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Autore: Klavdiya Erzsebet    03/01/2013    1 recensioni
Parte della serie Until Death Do Us Part
(Tornano Greg e Sophia Lestrade protagonisti. È dichiaratamente romantico, anche se l’amore non è il genere principale. E pensare che non credevo di essere capace di trattarlo anche solo minimamente.)
Una strana malattia colpisce Sophia Lestrade, e un caso particolarmente inspiegabile approda nell’ufficio di Greg. Due misteri, collegamenti inaspettati, una corsa contro il tempo e una modesta ipotesi di come l’amore per la vita abbia potuto portare alla morte: tutto è contorto. Talvolta è difficile determinare l’impossibile.
{Attenzione: fanfiction Greg–centrica a livelli vergognosi}
Genere: Mistero, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Lestrade , Nuovo personaggio, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Until Death Do Us Part'
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Cap.XVI

La Fine?

 

Sherlock stava leggendo e rileggendo quel libro che aveva trovato dopo qualche ora di ricerche e ottenuto con un numero indefinito di ricatti. John avrebbe voluto chiedergli se era giunto a qualcosa ma non aveva il coraggio di interromperlo.

L’occasione gliela fornì Sherlock, all’improvviso. Scagliò via il libro con un gesto quasi isterico.

“Trovato qualcosa?” domandò John con un tono più sarcastico di quanto non avesse calcolato. L’altro nemmeno gli rispose.

Il dottore si alzò cautamente dalla sedia e sentì che la gamba gli faceva male. Fu costretto ad appoggiarsi alla spalla di Sherlock contando sul suo silenzio e sulla sua complice immobilità.

Ma il suo coinquilino a volte non era esattamente il complice ideale. Gli lanciò un’occhiata di rimprovero e John realizzò che avrebbe davvero dovuto dormire un po’ di più anziché stare appostato accanto al letto di Greg.

Zoppicò fino alla porta lanciando un ultimo sguardo all’ispettore ancora incosciente. Una volta nel corridoio, gli parve di respirare per la prima volta dopo una lunghissima immersione; soppesò l’idea di prendersi un caffè prima di recarsi da Sophia. Non aveva particolarmente voglia di lasciarla troppo da sola.

Inserì una monetina nella macchinetta sul corridoio e non poté trattenere una smorfia non appena un sapore disgustoso gli entrò in bocca dalle labbra socchiuse, posate sui bordi di plastica del bicchiere. Chiuse gli occhi e lo bevve tutto in un sorso, prima di accartocciarlo e buttarlo nel cestino più vicino che strabordava di fazzoletti.

Lentamente si avviò verso la stanza di Sophia; la gamba non gli dava tregua. C’era poca gente in giro. La neve sembrava aver addormentato anche i pochi pazienti che c’erano.

La stanza di Sophia non era lontana; improvvisamente John realizzò che entrambi loro erano lì, e che non c’era nessun altro nella loro piccola famiglia. Sophia aveva detto che i loro genitori non abitavano vicini. Non si erano ancora fatti vedere. La loro casa era vuota. Non rimaneva lei per informare amici e vicini delle condizioni di lui, né viceversa.

Appena arrivò alla porta bussò appena con le nocche; “Sono il dottor Watson” annunciò. Da dietro la porta si udì un rumore simile a quello di una sedia che si spostava, e John si pentì di essere andato a trovare Sophia.

La maniglia si abbassò e la porta si aprì; si aspettò di vedere una vecchia signora col consorte, e non la nuvola di capelli scuri di Sally.

“Sergente Donovan!” la salutò stupito. La donna lo lasciò entrare, sorridendogli senza ironia forse per la prima volta da quando si conoscevano. Sembrava sinceramente preoccupata e la sua espressione tesa, le occhiaie e il suo sguardo erano in netto contrasto col sorriso placido e il pallore spettrale di Sophia che se ne stava seduta a gambe incrociate sul letto.

Lei non sapeva che probabilmente non poteva guarire. Lei non sapeva il cerchio di orrore in cui era finita.

“Come sta Greg?” chiese con voce calma. Era lei sua moglie, e lei quella tranquilla; John aveva già sentito tante volte quel tono, e sapeva che non era quello della gente a cui non importava. Sophia si stava imponendo una certa disciplina; si stava impedendo di perdere il controllo.

“È stabile” le rispose. Lei sorrise senza allegria e non insistette. Sally parve annuire con aria grave.

Notò la mano di John stretta alla gamba e si alzò, lasciandogli il posto. Con ogni probabilità era convinta che fosse stato ferito davvero alla gamba, e che davvero fosse zoppo. Forse alla fine era meglio così.

Il dottore si sedette sulla sedia di plastica rossa e sospirò; le labbra rosee e sottili erano ancora arcuate in un sorriso che aveva poco di felice. “Come sta Alec?” azzardò guardandola negli occhi. Lei si rilassò e John si aspettò buone notizie.

“È morto qualche ora fa” disse invece la donna con una voce piatta e suadente.

“Mi dispiace” mormorò Sally. “Condoglianze”.

Sophia annuì piano. Allungò le gambe davanti a sé. John notò per la prima volta le braccia fasciate e capì perché il sergente Donovan taceva.

Erano ferite autoinflitte. Sophia aveva preso in mano delle forbici e si era aperta lunghi tagli lungo gli avambracci. “Come va?” domandò Sally con troppa disinvoltura per essere sincera, in un assurdo tentativo di risollevare l’atmosfera. John ci impiegò qualche secondo per capire che parlava a lui.

“Beh, insom…”. D’improvviso la melodia del cellulare spezzò il silenzio e il nome di Sherlock comparve sullo schermo. “Devo andare” dice John secco e apre la porta di scatto. “È Sherlock”

Un’infermiera corpulenta gli si avvicina con gli occhi assottigliati e l’aria truce; “Dovrebbe silenziarlo. C’è gente che riposa” tentò di dirgli con un tono che non ammetteva repliche ma ormai lui era lontano.

Appena arrivò alla stanza di Greg ci entrò come una furia; quasi stava per gridare, quando Sherlock lo zittì con un cenno. John lanciò un’occhiata apprensiva al letto.

Greg aveva gli occhi castani semiaperti e vigili, opachi a causa degli antidolorifici; non era eccessivamente sveglio, o lucido, eppure nelle sue iridi c’era qualcosa di troppo pesante. “John” lo chiamò appena lo vide.

“Sono qui” confermò il dottore. “Come…?”

“Chi è stato?” intervenne Sherlock senza lasciargli finire la frase. “Chi ti ha fatto questo? È la stessa persona che ha fatto ammalare Sophia e che ha fatto gli attentati?”

Lo sguardo di Lestrade si illuminò e John si rese conto che lui sapeva; che lui aveva risolto il caso, in teoria, e che stava chiedendo il loro aiuto. “Ce ne sarà un altro” disse con un filo di voce. “Una ragazza russa. Yuliya”

“Dove?” chiese Sherlock guardandolo fisso con gli occhi chiari spalancati e pieni di una luce quasi comprensiva. Tutta la sua attenzione era per Greg.

“Non lo so” si arrese lui. Abbassò le palpebre e rimase immobile per qualche istante.

“Deve riposare” gli mormorò John. Sherlock non parve ascoltarlo.

“Chi è stato?” insistette. “Chi ha fatto tutto questo?”

Il viso di Lestrade si contrasse e per un attimo fu sull’orlo delle lacrime. “Annabel” sussurrò alla fine. Sherlock finalmente tacque.

Il ticchettio dell’orologio era invadente, ora. Era il fracasso delle granate che esplodevano sulle pareti dell’ospedale, meccanicamente e a ritmo regolare. John rimase un attimo a guardare Greg, poi distolse lo sguardo. “Dobbiamo fermarla” disse deciso al coinquilino.

Sherlock lo guardò ma non rispose; e John si rendeva perfettamente conto che non era la cosa giusta da dire: avrebbe dovuto chiedergli cose più pratiche, come per esempio ‘dov’è che si farà esplodere Yuliya?’ o più semplicemente ‘Cosa hai intenzione di fare?’, anche se sapeva che non avrebbe ottenuto nessuna risposta.

Sherlock si alzò e lentamente cominciò a percorrere il corridoio, seguito da John. Voleva andare da Sophia, magari chiederle qualcos’altro. Il dottore zoppicava e con gli occhi cercava avidamente un punto di ristoro – avrebbe dovuto mangiare di più.

Non concesse al coinquilino di fermarsi alla macchinetta del caffè e lo costrinse a rimanere in piedi nella stretta stanza d’ospedale mentre lui si portava le ginocchia al mento, accovacciato sulla solita sedia di plastica rossa.

Un rumore di passi lo distrasse da quei pensieri. Era un suono familiare: i tacchi di Sally. Sophia alzò lo sguardo e sorrise alla porta ancora prima di vederla aprirsi.

Il sergente Donovan fece capolino dalla porta con i capelli all’aria e gli occhi truci; “C’è stato un attentato” disse secca e il cellulare che aveva in mano si mise a suonare.

“Le avevo detto di spegnerlo!” protestò un giovane infermiere, invano.

Prima che Sally potesse rispondere, John lanciò uno sguardo interrogativo a Sherlock; ma vide solo il suo profilo, e le sue labbra a cuore che si aprivano e articolavano qualcosa che il cervello del dottore impiegò qualche attimo a decifrare.

La voce profonda di Sherlock parlò. “Abbiamo scoperto il colpevole” disse semplicemente. Fu abbastanza per paralizzare Sophia e impedire al dito di Sally, ormai posato sulla cornetta verde, di svolgere le sue funzioni più elementari.

Gli occhi scuri del sergente Donovan fissarono Sherlock per un tempo indefinito, sufficiente perché il telefono cessasse di squillare. “Chi è?” chiese alla fine, e non riuscì a commentare acidamente quella rivelazione.

“Annabel Reimy” annunciò Sherlock. “Sta per venire a trovare Sophia. Appena la vedremo,” cominciò, lanciando uno sguardo eloquente alla signora Lestrade, “ve lo diremo. Appena sarà abbastanza vicina, arrestatela”.

“Hai delle prove?”

Lentamente, Sherlock prese un foglio e con la sua calligrafia grande, quasi da bambino, tracciò quattro parole e ne collegò le lettere con frecce appena abbozzate.

MARIAN BENLEY

ANNABEL REIMY

“È lei che ha fatto il tatuaggio a Sophia, e da lì è cominciato tutto. Erano la stessa persona, i nomi stessi sono un anagramma. Marian pareva morta per un incidente d'auto ma il suo corpo era scomparso. Non era morta, non del tutto. E per l'aggressione, la testimonianza di Greg sarà abbastanza” concluse deciso. Nessuno capì granché, eccetto forse per John. Ma Sally si fidava e Sophia sembrava impossibile da stupire, e questo inquietò un poco Sherlock.

Sally si mise allo stipite della porta, soffermandosi con lo sguardo prima su Sophia e poi sulla gente che entrava nel reparto. “Com’è questa Annabel?” chiese dopo qualche istante di esitazione.

“Giovane, capelli scuri, media statura” rispose subito Sophia. Sally annuì. “Guarirò?” chiese poi rivolta a Sherlock, senza smettere di studiare il flusso di gente che entrava.

Il detective parve stupito da quella domanda; il silenzio di Sophia nascondeva una consapevolezza che non aveva calcolato. Lo sguardo verde della donna seguiva il suo, lo braccava, passava attraverso quella barriera che pochi sapevo aggirare.

Sherlock spostò improvvisamente lo sguardo alla gente che si avvicinava e Sophia, allarmata, lo imitò. Mentre scrutava la folla gli lasciò il tempo di respirare; il detective si massaggiò il collo e lanciò una rapida occhiata a una ragazza troppo giovane per essere Annabel. Scosse appena la testa, senza interrompere la sua ricerca.

La mano di Sophia scattò in aria e la sua bocca si mosse un paio di volte prima di riuscire a parlare. “È lei!” esclamò, e il suo dito indice teso tremava. Sally si spostò di scatto dallo stipite e si avvicinò a passo deciso verso Annabel che camminava ancheggiando. “Annabel Reimy?” le chiese e la ragazza annuì sorridendo; il trucco era perfetto e i denti bianchissimi.

In pochi istanti che parvero un’ora Sally prese il distintivo, e il sorriso sul volto di Annabel si congelò e poi sparì.

 

***

 

Sophia non si era mossa dopo che Sally e Annabel se ne erano andate lentamente insieme a qualche poliziotto; Sherlock l’aveva guardata di sfuggita solo quando l’aveva giudicata troppo scioccata per rifargli quell’orribile domanda.

Non c’era scritto niente su quel libro su come sconfiggere quella malattia; solo diceva che le cure non funzionavano. Che il marchio era un marchio per sempre.

Sophia ora stava pensando, e Sherlock non se la sentì di guardarla. Sperò che capisse, che fosse in grado di interpretare il suo silenzio come una richiesta di tempo e calma per pensare. All’apparenza era tranquilla. Lo infastidiva la sua capacità di non mostrare traccia di quello che aveva dentro nel suo corpo tutt’altro che teso.

C’era un’ipotesi che non gli dava pace; una piccola idea che era nata timidamente mentre leggeva. Normalmente, nella logica fredda e razionale della sua mente, un’idea così sarebbe morta ancor prima di nascere. Come dicevano che succedesse ai neonati deformi nell’antica Sparta, sarebbe stata gettata in un abisso profondo e stop. Poi, in realtà, i bambini non venivano lanciati dal monte, ma solo abbandonati – ma d’altronde la gente pensava spesso cose sbagliate, e come immagine quella era perfetta.

Un’idea che aveva sbagliato a non uccidere prima che si sviluppasse e crescesse e ostacolasse le sue deduzioni; solo che non ne aveva altre, al momento. Sophia, forse, dentro era speranzosa. Magari si fidava di lui. La guardò; non ne era sicuro. Voleva la sua conferma per cominciare.

“Guarirò?” ripeté lei stancamente, fissandolo negli occhi. Era una conferma?

Sherlock soppesò le parole, alzando quasi involontariamente gli occhi al cielo. “Da quel tatuaggio è nato tutto” le ricordò.

Le dita pallide di Sophia tirarono la stoffa, e la scostarono dalla spalla bianchissima. Gli mostrarono la rosa, il contrasto del grigio sulla pelle.

Sherlock infilò una mano in tasca e ne estrasse l’accendino che aveva tentato di smettere di usare. Cercò lo sguardo della donna. I suoi occhi gli dicevano di continuare.

Lo avvicinò alla pelle e la osservò bruciare. Sophia era finita lì anche per atti di autolesionismo. Si chiese per un attimo se l’avrebbero ricoverata nel reparto psichiatrico, quando il tatuaggio si sarebbe cancellato. Realizzò che per Greg non era ancora finita.

La pelle bruciava e il colore della spalla di Sophia non era diverso da quello pallidissimo delle mani di lui. Le dita sottili della donna le coprirono e pigiarono leggermente, con timidezza, mentre la rosa lentamente spariva.

 

 

A/N: ebbene, il prossimo è l’ultimo. Sono qui col magone perché questa storia è praticamente la mia cucciola :3 ringrazio di nuovo tutti, tuttituttitutti: lettori, recensori e chi ha inserito la mia piccolina tra le seguite/preferite/ricordate. Ricordatevelo: vi AMOH <3

Baci a tutti,

Kla

  
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