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Autore: Kim NaNa    04/01/2013    3 recensioni
"C’è qualcosa che dovrei sapere anche io? Ti puoi fidare di me, lo sai…“
I suoi serafici occhi abbandonarono lo spettacolo incessante di quell’inclemente cielo grigio e si posarono sulle mie iridi castane, rallentando i battiti del mio cuore.
“Non adesso, Gabrielle. Non ancora…“
Questo mi disse.
Genere: Drammatico, Romantico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Dessert al sapore di cielo
 
Nell’ultimo periodo avevo sempre usato la maschera di una “terza”, impersonale, persona.
Quel giorno mi facevo chiamare Io.
Sentivo l’esigenza di uscire allo scoperto, magari era solo colpa di Anthony, di tutte quelle sue parole così strane da non andare via dai miei pensieri. Per qualche incomprensibile motivo la sua voce indugiava nelle mie orecchie continuamente, di notte, di giorno, nei sogni... sempre.
Io…
Un tempo io ero un Io di quelle che, nel secolo scorso, si affacciavano alla vita con pazza voglia di baciarla e assorbirla, senza sconti. Mi piaceva sentire il formicolio delle vite degli altri sulla pelle, mi piaceva il loro sorriso appiccato ovunque, mi metteva leggerezza ai piedi. O meglio, nella mia testa credevo di essere una di quelle.
Quel giorno ero un Io che, se non chiude, almeno socchiude le porte.
E se prima guardavo, quel giorno sbirciavo.
E se prima gridavo, quel giorno a stento bisbigliavo.
E se prima… e se…
E se prima, quanto prima? Troppo…
Quel giorno ero il tipo che ogni giorno, allo specchio, durante un incubo, camminando, in una lite, per un'idea, interrogava la voce. Avevo la stessa risposta dal troppo tempo di prima.
“Mi risparmio” non mi dice.
Ero perennemente impreparata.
Ero il tipo che a volte, spesso, si sentiva vigliacca persino quando scriveva.
Speravo che quanto prima, il sollievo generato dalle parole che scioglievano i nodi in gola, mi rassicurassero dicendomi che non ci fosse niente di sbagliato nel sopravvivere.
Ognuno ha il suo modo.
Quello era semplicemente il mio. Me lo ripetevo nel caso, un giorno, cominciassi a crederci.
Ero il tipo che scivolava, in superficie.
Prendevo un odore, un colore, mi limitavo a riconoscerlo, ad esperirlo nella sua pelle. Sua, la mia era bandita.
I ricordi, miei, erano banditi.
Non c’era profondità.
Non mi piaceva vagolare nel buio.
Ero diventata il tipo che dopo le legnate sui denti, sigillava la storia in un sorridente “niente”, mi evitavo il poco tempo altrui, mi evitavo il facile giudizio, mi evitavo di interrogare ancora la voce, quella che non dice. È la sua arte!
Ero diventata il tipo che nonostante il poco spazio, la poca aria, la semichiusura, allungava la mano.
Che la si sbranasse o la si accarezzasse, era ancora pronta.
Dio solo sapeva ancora per quanto.
Eppure, nonostante fossi tutto quel gran casino, Anthony mi ripeteva che era normale, che non ero affatto diversa dagli altri, che la magrezza non faceva di me una persona perfetta, che scomparire non mi avrebbe alleggerita come immaginavo.
Ripensai ai giorni trascorsi con Tony. Ripensai a quel mondo che mi offrì racchiuso in una lattina di Coca cola e fu come accorgermi di avere la rabbia dentro.
Sì, rabbia.
Mi venne voglia di urlare, stringere forte i denti e cessare di vivere in quella mia posizione mediana così maledettamente usuale.  Era proprio così che mi sentii quella mattina, avevo percepito che nulla mi faceva sentire viva se non quell’aria fresca che Anthony mi faceva respirare.
Quella mattina mi accorsi di avere la vita negli occhi, dannazione!
Scesi dal letto e mi guardai allo specchio.
Di solito, avevo tutto un rituale da fare: bilancia, centimetro alla mano e jeans di due taglie più piccole da misurare, ma quel giorno mi sorrisi. Il mio mondo continuava a farmi schifo e la tristezza non mi aveva di certo abbandonata, però c’era qualcosa di diverso quella mattina. Faceva freddo quel 31 Ottobre, ma sentivo l’aria soffocante. Ero in gabbia, quella che avevo costruito con le mie mani, ma qualcuno mi stava insegnando come fare a sentirsi liberi dentro.
Mi guardai di nuovo e pensai che forse il mio sorriso non fosse male, afferrai il mio cellulare e chiamai lui.
«Non farmi domande, sono già fin troppo imbarazzata. Possiamo vederci?»
Sembravo un treno in corsa e mi stupii della spigliatezza del momento. Guardai fuori dalla mia finestra, mentre udii Anthony ridacchiare. Il cielo era nero e gravido, ma con Tony accanto il cielo poteva prendersi qualsiasi lusso.
«L’hai vista, eh? Non è vero?» Chiese lui, sereno.
«Ma di che stai parlando?» Impaziente, mi infilai un cappotto e misi un cappello di lana sulla testa.
«Guarda fuori. L’Eternità, l’hai vista?»
«Mi chiedo quando la smetterai con questa storia… fuori non c’è niente, se non un cielo nero che promette tempesta. Allora, che fai? Passi a prendermi?»
«Sono di sotto che ti aspetto.»
«Eh?» gridai.
Aveva riagganciato. Spalancai la mia finestra in tutta fretta e mi affacciai al balcone, perlustrando con gli occhi la strada che avevo di fronte e poco dopo lo vidi.
Se ne stava seduto sul marciapiede, jeans scuri, giubbotto nero, il cappuccio di una felpa grigia calcato sulla testa e un paio d’occhiali da sole sugli occhi.
Sorrisi. Un po’ per la sorpresa, un po’ per la scelta di indossare gli occhiali con quel tempo minaccioso.
Scesi le due scale di corsa, impaziente e quando gli fui davanti scoppiai a ridere.
«Mi piace sentirti ridere!» disse.
«Ma ti sembra il tempo ideale per tenere gli occhiali da sole?» dissi io, continuando a ridere.
«Perché? A me piacciono. È illegale?»
«No, ma… che direbbe la gente se ti vedesse?»
«La gente pensa sempre e il più delle volte pensa sempre ciò che le pare. Allora, come sto?» imitò una posa da fotomodello e ridere fu la sola cosa che mi venne da fare.
«Bene. Lo prenderò come un Oh, sei bellissimo! Ora sbrigati o faremo tardi. Prendi questo.»  Sollevò dal marciapiede un casco grigio, porgendomelo.
«E quello cos’è?» chiesi, scioccamente.
«Non vorrai andare senza di quello sulla mia moto?!»
«La tua che?»
Mi indicò una vespa color cielo, parcheggiata lì vicino e mi sorrise.
«Salta su. Oggi pranziamo insieme.» Mi aveva infilato il casco e, dopo aver scostato una ciocca ribelle di capelli, mi allacciò il cinturino sotto il mento.
«Ti ho già detto che sai di eterno anche quando sorridi?»
Mi strattonò un po’ e un istante dopo ero stretta alla sua schiena, a bordo della sua moto.
Ricordo ancora i mille pensieri che vennero a farmi visita in quel momento.
Un pranzo?
Significava che dovevo mangiare… e contare, e andare in bagno, e poi sputare, e rifiutare, ed ingoiare… erano proprio quelli i miei pensieri, quando lui mi disse: «Lascia stare. Non ci sarà nessuno ad osservarti. Saremo solo io e te… e sto per offrirti un pranzo celestiale, preparato con le mie stesse mani.»
Anthony aveva capito. Mi lasciai andare sulla sua schiena e respirai a pieni polmoni.
Non dovevo sentirmi alla gogna. Ero con lui, il resto poteva anche sparire per quel giorno.
Mi portò in un piccolo ristorante con ancora le serrande abbassate.
«Ma è chiuso?!» esclamai.
Lui mi guardò senza battere ciglio, mise le mani in tasca e ne estresse un mazzo di chiavi.
«Non per me! È il ristorante dei miei genitori, ma oggi è giorno di chiusura…»
Sorrise, infilando la chiave nel dispositivo elettrico e aprendo la serranda quel tanto che serviva a farci entrare.
Non so come accadde, ma da quel momento in poi il tempo parve volare.
Persino aiutare Anthony in cucina mi aveva messo di buon umore. Io che odiavo sentire gli odori, io che odiavo dover assaggiare.
Con Anthony mangiai. Non contai. Non vomitai. Non digiunai.
Non posso dire di aver mangiato come fanno le persone “normali”, ma avevo assaporato i piatti seppur in porzioni ridottissime.
«Non sapevo cucinassi così bene… » dissi, sedendomi su uno sgabello.
«Sono un vero e proprio chef!» affermò, porgendomi un barattolo di nutella.
Gli rivolsi un’occhiata poco rassicurante, ma lui parve non curarsene, mettendomi un cucchiano in mano.
«No, grazie…» biascicai.
«Sai, Gabrielle…» cominciò, mangiando un po’ di nutella. «Quando i miei sono al lavoro, sono io ad occuparmi dei miei due fratelli minori… cucino, mi occupo della casa… Ah, ti ho mai detto che ho due fratelli, vero?»
Scossi il capo.
C’erano così tante cose che non sapevo di lui.
«George e Daniel. Due tesori, ma non dirlo a loro, per favore…» sorrideva mentre parlava dei suoi fratelli e aveva un’espressione dolce sul viso.
«Devi amare molto la tua famiglia…» sussurrai.
«Chi non ama la propria famiglia?» Infilò il mio cucchiaino nel barattolo e lo estrasse pieno di nutella.
«Non puoi rifiutare il dessert della casa.» aggiunse.
Lasciai che mi imboccasse e fu come esser fatta prigioniera dal mio aguzzino.
Me stessa.
Era troppo.
Tutto quel cibo e poi quel dolce…
Mi guardai le gambe e provai orrore.
«No!» urlai, alzandomi.
«Dov’è il bagno? Anthony, dimmi dov’è il bagno?» chiesi, in preda ad attacchi di panico.
Lui non rispose. Mi lasciò vagare nel ristorante per alcuni istanti, poi si alzò e, a passi lenti, raggiunse la porta del bagno, facendomi un gesto con la mano.
Lo raggiunsi di corsa, ma prima di poterci entrare lui mi fermò.
«Non lascerò che tu lo faccia. Non lascerò che tu sia sola, non di nuovo. Non adesso che ci sono io.»
Sentivo lo stomaco rivoltarsi e il cibo salirmi all’altezza della gola.
Come impazzita, entrai nella cucina e cercai un utensile che potesse servirmi.
Trovai un piccolo mestolo di plastica, ne osservai attentamente la forma e tornai alla porta del bagno.
«Lasciami andare, ti prego. Non posso permettermi di fallire ancora, non posso permettermi di essere ancora lo zimbello di quelli là fuori…» Dissi, piangendo.
«Starai meglio dopo?» mi chiese.
«Non credo.» aggiunse subito dopo.
Mi sentivo morire, avevo l’impressione di soffocare, sentivo il cibo ballarmi nello stomaco e schiacciarmi il petto.
Mi accasciai sul pavimento.
«Ti prego, Anthony… non farmi questo.» Lo guardai, supplicandolo con gli occhi. Poi, feci quello che sentivo di fare.
Raggiunsi il bagno, mi infilai quell’affare in bocca e mi provocai il vomito.
Era la storia della mia vita quella, non ci vedevo nulla di strano, niente di nuovo.
E fu come rivedermi durante il corso dei miei giovani anni.
Intrappolata da me stessa, dalle giornate tutte uguali, dalle voci che urlavano su di me.Volevo uscire, evadere, ma prima avrei dovuto trovare la chiave per liberarmi, quella chiave che credo sia dispersa chissà dove... Ancora non l'avevo capito. Il tempo scorreva e lei arrugginiva come me... Che restavo a terra, a piangere e ad invecchiare da sola...
Sola in compagnia di me stessa e di tutti i miei mostri.
Aveva ragione Anthony, non mi sentivo meglio, al contrario. Il mio malessere ora ruggiva senza controllo e la terra sembrava sgretolarsi sotto di me.
Ero stata incapace di chiedere aiuto al momento giusto. Forse lo stavo chiedendo in quel preciso istante.
Sbagliavo i tempi, i modi, i toni, ma lo stavo elemosinando tra i singhiozzi sviliti e pesanti, lo stavo chiedendo in quel momento. Anni prima non potevo, qualunque cosa avessi fatto prima, il destino avrebbe compiuto il suo disegno.
Quanti anni passati a rimproverarmi?
Se solo avessi gridato, se solo fossi scappata. Ma coi se non si aggiusta una vita, semmai la si distrugge ancora.
Aiuto, chiedevo.
Spalle a terra, pugni chiusi, occhi bassi.
Schiava in quel momento come in passato. Ripercorsi ogni gesto, ogni parola, ogni colpo basso subito e mi chiedevo dove fossi andata a finire.
«Perché io muoio e gli altri mi guardano?» mormorari. Sentivo la pioggia scrosciare, batteva violenta sull’asfalto e cadeva incurante del resto del mondo.
«Perché devi ucciderti?» chiese Anthony, accovacciandosi e alzandomi la testa.
Senza aggiungere altro, mi pulì la bocca, poi il viso, le mani, i capelli e intanto mi parlava di lei, dell’Eternità, di quanto è magnifica se solo la si riesce a scovare.
«Se solo ti guardassi con i tuoi occhi, capiresti che non c’è nulla di così sbagliato dentro di te.» mi disse.
Era una dolce nenia la sua voce, mi strinsi al suo petto e mi lasciai calmare dalle sue parole.
Il pomeriggio se ne stava acquattato all’orizzonte di un sole timido, coperto da nuvoloni neri che s’allontanavano piano, un sole incerto nell’immobile scorrere del tempo.
Anthony sollevò la felpa, quel tanto da permettermi di giocar con la sua schiena. Adagiata la testa sulle sue gambe,  presi a disegnarvi parole incomprensibili, promesse. Dal collo in giù, me ne colò una forte ma, in un sospiro, fermai il gesto.
«Che c’è?»
«Niente, che vedi?»
Avevo voglia di sentirmi raccontare ancora dell’Eternità, di immaginarne il colore, il profumo, il sapore…
«Non ho bisogno di guardarti per sapere che espressione hai in questo momento, per capire che qualcosa non va. Che c’è?» Le braccia a cuscino, il jeans, gli macchiavano la limpidezza della voce.
Mi sfuggì un sorriso, negli occhi.
«Ma no. Non parlavo di quello… Sei strano, sai? Quando sono io a chiederti di “lei”, tu parli di me e quando io parlo di me, tu parli di “lei”!»
Il tempo ricamava attesa, su quelle due sedie bianche, quando le uniche parole che sapevo, gliele scrivevo con le dita e si tingevano di blu.
«Te l’ho spiegato, Gabrielle. Anche tu sai di eterno, ma sei così ostinata da non riuscire a vederlo.» mi disse, accarezzandomi piano i capelli.
«Pensavo… Mi sarebbe piaciuto vederti a quell’età. Prima del Tutto, intendo.Perché vedi, c’è altro. Io vengo da una famiglia che il mondo esterno, estraneo, lo vede come una possibilità. Positivo. Prendi mio padre, no? Quello esplode di meraviglia e simpatia in ogni occasione, nuova. E vengo da una famiglia che di “dolore” ne conosce poco. E quel poco è sempre stata causa di una parentela stretta, più o meno sanguigna, ma stretta. Non che fosse stato un “dolore da niente”, ma non è ancora il momento… non è il loro tempo. Non come te, che il dolore lo hai conosciuto da bambina e hai imparato a credere che ti spettasse, che fosse tuo, che fosse per sempre.
Per cui mi piacerebbe rivederti nel momento in cui ti porgevi agli altri senza alcuna difesa. Eri totale. Adesso invece, se tu prendessi un fiore. Se tu lo facessi e di sorpresa, con quello, mi sfiorassi la pelle, riconosceresti l’istinto del preservarsi, conservarsi, risparmiarsi… proteggersi. Io voglio proteggerti. Ti rivoglio piena, Gabrielle! Piena di te, dei tuoi pregi, dei tuoi difetti, piena di vita, di gioia, di speranza. Ti rivoglio piena, capisci?»
Crollai prima che lui iniziasse a non dire. Se ne accorse dal ronzare del respiro, ma a quel punto non mi importava chi ci fosse ad ascoltare, viaggiavo su quella schiena, in silenzio e avevo bisogno di perdonarmi.
Tra le mie ciglia sfumò il sole, mi accarezzò i capelli ed un alito di vento mi suggerì forza.
I suoi neri capelli si mossero leggeri ad accarezzargli la fronte, mentre sulle labbra si increspava quel sorriso che amavo.
«Ce la farai…» mi disse.
I suoi occhi erano pieni di luce e calore , quel calore che mi faceva sentire come gli altri, come una comune ragazza.
E fu allora che lo vidi.
Quel raggio di sole arancio che gli illuminò il viso, aveva il colore dell’eternità di cui Anthony mi aveva raccontato quel giorno e le prime parole che nacquero sulle mie labbra, furono il mio innocente regalo.
«Ce la farò.»
Lui sorrise e l'Eternità gliela vidi tutta negli occhi.
   
 
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