo sapeva, non lo voleva sapere; o forse, di nuovo, era lui che voleva farglielo credere. Non capiva niente, non capiva più neanche se stesso. Se davvero, quando pensava, lo faceva di sua volontà o Naraku gli soffiava nella mente ragionamenti e dubbi.

 

Scosse la testa, facendo ondeggiare leggermente i capelli raccolti. La sua vita era come la catena del kusarigama: inerte nella mani di qualcuno; atta a uccider e impossibilitata a sottrarsi. Era lui stesso un’arma per uccidere e ferire. Era lui stesso freddo come la catena, legato alla vita da un solo anello: quel maledetto frammento che portava nella schiena.

 

Sistemò l’arma nella cintura, badando bene che la lama a doppio taglio gli sfiorasse il fianco, senza ferirlo. Qualcuno, un tempo, gli aveva insegnato che doveva sempre tenerla a contatto col corpo, per sincerarsi sempre della sua presenza. Tanto vicina da sentirne il filo accarezzare la stoffa, ma abbastanza lontana da non restarne ferito. Qualcuno gli aveva insegnato molte cose. Qualcuno che non aveva viso e nome. Ma gli sembrava di riavvertire i suoi commenti duri e aspri, i suoi occhi sulla nuca, il suo viso severo. Di riflesso sorrise. Senza una vera ragione. Ma nella sua mente si era fatta strada la consapevolezza di un qualcosa di cui esser contento. Di cui rallegrarsi. Senza saperne il perché. Come di un complimento ricevuto e mai aspettato.

 

Fece un gesto vago con la mano a Kanna, ferma appena oltre il limitare della foresta. Sì, stava arrivando. Non sapeva quale nuovo compito il suo padrone gli avesse assegnato, ma qualunque cosa sarebbe stata meglio che dover scendere in campo contro di lei. Si soffermò ancora un istante sulla mole del palazzo, in lontananza. Incapace di decidersi a sperare se lei scampasse la morte o perisse. Incapace di riconoscere nel suo cuore il grido di disperazione ad esser costretto ad allontanarsi da lei.

 

 

*****

 

 

Spazientito.

Decisamente, la resistenza di quel demone, di quel semplice soldato, lo stava indisponendo. Non era abituato a dover aspettar tanto per ottenere le informazioni che voleva. E anche il suo alleato non sembrava esser molto contento della piega che gli avvenimenti stavano prendendo. Ma aveva comunque ordinato di non eccedere. Non lo voleva uccidere. Non subito almeno.

 

Naraku storse la bocca. Un ghigno, sotto la maschera di babbuino. Il sadismo di Morigawa non gli dispiaceva, ma in quel frangente lo trovava davvero esasperante. Erano due settimane che quello youkai era loro prigioniero, e ancora non erano riusciti a cavargli di bocca una parola soddisfacente. Davvero irritante. Dannatamente irritante. Se solo lo avesse lasciato a lui, a costo di strappargli la lingua, avrebbe avuto tutte le informazioni che desideravano. Anche se, giunti a quel punto, l’hanyou iniziava seriamente a dubitare che il demone sapesse qualcosa in più di quelle poche parole che la tortura era riuscita a estorcergli.

 

“Ricominciamo da capo”

 

La voce finto conciliante dell’ufficiale risuonò sotto la grande tenda. Aveva un tono mellifluo che faceva accapponare la pelle. Erano giorni che costringeva il prigioniero a ripetere sempre la stessa storia, forse con la speranza che si tradisse e rivelasse qualcosa. Il soldato rantolò qualcosa, stremato dalle catene e dalle percosse. Quasi ignudo, grondante sangue e coperto di lividi, sembrava un cadavere squartato e appesa ad essiccare. Non c’era centimetro del suo corpo risparmiato dalla frusta.

 

La lenta litania dell’ufficiale di Morigawa continuava. Inesorabile. Ossessiva. Precisa fino all’eccesso. Puntigliosa. Insensata. Naraku si sistemò meglio contro il palo centrale della tenda. Annoiato. Non riusciva proprio a capire l’utilità di tenere in vita quel demone. Ormai, aveva detto il poco che sapeva. Ogni minuto che passava ne era sempre più convinto. Eppure, il suo alleato sembrava non essere mai sazio delle esigue informazioni. Lo sbirciò con fare indifferente. Il sorriso maligno stonava in modo odioso su quel viso contratto dalla rabbia. Sembrava godere della sofferenza che infliggeva, ma al contempo si tormentava per i respiri spezzati che riusciva a estirpare da quelle labbra.

 

Fece un cenno all’ufficiale. Il racconto del prigioniero, la stessa interminabile sequenza di sillabe, fu interrotta da un mugolio di dolore. L’attendente aveva percosso crudelmente il demone con la frusta. Una lunga striscia di sangue si era andata ad aggiungere alle altre che segnavano il petto del martoriato. Eppure, lui riprese, stoico. Continuava quella cantilena irritante. Dopo che Kumamoto-sama lo aveva fatto chiamare, aveva ricevuto l’ordine di portare ai rappresentanti degli altri sei Clan il rapporti sulla situazione vigente. Avrebbe dovuto riferire che Sesshomaru-sama, Principe dell’Ovest, Primo della Famiglia, era stato cinto d’assedio da Morigawa-sama, ritornato dal Continente. Non era richiesto nessun aiuto. Solo l’estraneità all’avvenimento. E si chiariva, inoltre, che il Principe aveva solo risposto alle provocazioni che un altro membro della Famiglia gli aveva mosso. Nulla da rivendicare, quindi, in futuro.

 

Morigawa aveva storto la bocca in una smorfia ironica, la prima volta che aveva sentito quella storia. Gli suonava dannatamente familiare. Anche quattrocento anni prima Kumamoto aveva tentato una mossa del genere, e gli era riuscita, anche grazie all’abilità diplomatica di Inutaisho. Nulla da dire. In campo politico, il vecchio Principe era sempre stato imbattibile. Aveva risolto ben più di una divergenza senza bisogno di ricorrere alle armi. Una strategia d’azione che la Famiglia non sempre condivideva. Con la sua politica conciliante e di compromessi, Inutaisho sottraeva spesso a loro inuyoukai la possibilità di affermare col sangue la loro supremazia. Morigawa non se ne era mai curato molto. Fino alla comparsa di Sounga, aveva anche condiviso la politica del suo vecchio amico. Rispecchiava completamente gli insegnamenti del Sensei.

 

E adesso la storia si ripeteva. Kumamoto era di nuovo là, al fianco del Signore delle Terre dell’Ovest. Accanto ad un ragazzino che avrebbe dovuto espiare sulla sua pelle la superbia paterna. Morigawa pregustava continuamente il momento in cui, costretto Sesshomaru a terra, lo avrebbe obbligato a invocare pietà. Non si illudeva che il fiero inuyoukai lo avrebbe fatto e allora sarebbe stato ancora più gustoso trucidare davanti ai suoi occhi le persona che gli erano care. Lo avrebbe privato di tutto, fuorché della vita fino all’ultimo. Lo avrebbe visto dibattersi preda del dolore. E ne avrebbe gioito. Restituire l’umiliazione subita colpo su colpo. Una sferzata a quel viso così simile a quello del padre per ogni falso sorriso che aveva ricevuto da Inutaisho. Avrebbe deturpato la bellezza algida e perfetta del Principe di Higashi e Nishi. Lo avrebbe costretto a strisciare a terra.

 

Peccato solo che la cecità gli avrebbe impedito di gustarsi appieno le esecuzioni dei suoi seguaci. Massacrati uno ad uno, davanti al loro Signore, incapace di reagire. Non avrebbe potuto sfogare la sua collera sul secondogenito di Inutaisho. Quella era la preda di Naraku, e un sovrano ha una sola parola, anche con un alleato infido com’era l’hanyou. Tuttavia, la cosa non gli importava neanche molto. Era Sesshomaru che voleva annientare, l’orgoglio di Inutaisho, l’erede della sua dinastia. Quel figlio che il Signore dell’Ovest aveva amato fin dal primo istante che aveva sapute che sarebbe nato.

 

Si umettò le labbra, gustandosi il sapore residuo del sakè che aveva bevuto. Avrebbe anche potuto divertirsi con l’amante di Sesshomaru, prima di ucciderla. Una ragazza umana, gli era sto detto. Forse non bellissima, ma piacente. Negli occhi scuri passò un lampo di sadica malizia. Sì. Si sarebbe proprio divertito, con quella ningen. E Sesshomaru avrebbe assistito da una posizione privilegiata. Anche se cieco, il suo udito restava sempre estremamente sviluppato e non avrebbe fatto alcuna fatica a seguire il trattamento che lui pregustava già di riservare alla ragazza.

 

“Parla maledetto! O non uscirai vivo da qui!”

 

La voce era roca, arrabbiata. Esasperata. Non era possibile che quel soldato resistesse alla tortura solo per caparbietà. Ormai, anche il suo corpo demoniaco doveva essere al limite. Perché continuare a soffrire, dunque? Per quale assurdo motivo rischiare a tal punto la vita? Poche parole. In fondo gli chiedevano solo quelle: la dislocazione del passaggio che lo aveva portato all’esterno del palazzo. Perché, quel passaggio, doveva esserci. Non era altrimenti possibile che un nemico fosse riuscito a sgusciare fra le file dell’esercito senza destare il minimo sospetto. No. Davvero impossibile. Poche parole. In cambio della vita. Lo avevano scoperto aggirarsi per la foresta, guardingo. Cercava di allontanarsi dal campo senza destare sospetti. Purtroppo per lui, i demoni di Naraku lo avevano fiutato. Nessuna via di fuga. Era stato accerchiato e catturato, ma forse sarebbe stato meglio morire lì, subito. Tutto sarebbe stato meglio, piuttosto che quelle due settimane di percosse e torture.

 

Il prigioniero alzò la fronte madida di sudore e sangue. Cosa volevano, ancora? Glielo aveva ripetuto fino allo sfinimento: non c’era nessun dannato passaggio segreto! Era uscito da palazzo dopo un attacco, confondendosi con i soldati avversari dopo aver indossato un’armatura sottratta a un cadavere ed essersi impastato il copro di terra e sangue. Era uscito dalla porta principale e si era unito alla massa informe e disordinata che ripiegava verso l’accampamento. Eccola, la sua via d’uscita. La stessa che loro cercavano disperatamente di forzare da mesi. La porta principale delle mura.

 

Niente. Parole al vento. Sembrava che nessuno potesse credere a quella storia. Eppure, era la più semplice di tutte. Un trucco talmente vecchio da far apparire ridicola la facilità con cui era riuscito. Se non fosse stato per la sua precipitazione, sarebbe sgusciato indenne fra le mani di Morigawa. Niente. Era bastato un attimo, e si era tradito. Una sottigliezza, una cosa stupida e insignificante, ma bastevole ad attirare su di sé i sospetti. Sufficiente a tradirsi. E quello era il risultato. Miserevole.

 

L’ufficiale si volse con sguardo interrogativo a Morigawa, in piedi in un angolo semibuio della tenda. Vi era rimasto per il tempo dell’interrogatorio, assieme a Naraku. Silenzioso, riflessivo. Compiaciuto di ogni singolo lamento che usciva da quelle labbra spaccate; indignato per ogni parola inutile che sentiva pronunciare. Stava davvero perdendo la pazienza. L’assedio era ormai giunto ad un punto di stallo. La breccia che era riuscito ad aprire nelle mura gli aveva fatto pregustare la vittoria, ma erano passate settimane da quella piccola soddisfazione. Lui e i suoi uomini arrancavano nella frustrazione di andar costantemente a sbattere contro un muro infrangibile, mentre Sesshomaru era addirittura riuscito a reclutare un monaco e una sterminatrice fra le sue file.

 

Era davvero esasperato. Stufo. Non era mai stato avventato, aveva pianificato fin nei minimi particolari quell’assedio, ma non aveva calcolato due cose: la strenua resistenza dell’inuyoukai e la presenza di quella ragazza all’interno del palazzo. Se lei non ci fosse stata, se lei non fosse mai comparsa, almeno un quarto degli uomini di Sesshomaru sarebbero morti sotto il fuoco dei suoi fucili. Ci avrebbe messo pochissimo a decimarli grazie al veleno creato da Yaone e alle granate. Quelle dovevano essere le sue armi vincenti; armi che i demoni non conoscevano, umane e quindi sottovalutate. Ma lei sì, che le conosceva. Lei sapeva come potevano venir aggirate, franate. I sacchi di sabbia sui ballatoi per trincerarsi dai proiettili; le strategie di lasciare scaricare le armi e attendere il secondo in cui una fila di fucilieri doveva ritrarsi per lasciar spazio all’altra per attaccare; la consapevolezza di dover sfruttare al meglio le giornate di pioggia per cercare di affondare il più possibile nelle file avversarie, perché con l’acqua e l’umidità la polvere da sparo è più soggetta a deperire…Tutte quegli accorgimenti tecnici Sesshomaru non poteva averli ideati da solo. Non era possibile. Benchè, giovanissimo, fosse esperto in campo militare, benchè la sua mente acuta fosse costantemente in movimento per trovare soluzioni e ideare progetti, benchè fosse un Principe degno del nome che portava, quelle trovate non potevano essere sue. Assolutamente impossibile. Cieco, incapace di valutare realmente la situazione avversaria e di studiare le armi nemiche, doveva aver avuto al fianco qualcuno capace di sostituire i suoi occhi. Qualcuno che fosse per lui occhi e mente capaci di vedere e capire cosa vedevano. Qualcuno di cui fidarsi, cui prestare ascolto.

 

Kumamoto non era possibile. Come Sesshomaru, anche lui non doveva essersi mai imbattuto nelle armi da fuoco. E l’unica che rimaneva era quella maledetta ragazza. Strana, almeno a giudicare dalle descrizioni che ne aveva avute. Già Naraku gliene aveva parlato. Con malcelata sorpresa. Non era usuale, infatti, che Sesshomaru si accompagnasse ad una donna umana. No. Non era affatto normale. Anche se relegato sul continente, Morigawa aveva fatto in modo che gli giungessero notizie da Nihon. Poche e frammentate, certo, tanto da non esser venuto a conoscenza prima dell’invio di Takakuni della morte di Inutaisho. Tuttavia, non aveva impiegato molto, ritornato nei suoi territori, a ottenere tutte le informazioni che gli erano necessarie. E fra queste rientrava anche la diceria della freddezza spietata del Signore dell’Ovest.

 

Quando aveva saputo da Naraku della ragazza, Morigawa non aveva potuto trattenere un sorriso ironico. Dunque, anche il caro Principe cedeva alla lussuria come suo padre. Ma in fondo, come dargli torto? Una bella donna, sottomessa e accondiscendente, pronta a soddisfare ogni desiderio del suo Signore, doveva essere un diversivo interessante e un giocattolo stimolante. E il fatto che fosse umana lasciava a Sesshomaru la possibilità di farle quello che voleva. Senza riguardi, senza timori di possibili ritorsioni da parte di altri Clan. Non che il Principe avesse motivo di temere attacchi neanche se si fosse scelto come amante una yasha, anche del livello più alto, ma in quel caso avrebbe dovuto comunque frenare il suo impeto giovanile. Con una ningen, invece, non erano necessari riguardi. Era solo una bambolina di porcellana, una bella bambolina sorridente e piacente. Una stupida bambolina.

 

Morigawa stiracchiò le labbra in un sorriso che assomigliava ad un ghigno. Lo avevano raggirato per bene. Quella dannata ragazza…non le aveva mai dato importanza fino alla fine. E invece era lei l’asso nella manica di Sesshomaru. E la cosa divertente era che, probabilmente, lui neanche lo sapeva quanto le doveva. Perché, se non fosse stato per lei, a quell’ora del castello sarebbe rimasto solo un cumulo di cenere. Oh, gliela avrebbe fatta pagare: a tutti e due. Li avrebbe torturati lentamente, con gusto, assaporando ogni smorfia che avrebbe distorti i loro lineamenti. Sarebbe stato anche piacevole occuparsi di quella ragazza. Molto piacevole aver a che fare con lei. Forse si sarebbe rivelata più interessante delle donne e delle yasha con cui condivideva il letto. In fondo, non è cosa abituale imbattersi in una ningen capace di pensare come un uomo. Capace di aiutare un Principe youkai e di agire come un uomo. E se anche lo avesse deluso, poco male. Gli sarebbe sempre rimasta la soddisfazione di godere di lei sotto gli occhi di Sesshomaru.

 

“Quest’uomo ha ragione, in fondo”. Le parole di Naraku lo costrinsero a spostare di nuovo la sua attenzione sul presente. Giusto. Non era quello il momento e il luogo adatti a fantasticare sulle umiliazioni che avrebbe inferto al Principe. “Perché mai dovrebbe mentirci ancora e sopportare il dolore?”. L’hanyou aveva un tono che fece rabbrividire il prigioniero. Sotto la maschera di babbuino, gli occhi rossi brillavano in modo sinistro. Compiaciuto. Sottile. Morigawa capì il suo gioco. Capì perfettamente dove voleva arrivare, e si predispose a gustarsi la scena. In fin dei conti, non conveniva che lui, il Principe del Kansai si sporcasse le mani solo per ottenere alcune informazioni. Ma intendeva ugualmente assistere. Non era usuale che Naraku prendesse direttamente in mano una questione. Solitamente, infatti, era più propenso a ordire complicate trame affinché i suoi avversari finissero per ferirsi a vicenda. Lui ne traeva maggior godimento, e al tempo stesso raggiungeva il suo scopo. Senza che la sua bella pelliccia rischiasse mai di essere lordata di sangue.

 

“Sappiamo bene, infatti” continuava intanto l’hanyou, prendendo la frusta dalle mani dell’ufficiale e avvicinandosi lentamente al prigioniero, “ che il tuo Signore avrebbe voluto delle risposte, alla sua missiva. Quindi, tu saresti dovuto rientrare a palazzo”. Gli girava attorno, facendo fremere la pelliccia bianca e lasciando che i capelli neri scendessero ad arabescare la sua schiena. Naraku si era sfilato la maschera, facendola scivolare lungo il collo, fino alle spalle. Con lentezza, quasi fosse nella sua tenda si stesse semplicemente intrattenendo in una piacevole conversazione.

 

“Coraggio…Smetti di proteggerlo, e dicci per che via saresti dovuto rientrare”. Gli si avvicinò ad un orecchio, sussurrando “dopo, finirà tutto e tu sari libero”.

 

Il soldato alzò la mano incatenata per detergersi la fronte e guadagnare un attimo per pensare, per non cadere in un tranello. Bastava una parola pronunciata con un’inflessione sbagliata e loro avrebbero potuto fraintendere ogni cosa. Bastava un niente, e lui sarebbe stato finito.

 

“Non lo sto proteggendo”, disse infine “e non sarei mai dovuto rientrare a palazzo”

 

“Non mentire…” cantilenò Naraku, con un sorriso falso e subdolo, che fece tremare il demone. Poi, lo vide squadrarlo per un istante, come alla ricerca della veridicità di quelle parole sul suo volto. Lo vide voltarsi, e ebbe appena il tempo di illudersi di poter respirare. Un colpo violento lo raggiunse al naso, facendolo mugugnare e rantolare. Naraku lo aveva colpito col manico della frusta, e ora fissava compiaciuto il fiotto di sangue che zampillava dalla carne martoriata, scendendo a inondare la bocca e il petto del demone. Il volto del prigioniero era ormai una maschera informe: gli occhi quasi chiusi per il gonfiore delle percosse, le labbra spaccate dai pugni, il respiro un rantolo affannoso.

 

“Signore” trovò comunque la forza di dire “…io non posso dire quello che non so. Ma anche se lo sapessi…io non lo direi per aver salva la vita”. Reclinò il capo sul petto, stremato. Naraku si riavvicinò all’ufficiale e a Morigawa. Indispettito. Era davvero contrariato dall’atteggiamento di quel demone e dalla sua cocciuta resistenza. Le possibilità, ormai, erano solo due: era molto forte, e quindi poteva aver ancora resistito e mentito. Le sue parole potevano benissimo essere state un tentativo per metterli fuori strada. Oppure, davvero non sapeva niente. E quelle due settimane passate ad interrogarlo erano state una completa perdita di tempo.

 

“Cosa dovremmo fare, secondo voi?”

 

Morigawa si lisciò il mento. Forse era davvero come diceva Naraku. Forse davvero non sapeva nulla e quelle settimane erano state solo tempo sprecato. Ma lui non ne era del tutto convinto. Non ancora almeno. C’era un luce strana negli occhi tumefatti del demone. Una luce che era quasi un ghigno di soddisfazione, di compiacimento. Forse lo scherno per aver fatto loro consumare voce ed energie per nulla, o forse la consapevolezza di non esser riusciti a strappargli le informazioni che aveva.

 

“Continuare a torturarlo. Forse la sua resistenza non è ancora stata vinta”. No. Ci doveva esser qualcosa. Non era possibile altrimenti spiegare il fatto che la notte precedente, benchè stremato, avesse trovato la forza quasi di spezzare il giogo cui era stato legato con le sole mani. C’erano voluti quattro demoni per riuscire a incatenarlo di nuovo. Forse si trattava solo dell’ultimo flato di vitalità che restava in quelle membra, forse era solo il disperato tentativo di chi si sente ad un passo dalla morte e cerca in ogni modo di sfuggirle.

 

“Spingi la tortura fino al limite”, continuò Morigawa, occhieggiando verso un ferro che si arroventava in un braciere. “Sai cosa intendo”. Sul viso dell’ufficiale passò un ghigno, mentre annuiva. “Se non parlerà, allora davvero sarò sicuro che ormai non ha più nulla da dirci. E se anche avesse qualcosa, a questo punto sarebbe inutile cercare di strapparglielo: non tutti i demoni possono esser piegati dalla tortura”.

 

Naraku lo fissò sorpreso nel viso abbronzato e segnato da un’espressione allucinata. Non aveva detto tutto. Non lo aveva fatto. Negli occhi di Morigawa brillava quella luce che lo caratterizzava quando aveva appena escogitato un nuovo piano. Il lampo che prende gli occhi folli di un bambino davanti ad un nuovo giocattolo, ma mille volte più raggelante e crudele. Mentre l’ufficiale si allontanava per occuparsi della sua vittima, l’hanyou si avvicinò all’inuyoukai. Parole sussurrate. Perché voleva sapere. Doveva sapere, per evitare che la folle lucidità di quel demone compromettesse i suoi progetti.

 

“Se non dirà niente, cosa pensi di farne?”

 

“Ucciderlo”. Di nuovo, un lampo compiaciuto. Sì, Morigawa stava davvero tramando qualcosa, e dal suo sguardo sembrava desideroso che l’ufficiale completasse il suo compito per poter uccidere il prigioniero. Come se dalla morte di quel demone, improvvisamente, potessero dipendere le sorti dell’assedio. Come se la sua morte fosse il tassello mancante alla vittoria.

 

“Ormai, ci odia più di quanto ci tema. Inoltre, anche se da vivo non mi è servito a molto, da morto mi sarà molto utile: porterà la mia ambasciata a Sesshomaru”

 

Naraku non capì a cosa si riferisse, ma intuì che non gli sarebbe piaciuto il progetto dell’inuyoukai. Intuì che sarebbe stato un ostacolo ai suoi progetti. Non ebbe il tempo di ribattere, che Morigawa si era già tirato il mantello sulla testa ed era uscito dalla tenda. Naraku si concesse un ultimo sguardo sornione all’ufficiale che si stava riaccostando al prigioniero con secchio d’acqua per risvegliarlo. Va bene. non gli interessava come sarebbe finita. Adesso gli importava solo riuscire a estorcere qualche informazione a quel maledetto demone-cane. Risistemò la maschera sul viso e uscì anche lui.

 

Il freddo dell’acqua ridestò completamente il prigioniero. Dapprima, vide confusamente, poi più chiaro e il terrore esplose dentro di lui lacerandogli l’animo: ad un palmo dal suo viso un ferro rovente risplendeva di luce candida. Sentiva il calore sulla pelle. Il respiro del fuoco lambirgli le ferite sanguinanti e far sfrigolare leggermente il sangue.

 

“Ora parlerai”, promise calmo l’ufficiale, mentre lo afferrava per i capelli e gli avvicinava il ferro. Il demone tese i muscoli in un vano e disperato sforzo di liberarsi, ma i crampi straziarono le membra duramente provate e restò immobile chiamando a raccolta le residue energie del suo animo. Aspettava. Dissanguato dalle ferite, inerte, era una preda dannatamente facile. Non faceva altro che cercare l’attimo in cui il suo carceriere avrebbe affondato il colpo.

 

“Parla!” incitò l’ufficiale accostando ancor di più il ferro. Il demone soffiò sangue dal naso, contrasse la bocca coperta di bava. “Non so…nulla” fremette fra i denti inchiodati dagli spasmi. L’ufficiale lo afferrò più saldamente e gli affondò il ferro rovente nell’occhio sinistro. L’urlo scoppiò nella tenda passando attraverso le sottili stoffe che la formavano, uscì nel campo come un lungo, atroce muggito e riscosse quanti sonnecchiavano pigramente durante il turno di guardia.

 

Dopo attimi che sembrarono ore, mentre gli uomini si guardavano di sottecchi e fissavano con spavento l’entrata della tenda, la luce si affievolì lentamente. Poco dopo che fu spenta l’ufficiale uscì e, senza rispondere al saluto delle guardie, attraversò l’accampamento e di dileguò nel buio. Aveva compiuto il suo lavoro con scrupolo, secondo gli ordini ricevuti: era convinto che quel disgraziato nella tenda non sapesse veramente nulla. Gli aveva fatto credere che lo avrebbe accecato completamente, e quello non aveva parlato. E comunque, ormai, non avrebbe più potuto farlo. Prima che spirasse, gli aveva potuto leggere in quell’unico occhio tumefatto un terrore che passava ogni immaginazione. No. Davvero non sapeva più di quello che aveva già detto. Si strinse nel mantello ed entrò nel suo alloggio, per riposarsi.

 

 

*****

 

 

Opale.

Il cielo si tingeva di sfumature eburnee e iridescenti. Accecanti. Magiche. La luce saliva leggera da Est, con quel colore così chiaro, a tergere la notte scura e informe. A ridare i contorni alle cose, a rischiarare una giornata e un campo di battaglia. Scendeva a lambire le guglie di roccia delle montagne a Ovest, disegnando i costoni e le valli, seguendo il profilo irregolare delle pendici. Giù-giù. Dal gelo delle nevi perenni fino ai primi timidi alberi. Scende ancora, alle distese di aceri e querce, a quel primo timido verde di primavera. E poi ancora più in basso, dove la macchia diventa accecante. Non come la neve, eppure della stessa intensità. E l’unica cosa che altera tutta quell’equilibrio, quell’immobilità, è il vento. Vento di crepuscolo. Vento tiepido e timido. Vento di prima primavera. Ancora saporito di neve, ancora arido di fiori.

 

Odiava l’alba. Quei colori così chiari, quelle sfumature argentee e forti. Della forza della vita libera e selvaggia. Perché l’alba è selvaggia. Straccia la notte amica, straccia le illusioni. L’alba è selvaggia e crudele. Come lui. È d’argento, come lui. È libera, come lui. È lui. È tutto quello che lei non potrà mai essere.

 

Odiava l’alba, quell’accendersi lento e maestoso del mondo, il risplendere della neve e del verde. Il rilucere della vita. Odiava l’alba, perché odiava lui. Lo detestava. Perché lui era vita, lui era aria, lui era libertà. Perché lui l’aveva costretta ad amarlo. Le aveva fatto ricordare cosa significa un cuore che batte. Le aveva fatto ricordare il respiro che galoppa con un ritmo cardiaco che accelera e decelera senza ragione. Le aveva fatto capire cosa significa non sentire più il torace rimbombare per quel dolore sordo e intenso. Le aveva fatto desiderare qualcosa che non aveva mai provato.

 

Lo odiava, lo invidiava, lo amava, lo bramava. Avrebbe voluto su di sé i suoi occhi freddi e indifferenti. Avrebbe voluto su di sé le sue mani affilate e pericolose. Avrebbe voluto la morte da lui, perché almeno avrebbe avuto anche una nuova vita. Avrebbe voluto la libertà da lui, per potergli stare accanto. Avrebbe voluto il suo disprezzo, la sua rabbia, la sua indifferenza. Avrebbe voluto la sua vita, la sua anima, la sua mente. Avrebbe voluto lui. Perché l’aveva condannata. Maledetto, affascinante, dannato youkai. Perché doveva essere così affascinate, così altero, così regale, così…Non sapeva trovare l’aggettivo giusto. Non poteva trovarlo. Lui era tutto. Tutto. Ed era perfetto. In ogni cosa. In ogni piccolo particolare. Dalla linea sottile e fiera del mento, alla fronte liscia ombreggiata d’argento, agli occhi taglienti e sprezzati. Perfetto. E non suo.

 

Perché, per lui, lei non esisteva. Lei non era niente. Solo una macchia, un intralcio, un essere da ignorare. Da eliminare. Se solo avesse saputo come un suo sguardo le bruciava gli occhi, le incendiava il sangue, la faceva fremere di piacere e dolore. Se solo avesse saputo quando la infiammava il contatto con lui, nei combattimenti. Lo sfiorasi dei loro kimoni, l’ondeggiare dei capelli. Il suo vento che lo lambisce, che lo accarezza. Il suo vento che lo tocca, come le sue mani non potranno mai fare. Il suo vento che lo ferisce, lo taglia, lo graffia. Il vento che si sfoga, che scarica su di lui il suo odio e il suo amore. La sua frustrazione. Per averlo davanti e non poterlo avere. Per essere sua e non appartenergli.

 

Una risata leggera, malinconica. Lui era così freddo, algido. Lui come di ghiaccio. E quel ghiaccio le bruciava la pelle, più del fuoco, più della lava. Quel freddo le mordeva la carne e le strappava gemiti intimi e acuti. Piacere ammantato di dolore. Perché lui è freddo, ma lei lo sente ardente sul corpo. Lei lo desidera così: freddo, fiero, spietato, bianco. Irraggiungibile. Ecco, irraggiungibile. Perchè lui non è altro che questo. Un miraggio. Il suo miraggio. Il suo sogno proibito e la sua eterna dannazione. Lui che potrebbe salvarla e la ignora. Lui che potrebbe averla e la rifiuta. Lui, lui, lui…Sempre e solo lui.

 

Lui che scende in battaglia ogni giorno; lui che si muove fra sangue e morte come se nulla lo sfiorasse; lui che elargisce oblio con la grazia di un angelo. Lui che ha l’odore della libertà. Lui che combatte con le movenze del vento. Lui che è vento impetuoso che spazza il campo di battaglia. Lui che è come lei. Lui così distante da lei. Lui: un angelo dell’inferno. Un demone. L’unico che l’ha battuta. L’unico da cui ha accettato di venir sconfitta. Ma ammetterlo, questo mai. Non davanti a lui; non a lui. Troppo pericoloso, troppo umiliante. Concedersi a lui, va bene. Dirgli di amarlo, no. È sbagliato. È impossibile. È ingiusto. È assurdo.

 

Averlo nella sua indifferenza sarebbe andato bene. Averlo e poter dire di esser stata sua. A qualunque prezzo, in qualunque condizione. Come compagna, amante, serva, schiava. Non sarebbe importato. Qualunque condizione. Purchè fosse con lui. Accanto a lui. Pur di poterlo sfiorare quando lo desiderava; pur di poter rubare un bacio a quelle labbra esangui, e renderle rosse e tumide. Assetate. Bramose di lei. Della sua pelle, del suo corpo. Anche solo bramose, e basta. Avrebbe accettato qualunque cosa, se avesse significato poter esser accanto a lui. Libera di essere solo schiava di lui.

 

Un respiro rassegnato le sfuggì dalle labbra. Un respiro fatto di vento, di lacrime mai versate, di consapevolezza e rimpianto. Un respiro lontano. Vuoto. Aria che fugge, come scompare lui. Dalla sua portata, dalle sua speranze, dai suoi sogni.

 

<<…Mi hai uccisa, Sesshomaru…Ma mi hai lasciato la vita…questa mia disgustosa vita…>>

 

Perso. Perso. Perso. Per sempre. Senza possibilità di ritorno. Senza più illusioni da erigere. Lui davanti a lei sul campo di battaglia, lui splendido nel kimono niveo, lui demoniaco nelle movenze e così lontano nello sguardo. Lui ormai sfuggito, scappato, perduto. Lui mai posseduto. Lui mai suo. Solo nella sua fantasia. Nelle sue chimere notturne. Lui così bianco, lei così rossa. Nelle sue labbra irriverenti, nei suoi occhi sfacciati, nel suo kimono elegante, nei disegni violenti del tessan. Lei, vento schiavo. Lui, vento libero. Non più suo. Mai suo. Mai…mai, mai.

 

Perché lui, ormai, apparteneva ad un’altra. Era di un’altra. Lo sentiva. Lo sentiva dal suo odore. Odore di uomo, di maschio, di forza. Odore con cui si intrecciava il profumo dell’acqua, il profumo della femminilità. Odore diverso dal suo, non demoniaco, non selvaggio. Odore di ningen, di donna umana, di donna innamorata. L’odore di quella ragazza.

 

Kagura sciolse i capelli, iniziando a giocare distrattemene con una ciocca lasciata libera. Inutile negarlo a se stessa. Lo aveva sentito benissimo su di lui quando lo aveva affrontato in combattimento. Sesshomaru recava con sé l’odore di quella ragazza umana. Ancora più forte della prima volta che l’aveva incontrata. Ancora più intenso. E non era una sua illusione. Non poteva essere solo un gioco della sua gelosia. Era sicura di quello che aveva sentito, di quello che aveva intuito.

 

Lo aveva capito dal lampo di agitazione che aveva attraversato le sue iridi d’oro dopo il fragore dell’esplosione. Vi aveva letto costernazione, agitazione, trepidazione. Vi aveva letto tutta l’umanità che il demone non aveva mai mostrato. Un’umanità terribilmente devastante, forte, assoluta. Vi aveva scorto lo sguardo di un uomo innamorato. Non più gli occhi rabbiosi di quella volta, né la volontà di vendicarsi. Era lontano lo sguardo che gli aveva rubato mentre era disteso nella neve, con quella ragazza addosso, mente i loro visi si avvicinavano lentamente. Quello era stato lo sguardo di un ragazzo che si avvicinava a qualcosa di nuovo e sconosciuto. Questi, invece, erano gli occhi di un uomo innamorato. Gli occhi di un uomo consapevole del qualcosa che si cela nel suo cuore.

 

Kagura lo aveva capito. Aveva desiderato infinite volte di vedere quello sguardo attraversare gli occhi di Sesshomaru. Lo aveva agognato per sé miliardi di volte. Lo aveva desiderato con la stessa forza con cui desiderava lui. Ma non era stato sufficiente. Non era bastato volerlo, per legare il Principe dei demoni. Non sarebbe mai bastato. E lei lo aveva capito in quell’attimo, nel movimento nervoso della testa dello youkai, in quel suo volgersi d’istinto al boato. Ne era sicura: lei sola aveva colto il fremito del suo viso, il nervosismo nelle sue membra, la distrazione che per un attimo aveva allontanato la sua mente dalla battaglia. Se lo avesse attaccato in quel momento, lo avrebbe ferito. Forse anche gravemente. Ma non lo aveva fatto. Non era riuscita a farlo.

 

Sesshomaru aveva finto indifferenza, aveva dissimulato la sua agitazione, e non si era mosso. Ma aveva avuto fretta di concludere. Lei lo aveva capito. Lo aveva sentito dai suoi movimenti, dal roteare veloce della katana, dallo youki che cresceva lento ma inesorabile. Non stava neanche più combattendo con lei. Stava solo cercando di eliminare l’ostacolo che gli impediva di voltarsi e correre a controllare cosa fosse accaduto. Stava solo cercando il modo per disimpegnarsi e andare da quella ragazza. Perché Kagura sapeva bene che l’obiettivo di quella granata era la tenda dove venivano curati i soldati di Sesshomaru. La tenda dove di trovava lei.

 

Avrebbe voluto lasciarlo andare. Avrebbe voluto dirgli di andare da lei. Avrebbe voluto poter fare qualcosa, qualunque cosa, pur di cancellare l’ombra inquieta che vedeva sul suo volto. Non poteva sopportarla. Non l’aveva mai sopportata. Lui doveva restare sempre perfetto, intoccabile. Nulla doveva smuovere la sua maschera di ghiaccio, la sua indifferenza. In quel momento, in cui lui era davanti a lei, in cui lui era suo, in suo potere, Kagura seppe di non potergli più fare del male. Lo seppe e basta. Senza bisogno di pensarci. Lo seppe quando si accorse che il suo vento non aveva forza, quando realizzò che le lame che gli lanciava contro erano solo raffiche inoffensive. Carezze rabbiose ed esasperate. Carezze di chi ormai è disilluso. Lo seppe lei, e lo seppe anche Sesshomaru. Lo vide fermare ogni azione, e lasciarsi avvolgere dal vento.

 

Kagura seppe. Seppe davvero di averlo perso, di non poterlo mai più avere. Seppe che non l’avrebbe mai amata, né con rabbia né con desiderio. Seppe di dovergli dire addio. E allora danzò per lui, danzò la sua ultima danza per lui. La sua ultima performance da amante. Da amante mancata. Lo amò in quel modo. Intensamente, carezzando col vento il suo corpo, scompigliando i suoi capelli, baciando il suo viso. Lo amò senza mai sfiorarlo con le mani, senza mai toccarlo davvero. Perché lui non glielo avrebbe permesso. Perché lui non le avrebbe mai lasciato avere qualcosa che non le spettava, qualcosa che era solo di una ragazza umana.

 

Danzò per lui, sollevando mulinelli di polvere che li sottrassero allo sguardo di tutti. Sollevando una cortina per nascondere l’ansia di un demone troppo freddo e troppo umano. Danzò per lui perchè almeno non la odiasse. Danzò per lui. Solo per lui. E quando il vento era ormai calato d’intensità, quando la polvere rossa scendeva lenta a terra, lei era lì, inginocchiata al suolo. Una smorfia sul viso, un sorriso ironico e beffardo. Dolce e malinconico. Una mano al ventre, a stringere la stoffa del kimomo. Lì dove lui l’aveva colpita con l’elsa della spada, lì dove lui le aveva fornito l’alibi per la sua fuga. Abbastanza forte da lasciarle il segno, abbastanza piano da non ferirla davvero. E in quell’istante, in quel solo istante, aveva avvertito i suoi capelli di luna sfiorarle il viso, il suo respiro accelerato accarezzarle il collo sudato, aveva avvertito le sue labbra sfiorale i capelli d’ebano, lambire la piuma che li adornava. Aveva sentito le sue mani accompagnarla nella sua caduta, rudi e delicate.

 

In quel solo istante, Sesshomaru aveva rivelato a lei quanto quella ningen lo avesse mutato. Protetto dalla cortina di polvere, aveva svelato un segreto che solo il demone e la ningen conoscevano. E lo aveva confidato a lei. Senza parole. Senza voce. Perché la sua lingua doveva pronunciare solo un nome di donna, perché sulle sue labbra poteva posarsi solo il nome della donna che amava. Anche se non lo aveva ancora accettato, anche se ancora non ne era del tutto cosciente. Solo quel nome era giusto che fosse pronunciato da lui. E solo da lui. Kagura lo capì, e lo lasciò andare. Permise che la seta del kimono le scivolasse dal copro, la seguì con la mano, la carezzò fino alla fine. Lasciò che l’argento dei suoi capelli piano piano la svelasse di nuovo. Chiuse gli occhi, quando l’ultima ciocca lunare le sfiorò le labbra. A ringraziala, a salutarla, a darle un addio. A porre fine a un qualcosa di mai nato. A un qualcosa che moriva col vento che si andava spegnendo. Sesshomaru le disse addio, e lei lo guardò voltarle le spalle sicuro della propria incolumità. Sicuro che lei non lo avrebbe più attaccato.

 

Il sole stava ormai inondano d’oro la vallata quando Kagura si risolse, finalmente, a ridiscendere al campo. Si sistemò i lunghi capelli sulla nuca, ma prima di legarli con la sua piuma, la sfiorò con le labbra. Aveva ancora su di sé il suo odore. Il suo profumo intenso di muschio, di aria, di liberta. Con un sorriso ironico la sistemò sul capo. Non poteva farci niente. Gli aveva detto addio, ma non era così facile dimenticarlo.

 

Per questo odiava l’alba. E odiava anche lui. Per la vita che le aveva mostrato. Per la libertà che le aveva fatto gustare in quel solo istante. Per il battito di un cuore che lei non possedeva e che era riuscita comunque ad avvertire. Per quell’addio che le aveva dato. Per averla guardata negli occhi senza odiarla. Senza più disprezzarla.

 

Indugiò ancora un istante sul palazzo, ormai quasi completamente inondato dalla prima luce. Aprì il ventaglio con un gesto secco e aggraziato, spazzando l’aria davanti a sé. La piuma, ribelle, sfuggì dai suoi capelli e si unì a quella brezza delicata. Si librò nel cielo, e ridiscese verso il palazzo. A portare un saluto ad un uomo perso, e alla donna che dormiva fra le sue braccia. A portare un ringraziamento. Per la vita assaporata in quell’istante.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Parentesi:

 

 

Per adesso,quindi, questo ultimo capitolo inviatovi si concentra sugli avversari. Su pochi personaggi, in verità. Ma era una scelta doverosa e necessaria, per quanto mi sia dispiaciuto dover accantonare Yashi, Koji e Kyoko. Un’assenza che non è solo dovuta a un mio “capriccio”, ma che ha un preciso riscontro narrativo. Non temete: non dovrete aspettare relativamente molto per scoprirlo. Solo fino al capitolo 44 “Trappola”.

 

Come avrete potuto leggere, le tra parti sono strutturate a cornice, con la prima e l’ultima basate sui pensieri di un singolo personaggio, e la parte centrale concentrata su un avvenimento particolare. Non ho voluto scendere troppo nei particolari nella scena della tortura, sia perché non era mia intenzione scrivere un paragrafo in stile horror, sia perché ritengo, ma è solo il mio modesto parere, che una dimostrazione gratuita di violenza non serva a molto. Certo, una tortura è una tortura. E non ho potuto tralasciare alcuni elementi necessari, potremmo definirli propri del topos classico della tortura: sangue, dolore, crudeltà. Il resto, alla vostra immaginazione

 

Una struttura a cornice, dicevo. E la prima parte è riservata a Kohaku. Ho provato a immaginare cosa fluttui nella mente del ragazzino. Quali possano essere le sue paure e i suoi timori. Il ruolo di Sango nella sua memoria, lei chiave del passato che Kohaku vuole conoscere e teme di conoscere. Ho tentato di ripercorrere quello che può provare ogni volta che la sua mente diviene schiava di Naraku. E l’ho calato in riferimento ad un preciso episodio dell’anime, quello del rapimento di Rin. Perché è il primo contatto che Kohaku ha con un ningen da “cosciente”, perché sarebbe potuta essere la fine della sua vita, e invece Sesshomaru l’ha risparmiato, condensato nelle poche parole che pensa, nella sua lucidità di demone avvezzo allo scontro, quello che Kohaku prova: né sofferenza né paura. Con uno sguardo che non è normale. Kohaku ha incontrato la sorella, pronuncia quel nome senza esserne sempre pienamente cosciente. Naraku lo invia sul campo di battaglia, e lui cerca di evitare la breccia. Cerca di evitare istintivamente un confronto che sa poterlo ferire. Più di quanto potrebbe una spada o un pugnale.

 

Non era proprio l’incontro che, forse, auspicavate voi. Ma era l’unico modo per porli a confronto. Indirettamente. Non c’è stato, e non ci sarà, un incontro fuori dal campo di battaglia, per loro. Non vogliatemene, ma questa prima parte si inserisce ad un punto della narrazione “classica” in cui Sango e Kohaku ancora non hanno parlato. È una parentesi, fra gli avvenimenti. Il loro incontro è quello che si diranno non l’ho deciso io, ma Rumiko Takahashi. E ho scelto di lasciare il più possibile inalterata la narrazione “storica”.

 

Kohaku da una parte. E Kagura dall’altra. La Signora del Vento. Ho sempre apprezzato questo personaggio dalla psicologia complessa. E’ affascinante nella sua spasmodica ricerca di una libertà che le sarà negata fino all’ultimo. È come Sesshomaru: fiera e orgogliosa; me è schiava. In lei si riuniscono la natura del demone la sofferenza della ningen. È una yasha, ma la su condizione di sottomissione è pari a quella di una donna del Giappone medievale. Non ha autonomia, non ha idee proprie, non ha nulla. Neanche il suo cuore. La forza che le dovrebbe valere la superiorità è ciò che la lega.

 

Kagura è umana nelle aspirazioni. E come tale cerca di fare in modo che si avverino. L’ho mostrata gelosa di Alessandra. Di una ragazza che è riuscita ad avvicinare il Principe, che è riuscita là dove lei ha fallito. Gelosa, ferita, battuta. Non è solo un sentimento di rivalsa prettamente femminile, non è solo la consapevolezza di aver perduto l’uomo che ama a farla soffrire. È anche lo smarrimento davanti ad un cambiamento. Lo sconforto di veder svanire l’illusione che per molto tempo l’ha aiutata ad andare avanti. Sesshomaru. Quel nome nella sua mente. Quel nome, quel viso, quel corpo…Una promessa di libertà. La volontà di averlo, e per questo di aver prima ottenuto la libertà. Sesshomaru, Shin…Non importa chi sia, non è questo che conta. Quello che Kagura vuole è l’obiettivo di un futuro oltre la prigionia. Quello che cerca è uno stimolo a continuare. Una motivazione che la porti aldilà di Naraku e della sua vita da schiava.

 

Ma Kagura è anche innamorata. Ha odiato Alessandra perché glielo ha portato via, ha odiato forse anche se stessa per non poter competere con la libertà della ningen. Kagura odia. Detesta tutto ciò che le ricorda lui. tutto ciò che le ricorda la libertà che non possiede. E detesta anche Sesshomaru. Con quell’odio che può provare solo chi ama. Quell’invidia che è malinconia. Kagura lo sa. Kagura lo capisce. Lei ha perso. Sconfitta. Lo vede. Lo so: suona strano che Sesshomaru possa mostrare, in combattimento, un turbamento, un’esitazione. E, in effetti, quello che compie non è altro che un leggero movimento della testa. Calcolato. Regale. Distante. Ma a Kagua basta. Perché lo consoce. Perché lo ama.

 

Lo ha davanti, è suo. E capisce che non può averlo. Che non le apparterrà mai. Fin dall’antichità, nella danza si sono espresse le arti femminili della seduzione. Un gioco erotico che on si basa quasi mai sul corpo, sul suo velarsi, sulla pelle nuda. Un gioco fatto di movimenti, di trame d’immaginazione, di linee che si snodano nell’aria. La più seducente delle danze è quella di Salomè, e se si va al testo biblico, tutta la sensualità è concentrata nel movimento delle mani e delle dita. Nei gesti compiuti modulando aria. E Kagura è aria. Aria che respira. E soffre.

 

La sua danza è quella della battaglia per tutti (la danza del drago); per tutti ma non per loro. Kagura e Sesshomaru sanno cosa significhino quei movimenti. Il demone conosce la seduzione che potrebbe esercitare su di lui, e lo sa anche Kagura. Ma è anche una danza d’addio. Un modo, l’unico, che hanno per parlarsi su un campo di battaglia. Kagura esegue quella danza che forse avrebbe fatto per conquistarlo, si muove come probabilmente ha sognato a lungo di fare, per catturare i suoi occhi, la sua attenzione. Però sa che non può osare oltre il vento. Sa che Sesshomaru ormai non è più suo. E mai lo sarà. Ha capito che, ormai, la maschera di ghiaccio del demone si sta sfaldando. Rivelando tutta la sensibilità e l’umanità che Sesshomaru possiede. Da sempre. Solo nascoste, sotterrate in lui da un’educazione troppo rigida. Troppo austera.

 

Amanti. Per un istante, sono amanti. Platonici. Sono vicino. Ne sono consapevoli entrambi. Forse, se lei fosse stata libera…Ma non è stato così. E adesso è Alessandra l’unica donna che il demone ama. Anche se non glielo ha mai detto. Anche se non glielo dirà mai. Ma il Principe non dimentica. Non può cancellare dalla sua mente una yasha che lo ha amato, e che ha protetto la sua vulnerabilità umana. Non può più essere sprezzante con Kagura. E la ama per un istante, un solo istante, nell’unico modo che gli è permesso, nell’unico modo in cui non tradisce Alessandra. La ama con gratitudine, fornendole un alibi e per un istante dandole quell’illusione che lei cercava. La sua vicinanza, il suo corpo, la protezione delle sue braccia. L’avvolge con i suoi capelli quasi volesse farla sua. Volesse farla entrare in sé. Ma è solo un istante. Perchè lui non la ama, lui non la desidera; perché lei non è Alessandra. A Kagura basta. È sufficiente per iniziare a dire addio. Per provare a dimenticarlo. Anche se non è facile. Anche se mai sarà facile guardarlo, e sapere che è stato di un’altra donna. Sapere che nel suo cuore sofferente, anche in futuro, ci sarà sempre un’altra donna.

 

Perché questa scena, vi chiederete. Certo, rivaluta Kagura. Ma non solo. Quando ho letto gli scan del manga relativi alla morte della yasha, mi ha colpito una cosa: lo sguardo. Gli occhi di Kagura e Sesshomaru. In quelli della yasha c’era come un amore antico, non dimenticato, e la mesta e sommessa felicità della rassegnazione. C’era un sorriso distante, di gioia e di sorpresa. Ma anche il Principe sembrava turbato, combattuto, quasi dispiaciuto. Eppure, gli occhi di Sesshomaru la guardavano non come si osserva la donna amata, ma qualcuno a cui si deve qualcosa, che sia molto o che sia poco. Qualcuno con cui si condivide o si ha condiviso qualcosa di importante. Anche se fosse durato un istante.

 

Ho preso questa scena, queste sensazioni ( e voi direte che ho lavorato troppo di fantasia, che ho visto cose che non esistono), e vi ho ricamato sopra l’anteffatto. L’origine di quello scambio di sguardi. Due amanti mancati. Due demoni che si sono concessi solo una danza d’addio. E uno sfiorarsi sottile. Due “persone” adulte. Perché Kagura, fuggita Alessandra, avrebbe potuto cercare di riavere il suo Principe. Ma sa che è partita persa. Sa che, anche nel dolore, nella rabbia, nella frustrazione, nell’impotenza, nel senso di colpevolezza, Sesshomaru ama e continuerà ad amare Alessandra. Anche se, quando si dicono addio per davvero, quando lei si muta in vento su quel campo di fiori, Sesshomaru non vede Alessandra da quasi quattro anni. Da quattro anni non sa nulla di lei. Eppure continua ad amarla. E per questo non può rivolgere alla yasha uno sguardo d’amante, ma solo di grata compassione. Perché, comunque, lei lo ha amato e lo ama. Perché comunque Kagura non è mai riuscita davvero a dirgli addio.

 

Sesshomaru…Sesshomaru è un enigma. Mi sguscia continuamente fra le righe che scrivo. Volevo mostrare il suo cambiamento con Alessandra, e lui sorprende me. Portandomi a descriverlo come sensibile, forte di sentimenti, umano. Solo costretto, ingabbiato. Chiuso. Bloccato in quel mondo e in quell’educazione in cui è cresciuto: la mentalità medievale giapponese e la fiera e fredda corte inuyoukai. Avevo deciso per una sensualità latente fino alla fine della prima parte, e lui si ribella. Si fa più appassionato, più ardente. Dopo la concessione a Kagura, marcia indietro non la si può fare. Inutile. Sesshomaru detesta fare ciò che gli altri vorrebbero imporgli.

 

Ma non è solo in camp sentimentale che Sesshomaru mi si ribella. All’inizio, volevo che Inuyasha scendesse in campo dopo il capitolo “Duello”. Ho posticipato, e il nostro Principe mi sconvolge le carte in tavola. Gioca sporco. Chiama Inuyasha Principe. Ma lo fa nelle sue stanze, senza testimoni. Lo fa dopo che ha rischiato di perderlo, dopo che l’ha protetto. Forse sull’onda delle emozioni, forse sena una vera ragione. Ma lo fa. Eppure lo odio. Vuole umiliarlo, annientarlo, e gli dona un kimono pregiato. Un kimono degno di un rango che Inuyasha non ha mai avuto ufficialmente, quello di Principe cadetto. Sesshomaru non gli parla, ma lasci che aiuti all’ospedale, lascia che percorra i corridoi del palazzo paterno assieme a Koga, lascia che si occupi di far sgombrare la piazza d’armi dai cadaveri che gli scontri mietono.

 

Inuyasha fa, ma a corte non è niente. C’è solo una cosa che non gli è permessa: combattere. Sesshomaru ha accettato Sango e Miroku, accetterà anche Kagome. Ma lui no. Inuyasha non può combattere. Non deve combattere sotto il Principe. Lui è un bastardo, è il disonore nella sua stirpe. Permettergli di schierarsi in campo equivale a riconoscerlo, ad accettarlo, ad insignirlo si un ruolo che Sesshomaru sente suo e solo suo. Non un Principe e un fratello cadetto. Solo lui. Egoisticamente.

 

Ma noi conosciamo bene il nostro hanyou. E non si rassegna. Combatterà. Combatterà alla testa della guarnigione di difesa del palazzo. Combatterà assieme a Shin per difendere quella casa paterna ce da sempre lo ha rifiutato. Combatterà per Sesshomaru, per Alessandra, per le persone cui vuole bene. E combatterà anche per se stesso. Soprattutto per se stesso. Necessità lo permette. E il suo cuore lo impone. È rimasto troppo nelle retrovie. Si è lasciato cullare troppo a lungo dall’inadeguatezza, dal timore, dallo smarrimento che la morte di Kikyo gli ha provocato. Basta. Verrà il momento, e non è affatto lontano, solo un capitolo, che sentiremo l’aria fremere per la cicatrice del vento. Che vedremo Inuyasha spavaldo e incosciente come sempre; cocciuto e determinato. E sarà per questo suo temperamento, quel questo suo modo di porsi, così diverso da quello algido e controllato del fratello, così simile a quello di Inutaisho, di quel padre mai conosciuto, che la guarnigione rimasta al castello lo seguirà. Ciecamente.

 

E vinceranno, perché, si sa, i giusti devono vincere, e anche se saranno in difficoltà estrema un aiuto può sempre arrivare (a voi, per il momento, immaginare da parte di chi ^^).

 

E poi Shin. Sono contenta che non vi sia dispiaciuto che non sia morto. Anche perché il primogenito di Morigawa tornerà anche nelle altre due parti, benchè sarà soprattutto nella terza che avrà un ruolo non trascurabile. Già…Primogenito. Perché è davvero figlio del Signore del Kansai e di Kyoko. Lo so: vi ho ingannato, ma il sospetto che ci potesse essere una parentela fra lui e Sesshomaru è stato troppo forte ^^. Chiedo venia.

 

No. A Shin basta Yashi, come fratello. E anche Koji. Perché il giovane ookami non riuscirà mai ad affrancarsi totalmente dal suo passato: sarà per sempre diviso. Fratello del Principe del Kansai e fratello del Principe degli Yoro. Un mediatore, direte voi, fra lupi e inuyoukai. Sì certo. Ma soprattutto un “ragazzo” che più di molti altri ha compreso davvero che non è la razza a decretare le differenze. E in questo sarà sempre sostenuto da Kumamoto, che di figli, oltre ad Homoe, ne ha a avuti altri tre, fra cui un hanyou, legittimamente riconosciuto. E purtroppo tutti deceduti, tranne la femmina. Ma sto divagando troppo.

 

Shin, dicevano. Lui che è prigioniero e vivo nel castello dell’inuyoukai. Lui che aiuterà Sesshomaru. Lui che combatterà con Inuyasha. Lui che farà di tutto perché i suoi soldati non affrontino quelli del Principe dell’Ovest. Lui che avrebbe voluto portare Alessandra lontana da un campo di battaglia, e non può opporsi, ferito e debilitato dai postumi dell’agguato che ha subito da Naraku, che la ragazza corra. Corra verso Sesshomaru e il dolore.

 

Shin. Ma anche Koga. E Ayame, Miroku e Sango. Kagome. In questi ultimi, pochi capitoli, tutti avranno la loro scena. In gloria o in impotenza. Perché, finita la guerra, il lieto fine è ancora lontano. Sarà allora che i vincitori, i nostri amici, dovranno affrontare una prova molto dura. E dovranno farlo soprattutto Sesshomaru e Alessandra. Lui dovrà vincere contro se stesso, contro una realtà che non ha ai voluto focalizzare che gli verrà sbattuta in faccia con la forza di uno schiaffo. Lei dovrà trovare la forza di sopportare la nuova umiliazione, la violenza che la corte le farà. Perché in quel momento Sesshomaru non è con lei. Sesshomaru è lontano. E la corte può approfittare di quella ragazza, debole e indifesa. Può violarla, e al tempo stesso rispettare la volontà del Principe. E fuori dalla stanza, a cogliere i respiri strozzati della ragazza, i suoi amici: Miroku, Sango, Kagome, Rin, Ayame, Koga e Kumamoto. E non potranno fare niente per impedirlo. Non potranno fermare le mani che la toccheranno e i respiri che la sfioreranno. Non potranno. E alla fine, per la prima volta, i suoi amici la sentiranno piangere. Silenziosamente. Disperatamente.

 

Direte che sono “malvagia”, che godo nel complicare le cose. E’ vero: ma il motivo è semplice. La storia prova a essere la narrazione di una vita; e nella vita ci sono i sogni, ma anche la realtà. E in una realtà diversa, medievale, estranea, avversa agli esseri umani, i sogni possono sembrare più lontani e inafferrabili delle stelle del firmamento. Specialmente se il perno di quei sogni, in quel momento, è instabile e provato. Confuso. Scosso.

 

Credo sia arrivato il momento di chiudere questa mia parentesi. Ho un po’ ripercorso alcune parti dell’ultimo capitolo, provando a spiegare cosa me lo ha ispirato e cosa volevo trasmettere. Spero solo che non vi risulti una noiosa ripetizione. Ho ripreso capitoli vecchi, perché, se nella mia mente la trama è complessivamente definita, è quasi certo che nella realtà possa esser più difficile trovare i miei enigmatici riferimenti. Non me ne volgiate. E se ci fossero problemi, se vorreste più chiarimenti, ditemelo. E vedrò di modificare lo stile in certi punti. Qualsiasi critica, lo sapete, è bene accetta. Anche la più aspra.

 

Vi ho trascinato indietro, ma vi ho anche portato avanti. Anticipazioni ce ne sono state. Spero che non vi diano noia. Cerco solo di solleticare la vostra curiosità, spingendovi a ipotizzare possibili soluzioni.

 

Bene: vi ringrazio di nuovo infinitamente per la gentilezza che mi mostrate. Siete davvero…fenomenali! E, davvero, mi imbarazza molto ricevere i vostri complimenti. Grazie. Grazie davvero.

 

Un abbraccio,

 

Avalon

 

  
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