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Autore: elizabethraccah    04/01/2013    2 recensioni
«Quando la gente mi guarda negli occhi ha paura. Lo so. Lo sento. E forse questo non mi piace. Ma è il mio destino, e, come ogni altro destino che si rispetti, è scritto.
Non è che io abbia degli occhi di un colore strano, tipo un azzurro o un verde intenso o altro, come quelli che descrivono nei libri. Sono solo di un normale castano scuro, né da libro né da film. Non hanno niente di speciale, eppure negli occhi della gente che guardo c'è il terrore. Ma non lo faccio apposta. Forse sono solo io che sono fatta un po' male.»
Genere: Romantico, Sovrannaturale, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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Ho cambiato scuola tre volte in tre anni di liceo. Lo so, non è normale. Ma forse in me non c'è proprio niente di normale, quindi non mi preoccupo molto.

Oggi è il mio primo giorno di liceo in questa scuola. Inizio l'anno regolarmente, anche se i miei mi hanno iscritta in ritardo. È la prima volta che inizio la scuola regolarmente. A volte sono entrata ad ottobre o persino a novembre, invece che a settembre. Ma non voglio starci molto a pensare, così comincio a camminare verso il cancello della scuola. Ovviamente c'è un sacco di gente, ragazzi e ragazze felici di rivedersi dopo le vacanze, che chiacchierano a voce alta. Altri addirittura strillano.

Io tengo lo sguardo fisso a terra. Da sola. Non voglio spaventare nessuno.

Ma i miei piani di restarmene isolata per tutto il giorno vanno in fumo: qualcuno da dietro mi tocca la spalla e io sono costretta a girarmi, anche se, ovviamente, controvoglia e anche un po' timorosa di ciò che sarebbe successo. È una ragazza. Di lei riesco a vedere solo i lunghi boccoli biondo platino, perché non oso guardarla in viso. So solo che è più alta di me, e con la coda dell'occhio riesco a capire che sta sorridendo. Il mio sguardo è fisso su un punto lontano dietro la sua spalla sinistra (forse se non la guardo direttamente non avrà paura di me).

«Ehi» mi fa.

«Ehm, ciao» dico incerta.

«Il prof mi ha detto che sei nuova. Da che scuola vieni?»

Quando glielo dico sento il suo sguardo che mi ispeziona il viso, di sicuro cercando di capire perché diavolo non la guardo negli occhi. Riesco quasi a sentire i sui pensieri. "Che strana ragazza. Non avrei dovuto dare retta al professore, quando mi ha detto di cercare di socializzare con lei. Ci credo che ha cambiato scuola: questa qui è tutta matta!" Ora ne sono certa. Sono questi i suoi pensieri. Possibile che…?

Sono una stupida. I miei occhi sono troppo curiosi e corrono fino a quelli della ragazza, che sono di un azzurro limpido e che si spalancano, colmi di terrore, di fronte a me. Faccio una faccia disperata e provo a balbettare qualche scusa, ma lei è già scappata via, tra la folla di studenti. Gli occhi mi si riempiono di lacrime, mi giro e, dato che hanno aperto i cancelli, entro nella scuola, insieme agli altri.

Pensavo che oggi sarebbe stato diverso. Che magari avrei persino potuto farmi qualche amico, tenendo lo sguardo a terra. Ma mi sono solo illusa. Io non avrò mai un amico.

La classe è lunga e stretta, e puzza di vernice. C'è una vecchia cattedra di legno in fondo all'aula, e una lavagna nera con i gessi bianchi accanto. I primi ragazzi che entrano si siedono velocemente agli ultimi banchi, io mi metto al secondo, perché quelli più indietro sono già tutti occupati. Accanto a me si siede una ragazza riccia, rossa e lentigginosa. Non so di che colore abbia gli occhi, perché non ho la minima intenzione di guardarglieli. Si gira verso di me, mi porge la mano dicendo: «Io sono Tiffany» e io la stringo, presentandomi: «Catherine.» Davanti a noi, al primo banco, si siedono due ragazze, una molto bassa, con i capelli neri a caschetto, l'altra alta e slanciata, lisci capelli lunghi e di un biondo scuro. Si girano e guardano prima Tiffany e poi me. Dicono i loro nomi (April è la prima e Faith è quella dai capelli biondi) e mi stringono la mano. Loro e Tiffany mi sorridono, e io anche, e penso che forse ho qualche speranza. Forse.

Dopo un po' il professore entra in classe e fa l'appello. Quando chiama una certa Candice ho un colpo al cuore: riconosco la voce della ragazza dai boccoli biondo platino di stamattina.

Quando il professore chiama me, sento gli occhi di tutti puntati su di me. Se ricambiassi il loro sguardo, probabilmente non oserebbero farlo mai più. Ma me ne sto buona e non fisso nemmeno il professore, che mi fa le solite domande del tipo: «Da che scuola vieni?» o «E come stai messa con il programma?» e frasi di benvenuto come: «Spero ti troverai bene» eccetera. Io annuisco e basta, rispondo in modo sommario ad ogni domanda e ogni tanto mormoro un «Grazie». Non rispondo come invece farei se non avessi la maledizione degli occhi assassini perché non voglio sembrare interessante da conoscere, perché altrimenti prima o poi guarderò in faccia qualcuno e tutto finirà. Mi eviteranno. E non mi vorranno parlare più. Perciò il mio piano è quello di mostrarmi come una che non è niente di che, così non mi si avvicineranno e la loro opinione su di me non sarà né alta né molto bassa. Sarò solo una… normale.

Ma di solito il mio piano non funziona. Non funziona mai.

Per fortuna Tiffany, April e Faith non mi parlano per tutto il tempo prima della ricreazione. Ma poi la campanella suona e non posso più scappare. Cominciano a parlare del più e del meno, e io do qualche risposta giusto per comportarmi in modo educato. Per fortuna riesco a non guardarle negli occhi per tutta la giornata, ma non so se andrà avanti così per molto. Quando usciamo da scuola, io me ne vado da sola, volontariamente. Non voglio correre altri rischi.

Da quel giorno, torno tutti i giorni a casa da sola. Non perché le altre non mi vogliano nel loro gruppo, ma perché ho bisogno di stare da sola. E mi dispero nel pensare che il momento che temo si avvicina sempre di più, il momento in cui tutti scapperanno da me. Io voglio solo avere degli amici.

I giorni vanno avanti lentamente. Tiffany, April e Faith sono simpatiche con me, ma ho sempre più paura di non riuscire a mantenere quest'amicizia. Per colpa dei miei dannati occhi assassini.

Oggi è un giorno come gli altri. Sono in anticipo. Ma il momento prima di girare l'angolo per andare a scuola, qualcuno mi afferra con violenza e mi sbatte al muro; dire che la testa mi fa male è un eufemismo. Davanti ai miei occhi danzano milioni di puntini neri, e penso che non ho mai provato un dolore più grande. Chiudo gli occhi. Nessuno ha mai osato farmi del male, perché hanno tutti paura del mio sguardo. Una mano mi prende per la gola, bloccandomi al muro.

«Non pensare di potermi fregare» sussurra una voce maschile e spietata al mio orecchio.

Cerco di dire qualcosa, ma dalla mia bocca esce solo un rantolo soffocato. Non riesco a respirare: mi sta stringendo la gola troppo forte. D'un tratto lascia la presa, ma i miei occhi chiusi non vogliono aprirsi per vedere chi è il mio aggressore.

Non voglio terrorizzarlo, continuo a ripetermi come una cantilena. Non voglio terrorizzarlo. Non voglio.

«Io…» mormoro. Ma lo sconosciuto mi immobilizza di nuovo, stavolta per le braccia. Eppure mi bastava aprire gli occhi per liberarmi…

No!, mi impongo. Non posso. Non posso.

«Io non so di cosa tu stia parlando» riesco a dire, poi deglutisco.

Sento una bassa risata spietata, poi un alito di vento e le mie braccia sono di nuovo libere. Apro gli occhi, perché sono certa che non c'è più nessuno davanti a me. Infatti è così: lo sconosciuto si è come dissolto nell'aria. Spaventata, mi dirigo verso la scuola guardandomi indietro più volte, poi entro.

Passo la giornata inquieta e non faccio altro che guardarmi intorno, attenta a non guardare nessuno negli occhi.

Quando esco da scuola ho ancora più paura: e se quel qualcuno mi stesse aspettando da stamattina? Cammino veloce verso casa, quasi correndo. Non sento nemmeno l'«Ehi, Catherine!» che urla qualcuno, le orecchie tappate dal teso silenzio che provoca il terrore.

Sento qualcuno che mi sfiora la spalla, sussulto e mi giro spaventata, senza guardare in alto per non incrociare gli occhi con qualcuno. Ma avrei dovuto capirlo: non era il tocco della persona che mi ha aggredita stamattina, è decisamente meno aggressivo. Più gentile.

A fatica riconosco Derek, un mio compagno di classe, i capelli neri, la pelle chiara e gli occhi… be', non lo so. Non voglio guardarglieli.

Ma perché mi ha seguito fino a qui? Che mi vuole dire?

Derek sorride. Non capisco il perché.

«Ciao» lo saluto, incerta.

«Ehi, non mi hai sentito, prima? Ti ho chiamato un po' di volte» esclamò.

Scuoto piano la testa. «No, scusa.» La mia voce è bassissima.

C'è una piccola pausa d'imbarazzo. Poi lui si avvicina al mio orecchio e sussurra, pianissimo: «Puoi guardarmi negli occhi, se vuoi.»

Non sono sicura di volerlo fare veramente. Non posso. Non devo. Lo sento.

«Davvero» cerca di convincermi.

«Cosa vuoi da me?» mormoro. Comincio a tremare, perché è il primo, oltre ai miei genitori, che conosce il mio segreto. Vuole ricattarmi? Vuole umiliarmi? Cosa vuole fare?

Ho paura. Sono assolutamente terrorizzata.

«Niente» dice sorpreso dopo un po'. «Solo aiutarti.»

Piano, molto piano, comincio ad alzare gli occhi. Percorro tutto il suo viso con lo sguardo, ma non gli occhi. Non posso. Non posso.

«Forza» sussurra. «So che è difficile, ma…»

La sua voce è così sincera… e non potrò resistere ancora per molto…

«No!» tuona una voce dietro di me. Mi giro di colpo e mi trovo davanti un altro mio compagno di classe, Josh.

Oh, no, mi dispero. I miei occhi si riempiono di lacrime. L'ho fatto. L'ho guardato negli occhi.

Prima che io possa vedere il suo sguardo terrorizzato — farebbe troppo male — scappo via, non sentendo più niente. Ho persino l'impressione che stiano litigando, ma non ne sono sicura. Anche se ci fosse un'assordante esplosione nucleare, probabilmente non la sentirei.

Non so dove sono andata a finire, e forse non lo voglio sapere. So solo che è buio, che ho la schiena contro il freddo muro di un palazzo in un vicolo deserto e che il mio cellulare squilla ininterrottamente da qualche ora. Ma io non rispondo, perché sento che non sono i miei genitori. Loro non hanno nemmeno il mio numero di telefono, probabilmente.

Le lacrime mi rigano il viso da ore. Non riesco a smetterla di piangere. Va sempre a finire così.

Quando alla fine decido di tornare a casa, mi alzo e volto l'angolo, urlo e trasalisco dallo spavento. Davanti a me c'è un ragazzo che assomiglia incredibilmente a Josh, ma non può essere lui. Lui è scappato via. Ne sono sicura.

«Mi dispiace di quello che è successo oggi, dopo scuola» dice, e la sua voce, lo so, è quella di Josh. È la stessa. Ma com'è possibile?

Lo guardo spaventata. Non mi accorgo che lo sto fissando negli occhi.

Distende le labbra in un sorriso rassicurante. «Su di noi non hanno effetto.»

«Co-cosa non ha effetto?» balbetto.

La sua espressione torna mortalmente seria. «I tuoi occhi.»

Queste parole sono come una scossa elettrica direttamente nelle vene.

«Io…»

«Sai cosa voleva Derek?» mi chiede.

«Voleva che lo guardassi.»

«E sai perché?»

«No.»

Fa un sorriso amaro, ma sono così spaventata che quasi non lo noto. «Tu sei preziosa, Catherine.»

Deglutisco. «Perché?»

«In una guerra, una persona con gli occhi come i tuoi è molto utile, non credi?» mi fa ragionare.

Sto zitta per molto tempo.

«Vieni.» Mi porge una mano. «Andiamocene.»

«Dove?» chiedo spaventata. «Io non mi fido di te.»

«Brava. Hai ragione a non farlo. Ma a volte devi fidarti, più delle persone che ti stanno intorno, del tuo cuore.»

Ho paura. Ma il mio cuore mi dice di seguire Josh, questo lo so. Perché sento qualcosa di positivo in lui. E non è una semplice impressione.

Prendo la sua mano. Forse sto sbagliando, forse sono una stupida. Ma, lo so, questo è l'inizio di una storia. Una terribile storia di morte e di amore. Di amici e nemici. Di lealtà e tradimenti. Una storia che vale la pena narrare.

Per questo ve la racconto.

  
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