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Autore: avalon9    23/07/2007    3 recensioni
Gli youkai sono essere terribili: affascinano e uccidono. Sono esseri diversi. I ningen sono insignificanti, per uno youkai; creature semplici, irrazionali, che trascinano la vita senza comprenderla. Dei ningen gli youkai non si curano; li ignorano con superiore indifferenza.
Sesshomaru è youkai ed è orgoglioso della sua essenza. Ma un inverno, incontrerà una ningen e, da quel momento, la linea netta che separa uomini e demoni inizierà ad assotigliarsi.
Genere: Romantico, Malinconico, Avventura | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Sesshoumaru
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Gentilissime lettrici e gentili lettori,

Gentilissime lettrici e gentili lettori,

 

finalmente, ci siamo: ultimo capitolo prima dell’inizio dello scontro finale. Prima che le spade cozzino e il sangue corra nelle vene. Prima che tutto venga sconvolto, in nodo irreparabile questa volta. Cambierà. Cambieranno molte cose, dal prossimo capitolo. Come già in questo si chiariranno e si adombreranno situazioni che spero troverete piacevoli.

 

C’è poco tempo. Troppo poco. Ultime scene. Ultimi momenti. Nello spazio di una giornata quante cose possono cambiare. Nello spazio di ore, si possono provare sensazioni intense, si può sfiorare l'estasi e vederla sprofondare nel dolore. Si può sperare di esser amati.

 

Ringrazio tutti colore che leggono, e chi commenta e sopratutto:

 

fairyelly83: Sono molto contento che il capitolo sia stato di tuo gradimento. E non preoccuparti di credere banali le parole che usi, in bene o in male. C’è più forza e incisività in una parola comune usata con consapevolezza che in mille termini elaborati impiegati solo per abbellire la retorica di una frase. E per me, anche solo una parola, un aggettivo, è fonte di profonda riconoscenza per te che hai pensato a inviarmela. Grazie infinite.

Sono molto contenta che tu abbi anche apprezzato la Parentesi finale. E’ un piccolo esamotage che ho ideato per meglio comunicare con voi che mi leggete e avete la cortesia di recensirmi, cosa che altrimenti non potrei garantire in modo costante. Ci sono piccole anticipazioni, e provo anche ha spiegare quello che volevo dire, perchè a volte nella mia mente le scene sono chiare, ma non riesco a tradurle esattamente in carta.

 

 

Celina: Vedere il tuo nome è sempre una gioia, uno stimolo a continuare, un incentivo a concludere questa prima parte che ormai si sta avviando al suo epilogo. E soprattutto voglio ringraziarti per avermi commentata ben due volte, qui e sull’altro sito. Il sapere che mi leggi più di una volta è per me fonte di piacere e di grande imbarazzo.

Il leggere le tue parole e l’apprezzamento che tu hai verso la scena finale di Kagura sono le più belle parole che mi potessi rivolgere. Sei riuscita a “leggere” quello che volevo esprimere. Grazie infinite.

 

Kaimi_11: Per prima cosa, ti ringrazio per avermi commentata e per i complimenti che mi hai rivolto e che, ti assicuro mi imbarazzano non poco. Purtroppo causa impegni universitaria, la pubblicazione della storia è alquanto discontinua, e di questo non smetterò mai di scusarmi e ringraziare voi che avete la pazienza e la cortesia di attendere. Comunque, non hai motivo di temere: anche se con tempi dilatati la storia finirà e non smetterò di scrivere. Terminata questa prima parte, forse è vero che sospenderò del tutto il lavoro per un po’, dal momento che ho in lavorazione altre due storia, ma a settembre, se non prima, riprenderò anche con la seconda parte (altri cinquanta capitolo) e poi seguirà la terza.

Sono felice di sapere che il personaggio di Shin è di tuo gradimento. In effetti, all’inizio avevo pensato ad una morte definitiva, ma poi ho modificato il progetto. Mi ero troppo affezionata a lui per toglierlo completamente di scena, e allora cambio direzione. Riappare nel palazzo di Sesshomaru e continuerà a vivere anche nelle parti future, anche s avrò un peso maggiore nella terza.

 

Infine, un sentito e doveroso grazie a Lara e alla sua fanfic Esbat, fonte di ispirazione per alcuni passaggi del penultimo paragrafo. E a te, Lara, rinnovo il mio ringraziamento per avermi concesso l’onore di ispirarmi. Consideralo un tributo.

 

Adesso, vi lascio al capitolo, che è il più lungo che abbia finora mai scritto. Spero sinceramente che lo troviate di vostro gradimento, e non noioso. Questo sarà l’ultimo aggiornamento prima della tesi che discuterò mercoledì, e quindi per il prossimo capitolo temo che dovrete aspettare un po’. Tuttavia, spero di riuscire a postarlo fra una settimana.

 

Merci a tutte le monde!

 

Avalon

 

 

 

 

 

CAPITOLO 43

ULTIMI ISTANTI

 

 

Bella.

Che parola scontata. Bella. Un aggettivo semplice, banale, insulso. Bella. Un qualcosa di così impreciso, di così grande da non definire nulla. Un qualcosa di così immenso. E ovvio. Sì. Ovvio. Perché è la solita, sciocca parola che sale alle labbra di un innamorato. Il solo complimento che si ripete, come se fosse scontato doverlo dire. Dover confermare l’evidente.

 

Bella. Odiava quella parola. Perché rimbombava nella sua mente, ma non era mai riuscito a dirgliela. Mai. Non le aveva mai fatto un complimento. L’aveva amata senza elogiarla. L’aveva amata con ardore e forza. Con la sua parte più selvaggia e affamata. Affamata d’affetto, di comprensione, di dolcezza. Affamata di lei. L’aveva amata, e non le aveva mai detto di amarla. E lei non si era ribellata. Lei lo aveva accolto, ricambiato, accettato. Lo aveva rincorso per tanto tempo, e adesso lo aveva avuto. Suo per sempre. Suo, e di nessun’altra. Solo suo.

 

L’aveva amata…Quella notte, con la sensazione del pericolo sulla pelle, con il desiderio di non perdersi troppo presto, con la passione a velare lo sguardo, l’aveva amata come mai aveva creduto che un demone potesse amare. Con intensità, rabbia, dolcezza, attenzione. Con amore. Con quel sentimento che molti youkai rifiutano, che ritengono inutile, umano, inopportuno. L’aveva amata, perché non voleva rifiutare quello che sentiva per lei. Non poteva più nasconderlo né ignorarlo. Non più. Mai più.

 

Si girò su un fianco, puntellando la testa con una mano. Bella. Di nuovo quella parola. Di nuovo quel complimento mai pronunciato. Bella. Con i suoi capelli ribelli ad arabescare il cuscino, con la sua piccola bocca dischiusa nel respiro, con quel braccio candido che gli abbracciava il torace, con quel piccolo piede che ogni tanto faceva capolino fra le coltri del futon. Bella. Innocente. Ardente. Fiera. Forte. Debole. Selvaggia. Docile. Delicata. Da proteggere, da difendere, da amare. Da non far soffrire. Perché non avrebbe mai voluto vederla soffrire a causa sua. E sapeva di volere l’impossibile. Sapeva di rincorrere fantasmi. Perché lei soffriva per lui. Aveva sempre sofferto per lui. Anche in quei mesi. E nella sofferenza gli sorrideva.

 

Sorrise della piccola smorfia che le disegnava le labbra. Il broncio di una bambina contrariata, indispettito e tenero. Infantile. Perché lei era ancora così piccola, così fragile. Perché lei era vissuta lontano da quel mondo cui lui apparteneva. In una realtà fatta di sogni e di speranze. Nella favola di una notte lontana. Scese a sfiorale una guancia con le labbra, premuroso di non svegliarla. Si accontentò di lambire la sua pelle ancora calda, i suoi capelli ribelli. Risalì fino all’orecchio, fermandosi e godendo del piccolo mugolio che il suo respiro le strappò. Risalì con gli artigli il braccio nudo, sfiorando appena la pelle liscia; su-su fino alla spalla, al contorno accennato delle scapole. Arrivò alla gola, e tornò indietro. Sempre leggero, sempre attento, sempre delicato.

 

Non si stancava mai di toccarla, di assaporare il suo corpo, le membra così toniche e aggraziate. Flessuose. Come un giunco. Adatte alla corsa, al vento veloce che corre fra i boschi. Si rimise sdraiato, con un sorriso rapito sulle labbra irriverenti. Bella. Bellissima. E sua. Solo sua. Era un pensiero così strano…Quel monosillabo nella testa, sulle labbra…Quel monosillabo sussurrato sulla sua fronte, mentre attorcigliava i suoi capelli sciolti. Sciolti…Già. Era stato lui a liberarli dai fermagli e dai nastri. Con frenesia. Le sue dita erano corse in quella massa soffice e ramata, con voluttà, torturandola. E assieme ai suoi capelli aveva sciolto anche lei. Languida. Passionale. Dolce. Come il suo odore. Profumo di bosco. Profumo di betulla.

 

Allungò la mano oltre il cuscino, fino a sfiorare i petali del fiore che la sera prima le aveva strappato con un sorriso divertito. Vincendo con lei una gara di risate. Vincendo con lei la sensazione di apprensione che gli correva sotto la pelle. Accendendo quel fuoco sottile che li aveva fatti bruciare, in brividi violenti, in scosse convulse e nuove. L’aveva fatta ridere, l’aveva fatta felice, l’aveva baciata su quelle labbra piegate e gaie. L’aveva amata. Amata. Raccolse il fiore e si risistemò supino. Iris. Il suo fiore. Il suo nome. Dolce e bello. Come lei.

 

Ayame

 

Koga rigirò il gambo fra le dita artigliate. Piano; cercando di cogliere ogni sfumatura dei petali, ogni ombra che la debole luce che filtrava riusciva a strappare a quei petali. Quel fiore…lei lo portava sempre, fin da quando era piccola. Era con quel fiore in mano che l’aveva trovata; era stato respirando quel profumo che l’aveva riportata a casa sulle sue spalle. Era stato quell’odore il primo che aveva sentito di lei, quando l’aveva rivista. Profumo di boschi, di betulle, di fiori. Un fiore solo. Il suo fiore.

 

Indaco acceso, capace di ferire gli occhi per la sua bellezza. Come lei. Bella e pericolosa. Un sorriso gli increspò le labbra. Aveva vinto. Alla fine, aveva vinto lei. E lui aveva dovuto deporre le armi. Sconfitto. Conquistato. Stregato dal suo cipiglio, dalla sua irruenza; affascinato dalla sua irriverenza, dalla sua dolcezza. Aveva cercato di farla ingelosire; l’aveva trattata male per non illuderla. Le aveva anche mentito, pur di evitare di farle del male. Accampare scuse, salutarla con sgarbo e correre via, corteggiare un’altra donna sotto i suoi occhi…le aveva provate tutte, perché Ayame si dimenticasse di lui. Niente. Cocciuta. Ostinata. Ayame era andata continuamente da lui, aveva continuato a lasciarsi ferire, a farsi male. A rincorrerlo anche se lui le diceva di non volerla. Che di lei non gli importava.

 

Aveva cercato in ogni modo di distruggere il ricordo che la yasha aveva di lui: un giovane youkai che la salva e la porta in spalla. L’immagine del principe azzurro che compare nei sogni di una bambina, quando s’immagina il proprio futuro. Aveva cercato in ogni modo di farsi detestare da lei, per non doverla illudere. Per non rischiare di legarla a sé e doverle mentire. Non aveva tempo di amare, lui: Naraku era il suo unico obiettivo, e si era ripromesso di non avere pace finchè quel maledetto hanyou non fosse stato annientato e i suoi compagni vendicati. Belle promesse, molto nobili…ma erano bastati gli occhi grandi di Ayame, quelle iridi così ingenue e affascinanti, per mettere tutto in secondo piano.

 

Gli occhi verdi di Ayame…Quella notte, lo sguardo della bambina era sparito. Era rimasto il candore, l’ingenuità, ma sfumato da qualcosa di più intenso, di più acceso. Koga se ne era accorto. Quella notte, Ayame aveva smesso di guardarlo come il principe di un bel sogno di bambina, aveva smesso di fissarlo come una ragazzina guarda un oggetto proibito. Lo aveva guardato come una donna, con le iridi accese di amore e calore, con lo sguardo malizioso e irriverente. E lui si era sentito entrare dentro quegli occhi, di un verde accecante, vivido come le foglie dopo un temporale estivo. Si era sentito impotente. Schiavo. Costretto a capitolare.

 

In quegli istanti, per un attimo si era chiesto che fine avesse fatto la bambina. Era sparita. Al suo posto, solo una donna. La sua donna. Quella che aveva legato a sé. Senza pensare. Senza riflettere. Seguendo l’istinto. Perché, altrimenti, lo sapeva bene che la testa gli avrebbe detto di fermarsi prima, di non farne la sua amante. Di non amarla. La ragione avrebbe parlato; forse lo aveva anche fatto, ma lui non era stato in grado di ascoltarla, di distinguere quella voce razionale all’interno delle emozioni che lo avevano attraversato.

 

Sospirò, coprendosi il viso con un braccio. Inutile recriminare. Sapeva benissimo quello che stava facendo, e cosa ne sarebbe derivato. Lo sapeva, e non si era fermato. Lei lo aveva pregato di non farlo. Non aveva voluto sentire scuse o paure. Non aveva voluto sentire niente. Solo le sue labbra e la sue mani. Solo lui. E Koga non era stato capace di resisterle, di rifiutarsi. Maledizione. A lui e agli occhi di Ayame. A quelle parole che gli aveva sussurrato all’orecchio, divertendosi a solleticargli il collo con gli artigli, godendo nel farlo fremere per poi ritrarsi. Maledette le mani della ragazza nei suoi capelli, maledette le sue mani che scivolavano piano sul suo corpo, slacciando le fettucce della corazza, sciogliendogli il kimono. Maledetto il suo sorriso ingenuo e le sue labbra provocanti. Maledetto il suo autocontrollo dimenticato e il suo istinto. Maledetto il suo amore per lei.

 

Cosa poteva prometterle? Cosa aveva da prometterle? Una vita d’angoscia, col fiato sul collo e la paura che lui non sarebbe mai tornato. Un futuro fatto di solitudine, di stagioni che si srotolano lente. Primavera, estate, autunno, inverno…e di nuovo primavera. Per anni. Per molti anni ancora. Finchè Naraku non fosse morto. Finchè lui non avesse vendicato i suoi compagni. Koga lo sapeva. Sapeva di non avere niente. Solo un giuramento verso il suo clan sterminato. Per questo aveva cercato di allontanare Ayame da lui. Per questo aveva cercato di rifiutarla, di cacciarla, di farla desistere. Sapeva di non poterle dare nulla, neanche la falsità di una speranza. Lo sapeva lui. Ma lo sapeva anche Ayame.

 

“Amami…Anche solo per una notte…anche solo per questa notte…”

 

Ayame glielo aveva detto: non nutriva né illusioni né false speranze. Sapeva perfettamente che, finita la guerra contro Morigawa, Koga l’avrebbe riportata sulla montagna, da suo nonno. Sapeva che lo avrebbe visto andarsene col suo sorriso sfacciato e l’aria sicura. Sapeva che non si sarebbe fermato con lei, sapeva che non si sarebbe voltato per salutarla. Lo conosceva troppo bene ormai. Ed era perfettamente conscia del fatto che per il principe degli Yoro la parola data viene prima di tutto. Anche del suo cuore. Eppure, lei non aveva avuto paura del nulla che le offriva. Non aveva avuto paura dell’assenza di futuro che l’aspettava. Gli si era concessa senza esitazione. Le sarebbe bastata anche solo quella notte. Quelle ore fatte di respiri, di baci, di carezze ardenti. Quelle ore amare e dolci. Quelle ore effimere. Le sarebbe bastata anche l’illusione di una notte, in cui lui era stato suo, in cui Koga aveva pensato solo a lei, e a nient’altro. Anche solo una notte. Le bastava davvero. Per poter cullare un ricordo segreto durante il tempo di attesa. Per poter stringersi le braccia al seno e illudersi di sentire su di sé le mani del demone. Per potersi sfiorare una ciocca di capelli cercando di ripetere la piega strana che assumevano dopo che Koga ci aveva giocato con le dita.

 

Ayame non gli aveva chiesto altro. Né promesse né speranze. Non gli aveva chiesto parole che non fossero il suo nome. Pronunciato da labbra carnose e calde. Da labbra forti e vogliose. Labbra di uomo. Labbra di demone. Aveva voluto solo una notte, e nulla di più. Anche a costo di passare per svergognata, di esser accusata di aver ceduto alle lusinghe e al copro. Di essersi venduta. Non le sarebbe importato nulla. Avrebbe sempre camminato a testa alta, senza vergogna per averlo amato. Sicura e fiera, nella sua pelliccia bianca. Perché la sua pelliccia sarebbe sempre rimasta bianca. Almeno fino alla morte di Naraku.

 

Koga respirò profondamente. Quella notte non conteneva forse la più esplicita delle promesse? Quella di essere suo e di ritornare da lei. Non importa quando, ma tornare da lei. Non era forse la più crudele e dolce delle illusioni quella che aveva permesso che prendesse corpo? Quella che lui stesso aveva voluto esistesse, anche se sapeva benissimo che le avrebbe fatto male? Sì. Sì. Sì. Lo aveva fatto. E benchè non se ne sentisse orgoglioso, sapeva anche che non si sarebbe mai tirato indietro. Come sapeva che il sole che stava per nascere non avrebbe cancellato quello che era successo.

 

Avrebbe potuto fingere indifferenza; avrebbe potuto alzarsi e andarsene senza degnarla di una parola. Avrebbe potuto dissimulare il suo comportamento e fingere di averla solo usata, di essersi approfittato di lei e del suo affetto. Avrebbe potuto uscire dalla tenda come se nulla fosse, e trattarla come ogni altro giorno. Ayame non avrebbe potuto opporsi, né rinfacciargli apertamente quello che era accaduto fra loro. Avrebbe potuto trattarla come una squallida amante, e lei non si sarebbe potuta opporre. Avrebbe solo dovuto piegare la testa e inghiottire lacrime. Perché Koga era il Principe, perché lui era l’ultimo erede della Famiglia dei lupi. E lei…lei era solo una delle tante hime degli ookami; lei era solo una di tante e lui era l’unico. Non le sarebbe valso a nulla esser la nipote del patriarca. Era Koga a dettar legge, nella loro Famiglia, bastava che lo volesse. Bastava che raccogliesse l’eredità di suo padre. E lei sarebbe stata solo una fra le molte conquiste che il demone avrebbe potuto fare. Forse il nome più prestigioso, ma pur sempre un nome.

 

Koga solleticò il mento di Ayame. Scese a carezzarle il braccio con i petali del fiore, solleticandole la pelle; percorse il profilo sinuoso dalla spalla, scendendo al gomito per soffermandosi nell’incavo prima di proseguire fino al polso. Le sfregò la mano e poi tornò a salire, fino al collo, sotto il mento, attorno alle labbra, in piccoli cerchi che si spegnevano vicino al lobo dell’orecchio, per poi riprendere in direzione opposta. Ayame mugulò fra il piacere e il disappunto. Quel tocco discreto la stava svegliando, ma l’odore che sentiva confuso vicino a sé non le dispiaceva. Odore di uomo. Odore di lupo. Odore di amante. L’odore di Koga.

 

Si mosse lentamente, stiracchiandosi sorniona. Non aveva alcuna fretta. Non voleva avere fretta. Sapeva che quelli erano gli ultimi momenti che poteva condividere con lui, gli ultimi minuti che avrebbe potuto trascorrere al suo fianco, nel suo letto. Non voleva rovinarli; non voleva sprecarli. Allungò pigramente le braccia sopra la testa, stirando bene le membra ancora assonnate. Non avrebbe voluto alzarsi, ma ormai il sogno era finito. Inutile pensare a un lieto fine. Aveva avuto quello che aveva chiesto: una notte con lui. Non doveva sperare in qualcos’altro. Non ne aveva il diritto. Forse, dopo la morte di Naraku…Ma non prima. Quella era stata solo una parentesi. Irreale. Impossibile. Assurda. Magica. Bellissima. Ma solo una parentesi. Solo una notte.

 

Aprì gli occhi, cercando in ogni modo di mostrare uno sguardo sereno e compiaciuto. Uno sguardo rilassato, stiracchiando le labbra in un sorriso di convenzione. Non poteva certo mostrarsi triste al suo amante. Pessima figura. Perché significava non prestar fede alle parole che gli aveva detto. Significava tradirsi prima del tempo. E Ayame voleva che lui conservasse di quella notte il suo volto sorridente e soddisfatto. Lo sguardo di una donna innamorata.

 

Non ci riuscì. Addio al sorriso, addio agli occhi allegri, alle battute che si era preparata, alla parte che sapeva che avrebbe dovuto recitare. Addio a tutto. Non poteva. Il viso di Koga era a pochi centimetri dal suo, il suo copro a imprigionala sul materasso. Vicino come poche ore prima, maledettamente seducente come alla luce della candela. Con i capelli neri che coprivano disordinati le spalle nude e spiovevano sul suo decolté, solleticandole la pelle. Il suo sorriso scaltro, da schiaffi, con le labbra dischiuse a lasciar intravedere le zanne bianche. E negli occhi una luce strana, velata, forte. Folle. Koga non le lasciò il tempo di formulare nessuna domanda. Nessun pensiero. Si chinò a baciarla, catturando le sue labbra. Con irruenza. Inarcando le spalle e lasciando che le mani di Ayame vagassero sul suo corpo, fino alla base della nuca, fino a massaggiargli il trapezio teso a reggere il suo peso.

 

“Ti amo”

 

Glielo soffiò in un orecchio, con tutta la dolcezza che riuscì a metterci. Con il miglior tono che la sua voce roca e il suo imbarazzo erano riusciti a formulare. Glielo sussurrò mentre le intrecciava l’iris ai capelli. Mentre scendeva con la mano alla sua nuca e la costringeva di nuovo a lui, sulle sue labbra mai stanche, mai sazie di lei. Ayame potè solo piangere mentre le baciava il sorriso incredulo che le dipingeva le labbra. Pianse affondando la testa nell’incavo del suo collo e stringendogli il petto caldo.

 

La mano del demone era corsa alla sua nuca, scostandole quasi con urgenza i capelli spettinati e ribelli. Sentì le zanne di Koga morderle la base del collo, entrare lente in lei. Le sentì marchiarla con una cicatrice indelebile. Ayame conficcò gli artigli nelle spalle di Koga, trattenendo un singulto. Si strinse di più a lui mentre sentiva un rivolo di sangue scendere lungo la schiena nuda, disegnandole la colonna vertebrale. Fu solo un istante, e mentre avvertiva il dolore scemare lentamente, sostituito dalle labbra premurose dell’ookami che succhiavano la ferita inferta, Ayame reagì d’istinto. Morse anche lei, con la sensazione di essere ad un passo da una cosa tanto desiderata e di poterla perdere da un istante all’altro. Lo morse nello stesso punto, insinuando le zanne fra i suoi capelli di pece, raggiungendo la pelle e sfiorandogliela con le labbra. Lo sentì irrigidirsi, forse contrarre la bocca in una smorfia. Ayame non si fermò. Affondò di più, finchè non sentì il sapore metallico del suo sangue.

 

Lasciò che Koga la riadagiasse sul cuscino, sudata e ansane. Avevano entrambi il fiato corto e la pelle velata da un leggero sudore. Labbra lucide e tese; le mani di lui ai lati della testa di Ayame. Le mani di lei ancora affondate nei capelli di Koga. Si fissarono. Era stato l’istinto a guidarli, ma entrambi sapevano benissimo cosa significasse quel gesto. Si erano legati. Più di quanto già non si fossero compromessi. Si erano marchiati. E adesso, ognuno apparteneva solo all’altro. Koga deglutì a vuoto. Si sentiva la bocca secca e la gola in fiamme. Cercava di riprendere il controllo della sua lingua, per dire una cosa qualsiasi. Anche una stupidaggine. Si umettò le labbra, scioccò la lingua, aprì la bocca…e la richiuse subito. Cosa poteva dirle? Che gli dispiaceva di averla morsa, che non avrebbe voluto farlo, ma era stato il suo corpo a ordinarglielo? Dirle che non doveva sentirsi legata a lui, se non avesse voluto? Una fitta leggera alla nuca gli ricordò che lei aveva risposto. Un istante dopo che le sue zanne avevano allentano la presa, appena si era accorta di quello che aveva fatto, Ayame aveva risposto. E lo aveva morso. Nello stesso punto. Allo stesso modo.

 

Decise. Era inutile parlare. Decise solo di sorriderle. Perché non sarebbe mai riuscito a trovare le parole per dirle quello che sentiva dentro. Non gli veniva in mente nessuna sciocca, sdolcinata, banale frase da dirle. Volle solo sorriderle. E gustarsi le labbra della yasha arricciate dalla gioia, e i suoi occhi lucidi di lacrime. Ayame. La sua Ayame.

 

…mia…per sempre mia…

 

 

*****

 

 

Caldo.

Una sensazione rassicurante. Come quella di un abbraccio. L’idea della protezione, della sicurezza, della tranquillità. Caldo. Come l’estate, quando l’aria è pesante. Quando il sole martella la testa, forte, ossessivo. Quando l’umidità delle risaie ammorba l’aria e i vestiti sono sempre troppo pesanti da portare. Troppo caldi. Come l’aria secca e arida che brucia sulla pelle. Che strozza il fiato.

 

Gli piaceva l’estate. Gli era sempre piaciuta. Anche se il clima afoso lo intontiva un po’; anche se le sue vesti pesanti lo facevano sudare e gli lasciavo addosso una sgradevole sensazione di appiccicoso. Di sporco. Poteva essersi appena rinfrescato, e subito quella sensazione lo coglieva. Ossessiva. Rassicurante. Perché, in fondo, gli piaceva. Gli piaceva sentire il corpo pesante, abbandonato. Gli piaceva la sonnolenza cui la stagione estiva lo induceva. Gli piaceva l’abbandono che dava. Cercare un posticino tranquillo, all’ombra, fra i rami di un albero, e aspettare placidamente il fresco della sera, cullato da quel tepore, rassicurato dalla canicola.

 

Quando era piccolo, l’estate era la sua liberazione. Agognata. Attesa. Desiderata. Perché d’estate i ningen lo lasciavano tranquillo, troppo spossati dal calore e dall’afa. Non si curavano di lui, e gli lasciavano la libertà di muoversi come voleva. Troppo fatica cercare di umiliarlo. Meglio semplicemente evitarlo, rifugiandosi all’ombra delle engawa, vicino ai piccoli laghetti o nelle sale più fresche del palazzo. Loro attendevano con ansia il refrigerio della sera, lui aspirava alla canicola pomeridiana.

 

Poteva correre tranquillo per i giardini, uscire dalle mura senza preoccupazione e tornare senza che nessuno gli dicesse nulla. D’estate riusciva ad assaporare un po’ di libertà. Era ancora troppo piccolo perché la sua esuberanza fosse frenata dal caldo, troppo curioso perché il sole riuscisse a fiaccare la sua forza. Nella sua testolina arruffata c’era posto per un solo pensiero: l’estate voleva dire possibilità di vivere fuori dalle stanze del palazzo, possibilità di respirare aria aperta, libertà di muoversi.

 

Estate significava stare con lei. Con sua madre. Inuyasha lo sapeva: quando nel tokonoma degli appartamenti di sua madre veniva sostituito il rotolo, quando dai fukurodana venivano prelevati i kimoni usumono con fiori e foglie di ciliegio, peonie, giovani foglie, pawlonia, gigli, germogli di bambù, quando le mado restavano aperte per tutto il giorno, velate solo da una cortina di listelle di bambù, allora l’estate era arrivata, e sua madre avrebbe trascorso le giornate con lui, nei giardini del palazzo. Avrebbe indossato le sue kasane coordinando i colori e le decorazioni, avrebbe lasciato sciolti i serici capelli neri, e sarebbe restata con lui. Avrebbe giocato con lui, si sarebbe seduta sotto una magnolia o un ginko biloba e lo avrebbe guardato improvvisare una pesca alle carpe dello stagno. Oppure avrebbe giocato con lui a palla o semplicemente lo avrebbe tenuto sulle sue ginocchia, raccontandogli le gesta di un demone d’argento. Gli avrebbe narrato dell’amore fra uno youkai e una ningen, di un amore proibito e contrastato. Gli avrebbe detto di quel padre che Inuyasha non aveva mai visto, e che era morto per salvarli. Morto d’inverno. Fra il bianco della neve.

 

Inuyasha amava l’estate anche per quello: in quella stagione quasi nulla aveva un colore niveo. Tutto era verde, giallo, rosso, viola, azzurro…Tutto era colorato, ma quasi nulla era bianco. E lui poteva toccare tutto senza la sensazione di sporcare qualcosa. Poteva non pensare a quello che la sua nascita aveva comportato, al sudiciume che aveva imbrattato sua madre. Lei pura e bella come la neve. Lei candida nella pelle delicata, nelle movenze aggraziate. Il calore dell’estate gli ricordava l’abbraccio di sua madre. La sensazione di tranquillo abbandono che provava quando si accoccolava contro di lei.

 

Anche in quel momento sentiva quel tepore, quello dato da un copro vicino al suo, quello dato da un abbraccio. Gli piaceva così tanto quella sensazione…Dopo che sua madre era morta, nessuno lo aveva più abbracciato. Erano dovuti trascorrere molti anni prima che un’altra donna lo avvicinasse; prima che una ragazzina riuscisse a insinuarsi fra le spaccature del suo animo. E lo stringesse a sé. Kikyo era stata la prima. La prima persona cui avesse permesso un contatto fisico, dopo sua madre. La prima che lo aveva stretto, la prima che lo aveva cullato, la prima che avesse accarezzato di nuovo il suo volto e sfiorato il suo corpo senza ripugnanza. Sua madre non lo aveva mai odiato. E Kikyo aveva vinto la diffidenza che un hanyou ispira nei ningen. La diffidenza, ma non la vergogna. Perché per lei, per una miko potente come lei, doveva essere umiliante mostrarsi con lui. Con un rifiuto del mondo. Con qualcosa che non era umano e non era demoniaco. Si erano sempre incontrati di nascosto, avevano consumato il loro amore nella clandestinità. Inuyasha era sempre stato cosciente del fatto che non avrebbe potuto restare con Kikyo se non come amante.

 

Forse, se fosse diventato umano, allora qualcosa sarebbe cambiato. Avrebbe potuto anche lui avere una vita normale, avere accanto qualcuno, non dover scappare da un luogo all’altro. Forse, da umano, la sua vita errabonda e solitaria sarebbe cessata. Si era aggrappato a quella speranza. Cinquant’anni prima ci credeva veramente: se Kikyo gli avesse dato la sfera, lui si sarebbe trasformato in un ningen senza pensare. Perchè l’amava, e non sopportava di vedere la vergogna sfiorare i suoi lineamenti, non sopportava le occhiate fugaci che dovevano riservare alla strada ogni volta che si appartavano. Non sopportava la sottile agitazione che le correva sulla pelle. Brividi di ansia, di paura. Lei aveva sempre cercato di dissimulare, di mentire, ma non è possibile ingannare l’olfatto di un demone, anche di chi lo è solo per metà. E la paura e la vergogna di Kikyo erano un odore sottile che si confondeva a quello d’incenso. E lui lo fiutava. Chiaramente. E la stringeva a sé con la tristezza nel cuore, conscio che era proprio quello ciò che la tormentava. Ma lui non riusciva a lasciarla andare. Non voleva lasciarla andare.

 

L’aveva persa. Per la seconda volta. Senza poterle dire addio. Di nuovo, senza poter far nulla per lei. Non era riuscito a proteggerla, non era riuscito a vendicarla, non era riuscito a onorare la sua promessa…Aveva lasciato che lei morisse, che Naraku la uccidesse di nuovo…Non era stato in grado neanche di ritrovare le sue ceneri. Kaede-sama aveva cercato di non fargliene una colpa, ma lui l’aveva sentito il tono triste della vecchia miko. Cosa aveva riportato, di Kikyo? Solo un arco spezzato. Un arco come tanti. E nel cuore le parole crude di Sesshomaru. Non si sarebbe mai aspettato compassione dal fratello; ma quelle parole erano state il colpo di grazia: la verità sbattuta in faccia, con la freddezza e la lucidità che era propria del Principe dei demoni.

 

“Sei tu che l’hai uccisa”

 

Già…Non averla potuta proteggere equivaleva ad averla ucciderla. A lasciare che Naraku giocasse con lei, si divertisse raggirandoli tutti: lo scopo era solo quello, era sempre stato quello. Uccidere Kikyo. Eliminare la miko che il suo cuore umano desiderava di avere, distruggere la sacerdotessa che avrebbe potuto eliminarlo. Annientare chi non poteva neanche solo pensare di toccare. Inuyasha si lasciò sfuggire un sospiro stanco, stringendo gli occhi. Le orecchiette, d’istinto, si appiattirono sulla sua testa. Rimorso. Colpevolezza. Si era lasciato lusingare da quella sicurezza: Naraku non sarebbe mai riuscito ad ucciderla. Mai. Mai. Mai. E quella parola gli era rimbombata nella testa come una promessa. Come una sicurezza mai alterabile. Mai incrinabile. Kikyo voleva rincorrere il suo assassino, voleva cercare di distruggere con le sue mani chi l’aveva condannato al rimpianto…Inuyasha non aveva saputo opporsi. Non era mai riuscito a opporsi alla volontà forte e fiera della miko. Lei lo dominava. Lo aveva dominato a lungo. Senza incantesimi o stregonerie. Senza malefici e violenze. Lo aveva legato a sé solo col cuore. Con quel suo cuore che avrebbe dovuto restare puro, vedovo di quel sentimento che i ningen chiamano amore.

 

A Kikyo non sarebbe stato permesso innamorarsi. A Kikyo non sarebbe mai stato concesso un uomo al fianco. Lei doveva esser votata solo al suo sacerdozio, sposa della sua fede, suddita dei suoi doveri. Solo questo. Non avrebbe mai dovuto conoscere il calore di un abbraccio; ignote le palpitazioni del cuore; oscuri i brividi di un bacio, di un contatto fugace. Inviolate le sue labbra. Le labbra di Kikyo…Inuyasha le ricordava ancora. Sottili e severe. Di porcellana. Perfette come quelle di una bambola. Da guardare. Da desiderare. Molti ningen dovevano aver sospirato per quelle labbra, eppure…Eppure lui solo le aveva avute. Le aveva concesse solo a lui. Labbra piccole e tremanti, agitate e affamate. Desiderose di qualcosa di nuovo, di mai provato. Di proibito.

 

Kikyo avrebbe potuto avere chiunque, un daimyo, perfino uno shogun. Avrebbe potuto scegliere di abbandonare il sacerdozio e sposare un uomo potente e nobile. Aveva avuto davanti a sé la possibilità di scegliere: la vita di donna agiata e frivola e il peso della custode della Sfera. Non aveva esitato. Non era da lei esitare. Mai un tentennamento, mai un cedimento. Sicura, fiera, ignara di cosa davvero fosse la vita, di cosa esistesse davvero oltre le guerre e le epidemie. Avrebbe potuto avere tutto, e non aveva voluto nulla. Solo continuare a vestire gli abiti delle miko. Solo essere una miko. Orgogliosa della sua scelta.

 

Non se ne era mai pentita. Mai. Almeno, fino a quando lui non era irrotto nella sua vita. Lui diverso; lui nemico; lui scontroso; lui sgarbato. Lui timido, diffidente, sospettoso, infantile. Lui risparmiato. Inuyasha lo sapeva bene: lo aveva risparmiato. Quella volta, la prima che lo aveva visto, che lui l’aveva attaccata, si era limitata a inchiodarlo a un albero con le sue frecce sacre. Ma avrebbe dovuto ucciderlo. Sarebbe stato suo compito ucciderlo. Inuyasha si era sempre chiesto cosa fosse passato nella mente di Kikyo negli istanti che avevano separato il tendersi e il rilassarsi della corda dell’arco. Cosa avesse portato sulle labbra di Kikyo un velo di sorriso, mentre socchiudeva gli occhi scuri.

 

Scuri, neri, profondi. Due oceani tenebrosi. Due voragini aperte sull’oscurità. Gli occhi di Kikyo erano stati la sua condanna. La sua dannazione. La sua follia. Se solo non li avesse mai incontrati. Se solo non avesse mai visto il suo riflesso in loro. Sapeva che era sbagliato. Sapeva che era pericoloso. Sapeva che rasentava la bestemmia e l’eresia. Eppure, non aveva fatto nulla per impedirlo. Non aveva fatto nulla perché lei non si innamorasse. Perché lui non la amasse.

 

Amarla…L’aveva amata con tutto il cuore. Con tutta la forza e l’intensità di cui era stato capace. Vergognandosi del sudiciume che si portava addosso. Maledicendo la sua parte umana, che lo spingeva fra le braccia di quella donna. Odiando il battito del suo cuore e l’incapacità di averla o ucciderla. Maledetto cuore umano! Era sempre stata la sua debolezza. La sua maggiore debolezza. Lo sapeva bene. Lo aveva sempre saputo. E benchè sbraitasse continuamente che non aveva alcuna intenzione di lasciar perdere i frammenti della Sfera, che voleva assolutamente diventare un vero demone, che i suoi amici non dovevano neanche provare a fargli cambiare idea…Nonostante si sentisse indegno di suo padre, succube dell’enorme distanza che avvertiva separarlo in modo incolmabile da Sesshomaru…nonostante tutto, non riusciva ad odiare la parte più fragile di se stesso.

 

Faceva male, certo. Aveva sempre fatto male. Tanto. Fin troppo, a volte. Quando veniva schernito e offeso; quando lo chiamavano lurido bastardo; quando vedeva il sorrisetto di scerno sulle labbra di Sesshomaru…Tutte quelle volte si era sentito contorcere dentro per la disperazione e l’umiliazione. E aveva sempre reagito attaccando. Per far tacere il male che sentiva dentro. Per lenire quei crampi interiori con il dolore delle ferite e dei pugni. Qualsiasi cosa, pur di non sentire l’inferno che lo divorava.

 

Anche la relazione con Kikyo era stata una lenta discesa nel dolore. Un dolore ammantato di piacere, di gioia, di passione. Era stato stupido a innamorarsi. Era stato stupido a lasciar vincere la sua parte umana. Era stato stupido a desiderare di restare con lei. Era stato davvero stupido, ma non se ne pentiva. Non se ne era mai pentito. Tutto quello che le aveva detto lo aveva sempre pensato realmente. Aveva davvero desiderato di proteggerla sempre. Sempre.

 

Non gli era mai interessato che nella vita della miko ci fossero due cose: lui e il suo ruolo. Non gli aveva mai dato importanza. Inuyasha sapeva benissimo di essere lui l’elemento di disturbo, in quella realtà. Sapeva di essere lui quello da allontanare, quello sbagliato, fuori posto. E allora non pretendeva altro che la compagnia occasionale della ragazza, il poterla guardare anche solo da un albero e bearsi del suo sorriso e della sua risata. Pur di stare con lei, l’aveva accompagnata in vari incarichi. Le aveva fatto da cavalier servante, con devozione e affetto. Perchè Kikyo non lo aveva mai usato. Non aveva mai cercato di stringerlo a sé per renderlo un suo servitore. Anche se avrebbe potuto farlo; i suoi poteri glielo avrebbero permesso.

 

Kikyo invece si era limitata ad avvicinarsi a lui lentamente, con la diffidenza della sacerdotessa e della ragazza. Attratta da lui, dai suoi modi bruschi, dai suoi occhi tristi. Ma aveva sempre parlato all’hanyou. Sempre. Forse senza neanche mai rendersene veramente conto. Aveva cercato di cambiarlo. Di giustificare a se stessa il batticuore che la coglieva quando lui le era accanto. Aveva cercato di dare una risposta alle sue domande mascherandosi dietro la facciata della miko. Aveva cercato in tutti i modi di convincerlo a diventare umano: solo così sarebbero potuti stare assieme. Lui non avrebbe più sofferto e lei…lei lo avrebbe avuto accanto. Kikyo non lo aveva mai rifiutato; ma non lo aveva mai neanche accettato.

 

E alla fine, erano rimasti solo un hanyou e una miko. Loro si erano distrutti a vicenda. Loro erano stati costretti a ferirsi. Loro che si amavano erano stati costretti a vedere il loro peccaminoso rapporto naufragare nel sangue. Sangue di morte, e non d’amore. Kikyo aveva cercato di impedirgli fino alla fine di diventare un demone. Per vendicarsi di lui che credeva l’avesse ingannata. Per impedirgli di soffrire ancora. Lo aveva consegnato al sonno eterno. Incapace realmente di ucciderlo, lo aveva consegnato solo all’oblio. Non si sarebbe mai più dovuto svegliare, ma, tuttavia, non era riuscita a togliere a se stessa la speranza che un giorno lui potesse ridestarsi.

 

Kikyo…Lei che lo amava era arrivata a odiarlo. Lei che lo baciava, era giunta a sputargli in faccia. Lei che lo voleva per sé avrebbe voluto ucciderlo. Porre fine alla sua vita come non aveva avuto il coraggio di fare cinquant’anni prima. Cos’era tornato in vita, di lei? Solo un feticcio di terra. Un concentrato d’odio verso tutto e tutti. Un’anima errante senza meta, destinata a sopravvivere solo cibandosi del rancore altrui. Di lei, ormai, era rimasta quasi solo l’apparenza. Inuyasha lo sapeva. Lo aveva sempre saputo.

 

Eppure, non era mai riuscito a separare il prima dal dopo. Non era mai riuscito a condannare le miko. E non riusciva ancora a darsi pace per esser arrivato troppo tardi quando lei aveva avuto bisogno di lui. Non riusciva a perdonarsi di aver fatto il gioco di Naraku per ucciderla e aver permesso a quel maledetto di divertirsi con lei. Strinse di più a sé il corpo accanto al suo. Calore. Quella sensazione che lo tranquillizzava. Che lo rilassava.

 

Ricordava il calore del corpo di Kikyo. Era bello quando gli concedeva un abbraccio, quando lo lasciava posargli la testa in grembo, quando gli accarezzava i capelli. Era bello anche solo stringersela stretta al petto, cullandola, e ricevere da lei un contatto simile. L’ultima volta che l’aveva abbracciata, prima che morisse, aveva sentito il suo corpo caldo attraversato da piccoli brividi eccitati. Quella volta, quella sola volta, Kikyo gli aveva mostrato il più dolce e infantile dei suoi sorrisi. La felicità per la sua scelta: diventare un essere umano.

 

Cinquant’anni dopo, il corpo che aveva stretto era freddo e umido, e sapeva di terra e pietra tombale. Di ceneri e fuoco. Era un semplice involucro. Privo di vita. Condannato solo al gelo. Quando l’aveva abbracciata, si era accorto lentamente del fatto che Kikyo non riuscisse a trattenere il calore corporeo che lui le trasmetteva. Non sarebbe più riuscito a riscaldarla, non avrebbe più potuto strapparle brividi freddi sulla sua pelle sudata. E alla fine non era riuscito nemmeno a salvare quel corpo fatto di cenere. In mano a Naraku. In sua balia. E il fatto che Kikyo avesse sempre fatto di tutto per ritrovarsi proprio faccia a faccia con il suo assassino, che quello che era accaduto era esattamente ciò che la miko voleva, non riusciva comunque ad attenuare lo sconforto di Inuyasha.

 

Quanti mesi erano trascorsi da quella notte sull’Hakurei? Nove, forse dieci…Era tutto così dannatamente vivido nella sua mente. Si era sentito completamente svuotato, come se qualcuno gli avesse strappato tutte le forze che la rabbia contro Naraku gli dava. Era proprio come diceva Sesshomaru: lui l’aveva uccisa. E Inuyasha sapeva benissimo di non essersi ancora rassegnato all’idea di averla persa di nuovo. Non in quel modo. Il suo lutto era ancora lontano dall’esser elaborato. Ci sarebbe voluto ancora molto tempo. Lo sapeva. E per la prima volta nella sua vita l’impazienza non lo prendeva. Non voleva ancora lasciarla andare. Non si sentiva ancora pronto per accantonarla in un angolo del suo cuore. Era conscio che lei ormai era il passato; era consapevole che Kikyo ormai non era più il fulcro dei suoi pensieri. Ma non bastava. Accidenti a lui, non bastava mai. Poteva elaborare tutti i più bei ragionamenti, degni del fratello per lucidità e freddezza…E poi bastava solo un attimo, e il castello di carte si accasciava al suolo. Irriverente.

 

Non lo sopportava. E più di tutto non sopportava la consapevolezza che il suo comportamento faceva soffrire un persona. Quella che aveva giurato di proteggere e sostenere. Quella che, si era solennemente promesso, non avrebbe mai permesso che Naraku sfiorasse. Lei che gli aveva ridato la vita. Lei che lo trattava come se fosse stato normale. Lei con cui litigava, con cui si scontrava, con cui riusciva a sorridere e che baciava. Lei che amava. Kagome.

 

Abbozzò un sorriso, mentre insinuava di più il viso fra i capelli della ragazza. Il sole era già sorto da un po’, ma non voleva svegliarla. Non aveva nessuna fretta, quel giorno. Non voleva che lei si allontanasse dal suo petto. Scese con le mani fino ai suoi fianchi, in una carezza attenta e premurosa. Kagome…Era cambiata in quegli anni, se ne era accorto. Quando la prendeva sulle spalle, aveva sentito la sua vita farsi più sottile, i fianchi divenire leggermente più rotondi, il suo seno premergli sempre di più sulla schiena…All’inizio, le prime volte che la portava, si era accorto del tepore che sentiva provenire da lei. Gli sembrava quasi che lo invadesse, che gli donasse una sensazione di tranquillità. Per questo aveva cercato di allontanarla; le aveva detto che non sopportava il suo odore, ma in realtà gli piaceva molto. Troppo. E questo era pericoloso. Anche con Kikyo era iniziato tutto perché il profumo della miko lo aveva colpito. E lui non avrebbe mai voluto ripetere lo stesso errore. Si era ripromesso che nessuno sarebbe mai riuscito ad avvicinarlo di nuovo. A fargli male.

 

Disegnò con un artiglio il viso della ragazza. Kagome si era insinuata con freschezza nel suo cuore, imponendosi nei suoi pensieri per quell’aria da bambina, per la sua ingenuità e le sue idee estreme. Idealista, irremovibile su molte cose, cocciuta, romantica; era capace di arrabbiarsi per una sciocchezza e di tenergli il broncio per ore. Kagome era diversa da Kikyo: esuberante, istintiva, mutevole. Se la miko era austera e controllata, Kagome era sempre una sorpresa continua. Passava dalle lacrime ai sorrisi con una facilità per lui disarmante. A volta, aveva il sospetto che lo facesse apposta a farsi vedere triste da lui: ottima arma di ricatto. Perché lui, per sua dannazione, non poteva sopportare di vederla cupa e abbattuta.

 

Kagome stava cambiando, stava crescendo nel corpo. Inuyasha se ne era accorto. E si era accorto anche che lui stesso era cambiato. Il respiro di Kagome sul suo collo quando la portava in spalla gli dava brividi di eccitazione, gli faceva quasi perdere il senno; le mani della ragazza sulle sue spalle e i suoi artigli che le carezzavano le gambe. Se Kagome avesse anche solo immaginato cosa gli passava per la mente quando la stringeva di più a sé perché non cadesse lo avrebbe sbattuto a cuccia senza tanti complimenti. Altro che Miroku! Certe volte temeva che l’influsso del monaco libertino avesse iniziato a lasciare tracce anche in lui.

 

Sospirò. Kagome stava crescendo, ma restava sempre la ragazzina che lo aveva liberato dal Goshinboku. Con i suoi grandi occhi vispi e allegri, con il suo sorriso aperto e solare. Con le sue paure e i fantasmi che un mondo estraneo e nuovo come la sua epoca potevano suscitare. Kagome era sempre rimasta affascinata dal mondo dell’hanyou. Era magico, incredibile, diverso. Ma fino ad alcuni mesi prima lo aveva solo sfiorato. Aveva sempre fatto la spola fra passato e presente in modo quasi regolare. Non si era mai allontanata da casa per più di due settimane, e la vita con Inuyasha non l’aveva mai messa in contatto con la realtà vera dell’età Sengoku.

 

Loro non avevano mai incontrato i daimyo e i loro eserciti in lotta. Non si erano mai imbattuti in uno scontro fra esseri umani. Certo, era successo più di una volta che arrivassero su un campo di battaglia; era accaduto con normalità che Inuyasha dovesse uccidere demoni per proteggerla. Anche Kagome aveva combattuto contro gli youkai, purificandoli con le sue frecce hama. Ma era stato tutto diverso: non aveva mai considerato che i demoni che scomparivano morivano, non aveva mai realizzato che anche lei uccideva qualcuno mentre impugnava l’arco. Aveva sempre vissuto quelle avventure come se fossero un sogno. Bellissimo. Impossibile. Stupendo. Doloroso. Tangibile. Ma pur sempre un sogno. E nelle fantasie oniriche della mente tutto è permesso. Anche uccidere senza esser chiamati assassini.

 

Inuyasha lo aveva sempre sospettato. Si era sempre chiesto cosa davvero Kagome avesse afferrato del suo mondo, della sua vita. Si metteva in viaggio con loro, con lui, con una leggerezza che lo aveva sempre lasciato basito. Fin dal primo giorno. Fin da quando lo aveva liberato dal sigillo di Kikyo. Lo aveva trattato con una naturalezza disarmante, e continuava a farlo. Sembrava che non riuscisse a realizzare che loro erano diversi. Che lui era un hanyou. Da un parte, la spontaneità della ragazza era un qualcosa che lui aveva desiderato inconsciamente per molto tempo. L’unica che lo avesse trattato in un modo simile, senza disgusto o repulsione nel toccarlo, o anche solo vergogna, era stata sua madre. Dall’altra, però, in quegli ultimi mesi si era accorto che Kagome non aveva mai realizzato veramente la drammaticità della situazione. Almeno, fino a quella notte.

 

Inuyasha alzò gli occhi alla porta del doji. Era ancora socchiusa, come l’aveva lasciata lei. Kagome si era affacciata spaventata da quella fessura ed era scivolata silenziosa nella palestra. Inuyasha non si era accorto subito di lei, concentrato nel dimenare la spada per scaricare un po’ di tensione. Odore di pesca; e di sale. Si era voltato incuriosito e preoccupato. C’era solo una persona che avesse quell’odore. Ed in quel momento era alle sue spalle e stava piangendo.

 

Aveva appena fatto in tempo a voltarsi e abbassare Tessaiga che se l’era ritrovata stretta al petto. Kagome. La sua Kagome. Non piangeva, ma gli occhi rossi e le guance bagnate la tradivano. Inuyasha aveva lasciato cadere a terra la katana. Un rumore metallico e assordante nel silenzio della palestra. L’aveva abbracciata. Stretta con disperazione. Come se potesse in quel modo cancellare quello che avevano visto quel giorno, come se la dovesse consolare da un incubo che sembrava troppo realistico. Kagome si era afflosciata fra le sue braccia. Esausta. Svuotata. Le poche forze che il pianto continuo le avevano lasciato erano state appena sufficienti a permetterle di trascinarsi fino al dojo.

 

Stringimi Inuyasha…Ti prego, stringimi…”

 

Un singhiozzo, con voce arrochita da lacrime che scendevano in gola, che scendevano a bagnare il kariginu del ragazzo. Kagome aveva sentito le ginocchia liquefarsi appena gli era stata vicino, e allora si era aggrappata a lui. Aveva artigliato la sua veste come se potesse affondare le unghie nella sua carne. Aveva gettato lo testa contro il suo petto. Non ce la faceva. Non ce la faceva. Aveva paura. Paura di quello che aveva visto. Paura di quello che era successo. Paura di non tornare più a casa. Paura che lui potesse lasciarla sola.

 

Kagome era troppo sconvolta per realizzare le mani di Inuyasha che la carezzavano per tranquillizzarla, per distinguere le parole che le sussurrava, per riconoscere le sue labbra che cercavano di cancellare le lacrime. Si accorse solo che qualcosa si muoveva, che non era ferma contro il ragazzo. E quando lo sconforto si era attenuato, quando di nuovo era riuscita a socchiudere gli occhi, si era accorta di essere praticamente seduta sulle ginocchia del ragazzo. Cullata del movimento lento del suo busto. La stava trattando come una bambina piccola, costringendola in un’altalena lenta, lenta, lenta…La stava facendo ondeggiare piano, come aveva visto fare a sua madre quando Sota era piccolo e piangeva, piangeva forte.

 

Si era lasciata tranquillizzare. Aveva permesso che la sua mente si svuotasse e che la tenerezza del ragazzo entrasse in lei. Si era lasciata andare alle sensazioni di pace e protezione che la carezza regolare fra i suoi capelli, il respiro caldo, il leggero movimento del petto del ragazzo le davano. Lo aveva trattenuto quando lui aveva provato ad allontanarsi. Non aveva voluto lasciarlo andare. Non voleva lascialo andare. Aveva bisogno di lui. Della sua arroganza e della sua sicurezza. Aveva bisogno della sua determinazione e dei suoi occhi d’oro. Aveva bisogno della sua dolcezza, rozza e intensa.

 

Inuyasha si era limitato a stringerla di più. Aveva cercato di apparire rilassato, ma dentro era un fascio di nervi. Sapeva che la colpa di tutto era da attribuire a quello che era successo nel pomeriggio. Dopo che la granata era esplosa, a pochissima distanza dalla tenda dell’ospedale, lui si era precipitato da Kagome. Illesa. Miracolosamente illesa. Aveva solo qualche contusione ed escoriazioni superficiali. Si era tolto il kariginu e ve l’aveva avvolta, per darle sicurezza e proteggerne le nudità che l’abito sacerdotale, sbrindellato dal contraccolpo e dalle schegge, lasciava intravedere. Se le fosse successo qualcosa lui…lui…

 

No. Kagome stava bene; era solo rimasta un po’ frastornata dall’esplosione. Ma quando era riuscita schiarirsi la vista e a cacciare quelle odiose macchie luminose che la accecavano, era impallidita. La grande tenda era completamente divelta, con le pelli e le stoffe lacerate e bruciacchiate. In alcuni punti, dei demoni cercavano di spegnere dei principi di incendio. La trave portante, quel tronco così grande che c’erano voluti due oni per portarlo fin lì e conficcarlo nel suolo, quel tronco che non riusciva neanche ad abbracciare per metà, era schiantato a terra, frantumato in una miriade di schegge. Ne rimaneva solo un mozzicone carbonizzato, altro non più di mezzo metro. Brande, corpi, coperte…Tutto era stato scaraventato in un’accozzaglia confusa e impressionante.

 

Kagome aveva osservato con occhi vuoti corpi sanguinanti, orrendamente mutilati, rialzarsi in piedi o strisciare sulla terra rossa e nera. Si era sentita investire dalle urla e dagli spasimi dei feriti. Aveva abbassato gli occhi sulle sue mani, sporche di terra e di sangue, completamente rovinate dalle abrasioni. E poi era tornata a fissare i cadaveri disseminati tutt’attorno. Feriti e guaritori giacevano scomposti per terra, molti ignudi, o con i brandelli delle vesti carbonizzate attaccate ai corpi fumanti. Ad alcuni mancavano gli arti, ad altri la testa, altri ancora erano stati falciati di netto a metà. E le ossa biancheggiavano nella luce incerta che si infiltrava fra la polvere, spettrali fra brandelli di carne sanguinante. Kagome non ce l’aveva fatta. Aveva sentito l’odore nauseante della carne bruciata scenderle in gola, esploderle nei polmoni e artigliarle lo stomaco. Aveva sentito il suo corpo tendersi in spasmi violenti dettati dal terrore. Non ce l’aveva fatta. Si era piegata ancor più sulle ginocchia e aveva stretto spasmodicamente il kariginu di Inuyasha. Cercava di frenare le lacrime e i violenti conati. Alla fine, aveva vomitato per il disgusto e l’orrore. Aveva continuato a sforzarsi anche quando ormai il suo stomaco era completante vuoto, deformando il viso in maschere di sforzo e disperazione, lasciando che le lacrime di confondessero con la saliva che le scendeva al mento.

 

Inuyasha non aveva potuto far altro che tenerle le spalle; e chiudere gli occhi. Non era disgusto. Era dolore. Impotenza. Sapere di essere la causa di quello che era successo, di quello che aveva visto, e non poter far nulla per cambiare le cose. Se non fosse stato per quel separè di legno pesante dove Kagome si trovava, a quell’ora la ragazza che amava sarebbe stata solo un cumulo di carne martoriata e scomposta. E lui non avrebbe potuto fare niente. Non aveva potuto fare niente. Aveva scosso la testa. Non doveva pensarci: Kagome era viva, e si sarebbe ripresa. Le aveva pulito il viso e l’aveva presa in braccio, portandola nella sua stanza a palazzo. L’aveva affidata ad Homoe ed era tornato a ciò che restava dell’ospedale. Morte nel cuore.

 

Era stata la voce inespressiva di Alessandra a riportarlo di colpo alla realtà. L’aveva vista: il suo corto kimono bruciacchiato e rammendato alla mento peggio, giusto il necessario che le permettesse di muoversi senza rimanere nuda. I capelli sciolti raccolti in ciocche scomposte che le frustavano il viso quando si muoveva. Muoveva freneticamente il braccio destro per richiamare l’attenzione e impartire gli ordini. L’aveva vista strapparsi la manica destra per improvvisare un tampone ad un ferito, scoprendo i lividi che le segnavano la pelle. Le schegge della granata non sembravano averla raggiunta, ma il violento spostamento d’aria doveva averle fatto perdere l’equilibrio e rotolare malamente al suolo, contro i detriti. Eppure, sembrava che non le importasse. Come ignorava completamente la lunga striscia di sangue che le percorreva il viso conferendole un aspetto quasi sovrannaturale.

 

Restava lì, in piedi in mezzo a quel massacro, e con voce atona dirigeva i soccorsi, spronando gli uomini che si mantenevano in piedi e quelli che stavano accorrendo da palazzo. Si chinava a medicare un ferito, si volgeva per riprendere chi muoveva i mutilati con troppo foga, cercava di impartire ordine e razionalità in quel girone d’inferno. Eppure, Inuyasha aveva la netta impressione che davanti a lui non ci fosse una persona, ma una specie di oggetto. Gli occhi della ragazza erano strani. Continuavano a sfuggirgli. Sfuggivano ogni cosa. Ed erano bui. Abissi di perdizione. Non era lo sguardo triste che le aveva visto quando aveva litigato con suo fratello; non era lo sguardo vuoto che le parole di Sesshomaru le avevano strappato una sera di mesi prima. Quello sguardo era di gelo totale, inespressivo. Inesistente. Era come se la sua voce parlasse, e lei non fosse lì. Come se Alessandra non ci fosse.

 

Aveva ignorato anche Sesshomaru. Il Principe aveva raggiunto lo spiazzo dove, fino a pochi istanti prima, si ergeva al tenda dell’ospedale e si era fermato. Pietrificato. Aveva distinto benissimo, fra i gemiti e le urla, la voce di Alessandra. E non gli era piaciuta. Per niente. Era la voce di mesi prima, il tono incolore delle prime volte che le aveva parlato. Un timbro indifferente e vuoto. Avulso dalla realtà. Si era sentito frustrato da un qualcosa di indefinibile. Come se all’improvviso tutti i mesi trascorsi con lei, tutto quello che avevano faticosamente costruito, potesse sparire. Inghiottito da quella voce e da occhi che, anche se non poteva vedere, Sesshomaru sapeva essere spenti. Inesorabilmente morti.

 

Inuyasha lo aveva visto contrarre la mascella ed emettere come un guaito doloroso. Ma nulla di più. Non aveva fatto un passo verso la ragazza, non le aveva rivolto una parola. L’hanyou si era chiesto se quella manifestazione di rabbia e frustrazione fosse rivolta all’atteggiamento che in quel momento Alessandra mostrava o se fosse più semplicemente l’effetto di un’offesa che il Principe non poteva sopportare. Lo aveva visto andarsene, veloce come era apparso. E poi non ci aveva quasi più pensato fino a sera. Travolto dalla frenesia del bisogno.

 

Kagome si mosse accanto a lui. Probabilmente la sua mano che giocava con i capelli della ragazza la stava svegliando. Inuyasha abbandonò la ciocca che stringeva e avvicinò le labbra alla fronte della ragazza. Lasciò che il suo respiro le sfiorasse la pelle e i capelli. Quando lui era piccolo sua madre lo prendeva sulle ginocchia e lo stringeva a sé in quel modo, con le labbra sulla sua fronte. Non aveva mai capito il perché, ma quel gesto, la sensazione del respiro tranquillo di sua madre sulla pelle, lo rilassava.

 

Quella notte, quando Kagome si era presentata nel dojo, mentre la teneva far le braccia e la cullava, Inuyasha aveva inconsciamente accostato le sue labbra alla fronte della ragazza. E lei si era rilassata, obbedendo ad una muta preghiera. Kagome…Aveva rindossato la sua divisa scolastica. L’abito sacerdotale era ormai inutilizzabile. Si era presentata davanti a lui con i suoi soliti abiti e gli occhi spauriti. Per la prima volta, Kagome si era resa veramente conto di cosa fosse una guerra; per la prima volta aveva realizzato che quel mondo non era un suo sogno, ma era reale. Dolorosamente vero. E che il sangue che l’aveva bagnata la macchiava inesorabilmente. Per la prima volta, aveva avuto paura, e aveva avuto nostalgia di casa sua. Della sua vita monotona e regolare: casa, compiti, scuola. Per la prima volta, si era resa conto del perché Inuyasha fosse a volte tanto cinico con il mondo, del perché avesse dovuto imparare fin da piccolo a uccidere e, soprattutto, perché gli risultasse difficile dar fiducia a qualcuno.

 

Per la prima volta, Kagome aveva pianto perché si trovava lontano dal Pozzo, perché non poteva tornare a casa sua e piangere stretta nell’abbraccio di sua madre. Per la prima volta aveva realizzato che, se non ci fosse stato Inuyasha al suo fianco, lei non avrebbe avuto molte possibilità di sopravvivere in quel mondo. E si era resa conto che quel mondo antico e magico, quel mondo fatto di creature fantastiche, è dolore. Si basa soprattutto sul dolore. Sulla guerra e sul sangue. Sulla morte. E ne aveva avuto paura. Tanta. Folle. Devastante.

 

“Vuoi andare via?...”

 

Inuyasha aveva sussurrato quelle parole scendendo a baciarla. Quasi volesse impedirle di dargli una risposta. Aveva paura di quello che avrebbe potuto dirgli: sì. Kagome gli avrebbe detto di sì. Gli avrebbe detto che voleva tornare a casa sua, gli avrebbe detto che era stanca di quei mesi trascorsi fra feriti e morti. Gli avrebbe detto che non voleva più stare con lui, che la sua vita gli risultava orribile, spaventosa. Brutta. Gli avrebbe detto che non gli piaceva la vita cui lui la costringeva, cui l’aveva costretta. Gli avrebbe detto che una cosa era aiutarlo a cercare i frammenti della sfera, ma era diverso rimanere asserragliati in quel palazzo, costretti a dormire con le orecchie tese, con la speranza di non sentire la campana risuonare nella notte a dare l’allarme.

 

Sì. Kagome gli avrebbe detto che voleva andarsene, e lui sapeva che non avrebbe avuto la forza di trattenerla. L’avrebbe lasciata andare. Si sarebbe dato da fare in mille modi pur di riuscire a portarla lontano dal palazzo di Sesshomaru e farla ritornare a casa. Nel suo mondo. Nel suo presente tranquillo e rassicurante. Erano molti mesi che non tornava a casa, che non dava sue notizie. I suoi familiari dovevano essere molto preoccupati. Kagome non era mai rimasta lontana così a lungo. Inuyasha era convinto che, una volta ritornata a casa, la ragazza non sarebbe tornata tanto presto indietro. O forse non avrebbe più voluto tornare. Chi mai vorrebbe vivere in quel modo pericoloso e snervante, se l’alternativa era la tranquillità di una casa e il calore della famiglia? Lui non aveva mai potuto scegliere. Lui si era ritrovato catapultato in quella realtà da un giorno all’altro. E non aveva potuto far altro che abituarsi in fretta. Non gli era mai piaciuta quella vita, ma era la sua. L’unica su cui riuscisse a mantenere il controllo. L’unica che aveva imparato a vivere.

 

Ma Kagome no. Lei aveva un’altra vita; lei poteva avere una vita diversa, migliore della sua. E lui la stava incatenando. Le stava facendo del male. Se non le avesse permesso di seguirlo lei non avrebbe mai visto l’orrore dei massacri, non avrebbe conosciuto l’odore di morte di quell’ospedale, il dolore e lo strazio di feriti e corpi mutilati. Se avesse insistito perché tornasse indietro, invece di farla venire con lui, Kagome non avrebbe rischiato la vita, non avrebbe visto la realtà della sua epoca. Non avrebbe pianto.

 

Kagome gli aveva preso il viso fra le mani e aveva risposto al suo bacio. Con urgenza. Con terrore. Non voleva andarsene, ma non era stata pronta a quello che era successo. Il suo mondo diverso, il suo sogno…Sbriciolato fra le mani. Annullato. Non si era mai soffermata veramente sulle diversità fra i loro mondi. Non si era mai soffermata veramente neanche sulla reale natura di Inuyasha. Si era innamorata lui, ma a volte si chiedeva cosa esattamente amasse. Se il ragazzo e il demone. Le era venuto naturale trattarlo come se fosse stato uguale a lei, senza realizzare davvero che, comunque, fra loro c’erano delle diversità. Inuyasha aveva l’aspetto di un suo coetaneo, ma aveva alle spalle secoli di vita, di sofferenza. A volte sembrava immaturo, ma in realtà poteva vantare una quantità di esperienze di vita cui Kagome non poteva neanche lontanamente aspirare.

 

Lo aveva sempre trattato come un essere umano, anche se razionalmente sapeva che lui era diverso. Eppure…eppure non ci era mai riuscita. Non era mai riuscita a sentilo estraneo, lontano. Per lei Inuyasha era Inuyasha, demone o umano che fosse. E voleva stare con lui. Come una bambina. Anche se questo significava dover conoscere quella realtà. Anche se voleva dire andar a sbattere contro dolore e sofferenza. Pretendeva di riuscire a capirlo, si proclamava in grado di leggere benissimo dentro di lui…E quando aveva visto la violenza delle guerre fra demoni ne era rimasta schiacciata. Annullata. Ma se davvero voleva provare a capire cosa Inuyasha avesse vissuto fin dalla sua infanzia, se davvero voleva cercare di alleviare le ferite della sua anima, Kagome aveva capito che doveva imparare a vivere in quel mondo. A viverci non come turista, ma davvero. Senza rinunciare a se stessa, ma senza dimenticare le differenze.

 

“…Io voglio stare dove sei tu…”

 

La sua famiglia avrebbe capito. Quando la guerra fosse finita, quando Sesshomaru avesse vinto, perché era certo che sarebbe stato il demone a vincere (Kagome non voleva neanche ipotizzare una possibile sconfitta), Kagome sapeva che sarebbe tornata a casa e che sua madre avrebbe capito. Forse per un po’ l’avrebbero costretta a restare nel presente, ma comunque l’avrebbero capita. E riconosciuta. Perché lei sarebbe rimasta ugualmente la stessa Kagome, anche se più adulta e consapevole.

 

La ragazza si mosse, salendo con le braccia fino al collo del ragazzo e stringendolo forte. Inuyasha ricambiò l’abbraccio, per poi lasciare che lei si svegliasse del tutto e si portasse a sedere. Adesso Kagome era in piedi, vicino alle soji. Era bella, con la luce del sole che le fasciava il corpo. Era bella, mentre si massaggiava assonnata un braccio. Avevano dormito per terra, sul pavimento del dojo. Kagome si era addormentata fra le sue braccia, esausta per il pianto e le parole. Inuyasha non aveva voluto rischiare di svegliarla, e si era semplicemente lasciato scivolare a terra, cercando in tutti i modi di farla stare comoda e stringendosela al petto per non farle prendere freddo. Era fine aprile, e ormai il clima invernale era solo un ricordo, ma la notte portava con un venticello ancora fresco che per un ningen poteva esser pericoloso. E lui non avrebbe mai voluto che al ragazza si ammalasse.

 

Kagome sbadigliò sollevando in alto le braccia indolenzite. Incredibile. Aveva dormito benissimo. Non si sarebbe mai aspettata che un pavimento di legno potesse esser così comodo. Gettò uno sguardo distratto all’hanyou ancora sdraiato su un fianco. Con gli occhi socchiusi, i capelli arruffati dal sonno e i vestiti leggermente sgualciti le faceva una tenerezza infinita. La luce del sole gli disegnava il profilo duro , eppure dai tratti dolci. Era bello: un bambino cresciuto in fretta.

 

Kagome gattonò fino a lui, continuando a fissarlo con uno sguardo troppo innocente. Stava meditando qualcosa, di sicuro. Aveva il viso ancora arrossato per il lungo pianto, ma era tornato il suo stupendo sorriso. Solare. Infantile. Inuyasha lasciò che gli si avvicinasse, lasciò che lo fissasse come per accertarsi che non si fosse riaddormentato e poi, con un guizzo improvviso, la rovesciò a terra, sdraiandosi sopra di lei e bloccandole i polsi sopra la testa. Lei rideva, rideva divertita e offesa per essersi lasciata sorprendere. Con un sorriso poco rassicurante, Inuyasha scese con una mano fino alla pancia della ragazza, solleticandole la pelle che la maglietta le aveva scoperto. Le disegnò l’arcata epigastrica con attenzione quasi critica, inarcando un angolo della bocca compiaciuto del rossore e del respiro che si spezzava della ragazza. Le liberò i polsi e lasciò che Kagome gli abbracciasse il collo, mentre le sue mani risalivano al suo viso per stringerlo e accarezzarlo.

 

Un altro, probabilmente, avrebbe approfittato della situazione, della superiorità fisica, dell’amore che li legava. Un altro, al suo posto, non ci avrebbe pensato due volte ad approfondire il contatto. Kagome non avrebbe potuto opporsi, Kagome non avrebbe avuto la forza di fermarlo. Solo il realizzare quei pensieri fece salire il sangue alla testa ad Inuyasha, colorandogli il viso di un rosso acceso, che nascose baciando la ragazza con ardore. Kagome era ancora giovane, era ancora una bambina. Rispetto a lui, sarebbe sempre stata una bambina, ma non l’avrebbe mai costretta contro la sua volontà. Non avrebbe mai fatto accelerare i tempi. E poi, lui era troppo timido per quelle cose, non sapeva neanche da che parte cominciare. Anzi, non sapeva nemmeno dove diavolo aveva preso il coraggio di sfiorale la pelle della pancia e di baciarla a quel modo. Ma non ci voleva pensare. L’unica cosa importante era che Kagome non lo allontanava e che sentiva di nuovo l’odore della sua tranquillità.

 

 

*****

 

 

“Si era detto che avreste riposato, houshi-sama…”

 

Tono di bonario rimprovero. Tono rilassato e leggermente contrariato. Miroku sistemò con maniacale attenzione la botticella che aveva trasportato, dilatando i tempi di attesa della sua risposta, concedendosi un lieve sorriso nell’immaginare il viso leggermente adirato della sua interlocutrice. Alla fine si risollevò con lentezza, stirando le invisibili pieghe della sua veste sacerdotale. Gli piaceva cercar di esasperare quella ragazza. Come gli piaceva poter scambiare alcune parole con lei ogni tanto.

 

Alla fine, si risolse a voltarsi e incrociare lo sguardo contrariato di Alessandra, preparando il migliore dei suoi sorrisi innocenti. Eccola lì, la sua guardiana: spalle dritte, braccia conserte, viso fermo contornato dai capelli di rame. Raccolti. Miroku si era chiesto spesso perché non li lasciasse sciolti. Alessandra aveva sempre risposto per praticità, perché non poteva permettersi, mentre curava un ferito, di scostare una ciocca indisponente. Tuttavia, anche le poche volte che erano riusciti a consumare assieme un pasto in relativa tranquillità lei aveva sempre mantenuto i capelli raccolti. Un vero peccato, pensava il monaco, visto che la bellezza di una donna è accentuata dai riflessi della sua chioma.

 

Sorrise a quel pensiero. Non era facile blandire Alessandra. Sembrava che su di lei la sua squisita abilità retorica non avesse presa. Non era ancora riuscito a strapparle un sorriso veramente imbarazzato o, se c’era riuscito, lei lo aveva dissimulato con grande maestria. Da consumata attrice. Eppure, non aveva minimamente l’aria della donna abituata a civettare con un uomo; al contrario, non era né frivola né superficiale. E più di una volta, parlando con lei, si era trovato in difficoltà.

 

Quasi incredibile. Miroku aveva sempre fatto affidamento sulla sua abilità con le parole per far colpo su una donna o per irretire nobili e contadini troppo creduloni. Era consapevole che, con le sue parole, riusciva a lusingare e confondere, a spingere i discorsi nelle direzioni che gli premevano, a incanalare la conversazione per ottenere precisi risultati. Era conscio del fascino che il suo tono poteva esercitare: profondo e vellutato per sedurre una donna; compito e competente per persuadere della necessità di un esorcismo. Miroku sapeva esattamente come insistere, quanto insistere, come giocare le carte a sua disposizione per raggiungere i suoi scopi. L’unica cosa che ancora non gli fosse riuscita era convincere una donna a dargli il tanto desiderato figlio. Ci aveva provato anche con Alessandra, un po’ per abitudine, un po’ per saggiare il campo e cercare di capire se davvero ci fosse qualcosa fra la ragazza e Sesshomaru, oltre ad una arida e utilitaristica convivenza. La risposta che gli aveva dato lo aveva lasciato a bocca aperta, incapace di ribattere nell’immediato.

 

“Ne sarei davvero onorata, houshi-sama. Sfortunatamente, per avere un figlio da me dovreste prima sposarmi, e al momento il matrimonio non è nei miei progetti”

 

Esterrefatto. Era rimasto completamente esterrefatto da quella risposta: da quando una donna aveva l’arguzia di rispondere ad una proposta a quel modo, canzonando anche il suo interlocutore? Perché era quello che Alessandra aveva fatto: aveva finto di assecondarlo per poi sbattergli in faccia un totale rifiuto. Senza possibilità di appello. Aveva declinato con grazia e sottigliezza, ma in modo categorico. E sembrava aver colto anche le possibili implicazioni che Miroku aveva fatto sottintendere con la domanda. Volevano sapere se c’era stato qualcosa fra lei e Sesshomaru? Risposta immediata: Alessandra si sarebbe concessa solo a chi l’avesse sposata. E questo escludeva qualsiasi possibilità “piccante” di cui Miroku era in cerca. Tuttavia, aveva lasciato aperto lo spiraglio che, comunque, fra loro intercorresse un rapporto che andava oltre il semplice sfruttamento per interesse.

 

Miroku si era intestardito: non poteva permetter che qualcosa nascesse sotto ai suoi occhi senza che lui se ne accorgesse. No. No. No. Ne andava della sua fama di abile seduttore. Voleva, doveva scoprire qualcosa di più preciso oltre ai pettegolezzi di palazzo. E quella sembrava essere un’ottima occasione. Stranamente, infatti, quel giorno non si erano ancora verificati attacchi alle mura e vigeva una relativa calma sia dentro sia fuori il palazzo. Sesshomaru aveva fatto comunque schierare gli uomini ai loro posti, e aveva personalmente passato in rivista l’esercito, controllato i bastioni, appurato quanto ancora la breccia potesse reggere e fino a che punto costituisse una minaccia. Aveva fatto sostituire i sacchi di sabbia sugli spalti per meglio opporsi ai proiettili e aveva dato ordine ad alcuni oni di aiutare a sgombrare i detriti dell’ospedale. L’esplosione della granata del giorno prima aveva ucciso quasi tutti i ricoverati, e il numero dei sopravvissuti era tanto esiguo da poter essere ospitato in un padiglione del giardino. L’elegante costruzione in bambù era diventata, in pochissimo tempo, un organizzatissimo centro di primo soccorso e una camerata d’ospedale con non più di una ventina di brande.

 

Alessandra si era affaccendata per tutta la mattina, cercando di incanalare le forze che il demone le aveva concesso e di riportare un minimo di ordine e sicurezza all’interno dell’ambito medico. Gli youkai che, sebbene feriti, erano in grado di reggersi in piedi si erano anche offerti di aiutare, e lei, per necessità, si era trovata costretta ad accettare, sotto il preciso ordine di non eccedere. Miroku allargò maggiormente il sorriso, compiaciuto della ragazza che gli stava davanti, ancora in attesa di un suo cenno. Alessandra gli piaceva perché, a dispetto dell’aspetto fisico, comunque affascinante e insolito per una ningen, riusciva a tener testa a demoni e uomini senza mostrare esitazione o tentennamenti. Che non fosse il suo reale carattere, o meglio, che fosse solo una delle sfaccettature del carattere della ragazza, Miroku ne era persuaso. E neanche i kami lo avrebbero mai convinto del contrario.

 

Alessandra era riuscita a rimettere in riga anche i più testardi e ostili curatori della corte inuyoukai. Non che fossero felici di sottostare ad una donna umana, ma vedere, quella mattina, le loro facce falsamente ossequiose e la loro impacciata solerzia nell’eseguire gli ordini della ragazza era stato un divertimento davvero impagabile. Miroku non credeva che mai vi avrebbe assistito, e quello che si era svolto sotto i suoi occhi lo aveva costretto più volte a voltarsi e dissimile un sorriso altrimenti troppo compiaciuto e divertito. Un sorriso orgoglioso. C’era da dire, tuttavia, che se non fosse stato per la presenza di Yaone Alessandra avrebbe incontrato difficoltà ancora maggiori.

 

Alessandra-san…Voi sapete da dove provenga Yaone-san?”

 

Alessandra rilassò le braccia. Inutile. Se Miroku non voleva rispondere sapeva benissimo come girare i discorsi, solleticando curiosità o accenni che facevano dimenticare al suo interlocutore qualsiasi cosa detta in precedenza. Nulla da dire. Nella sua epoca, Miroku avrebbe avuto un futuro come arringatore di folle. Un demagogo perfetto. Scosse la testa. Almeno, se lo faceva parlare, gli impediva di andarsene in giro a dare una mano e a stancarsi. Doveva tenerlo buono e a riposo, o quella sera Sango le avrebbe fatto una bella ramanzina. Come se la cocciutaggine del monaco fosse facile da domare. Certo, non era come quella di Sesshomaru…Quando si impuntava, il demone era davvero esasperante, e il suo carattere distaccato contribuiva a innervosire anche lei in quei momenti…Miroku almeno ti parlava sempre con quel sorriso finto innocente sulle labbra, cercando di strappare un consenso o una promessa con elogi e fiumi sconclusionati di complimenti. Però, la cocciutaggine è cocciutaggine, e in questo anche Miroku non faceva difetto.

 

Se Kagome non si fosse imposta, quella mattina, per prendere il suo posto per erigere la barriera mistica attorno alla breccia, lui avrebbe ripreso il suo posto sul campo anche se faticava solo a restare in piedi. Era davvero spossato: ore di sonno perse, energia spirituale consumata per erigere barriere e difendersi, ansia e preoccupazione erano stati un miscuglio deleterio anche per il suo fisico allenato. Quella mattina, Miroku si era letteralmente trascinato fuori dalla sua stanza, aggrappandosi con tutte le sue forze al suo shakujo. Probabilmente, se non fosse stato per il bastone e Sango, che si era imbattutati in lui per caso, Miroku si sarebbe accasciato a terra nel giro di pochi minuti.

 

Aveva faticato a rimanere cosciente, mentre attorno a lui i suoi amici e Alessandra cercavano di fargli riprendere almeno un po’ di colore. Alla fine, gli avevano fatto ingurgitare qualcosa di amarissimo, ma che aveva avuto il pregio di regalare una effimera sferzata di energia al suo copro esaurito. Giusto quella necessaria a sentire distintamente la voce di Kagome affermare con decisione la sua volontà di sostituirlo nel mantenimento della barriera, per quel giorno almeno. Ricordava ancora i tentativi di Inuyasha e Koga di farla desistere, il misto di sollievo e preoccupazione che era passato negli occhi di Sango e l’ombra sul viso di Alessandra. Niente. Kagome era stata irremovibile: lei poteva fare qualcosa e voleva fare qualcosa. Come miko aveva un potere spirituale pari, se non superiore, a quello di Miroku. Tenere in piedi una barriera per una giornata non l’avrebbe di certo ridotta ad una larva. In fondo, si trattava solo di poche ore, giusto il tempo necessario affinché Miroku riposasse e recuperasse le sue forze. Inuyasha, alla fine, aveva dovuto arrendersi e lasciarla andare. L’aveva obbligata ad indossare il suo kariginu e l’aveva abbracciata forte.

 

Vedere l’espressione seria sul viso del suo amico era stato per Miroku un colpo al cuore. Raramente Inuyasha permetteva loro di leggere le sue emozioni, ma il dolore, il senso di impotenza, la frustrazione e l’ansia erano tracciati a fuoco nei lineamenti duri dell’hanyou. Sapere Kagome, la sua Kagome, là fuori sola, indifesa, e tutto per una stupida guerra, era un groviglio emozionale che lo schiacciava. Se solo Sesshomaru gli avesse permesso di combattere. Anche come l’ultimo dei soldati. Anche come un bastardo. Non gli importava. Gli sarebbe bastato poter combattere anche solo per quelle poche ore, stare con Kagome per quelle poche ore. Non gli interessava minimante la possibilità di gloria che ne avrebbe potuto trarre. Non gli era mai importato davvero di combattere per il suo onore. Fin da piccolo, aveva imparato a usare i suoi artigli solo per difendersi. Per necessità. Per sopravvivere. Perché lui era debole, lo sapeva bene, e solo se fosse diventato sempre più forte, solo se avesse posseduto la forza di un demone, avrebbe dovuto smettere di temere per la sua vita e illudersi di potersi almeno avvicinare a suo padre e a suo fratello.

 

Kagome si era imposta, e Inuyasha era stato costretto a lasciarla andare. Si era ammorbidito solo dopo aver strappato a Kagome la promessa di restare al sicuro all’interno della breccia e dopo che Koga e Ayame gli avevano garantito che la ragazza sarebbe stata protetta per tutta la giornata dai loro lupi. Lei non avrebbe dovuto far altro che rimanere concentrata per mantenere la barriera; al resto avrebbero pensato i lupi degli ookami.

 

“Te la affido”

 

Tre paorle. Le ultime che Miroku era riuscito a distinguere, prima che la spossatezza si rimpadronisse di lui confinandolo nei sogni. Tre parole. Una supplica inespressa. Una sicurezza indiscutibile. Inuyasha le aveva quasi sussurrate, dopo aver strattonato Koga per un braccio e averlo avvicinato a sé perché Kagome non lo sentisse. Gli costava. Gli costava orgoglio doverle dire, gli costava dolore non poter andare con lei ma, dannazione, avevano ragione loro. Mostrarsi sul campo di battaglia, fra le file regolari, senza un preciso ordine del Principe, senza un suo chiaro consenso, poteva significare la sua morte, magari proprio per mano di Sesshomaru. L’unica alternativa fattibile sarebbe stato combattere fra i lupi di Koga. Non realmente in relazione con Sesshomaru, quindi. Ma era comunque un azzardo troppo rischioso. No. Inuyasha aveva dovuto lasciarla andare.

 

Miroku, quando si era risvegliato nella sua stanza, varie ore dopo, aveva ancora fissa nella mente l’immagine dei Principi dei demoni-lupo e delle ragazze che se ne vanno. Sulle spalle di Inuyasha, in un ultimo barlume di coscienza, aveva desiderato di avere la forza per rimettersi in piedi, per raggiungere Sango e prenderla per mano. Veramente. Non per fare il maniaco, ma solo per sentire il calore della sua mano. Invece, quando aveva ripreso coscienza, aveva scoperto di avere accanto a sé quella demone di cui nessuno sapeva nulla: Yaone.

 

Era arrivata a palazzo circa una settimana prima, senza fornire una spiegazione del modo in cui fosse entrata. Sesshomaru l’aveva accolta con freddezza, ma sembrava sapere benissimo chi aveva di fronte. L’aveva condotta personalmente al padiglione dell’ospedale e l’aveva presentata come un’alchimista, facendo storcere il naso a molti dei guaritori di palazzo. Le aveva presentato Alessandra, e poi se ne era andato. Non una parola alla ragazza, non un saluto. Aveva lasciato ningen e yasha a fronteggiarsi, e con grande stupore di tutti Alessandra non aveva mostrato il minimo segno di gelosia nei confronti di Yaone. Le aveva anzi detto di esser profondamente onorata di poter avere accanto una persona di così vasta conoscenza. Da quel momento, Alessandra e Yaone di erano divise le incombenze principali, assieme a Kagome e Homoe. E nonostante l’abilità e le competenze della yasha fosse, talvolta, palesi e scontate, Yaone non aveva mai mostrato interesse nei confronti del posto occupato da Alessandra. Lei restava l’archiatra e , salvo una precisa volontà del Principe, quello era lo stato delle cose che si sarebbe mantenuto.

 

Miroku si concesse un sorriso, mentre si lasciava sedere a terra, poggiando la schiena alla botticella che aveva ammucchiato accanto alle altre. Yaone non era riuscita a persuaderlo a restare a letto più a lungo, e neanche Alessandra sarebbe riuscita a costringerlo all’immobilità. Anche se, doveva ammetterlo, quella pausa forzata cui la ragazza lo aveva indotto non gli risultava affatto sgradita. Se giocava bene le sue carte, quella era l’occasione per scoprire un po’ di più sul passato della ragazza e su come avesse incontrato Sesshomaru. Domande innocenti, per carità. Nulla di indiscreto e compromettente. Solo un po’ di sana e rilassante conversazione. Giusto per conoscersi un po’, approfittando della momentanea quiete. Nonostante i mesi passati nello stesso palazzo e le mense condivise, non nessuno di loro aveva mai trovato l’occasione, e il coraggio, di intavolare una qualche discussione relativamente impegnata con Alessandra.

 

Di lei, Miroku sapeva solo quello che la ragazza stessa aveva raccontato quando si era presentata a Musashi e il poco che aveva detto loro Kagome. Alessandra proveniva dalla stessa epoca della miko, ma da un paese molto più lontano, oltre Nihon e il continente; anzi al capo opposto del continente. Sapeva che era orfana, anche se non aveva capito bene le circostanze. E inoltre, quando l’aveva conosciuta, Alessandra si era presentata come l’archiatra di Sesshomaru. Acquisto recente, vero, ma doveva pur sempre aver vissuto con il demone a sufficienza da ottenerne, se non rispetto, un briciolo anche solo impercettibili di attenzione. Miroku non conosceva molto bene il Principe dell’Ovest, ma di una cosa era certo: non era affatto facile farsi accettare da Sesshomaru. Eppure, anche se quando Alessandra parlava del demone o si rivolgeva a lui aggiungeva sempre il suffisso onorifico, sembrava che dovesse fare uno sforzo con se stessa per non ometterlo. E da che ne sapeva lui, solo Inuyasha si era sempre permesso di rivolgersi al fratello senza fronzoli e titoli nobiliari. Anche il monaco parlava dell’inuyoukai senza tributargli titoli, ma le poche volte che aveva scambiato con lui due parole, o meglio, che era riuscito a balbettare qualcosa, gli era venuto naturale aggiungere il suffisso nobiliare. Era la figura stessa del demone a imporlo, a renderlo ovvio. Banale. Scontato.

 

Miroku si sistemò meglio, raddrizzando la schiena e sorridendo ad Alessandra in modo troppo aperto e conciliante. Benissimo: le avrebbe carpito qualche informazione, con la scusa che la ragazza, si era accorto, era propensa a farlo parlare in quel momento, era propensa a tutto purchè rimanesse lì fermo e seduto. Occasione da non sprecare. Si schiarì la voce con un colpetto di tosse, cercando velocemente nella sua testa il modo per avviare la conversazione senza metter subito sull’allerta la ragazza. Per puro caso, intravide sull’engawa passare di corsa Kiba, il lupacchitto di Rin. Perfetto: la bimba sarebbe stata un ottimo primo argomento. Totalmente privo di impegnativa.

 

“Rin-chan vi vuole molto bene, Alessandra-san”. La vide stiracchiare un sorriso e annuire leggermente. “Posso sapere come l’avete conosciuta?”

 

Alessandra allargò il sorriso, quasi una piccola smorfia ironica, mentre con una mano si ravvivava la frangia leggermente spettinata. Miroku si morse impercettibilmente il labbro, con il timore di aver compromesso i suoi piani fin dalla prima battuta. Possibile che quella ragazza avesse già capito dove voleva andare a parare? Si rilassò subito, perché Alessandra gli raccontò del suo incontro con Rin senza dar segni di aver subodorato qualcosa. O forse era divertita dalla situazione e voleva vedere fin dove il monaco si sarebbe spinto.

 

“Interessante. Quindi, se ho ben compreso, Rin-chan vi deve la vita. Due volte, addirittura: prima la salvate dal freddo invernale e poi da una brutta malattia”. Miroku spiò l’espressione della ragazza, prima di continuare. Sembrava tranquilla.

 

“Una vera fortuna, per lei, che vi trovaste a vagare nelle vicinanze. Soprattutto, la seconda volta…Se non l’aveste incontrata febbricitante…”. Lasciò volutamente in sospeso la frase, perché si era accorto che Alessandra era stata molto vaga nel raccontare il secondo incontro con la bimba. Si era limitata a un “l’ho rivista che era malata e l’ho curata”. Troppo veloce. Ci doveva essere qualcosa in mezzo. Qualcosa di insignificante, di banale, ma che era uno dei tasselli per il puzzle che lui stava cercando di comporre.

 

Alessandra si morse nervosamente un labbro: non poteva certo dire che era stato Sesshomaru a trovarla e che il demone era stato costretto a darle ragione e a spostare Rin dalla grotta dove si trovavano. Se ci pensava, lo rivedeva disfarsi dell’armatura e sciogliere elegantemente la fascia del kimono awase. Quante volte gli aveva rivisto compire quel gesto, in seguito? Alla sera, quando lui rientrava nelle sue stanze e lei era nel suo letto, nel dormiveglia, lo vedeva sciogliere i nodi e disfarsi degli indumenti con la stessa grazia della prima volta. Vedeva i capelli del demone sfiorargli la schiena, accarezzandogli i dorsali tesi, ……… tonici; vedeva la linea sottile della sua colonna vertebrale, i tendini del collo comparire e scomparire al movimento dei suoi capelli. Sensuale. Era dannatamente sensuale in quei movimenti lenti, nel fruscio leggerissimo della seta. Di notte, Alessandra seguiva con occhi rapaci la stoffa del kimono scivolare sul corpo del demone, scoprendogli la pelle pallida, l’anatomia perfetta. Ricordava con lucidità impressionante le linee del suo corpo; lo aveva medicato più di una volta. Lo aveva curato quella volta dopo l’attacco di Naraku che gli era costato la cecità.

 

Quella volta…Era stata la prima volta che aveva spogliato un uomo. Aveva visto il corpo di Sesshomaru emergere dalla stoffa bagnata e sporca, lo aveva visto delinearsi ai suoi occhi nelle sue forme perfette e non eccessive. La forza delle sue membra era concentrata in muscoli tonici e nervi guizzanti. Nulla di esagerato. Non era il copro di un uomo, ma di un ragazzo. La forza Sesshomaru la derivava in maggior parte dalla sua natura, e non dallo sviluppo della sua muscolatura. Eppure, anche se ancora un po’ acerbo nelle membra, anche se i suoi tratti sottili lo facevano apparire etereo e intoccabile, Alessandra lo sapeva saldo, forte. Lo sapeva concreto, vivo. Uomo. Perché era il copro di un ragazzo, di un uomo, quello contro cui dormiva ogni notte; perché erano di un uomo le braccia che le cingevano la vita e l’attiravano verso di lui; perché era di un uomo il respiro che le sfiorava il collo; perché erano di un uomo le labbra che la baciavano. Dolci, rispettose. Ma di uomo. Di maschio. Di amante, e non di fratello.

 

Baci ardenti e casti al contempo. Baci vogliosi, assetati, ma che non si erano mai spinti oltre il limite. Come le mani del demone non l’avevano mai sfiorata se non con discrezione, con il suo consenso. Sesshomaru la bramava, la voleva, Alessandra lo aveva capito, lo sentiva sempre di più nel modo in cui i suoi baci stavano cambiando, ma sapeva anche che non l’avrebbe mai costretta. Era forse follia pensarlo: lui, un demone, il Principe, lui che avrebbe potuto avere una diversa amante al giorno, lui che avrebbe potuto averla con la forza senza neanche doversi preoccupare di una sua possibile resistenza, lui…Lui aspettava. Pazientemente. Tranquillamente. Accontentandosi di ciò che Alessandra gli permetteva, aspettando sempre il suo consenso. Il suo permesso. Come se, nella sua mente, risuonasse ancora quella supplica, quelle parole sussurrate stringendosi al petto il polso offeso: “Non mi toccare”.

 

“Per fortuna, siete riuscita a sistemare tutto per il meglio”. Miroku aveva colto il nervosismo della sua interlocutrice. Centro perfetto. C’era qualcos’altro ma, da esperto retore, aveva preferito non insistere. Se Alessandra avesse voluto parlare, lei per prima non sarebbe mai stata così evasiva. Meglio cercare qualche altro spunto, fare un altro giro, provare a riavvicinarsi in modo diverso. Doveva allargare il discorso, se davvero aspirava a farle sfuggire qualche confessione.

 

Alessandra rispose a tutte le sue domande, in modo esauriente, ma mai troppo dettagliato, sviando soprattutto quando il discorso rischiava di cadere su Sesshomaru e, se proprio non poteva evitare di parlare del demone, cercava di mantenere un tono neutro e reverenziale, aggiungendo sempre il suffisso nobiliare al nome del Principe. Miroku, invece, iniziava a sudare. Non gli capitava spesso di conversare con una persona abile tanto quanto lui a elargire fumo e a parlare tanto senza dire nulla di importante. Un metodo che il monaco conosceva bene, ideale per confondere l’uditorio, e che, più di una volta, aveva rischiato di irretirlo. Ma d’altro canto, cosa si aspettava? Conversare lo divertiva, se poi, al piacere della parola poteva aggiungere anche la compagnia di una bella donna, che non gli era seconda per arguzia e abilità retorica, colta come ne aveva incontrate davvero poche, Miroku sapeva di dover stare attento o sarebbe caduto lui nella trappola che aveva teso.

 

“Non avete un compagno, Alessandra-san?” le chiese all’improvviso con un sorriso poco raccomandabile, sporgendosi un po’ verso di lei. La vide deviare con nonchalance lo sguardo, fissandolo con insistenza sul legno di un secchio poco distante. Affondata. Anche se gli avesse detto di no, la sua reazione era già di per sé una risposta. E quella era affermativa. Ora, si trattava di scoprire chi fosse, meglio, di accertare che il nome fosse quello di Sesshomaru. Si avvicinò ancora di più, fino a pochi centimetri dal viso della ragazza, con una mano poggiata a terra, dietro la sua schiena, e l’altra che aspettava il momento buono per prenderle la mano. Le avrebbe fatto un po’ di scena, e l’avrebbe costretta a dirgli quel nome. Glielo avrebbe suggerito lui, se proprio Alessandra non avesse voluto sbilanciarsi. Per lui, gli sarebbe bastato anche solo un piccolissimo sussulto per aver conferma dei suoi sospetti. Addolcì il sorriso e sollevò la mano, pronto a stringerle la vita. Alessandra sembrava come ipnotizzata, smarrita, ma per Miroku era la più ovvia delle reazioni: un po’ di femminile pudore e riservatezza, bellissimo su una donna così giovane.

 

“Se solo provi a sfiorarla, ti stacco la mano”

 

Miroku sobbalzò e istintivamente si ritrasse con una smorfia impaurita sul viso, mente una goccia di sudore gli scendeva lungo la tempia. Si allontanò lentamente, girandosi verso quella voce e cercando di preparare il più innocente dei suoi sorrisi. Una smorfia che era un insieme di colpevolezza, vergogna e imbarazzo. Ridacchiò cercando di apparire normale e rilassato, ma l’occhiataccia di Inuyasha gli fece correre un brivido lungo la schiena. Sapeva che non era entusiasta dei suoi modi libertini, che non apprezzava affatto il suo costante tentativo di trovare una donna che gli desse un figlio; sapeva che lo infastidiva la libertà che riusciva a prendersi con le ragazze, a sua detta solo perché l’hanyou, al contrario, era talmente timido e impacciato che qualsiasi approccio gli costava un grande sforzo e vedere lui disinibito e tranquillo lo faceva fremere di rabbia e invidia.

 

Però…però c’era qualcosa di diverso, in quel momento. Il tono non era affatto bonario, anche se non c’era traccia di odio o rabbia negli occhi di Inuyasha. Sembrava solo leggermente contrariato, e insieme quasi sollevato. Come se fosse intervenuto appena in tempo per evitare una catastrofe. Miroku si risentì più della sua occhiata che dell’intrusione: si conoscevano da anni, era mai possibile che Inuyasha non avesse ancora imparato a distinguere quando lui scherzava e quando invece cercava di fare sul serio? Andiamo! Non voleva fare nulla di male! Fino al giorno prima era lui che si torturava per la curiosità di sapere se davvero potesse esserci qualcosa fra Alessandra e Sesshomaru. Puro interesse scientifico, diceva: gli sembrava impossibile che quel borioso e indifferente pezzo di ghiaccio che si ritrovava per fratello potesse davvero essersi interessato ad una donna, e umana per di più. E adesso, di punto in bianco, sembrava che la questione non gli importasse più. E il monaco non era propenso ad attribuire quella mancanza di voglia solo al fatto che Kagome-sama fosse impegnata alla breccia. La situazione era straordinariamente tranquilla. Perché quindi quel nervosismo?

 

Miroku cercò di rabbonirlo, di alleggerire la tensione che improvvisamente aveva sentito crearsi. Che fosse geloso, anche se lo negava continuamente, era un dato di fatto: bastava ripensare alle impennate di rabbia che lo prendevano se solo Koga osava avvicinarsi a Kagome. In quel momento, però, che senso avrebbe mai potuto avere, la sua gelosia? Certo, se si fosse ritrovato faccia a faccia con Sesshomaru, Miroku avrebbe avuto conferma delle sue supposizioni, anche se, doveva ammettere, avrebbe dovuto anche disperare di poterle mai comunicare agli altri. Il Principe non si sarebbe neanche preso il disturbo di minacciarlo, togliendolo dal suo cammino immediatamente ed eliminando una possibile fonte di disturbo per Alessandra.

 

“Non capisco cosa tu voglia dire, Inuyasha” bluffò, schiarendosi la voce e assumendo un tono da finto offeso. “Stavamo solo chiacchierando…”

 

“Altro che chiacchierare!” sbraitò subito il ragazzo “Tu adesso te ne fili a riposare! Non ho alcuna voglia, questa sera, di sorbirmi i rimproveri di Sango e Kagome perché non ti ho tenuto a letto!”

 

Miroku fu costretto a cedere. Con un teatrale sospiro si alzò da terra e, dopo un plateale saluto ad Alessandra, che si era goduta la scena con estremo divertimento, si risolse a ritornare nella sua stanza, prima che Inuyasha si decidesse a riportarcelo di peso. Sentì ancora per un po’ le minacce dell’amico se solo si fosse azzardato a mostrare ancora in giro la sua faccia (adorabile, gli fece eco) prima di sera, e infine oltrepassò il perimetro interno delle mura che dividevano i giardini interni da quelli privati del Principe.

 

“Quel pervertito! Non cambierà mai!”

 

Le mani sui fianchi, il viso atteggiato in una smorfia fra l’arrabbiato e il rassegnato, Inuyasha mosse la mano nell’aria, velocemente, come a dare un sonoro schiaffo riparatore all’amico libertino. Alessandra sorrise della sua espressione da bambino. Per dei mesi lo aveva visto cupo e immusonito, scostante anche se cercava di non apparire maleducato. Per mesi, aveva visto il suo viso attraversato da un’ombra scura e inquieta. Gli occhi tristi e malinconici. Aveva passato con lui mesi sotto la tenda dell’ospedale. Se non fosse stato per l’aiuto di Inuyasha e la sua cocciutaggine nell’allontanarla quando davvero era allo stremo, Alessandra non era del tutto convinta che sarebbe riuscita a mantenere il controllo di ogni situazione, imponendosi sui guaritori di palazzo.

 

Si voltò verso di lei, regalandole un sorriso rilassato. Era bello vederlo sorridere. Sembrava davvero un bambino, con quelle fossette ai lati delle labbra, con i capelli leggermente spettinati e quelle orecchiette che si muovevano impercettibilmente, attente a cogliere sempre anche il minimo rumore. Alessandra, per un istante, rivide il sorriso di Sesshomaru, risentì la risata infantile che era riuscita a suscitare in lui una sera di pioggia. Un suono profondo, ancora così vivo nella sua memoria. Non lo aveva più sentito ridere, ma in compenso i sorrisi si presentavano un po’ più spesso. Aperti, o piccole smorfie che appena gli intaccavano le labbra. Maledizione! Certe notti le sorrideva in un modo, indugiando su di lei come se potesse vederla, schiudendo appena le labbra e lasciandole intravedere i canini appuntiti oppure sfiorandosele con la lingua dopo un bacio. Un contatto leggero, appena percettibile, ma dannatamente eccitante. Sesshomaru stava lentamente imparando, stava imparando da lei come doveva comportarsi con la ragazza che per lui era importante. Stava scoprendo quanto lo divertiva stuzzicarla, farle desiderare un bacio, una carezza fino al punto che, per la sua apparente indifferenza, Alessandra a volte si imbronciava. E allora lui le si avvicinava compiaciuto del suo risultato. Gli piaceva quando lei, nel sonno, gli sfiorava il petto che lasciava scoperto per dormire; quando i suoi capelli si distribuivano sul suo viso e sul suo collo.

 

Inuyasha somigliava così tanto al suo demone, eppure c’erano tante piccole cose che li differenziavano. E la più evidente era la diversa educazione che avevano ricevuti: troppo rigida quella di Sesshomaru, troppo incentrata sull’utilità guerriera, infarcita di mille sciocche dottrine di supremazia. Forse, se fosse cresciuto come Inuyasha allora…Alessandra scosse la testa. Inutile pensarci: lo amava per quello che era. Anche per i suoi difetti. Per il modo in cui riusciva parlarle senza usare la voce.

 

Inuyasha le sventolò una mano davanti al viso. Era come in trans, con un sorriso divertito sulle labbra e un leggero rossore sul viso. Stava pensando a lui. Poco ma sicuro. E la cosa gli faceva un immenso piacere. Più di quanto avesse mai immaginato. Ridacchiò, beandosi dell’espressione imbarazzata della ragazza quando si era accorta di essersi lasciata distrarre dai suoi pensieri. Sì. Fra loro sarebbe potuta nascere una splendida complicità. Come fra fratello e sorella. E gli effetti gli avrebbe sortiti Sesshomaru. Già…a proposito del demone…Inuyasha lasciò correre lo sguardo sul braccio sinistro della ragazza, con insistenza, accennando appena con la testa. Chissà come aveva reagito…

 

“Non ne sa nulla” sospirò Alessandra, sfiorandosi con attenzione la stoffa della manica. “Questa notte non si è coricato. Ho dormito sola”

 

Inuyasha annuì. Gli sembrava quasi surreale sentire quelle parole, pronunciate con quel tono rilassato, normale. Non sembrava arrabbiata o dispiaciuta per aver passato la notte sola nelle stanze del Principe. Solo rassegnata. Probabilmente, era abituata al fatto che Sesshomaru potesse non rientrare a riposare, avvantaggiato dalla sua natura demoniaca e impegnato in interminabili consigli di guerra, che lo rendevano sempre di pessimo umore. Lui ne sapeva qualcosa. Koga, dopo quelle riunioni, era pressoché intrattabile, capace di scattare per un nonnulla. L’ookami, almeno, quando era davvero esasperato riusciva a scaricare un po’ di frustrazione ingaggiando uno scontro di allenamento con lui. Sesshomaru, invece, doveva tenersi tutto dentro. Era, infatti, poco probabile che condividesse con Alessandra anche quelle preoccupazioni, dopo che la ragazza aveva i suoi bei grattacapi con l’ospedale. Tuttavia, Inuyasha non se la sentiva di escludere quella possibilità a priori. Se c’era una cosa che aveva imparato in quei mesi era che ben poco di quello che lo circondava corrispondeva sempre a quello che vedeva.

 

Si sedette a terra, gambe incrociate e una mano a sorreggere pigramente la testa. Era bastato così poco per riuscire a porre le sue domande. Era bastato preoccuparsi per lei e intestardirsi. Forse, era stata la stessa cosa che aveva fatto Sesshomaru, anche se lui, per avvicinare la ragazza, doveva aver fatto un giro lungo mesi. Comunque, sembrava che, in qualche modo, ci fosse riuscito. Anche se Inuyasha non appezzava la clandestinità cui suo fratello e la ragazza erano costretti. La conosceva bene: l’aveva vissuto sulla sua pelle in prima persona. Con Kikyo. Ed era la stessa che sua madre aveva vissuto con Inutaisho. Adesso Sesshomaru sembrava ripercorrere gli stessi passi, anche se Inuyasha non era del tutto sicuro che avesse totale cognizione di quello che stava accadendo dentro di lui.

 

Alessandra, intanto,continuava a massaggiarsi il braccio. Il decotto che vi aveva applicato in mattinata era stato miracoloso: il dolore era pressoché scomparso, e riusciva anche a compiere sforzi non eccessivi senza risentirne. Doveva proprio ringraziare Inuyasha per averglielo preparato; se non fosse stato per lui, probabilmente lei a quell’ora si sarebbe ritrovata con una bella infezione. E la febbre anche. Un vero peccato, soprattutto ripensando a quello che era successo dopo. Alessandra sollevò istintivamente lo sguardo al ragazzo seduto accanto a lei. Inuyasha si accorse della sua occhiata…come definirla?...Complice, forse, e sorrise di riflesso. Certo che quella ragazza rilassata e tranquilla non sembrava quasi quella che aveva trovato, la notte prima, seduta sul suo futon, alla tenue luce di una candela, avvolta in un kimono lercio e sbrindellato, sporca di sangue, fango e sudore.

 

Era andato nella camera di Alessandra per sapere da lei se avevano dato un qualche sonnifero a Kagome e se pensava di poterlo congedare, visto che il grosso del lavoro per sgombrare i resti della tenda dell’ospedale che la granata aveva spazzato via era ormai fatto. Aveva bisogno di un bagno, e poi se ne sarebbe andato da qualche parte a riflettere un po’ su quello che era successo. Sul turbinio che il vedere Kagome a terra, rialzarsi barcollante, svenirgli esausta fra le braccia gli aveva provocato. Sì. Aveva deciso che doveva assolutamente pensare. Mettere un po’ di ordine nei ricordi di quegli ultimi mesi. Per una sera, se anche non si fosse arrovellato un po’ su Alessandra, non sarebbe stata la fine del mondo.

 

Aveva aperto la fusuma, entrando senza bussare come sua abitudine, e si era bloccato sulla porta, inghiottendo le parole veloci che aveva preparato. Seduta sul suo futon, Alessandra gli dava parzialmente le spalle, ma nonostante la penombra della stanza il suo fiuto catturò chiaramente l’odore del sangue. Sangue fresco. E appena i suoi occhi si furono abituati all’oscurità quasi totale riuscì a distinguere chiaramente la chiazza che anneriva la mani del kimono di Alessandra e l’alone scuro che stava imbrattando il materasso. Si sentì mancare il respiro, per la sorpresa e la paura. Quella ferita doveva essersela procurata in seguito all’esplosione della granata, perché in seguito, solo in quel momento Inuyasha lo ricordò chiaramente, Alessandra aveva sempre cercato di limitare i movimenti del braccio sinistro.

 

Sentendo il fruscio della porta, Alessandra sobbalzò lasciando cadere a terra il bisturi che aveva in mano. Non si aspettava che qualcuno andasse da lei a quell’ora e nei secondi che impiegò per voltare il viso verso la porta pregò che non fosse Sesshomaru ad essere entrato. Non poteva, non doveva essere lui. Non in quel momento. Liberò un impercettibile respiro quando riconobbe Inuyasha, ma il sollievo dileguò immediatamente, appena realizzò che l’hanyou fissava con sgomento il suo sangue. Si strinse il braccio al petto, nel vano tentativo di nascondere ciò che comunque l’olfatto fine del ragazzo avrebbe distinto.

 

Inuyasha la vide spaventata, sorpresa, confusa. Le si avvicinò di corsa, il cuore in gola. Quella stupida! Perché non lo aveva detto prima, che era ferita? Sperava solo che fosse un graffio. Voleva convincersi che lo fosse, benchè il sangue che bagnava la manica sembrava far propendere per tutt’altro. Nel vederlo avvicinarsi e protendere una mano verso di lei, Alessandra si ritirò verso il muro. Non voleva essere toccata. Nessuno doveva toccarla. Solo Sesshomaru poteva. Solo lui. Nessun altro. Odiava esser sfiorata, odiava il contatto fisico. Le faceva venire in mente il dolore seguito alla morte della sua famiglia, e la falsità ipocrita di tanti abbracci, di tante stucchevoli attenzioni.

 

Inuyasha aveva appena disteso la mano, deciso a vincere quell’insensata paura, e non le aveva neanche sfiorato il polso che si ritrovò a fissare l’armadio a muro sulla parete accanto. Bruciore. La guancia gli bruciava tantissimo e formicolava in modo fastidioso. Si portò una mano al viso, mentre lentamente rigirava la testa con un’espressione esterrefatta sulla faccia. Davanti a lui, Alessandra ansimava furiosamente , con la mano ancora sollevata dopo il sonoro ceffone che gli aveva inferto. La vide sbattere le palpebre alcune volte, fissare alternativamente la sua mano e la guancia offesa, per poi socchiudere la bocca in un’esclamazione muta di colpevolezza e dispiacere.

 

“Certo che picchi forte, se vuoi!” cercò di sdrammatizzare Inuyasha, massaggiandosi il viso. Accidenti a quella ragazza. Lo aveva preso completamente di sorpresa, e adesso si ritrovava con un bel segno rosso. Neanche Sango ci andava così pesante con Miroku. E lui, per di più, non aveva fatto assolutamente nulla.

 

“M-mi dispiace…Scusami…Io…Io non volevo…”. Alessandra abbassò gli occhi, mordicchiandosi nervosamente il labbro inferiore. Lo aveva schiaffeggiato. Aveva avuto paura della sua mano e lo aveva colpito. Come aveva colpito Sesshomaru mesi prima. Perché aveva paure a lasciarsi toccare. Soprattutto quando non si sentiva forte, quando si sapeva ferita e quindi debole. Esposta.

 

Inuyasha sbraitò qualcosa sul fatto che non sarebbe certo stato una schiaffo da una ragazza a metterlo fuori combattimento e che sarebbe passato subito, perché anche lui aveva sangue demoniaco nelle vene e Alessandra sembrò rilassarsi, benchè il braccio le strappasse ogni tanto una smorfia.

 

“Allora? Mi lasci dare un’occhiata?” riprovò, chiedendo prima il permesso. “Non sarò bravo come te a maneggiare questi arnesi, ma qualcosa ho imparato in questi mesi”. Le fece un sorriso rassicurante, distendendo la mano in un invito. Alessandra lo fissò, fissò la mano e infine si decise ad allungargli il braccio, fermandosi un attimo prima di incontrare la sua mano. Se voleva medicarla avrebbe dovuto togliersi la parte superiore del kimono, e questo significava restare nuda davanti a lui. Si raggomitolò di nuovo. No. Mai. Non ce la faceva. Anche se provava a considerarlo un medico. Inuyasha la vide stringere i lembi del kimono al seno, e sollevare le ginocchia a difesa, in posizione fetale. Doveva essere davvero spaventata, anche se non riusciva a capire il perché. Se davvero era in rapporti intimi con Sesshomaru doveva esser abituata la contatto fisico, alla presenza di un uomo. Invece, sembrava che riuscisse a toccare i suoi pazienti, ma se solo era lei a dover essere sfiorata si chiudeva a riccio. Comunque, non poteva lasciare che si medicasse da sola. Doveva trovare un modo per vedere la sua ferita, senza costringerla all’imbarazzo. Perché, lo aveva capito, Alessandra non si sarebbe tolta il kimono neanche se lui si fosse voltato e poi lei se lo fosse premuto al petto.

 

“Facciamo così”

 

Lentamente, con la velocità dei movimenti ridotti al minimo, Inuyasha allungò gli artigli fino a toccare la stoffa bagnata. La strinse fra le mani e la lacerò con un colpo secco fino alla spalla, scoprendole il braccio e il profondo taglio che una scheggia di metallo le aveva provocato. Vedendolo concentrato sulla ferita, Alessandra si rilassò e gli allungò meglio il braccio, permettendogli di vedere. Alla luce della lampada, qualcosa brillò nella ferita, facendo incurvare le labbra del mezzo-demone in una smorfia.

 

“Mmm…Non è molto profonda, ma ti è rimasta dentro una scheggia di ferro e sembra abbastanza grande. Devo togliertela, prima che faccia infezione”. Sollevò su di lei due occhi da cucciolo addolorato. “Farà male…”

 

In risposta, Alessandra afferrò un pezzo di cuoio che aveva preparato in precedenza e lo strinse fra i denti, consegnando il bisturi al ragazzo. Inuyasha la vide mordere con forza quando le incideva la pelle e cercava di fasi spazio fra le pieghe della ferita procurandole meno dolore possibile. Dal sangue rappreso lungo le labbra del taglio, la ferita doveva esser stata lasciata in balia di se stessa per molte ore. Inuyasha imprecò fra i denti per non essersi accorto prima di quello che era successo ad Alessandra. Aveva lavorato al suo fianco tutto il giorno, me l’odore del sangue, della carne bruciata e del ferro erano stati troppo intensi e troppo duraturi perchè lui riuscisse a distinguere quello della ragazza. Inoltre, lei aveva avuto cura di cospargere il suo kimono di sangue demoniaco, per alterare gli odori.

 

Inuyasha sistemò con cura la garza, facendola aderire con attenzione e complimentandosi mentalmente con se stesso per il discreto lavoro. In quei mesi, grazie alla pazienza di Alessandra e Homoe, si era trasformato in un ragazzo capace di padroneggiare i ferri medici bene quasi quanto la sua spada. Certo, brandire Tessaiga era tutta un’altra cosa, era nella sua indole demoniaca come la battaglia, ma le soddisfazioni che ne aveva ricevuto non erano state inferiori. Solo diverse. Il suo prodigarsi all’ospedale da campo gli aveva anche valso, con sua grande incredulità, un certo rispetto da parte dei soldati, soprattutto dei veterani.

 

Mentre ripuliva i ferri e le sue mani, gettò un’occhiata distratta al futon. Sarebbe stato meglio se fosse riuscito a portarlo fuori dalla stanza alle chetichella e dargli fuoco. Non era proprio il caso che le inservienti a palazzo scoprissero il letto imbrattato di sangue; la voce si sarebbe subito sparsa e le conclusioni avrebbero potuto essere estremamente lontane dalla realtà. Sistemò l’ultimo bisturi e si massaggiò nervosamente la fronte. Chissà poi perché si preoccupava tanto di quella ragazza. Si sistemò meglio, mentre una vocina, dentro di lui, gli sussurrava che quella ragazza gli era piaciuta da subito, e che il bisogno di proteggerla nasceva dal fatto che lui conosceva fino a che punto poteva arrivare la crudeltà, umana o demoniaca che fosse, nei confronti di chi fosse considerato diverso. E Alessandra, nel palazzo di Sesshomaru, costituiva un elemento di estraneità potenzialmente più pericoloso di lui stesso. Certo, nessuno si sarebbe mai sognato di muovere dei rimproveri al Principe, se mai avesse deciso di concedersi, prima del matrimonio, delle avventure con delle ningen. Non era ideale, ma neanche indecoroso. Le donne umane servivano solo, agli occhi dei demoni, come cibo e divertimento. Invece, quello che Alessandra era e il modo in cui Sesshomaru la trattava, equiparandola, nelle rare occasioni pubbliche in cui le rivolgeva parola, ad una yasha della corte non poteva far altro che aumentare l’astio dei subordinati del demone. E di conseguenza l’istinto di protezione di Inuyasha.

 

“Gradirei che tu non dicessi niente a nessuno, Inuyasha”

 

Alessandra si stava passando una mano sulla fasciatura, constatando come davvero fosse stata eseguita con perizia. La sua voce era stata un sussurro dolce, ma che non sembrava ammettere obiezioni. Perentorio. Non voleva farlo preoccupare. Sapeva che era arrivato all’ospedale pochi minuti dopo l’esplosione della granata, e sapeva che se ne era andato altrettanto velocemente. Lei non lo aveva visto, e sperava con tutto il cuore che, se anche fosse avvenuto il contrario, se anche il demone l’avesse individuata, non si fosse accorto del fatto che era ferita.

 

“Il naso di Sesshomaru è fino. Se gli vai vicino prima di quattro giorni, si accorgerà da solo che sei ferita”.

 

Incrociò le braccia dietro la nuca, sdraiandosi a terra. Con un occhio socchiuso, cercava di spiare la reazione della ragazza. Aveva fatto volutamente solo il nome del fratello e la frase gli era uscita perfetta: parole dal doppio senso. Ideali per incastrare qualcuno. Doveva ricordarsi di ringraziare Miroku. A forza di starlo a sentire mentre imbastiva i suoi finti esorcismi e tentava di sedurre delle donne, qualcosa dell’arguzia dialogica del monaco doveva esser entrata anche nella sua testa. Non che facesse capolino di frequente, ma almeno in quell’occasione aveva scelto il momento propizio.

 

Vide Alessandra sussultare impercettibilmente. La vide stringere un lembo della manica lacerata e mordersi nervosamente un labbro. Lo faceva sempre quando era nervosa o molto concentrata. La vide abbassare gli occhi. E questo soprattutto le persuase di aver fatto centro. Alessandra non abbassava mai lo sguardo. Neanche davanti a Sesshomaru. Si rivolgeva a lui con deferenza, senza mai omettere il suffisso nobiliare, ma il tono appariva affettato e di circostanza. Falso. Come se fossero altre, le parole che avrebbero dovuto esser dette. Come se stesse cercando di nascondere qualcosa.

 

“Si nota così tanto?...”

 

Alessandra si concesse un sorriso. Dolce, rilassato. Imbarazzato. Un sorriso di sconfitta. Che bella figura! Aveva cercato in tutti i modi di celare i suoi sentimenti, ma davvero era una pessima attrice se anche un ragazzo ingenuo come Inuyasha era riuscito a leggerle dentro. A quel punto, inutile continuare la farsa. Tanto più che, se non l’aveva tradita fino a quel momento, non vedeva perché avrebbe dovuto farlo in seguito.

 

“Cosa?...” canticchiò l’hanyou, fingendo innocenza con la falsità di Giuda.

 

“Che…mi sono…”.

 

Era difficile, da dire. Molto difficile. Lo aveva ripetuto mille volte nella sua mente, ma dirlo ad alta voce era diverso. Era riconoscere definitivamente quel sentimento, era dire una parola che fra loro non era mai corsa, e probabilmente non ci sarebbe mai stata. Sollevò gli occhi e sorrise imbarazzata. Inuyasha si era riportato a sedere e la fissava con un sopracciglio inarcato, senza smettere la sua espressione di finta ingenuità. Alessandra si concesse un respiro. Anche Sesshomaru, quando era indispettito, contrariato o semplicemente…interessato…a una cosa qualsiasi aveva la stessa abitudine. Quante volte aveva visto il suo sopracciglio sinistro, sottile, quasi una linea appena percettibile, inarcarsi leggermente, creando alcune invisibili rughe alla radice del suo naso. Era il solo gesto che sottolineasse se il Principe era presente nella conversazione; per il resto, il viso rimaneva impassibile. Sorrise. Forse, i due fratelli non sapevano neanche di avere la stessa abitudine, curiosa e dolcissima. Non poteva considerarsi un tic, ma era uno di quegli atteggiamenti di Sesshomaru che lei aveva imparato a conoscere.

 

“…che sei?...”. Inuyasha, desideroso che lei completasse la frase, cercò di imboccarla. Cavoli, però, come gli bruciava la gola. Solo in quel momento si era accorto di avere la bocca socchiusa e secca. La lingua sembrava incollata, e le mani, sudate, erano chiuse a pugno, con gli artigli che ne carezzavano pericolosamente i palmi.

 

“…innamorata di Sesshomaru…”

 

Inuyasha restò basito. I sospetti c’erano, certo, e aveva sempre cercato conferme e smentite, ma mai si sarebbe aspettato una confessione del genere dalla ragazza. La fissava. Continuava a guardare il suo viso leggermente rosso per l’imbarazzo, il sorriso strano che le increspava le labbra, lo scintillio leggero degli occhi. Sembrava come se finalmente riuscisse di nuovo a respirare. Come se stesse accarezzando qualcosa di mai sfiorato, qualcosa che aveva sempre avuto davanti agli occhi, e che non aveva mai potuto toccare.

 

“…innamorata di Sesshomaru…” ripetè in un soffio, come se il risentire quelle parole lo aiutassero a prenderne pienamente coscienza. Lo sapeva, lo sapeva che poteva esser accaduto, ma non aveva mai pensato che quella sarebbe stata la reazione a sentirselo dire: era felice. Incredulo, ma felice. Felice per suo fratello, anche se forse, invece, avrebbe dovuto commiserare quella ragazza che si era invaghita di un demone, cercare di farla ragionare e dirle che era un legame impossibile, che le avrebbe solo procurato dolore. Si passò una mano nella frangia, percorrendo i capelli fino alla nuca e iniziando a massaggiarsela energicamente. Avrebbe dovuto metterla in guardia, e non ci riusciva. Era felice. Troppo felice.

 

Alessandra amava suo fratello. Alessandra aveva sopportato la corte inuyoukai pur di restargli accanto. Alessandra che finge indifferenza nei suoi confronti per evitare che le malelingue venissero alimentate. Alessandra che lo ama, che ama Sesshomaru…Lei che…La fiumana dei suoi pensieri si arrestò di colpo. Alessandra lo amava, ma lui?...Sesshomaru aveva sempre dimostrato di detestare i ningen; rasentava l’impossibile il fatto che potesse essersi affezionato, se non addirittura innamorato, di una donna umana. Tornò a rivolgere la sua attenzione alla ragazza. Sulla lingua gli formicolavano alcune domande che non si sarebbe ami sognato di porre in un’altra circostanza, ma arrivati a quel punto gli sembrava stupido esitare. La vide rialzare la testa, e nei loro occhi passò una scintilla di complicità.

 

“…Lui ti ama?...” riuscì a chiedere titubante. Alessandra socchiuse gli occhi. Quella domanda…quella domanda se l’era posta spesso anche lei. fino a quando il demone non si era dichiarato, fino a quando non le aveva detto di tenere a lei sopra ogni altra cosa. Sorrise felice, mentre due fossette da bambina si disegnavano ai lati delle sue labbra e le sue guance aumentavano il loro colore.

 

“Ha detto…che sono la cosa più importante che abbia mai avuto…”

 

“Tipico”. Inuyasha ridacchiò. Chissà perché, ma non si sarebbe aspettato una dichiarazione diversa da suo fratello. Si appoggiò con il gomito al tavoli e iniziò a scrutare la ragazza, scuotendo appena la testa.

 

“Mi dispiace davvero…”. Alessandra corrugò la fronte. Gli dispiaceva per cosa? Forse non voleva che Sesshomaru si compromettesse con una ragazza umana? Forse si era sbagliata e ora lui avrebbe rivelato tutto alla corte? Il sorriso del mezzo-demone sembrava un ghigno.

 

“Ma fra tutti i demoni che ci sono proprio di quel ghiacciolo di mio fratello ti dovevi innamorare?!”.

 

Lo disse con un tono talmente melodrammatico e forzato che Alessandra non potè evitare di ridere, seguita subito da Inuyasha. L’aveva spaventata,accidenti a lui. Per un istante, si era aspettata di vederlo far schioccare le nocche e prepararsi a ucciderla.

 

“Non sarà facile, lo sai?” riprese il ragazzo, tornando di colpo serio. Alessandra prese un respiro e annuì. Lo sapeva. Sapeva che amare un demone non sarebbe mai stata una cosa semplice. Sapeva che amare Sesshomaru l’avrebbe, probabilmente, costretta a violentare più volte se stessa e la propria anima. Sapeva che poteva significare scontrarsi con lui, per idee e mentalità. Sapeva che significava scontrarsi con la corte. Sapeva che voleva dire essere sola. Ma se davvero lui le fosse sempre rimasto accanto, se davvero Sesshomaru l’avesse tenuta per sempre con sé, allora…Allora era pronta anche alla solitudine di quel palazzo. Era pronta a essere considerata un’amante da tutti, se per lui invece era l’unica. Le sarebbe bastato. Amarlo, e essere riamata.

 

Inuyasha sentì un brivido percorrergli la spina dorsale. Con le labbra tese in quel sorriso sottile e la fiamma della candela a liquefasi nei suoi occhi il viso di Alessandra era dannatamente sicuro e autoritario. In quel momento, la ragazza assomigliava davvero molto al Principe. Stessa determinazione, stesso orgoglio. Stessa luce negli occhi, stesso sorriso di sfida sulle labbra. Era stato solo un attimo, ma in quei secondi, che quell’espressione se la fosse immaginata o meno, che fosse stata reale o il frutto di una sua suggestione, Inuyasha aveva capito che avrebbe fatto di tutto per sostenere la ragazza. Di tutto.

 

“Ti ho portato un futon nuovo. Anche se non sarà comodo come quello di Sesshomaru, dovrebbe essere decoroso per la tua messa in scena”

 

Alessandra gli colpì debolmente un braccio, rossa in viso. Ma che razza di…Sbuffò, mentre Inuyasha continuava a ridacchiare. Sembrava che si divertisse molto a metterla in imbarazzo. O forse era semplicemente il suo modo di dirle che era contento di quello che gli aveva rivelato la notte trascorsa. Era stato anche gentile, in fondo, a far sparire il suo letto macchiato di sangue e a procuragliene uno nuovo. Il fatto che, alla mattina, le demoni che prestavano servizio a palazzo trovassero il suo letto sfatto era fondamentale per gettare fumo negli occhi a tutti e convincere la corte che lei dormiva nella sua stanza, e non che, ogni notte, si coricava nel futon del Principe, aspettandolo, per poi tornare in camera sua poco prima dell’alba, a sprimacciare cuscino e coperte per mantenere l’apparenza.

 

Inuyasha aveva pronta un’atra frecciatina. Lo divertiva troppo metterla in imbarazzo, cercando di carpirle qualche altra parole. Non poteva farci niente. Era contento della fortuna che suo fratello aveva avuto, era contento che fosse riuscito a capire che anche un demone può innamorarsi. Era concento, anche se sapeva benissimo che, se Sesshomaru fosse stato presente, avrebbe dovuto fingere di ignorare la cosa. Se il Principe lo avesse anche solo sospettato, poteva iniziare a mettersi nell’ordine di idee di doversi costantemente guardare le spalle. Ecco: gli dispiaceva che non avrebbe mai potuto dirgli quanto era contento per lui.

 

Alessandra vide il suo sorriso sfacciata svanire di colpo, mentre alzava la testa in direzione del palazzo, annusando l’aria. Le orecchiette si muovevano veloci e nervose, cercando di captare meglio quello che in principio sembrava solo un brusio leggero, ma che stava lentamente aumentando di tono. In un impeto di preoccupazione, Inuyasha si alzò in piedi, sfiorando in un gesto automatico l’elsa di Tessaiga.

 

“Ma che diavolo…?!

 

C’era qualcosa, nell’aria. Qualcosa di strano. Elettrico. Come una sensazione che ti fa tremare ogni fibra del corpo. Pericolo. Riusciva solo a elaborare quel pensiero: pericolo. Anche se non capiva di che natura. Nella sua testa, suonava solo quel campanellino d’allarme. Eppure non c’era odore di polvere da sparo né sentiva grida di battaglia o rumore di armi. Le orecchiette si tesero nervose, quando riuscì a distinguere un odore: sangue. Poco, molto poco perché sia quello di una battaglia. Ma sangue. Fresco.

 

Scambiò un’occhiata con Alessandra che, allarmata dal suo comportamento, si era a sua volta messa in piedi e adesso seguiva con lo sguardo l’affrettarsi di alcuni soldati verso la piazza d’armi. C’era una strana agitazione, parole scambiate velocemente in un mormorio che cresceva mano a mano che si raggiungeva la piazza antistante il corpo centrale del palazzo. Inuyasha scoprì i denti in un ringhio frustrato. Non gli piaceva quello che stava accadendo. Non gli piaceva proprio. Doveva esserci qualcosa di strano. di grave.

 

Alessandra gli annuì. Leggeva nei suoi occhi dolore, preoccupazione, agitazione. Desiderio. Di non esser trattenuto. Di poter andare a controllare che i suoi amici stessero bene, che Kagome stesse bene , e di poter scoprire cos’era successo per scatenare quella che, lentamente, stava prendendo i contorni di un vero e proprio avvenimento straordinario. Lo vide accennare con la testa al nuovo ospedale temporaneo e poi iniziare a correre velocemente verso il palazzo. Sapere. Doveva e voleva sapere. Perché lo sentiva dentro che era successo qualcosa che avrebbe cambiato molte cose.

 

 

*****

 

 

“Al diavolo voi e le vostre cure!”

 

Voce arrabbiata. Frustrata. Roca di dolore. Homoe sospirò, nel sentire quelle imprecazioni riecheggiare nei corridoi del palazzo. Chissà perché, ma se lo era immaginato. L’agitazione era esplosa improvvisa a palazzo dopo ore di calma innaturale, dopo quasi tutta una mattina trascorsa in una fase di stati fin quasi sospetta. Era passato neanche una mezz’ora, e già tutto il palazzo sapeva. E anche lui era stato informato. La yasha masticò amaro. Se scopriva chi aveva avuto la brillante idea di avvertirlo, parola sua lo avrebbe ridotto a pezzetti così piccoli che neanche in duecento anni si sarebbe potuto riassemblare.

 

“Ma siete ancora debole!”.

 

Protesta inutile. Troppo debole. Troppo remissiva. Si era già arreso. D’altro canto, cercare di trattenerlo doveva far parte più della facciata che delle reali intenzioni di quel cerusico che cercava di fermare il suo paziente. Adesso li poteva vedere. La corporatura minuta del guaritore tentava di sbarrare la strada ad un ragazzo, tutt’altro che intenzionato a prestar ascolto alle sue suppliche. Shin lo scansò malamente, riprendendo a percorrere l’engawa con la maggior velocità che il suo passo ancora claudicante gli consentisse. Ignorava completamene il piagnucolio di quel fastidioso demone che lo stava seguendo fin dalla sua stanza, concentrato nel tentativo di sistemarsi in modo almeno passabile l’haori che si era buttato addosso, sugli hakama.

 

Sospirò sconsolato. Non era certo l’ideale presentarsi nella sala del consiglio mezzo svestito e scarmigliato, ma non aveva certo il tempo di farsi andare a prendere kimono e armatura, sempre che gli avessero fatto la grazia. Come ostaggio, non doveva avere molte possibilità di domanda. Più probabile, invece, che fosse costretto a rispondere, presto o tardi. Si passò una mano nei corti capelli neri, cercando di ravvivarli. Era strano: era ostaggio a palazzo da quasi due mesi e ancora Sesshomaru non lo aveva fatto interrogare. All’inizio, aveva sospettato che il motivo della tranquillità di cui godeva fosse dovuto ai pareri clinici di Homoe e Alessandra, ma con il tempo aveva scartato l’ipotesi. Almeno nell’ultima settimana le sue condizioni erano tali che gli permettevano ormai di alzarsi dal futon e muoversi nella stanza che gli era stata assegnata. A volte, alla sera, aveva passeggiato con Homoe e Rin nei giardini privati, per testare i miglioramenti e tonificare il corpo.

 

Si era trovato bene, in quelle uscite. Con sua grande sorpresa, aveva provato il desiderio di confidarsi con qualcuno, e quasi senza rendersene conto aveva narrato a Homoe tutta la sua storia, ricordando gli anni trascorsi sul Continente con i suoi fratelli; le aveva detto delle trovate di Yashi e Koji, in cui puntualmente lui veniva coinvolto. Le aveva raccontato degli anni dell’addestramento, delle guerre combattute, del prestigio che la sua famiglia si era ricostruita lentamente, in una nuova terra. Le aveva descritto il palazzo, le regioni del Continente, le bizzarrie di una terra simile e diversa d a Nihon. Si era accorto di parlarne con nostalgia: da quattrocento anni quella era la sua casa, ed era lì che desiderava tornare con tutto se stesso. Il desiderio di riconquistare le terre avite, la brama di vendetta, l’aspettativa di potere…Era tutto sparito, lavato via dalle acque limacciose del fiume che lo aveva salvato dalla morte. L’unica cosa che ancora gli premeva era vendicare la morte di Takakuni, e quindi uccidere Naraku. Poi, aveva raccontato a Homoe, sarebbe tornato sul Continente Sarebbe tornato a casa.

 

Lei lo aveva ascoltato con Rin sulle ginocchia, lasciandosi rapire dal movimento delle sue labbra, dalla parca gestualità delle sue mani. Shin aveva delle mani molto belle. Dovevano essere forti, avvezze ad impugnare la katana, ma le aveva viste anche capaci di tenerezza, come quando regalava una carezza a Rin, che non avrebbe voluto altro che sentir raccontare di quella terra incredibile ai suoi occhi di bambina. Una volta, Shin aveva anche preso sulle spalle la bimba, e Homoe si era smarrita nel contemplare l’espressione rilassato dei suoi occhi. Viola lucente. Luminoso. Vivo. Uno sguardo molto diverso dal buio della prima volta, dalla rassegnazione. L’aveva osservato parlare tranquillamente con la bambina, farla ridere, e si era immaginata il demone con accanto dei bambini. Figli. Dai capelli neri e gli occhi d’acciaio. Come i suoi. Quella volta, aveva scosso la testa dandosi della stupida. Anche se il rapporto fra Shin e Kumamoto era estremamente informale, quasi quello di un padre con un figlio, Homoe era tristemente consapevole che suo padre non le avrebbe mai permesso un simile legame. Lei era l’ultima del clan di Kita, l’ultima di quattro fratelli. Suo padre non avrebbe mai permesso che abbandonasse l’eredità per un capriccio del cuore. No. Le avrebbe imposto di sposare un demone potente, ma inferiore a lei per rango. Un marito fantoccio, solo per lasciare a lei le terre del Nord.

 

Homoe scosse la testa. Non era quello il momento di pensare a un sentimento che non poteva provare, che si era imposta di cancellare. In quel momento premeva cercare di fermare l’irruenza del Principe del Kansai, altrimenti era davvero capace di presentarsi davanti a Sesshomaru a petto nudo. Rischio davvero azzardato.

 

Homoe-sama! Vi prego, convincetelo voi!” piagnucolò il guaritore alzando le mani a preghiera nella sua direzione. Sembrava davvero sull’orlo d una crisi isterica. Certo, tenere a freno Shin era impresa difficile. Anche se molto riservato ed estremamente corretto, lo youkai tradiva una natura indomita e facilmente avvezza al freno. O più probabilmente era l’impulsività propria di chi, dopo aver provato troppo a lungo il morso della sottomissione, si sente finalmente padrone di se stesso.

 

“È fiato sprecato, vi avverto” ammonì Shin. La yasha, tuttavia, non si scompose minimamente e dopo aver congedato il guaritore, che apparve quasi sollevato, si affiancò al demone per procedere con lui. Shin rallentò il passo, visibilmente affaticato. Era stato uno stupido a muoversi a quel modo dopo due mesi che calibrava le energie per ogni movimento. Eppure, quando aveva avuto la notizia non era riuscito a trattenersi. Si strinse di più al braccio che Homoe gli aveva offerto perché non cadesse quando, un istante prima, era pericolosamente vacillato e si rassegnò a fermarsi contro una delle colonnine di legno dell’engawa. Aveva il respiro affannato e il volto bagnato di sudore.

 

“Vi conviene tornare nelle vostre stanze” tentò di persuaderlo Homoe. Niente. Shin scosse energicamente la testa. Doveva parlare subito con Sesshomaru. Era questione di poco ormai. Lo avesse anche dovuto costringere, il Principe lo avrebbe ascoltato. Non avrebbe permesso che i suoi fratelli e sua madre perissero in uno scontro contro le truppe dell’inuyoukai. Non se lui aveva la possibilità di risolvere la situazione. In fondo, poteva ancora essere una buona merce di scambio. Era il momento di tornare ad essere il Principe del Kansai.

 

Shin le rivolse uno sguardo che la fece rabbrividire. I suoi occhi era di un viola cupo, brillanti di determinazione. Era uno sguardo capace di toglier e il respiro, di paralizzare la voce e incatenare gli occhi. Era uno sguardo che le fece accelerare il cuore e battere il respiro. Sussultò quando la mano del demone le sfiorò la guancia, tesa per indicare la piccola Rin che giocava spensierata nel prato, sotto il controllo di Kiba. Homoe riuscì a mettere a fuoco la figura della bimba con estrema lentezza.

 

“Lei è spensierata…” sussurrò Shin. La sua voce era bassa, roca. Dannatamente sensuale. Homoe fece un grande sforzo su se stessa per non cedere. No poteva lasciarsi irretire solo dalla sua voce, non doveva cedere alla malia delle sua parola. La stregava, l’avrebbe condotta a morte, avrebbe fatto morire di dolore il suo cuore. Non doveva ascoltare la sua voce, ma le sue parole. Solo le sue parole.

 

“Devo andare: perché ho giurato che i miei fratelli avranno un futuro. Perché voglio potermi illudere di tornare a casa. Voglio che mio padre smetta di lacerarsi nell’odio…”. Fece una paura, abbassando gli occhi un istante per poi tornare ad alzarli. Fissi nei suoi. Affondavano nei suoi. Viola e acciaio. Acciaio e viola. “Lo voglio per te”.

 

Non respirava. I suoi polmoni dicevano di mandare aria, ma lei non respirava. Muta. Paralizzata. Pensieri ridotti a zero. Mente svuotata. Labbra socchiuse, lingua di pietra, occhi dilatati. Non respirava. Sentiva la gola stringersi in una morsa che la soffocava, sentiva un fastidioso formicolio alle braccia, sentiva le orecchie ronzare. Non respirava. Non respirava. Non voleva respirare. Non poteva respirare. Altrimenti, avrebbe respirato lui. Se avesse respirato, avrebbe respirato il suo odore, il suo profumo di uomo. Avrebbe respirato le sue labbra, scese veloci a sfiorare le sue, a rubarle un bacio che non riusciva a negargli.

 

Shin indugiò ancora qualche minuto. Sentiva la pelle secca e umida di quelle labbra, sentiva il respiro impercettibile sfiorarlo. Sentiva un tremito leggero. Non si era chiesto perché; aveva solo sentito che voleva farle capire che a lei teneva. Che lei era una goccia d’acqua nel deserto; lei era il soccorso di un moribondo; lei era la stella di un marinaio, lei era…Non aveva voluto banalizzare, non aveva voluto dire banalità. E allora l’aveva baciata. Semplicemente.

 

“Devo andare…”. Lo sussurrò sulla sua bocca, risalendo con le labbra il profilo del naso della yasha, disegnandole le sopracciglia e immergendole nei suoi capelli. La superò ergendo la schiena fiero. Falso. Non aveva risposto. Homoe-sama…No…Homoe non aveva risposto. Lo aveva lasciato fare, fredda e distante. Indispettita probabilmente. Non l’aveva guardata; aveva abbassato gli occhi e l’aveva superata ignorando volutamente il suo sguardo, il suo disprezzo.

 

Sentì una mano insinuarsi fra le sue dita, costringerlo a fermarsi con una stretta lieve. La sentì guidarlo nel voltarsi, e poi la sentì sfiorargli la pelle. Lentamente. Come una carezza leggera. La sentì indugiare sulle pieghe dell’haori, accompagnare la stoffa verso il basso, liberandogli il torace. La sentì seguire i contorni dei muscoli, il rilievo leggero dei tendini e delle vene. Sentì la mano svanire, sostituita dall’aria e poi riapparire. Movimento inverso. Una carezza che sale, portando con sé la morbidezza di un abito. La gustò sfiorargli le clavicole, sistemare lo scollo accarezzandogli con le unghie la gola di uomo. La sentì svanire dalla sua pelle, solleticandolo dalla stoffa che chiudeva. Quando anche l’ultima piega dell’obi fu lisciata, Shin raccolse quella mano che gli aveva dato brividi intensi, passionali, e la portò alle labbra.

 

“Dovevi almeno essere presentabile…”

 

Homoe deviò il sorriso dei suoi occhi, concentrandosi sul motivo dell’haori che stringeva in mano. Per fortuna che, vista la situazione, aveva scelto di indossare un kimono dai motivi maschili. Tuttavia, come aveva fatto a passarle per la testa quell’idea? Eppure…Era stato un attimo. Non se ne era neanche resa conto, e già stava accarezzando il suo corpo, lo stava privando dell’haori indugiando volutamente sulla pelle che scopriva, sui muscoli che lentamente stavano riprendendo tono. Si era allontanata da lui a malincuore, per disfarsi del più esterno dei suoi kimoni e poi riprendere quel gioco di seduzione. Di eccitazione. Le spalle salde, il collo dritto con la linea della trachea che scende fino al petto. E poi ancora più giù. Era tornata sulla stoffa. Lo aveva solleticato con finta innocenza. Aveva sistemato con minuzia estenuante ogni piega, solo per ingannare il tatto. Solo per compiacersi dei brividi leggeri che gli suscitava. E adesso, si ritrovava con le sue labbra sulla mano, con il suo respiro sulla pelle…E con i suoi occhi a sorriderle. Belli. Belli come non le erano mai sembrati. Felici. Maliziosi. Velati di un qualcosa di imprecisato.

 

“E comunque…” scosse la testa e ritrasse la mano, suscitando una smorfia nel ragazzo. Ma come poteva dispiacersi, se poi lei gli sorrideva a quel modo? Compiaciuta e furba. Astuta. Perfida. Provocante. Homoe risalì con la punta dell’artiglio il profilo della sua mandibola, la fossetta del mento, le labbra. Si avvicinò a lui fino a sfiorargli il collo con i capelli e a respirare sul suo respiro.

 

“…qualunque cosa tu abbia in mente, prima devi ricevere l’approvazione del tuo medico”.

 

 

*****

 

 

Usignolo.

Un trillo melodico. Leggero. Nel silenzio della camera. I morsetti mandarono quello scricchiolio fugace. Magico. Era la cosa che più l’aveva colpita, di quella stanza: i tatami più esterni, ai limiti delle pareti, costruiti in modo tale che cantassero. Un vero canto di usignolo. Un pigolio leggero e gradevole. Morsetti e chiodi che scricchiolano in modo armonico. Cigolio musicale. Rilassante. Lieve come il pigolio di un pulcino; intenso come il gorgheggio di un uccello.

 

Usignolo. E la fusuma scorre lieve nel suo telaio. Scorre avanti. Silenzio. Scorre indietro. Un colpo sordo. Attutito. Usignolo. Un ultimo trillo. Poi silenzio. Aria fresca sul viso. Mani contorte sulle braccia. Respiro. Lento. Per rilassarsi. Per calmare ansia e paure. Alessandra chiuse gli occhi, rialzando appena la testa. Non occorreva che si voltasse. Sapeva perfettamente chi fosse entrato. Solo lui avrebbe potuto andare a cercarla a quell’ora di notte. Solo lui avrebbe potuto seguire il suo odore fino a quella stanza ed entrare in quel modo. Solo lui, adesso, poteva restare così, immobile alle sue spalle; muto. Lui: Sesshomaru.

 

“…Perché non mi hai detto niente?...”

 

Niente. Per lui era come se non fosse successo niente. Se Alessandra fosse rimasta nella sua stanza da letto, lui si sarebbe coricato al suo fianco e avrebbe riposato con lei senza dirle una parola. Ne era sicura. Forse avrebbe addotto la scusa che credeva dormisse, quando lei sapeva benissimo che il suo fiuto gli permetteva di cogliere le differenze fra la veglia e il sonno. Non le avrebbe detto niente, e lei si sarebbe trovata di fronte la realtà nel giro di un respiro. Lo avrebbe visto indossare l’armatura, soppesare al fianco le katane; avrebbe visto la sua pelliccia drappeggiata con grazia sulla sua spalla, al suo posto dopo mesi che non la portava. Lo avrebbe osservato ravvivarsi i capelli d’argento e raddrizzare le spalle nel sua solita postura fiera. Lo avrebbe guardato andarsene. Senza sapere esattamente cosa significasse quell’abbigliamento. Lo avrebbe guardato sparire oltre i battenti dell’ingresso principale, con gran parte dell’esercito. E solo allora a avrebbe capito. Solo allora le avrebbero spiegato. Troppo tardi. Troppo tardi per dirgli arrivederci. Troppo tardi per dirgli addio.

 

Alessandra indugiò con lo sguardo sulle cicatrici che le granate avevano prodotto nella terra. Solchi scuri, quasi indistinguibili nel riverbero lunare. Solchi neri e rossi. Artigliate di ferro. Rivide in un brivido quella testa rotolata al centro della piazza d’armi. Rivide quegli occhi sbarrati, quel viso deturpato e abbruttito dalle percosse. Rivide l’orbita oculare sinistra annerita da una bruciatura spaventosa; la palpebra orami inesistente e il sangue rappreso. L’occhio…l’occhio sinistro non c’era più. Trapassato da qualcosa che aveva incendiato la pelle e poi estratto il bulbo. Risentì l’orrore chiuderle lo stomaco. Risalire nella gola in un conato che non ebbe neanche la forza di formarsi. Brusio attorno a lei. Sommesso. Sgomento. La testa era rotolata all’improvviso nella piazza d’armi, e con lei una freccia con una pergamena. Un invito. Una sfida. L’ultimo scontro.

 

Kumamoto aveva fissato attonito la testa del soldato che aveva inviato presso gli altri Clan a riferire della situazione. Lo credeva ormai vicino a Yezo. E invece, aveva scoperto che aveva consumato le sue giornate nelle torture dei loro nemici. Aveva stretto i denti in uno scricchiolio innaturale. Non lo aveva previsto. Dannazione a lui! Non si era aspettato che Morigawa presagisse una mossa simile, ma che in realtà era dannatamente ovvia. Da copione. La stessa di quattrocento anni prima. Kumamoto avrebbe voluto poter tornare indietro, e riparare a quell’errore. Avrebbe voluto poter cambiare le cose. Avrebbe voluto riveder vivo quel soldato. Non aveva mosso un muscolo, ma gli occhi gli si erano inumiditi mentre alcuni suoi uomini raccoglievano il macabro resto e lo avvolgevano in un anonimo sacco di juta. Ecco che fine faceva il soldato che aveva dato la vita per un piano del suo signore: una testa in un anonimo sacco. Niente. Era morto per non esser neanche ricordato.

 

Kumamoto aveva stretto la pergamena che un sodato gli aveva portato e, con voce roca, aveva ordinato che fossero tributati i più alti onori a quel misero resto: non si stava portando una vittima, si stava portando un eroe. Si era voltato verso il sunoko. In piedi alla sommità del kizashi stava Sesshomaru. Serio. Teso. Terribile. Kumamoto aveva sentito un brivido percorrergli la schiena. Quel ragazzo era capace di incutere un soggezione impressionante. Forse ancora maggiore di Inutaisho. E il vuoto che si scorgeva nelle sue iridi contribuiva ad aumentare l’effetto di imperturbabilità.

 

Alessandra aveva visto il generale raggiungere il Principe, scambiarsi alcune parole e poi, dopo un gesto secco della mano, Sesshomaru si era precipitato all’interno del palazzo con Kumamoto e da lì a poco anche gli altri generali e i capi alleati era entrati alla spicciolata nel palazzo. Per il resto della giornata non c’era stato nessun movimento da parte avversaria, tanto che Sesshomaru aveva dato l’ordine di allentare l’attenzione. Meno sentinelle, ma per la maggior parte concentrate sulla muraglia principale. Il demone, invece, era rimasto in consiglio di guerra fino a quell’ora. La mezzanotte doveva già essere passata da molto, ma Alessandra non era proprio riuscita a prendere sonno. Non ci aveva neanche provato.

 

Se non fosse stato per un curioso scherzo del destino, non avrebbe neanche saputo che quella poteva essere l’ultima notte che passava con lui. Per caso. Era stato tutto un caso. Perchè lei non avrebbe dovuto trovarsi lì, ma all’ospedale. Non era previsto che si allontanasse prima per prendere un bagno e poi raggiungesse gli altri. Quando la porta della sala da pranzo privata del Principe si era aperta lei teoricamente non doveva trovarsi lì. Era ancora troppo presto. Se solo lo avesse intuito probabilmente Sesshomaru non avrebbe mai acconsentito a quella prova. Inuyasha, Kagome e Sango erano sobbalzati nel vedere comparire sulla porta il Principe Shin in perfetta tenuta da battaglia.

 

“Cosa vuoi, dannato?”. Inuyasha gli aveva ringhiato contro. Non aveva un motivo profondo per odiarlo, e sinceramente non capiva perché Sesshomaru avesse permesso che fosse salvato e curato da Alessandra e Homoe, ma non gli interessava saperlo. Gli bastava che fosse un nemico, e che vivesse, mentre i suoi amici rischiavano la vita ogni istante. Aveva fatto scroccare le nocche e in due salti gli era stato davanti. Bocca aperta in un nuovo insulto, quando le parole gli erano morte in gola. A pochi centimetri da suo viso due occhi blu lo avevano fissato divertiti. Due occhi blu sfacciati e maliziosi. Gli occhi di Miroku.

 

“Ma che diavolo…?!” Non aveva potuto terminare la frase che nella stanza era entrato anche Shin, compiaciuto nel riscontrare che il travestimento, ad una certa distanza, reggeva benissimo. Inuyasha aveva incorciato le braccia sul petto, stizzito. Non gli andava proprio l’idea di essersi fatto imbrogliare cos’ facilmente, ma doveva ammettere che il travestimento era davvero molto realistico. E anche le ragazze ne erano convenute. Con l’armatura dei Signori del Kansai, i capelli sciolti, il kimono da battaglia e la postura rigida e dritta Miroku poteva davvero esser scambiato per Shin. La frangia era stata domata, e il corto codino sciolto, con grande dispiacere del monaco. L’unica cosa cui non aveva potuto rinunciare e che s’intravedeva appena nell’ampia manica del kimono nero era il rosario che era costretto a portare sul braccio destro.

 

Alessandra non aveva capito il motivo di quella mascherata, per altro troppo accurata perché fosse solo uno scherzo. Però aveva un brutto presentimento. Bruttissimo. C’era un’espressione troppo strana sul viso del monaco. Dov’era finita la sua eterna malizia, la sua costante sfacciataggine? Sorrideva in modo forzato, intavolava una conversazione neutra. Falsa. Dannatamente falsa. Era teso, nervoso; continuava a lanciare occhiate a Shin che si era seduto con loro e cercava di attirare l’attenzione di Inuyasha. Era evasivo sul perché del travestimento; monosillabi e parole strascicate.

 

Alessandra ne era stata sicura quando Jacken si era presentato nella stanza gracchiando che Sesshomaru li aveva convocati da lì a un’ora per discutere con loro. Nascondevano qualcosa, impossibile mentire ormai. Aveva visto benissimo l’occhiata omicida che Miroku aveva lanciato al demonietto e aveva visto Jacken affrettarsi a lasciare la stanza, tremante e sudato. Basta. Qualcosa dentro di lei si era ribellato. Si era spezzato. Le menzogne cui la relazione con il Principe la costringevano erano già sufficienti da sopportare, ma vivere nell’ignoranza di ciò che le succedeva attorno era orami inammissibile.

 

Aveva posato con una calma innaturale la tazza sul tavolo e aveva scandito chiaramente la richiesta di spiegazioni. Tono neutro e fermo. Deciso. Inuyasha aveva arricciato la bocca in un mezzo sorriso. Se Alessandra si fosse potuta vedere allo specchio, in quel momento, avrebbe visto nei suoi occhi la luce assassina che attraversava l’ambra di Sesshomaru quando qualcosa lo contrariava. Occhi determinati e dura. Occhi capaci di soggiogare. Di comandare. E la cosa che più lo divertiva era il fatto che lei probabilmente non se ne rendeva nemmeno conto.

 

Shin e Miroku avevano provato un brivido davanti alla sua apparente calma. Avevano visto benissimo le sue mani stringere la porcellana, cercare inutilmente di incidere la superficie della tazza con le unghie. Sesshomaru era stato categorico: non una sola parola doveva uscire dalla sala del consiglio, ma vederla in quello stato era un qualcosa che straziava il cuore di Miroku. Al diavolo anche gli ordini del Principe! Lui non era certo tenuto a ubbidirgli; lui si trovava lì e aveva offerto il suo aiuto solo perché in quella storia, in qualche modo, era coinvolto anche Inuyasha.

 

Miroku aveva scansato malamente l’inuyoukai e aveva posto fine in un attimo ai suoi tentativi di farlo tacere. Se voleva che collaborasse, il prezzo da pagare era quello: la verità per Alessandra. Shin aveva sospirato rassegnato. Si giocava la testa, ma in definitiva gli andava bene comunque. Tanto più che, nel giro di poche ore, lo avrebbe comunque saputo. Anticipare di poco non avrebbe cambiato nulla. Il demone si era passato una mano nei capelli, scompigliando la frangia e sistemandosi meglio sullo zabuton. Doveva trovare le parole adatte per spiegare il piano che avevano escogitato.

 

Quando aveva fatto irruzione nella sala del consiglio, i generali erano scattati in piedi e dopo un primo istante di smarrimento avevano iniziato a urlargli contro improbi e ingiurie. Shin non aveva sentito nulla. Aveva continuata a fissare Sesshomaru, seduto a una estremità del tavolo, composto e incurante del frastuono che si era creato attorno a lui. Fissava il foglio che teneva in mano, come se potesse realmente leggere i caratteri che portava. Non aveva fatto una piega neanche quando Shin aveva insinuato la sua voce fra le molte che riempivano la stanza. Diceva di avere un piano, diceva che poteva offrigli informazioni utili; diceva che lo avrebbe aiutato, ma in cambio voleva la salvezza di sua madre e dei suoi fratelli.

 

Risate. Di scherno. Di sufficienza. I generali gli avevano concesso il loro disprezzo. Forse non si era ancora reso conto di essere un ostaggio di Sesshomaru-sama e che quello che lui offriva loro glielo avrebbero comunque strappato con la forza se necessario? Shin risentì alcune mani afferrargli saldamente i polsi e rivide un generale rotolare malamente a terra, sbattutovi da un pugno di Koga. Il giovane ookami sembrava fidarsi di lui. Non volle indagare sull’immediato il motivo, anche se un sospetto aveva preso forma nella sua mente. Veloce e dolorosa. Ovvio.

 

Approfittando del momento di sorpresa che la reazione del Principe degli Yoro aveva provocato, Shin era riuscito a raggiungere Sesshomaru. solo a quel punto il demone ava rialzato gli occhi, freddandolo. Shin si era chiesto come potessero gli occhi di un cieco essere carichi di una tale soggezione. Si era sentito schiacciare, perforare l’anima. E tuttavia aveva resistito, stoico, raddrizzando le spalle e aveva ripreso a parlare con voce ferma e determinata. La voce di un Principe.

 

La voce che, assieme alla testa del soldato, fosse arrivata anche una lettera di sfida era corsa veloce per tutto il palazzo. Morigawa era stanco di consumare le giornate nell’assedio. La sua brama di vendetta lo stava portando a dimenticare la prudenza e a considerare il fatto che ormai mancava davvero poco a far crollare il palazzo, quasi totalmente privo di viveri e incapacitato a procurarsene. Non lo aveva neanche ipotizzato. Da quando aveva avuto fra le mani quel soldato, il suo solo pensiero era stato porre fine alla guerra. Con la sua vittoria. Dapprima contava sull’esistenza di un passaggio segreto che gli avrebbe permesso di prendere il Principe alle spalle. Svanita quell’idea, aveva risolto per un’ultimo, decisivo scontro in campo aperto: tre eserciti si sarebbero scontrati, il giorno dopo nella piana a Sud-Est del palazzo. Se Sesshomaru voleva chiudere la questione, che venisse con i suoi uomini. Altrimenti sarebbe stato solo un infame vigliacco, indegno di titolo di Primo, indegno di esser chiamato Principe dei demoni. Indegno di suo padre.

 

Morigawa sapeva come muoversi, cosa stuzzicare, cosa insinuare. E le sue parole avevano sortito l’effetto voluto. Sesshomaru aveva accettato la richiesta di scontro, pregustando già la possibilità di veder rotolare nella polvere il cadavere del suo avversario. L’unica cosa da definire era come ripartire lo forze, decidere la tattica migliore da adottare e scegliere che avrebbe assunto il potere durante la sua assenza. Morigawa aveva fatto togliere l’assedio, e l’accampamento si era effettivamente spostato, ma non per questo non ci si doveva aspettare una trappola, che la sfida fosse solo un espediente per allontanare il grosso dell’esercito da palazzo e prendere l’edificio senza troppa difficoltà.

 

Shin aveva confermato ogni parola. Sapeva benissimo che suo padre, in definitiva, bramava il confronto diretto con Sesshomaru, ma non poteva permettere che per un capriccio di una mente ormai smarrita i suoi fratelli rischiassero di venir uccisi. Se Sesshomaru lo avesse portato con lui, invece, avrebbe cercato di negoziare. Vedendolo vivo, ne era sicuro, Yashi non si sarebbe mai sognato di lanciare la punta all’attacco. Non poteva garantire la resa dell’esercito, ma poteva assicurare la fedeltà di un buon numero di uomini alla sua voce e in più era da considerare il fattore sorpresa che il riapparire del principe del Kansai avrebbe suscitato. Shin non avrebbe tolto a Sesshomaru il confronto con suo padre né sarebbero intervenuti lui o i suoi fratelli. Gli chiedeva solo di cercar di evitare la strage della sua gente.

 

Sesshomaru, alla fine, si era ritrovato ad ascoltare l’ansimare sommesso del demone. Aveva dato fondo a tutte le sue forze per parlare senza rischiare di venir interrotto. E in quel momento era davanti a lui, in attesa di una sua parola. Se avesse rifiutato, cosa sarebbe successo? Non sprecò nemmeno il tempo alla ricerca di una risposta. Non gli interessava. Riportò di nuovo al sua attenzione sui presenti e gli ordinò di sedersi e spiegare dettagliatamente il suo piano. Una scelta che aveva decretato lo sconcerto e le proteste di alcuni generali, ma il Principe era stato spietato, tagliente con la sua voce inespressiva: se avevano un piano da proporre, lo facessero subito. Altrimenti, lui non era intenzionato a perder tempo con le loro lamentele futili e inconcludenti. Li aveva rimessi in riga in un istante. E Shni aveva provato una fortissima ammirazione e invidia nei confronti di Sesshomaru.

 

Alla fine, il suo piano d’attacco era stato accettato, con una sola variante voluta caparbiamente da Homoe: il Principe del Kansai non era minimamente in grado di scendere in campo. O si trovava una soluzione o Sesshomaru poteva dire addio alla carta del principe redivivo. Era stato a quel punto che Koga aveva proposto di sostituire Shin con Miroku. Il demone e il monaco si somigliavano parecchio e, con i dovuti accorgimento, l’inganno sarebbe stato credibile, almeno da lontano; inoltre il tutto sarebbe stato reso più realistico dall’odore residuo di Shin sugli abiti che l’houshi avrebbe indossato.

 

Quello era il piano: Sesshomaru si sarebbe presentato alla testa del suo esercito all’appuntamento e Miroku avrebbe cercato di intermediare con i Principi nemici spacciandosi per Shin. Forse sarebbe riuscito forse no; l’unico dato certo era che il Principe avrebbe dovuto ingaggiar battaglia con Morigawa. Era impensabile che il demone, anche se solo, anche se i suoi figli lo avessero abbandonato, rinunciasse a battersi con il figlio di Inutaisho erano quattro secoli che pregustava e pianificava la sua vendetta. Avere Sesshomaru davanti agli occhi, cieco e quindi quasi inerme, era come offrirgli la vittoria su un piatto d’argento. Perché il Principe non sarebbe sopravvissuto.

 

Alessandra aveva deglutito a vuoto alla fine. Le parole di Shin le erano scese in gola, nello stomaco, in crampi che le contorcevano l’anima, in ansia che le chiudeva il respiro. Non sentiva più nulla. Non voleva capire più nulla. Si era alzata con un gesto rigido, come se stesse trascinando con sé qualcosa di pesantissimo. Si era alzata ed era scivolata fuori dalla stanza ignorando i richiami dei suoi amici. Inuyasha le si era parato davanti un attimo prima che uscisse sull’engawa, ma alla fine era stato costretto a lasciarla andare. Nei suoi occhi aveva letto dolore, paura, angoscia. Sesshomaru non le aveva detto nulla. Aveva fatto in modo che lei non ne sapesse nulla. Le aveva volutamente nascosto quella lettera di sfida. All’ospedale, Alessandra non sarebbe mai venuta a conoscenza in fretta della proposta di Morigawa e il fatto che rientrasse sempre che il palazzo già dormiva avrebbe permesso al demone di mantenere più a lungo il segreto. Alessandra non avrebbe parlato con nessuno fino alla mattina dopo, e nessun cortigiano si sarebbe mai scomodato per informare dell’accaduto una ningen.

 

“…Perché continui a tenermi fuori dalla tua vita?...”

 

Si strinse le spalle in un abbraccio. Avrebbe dovuto essere forte, lo sapeva bene. Forte e indifferente, per fargli vedere che i suoi timori era infondati, che lei era perfettamente in grado di gestire le emozioni che quella notizia le avrebbero trasmesso. Risoluta. Fredda. Controllata. Perfetta. Perfetta com’era lui. Si morse un labbro a sangue, deglutendo due, tre volte. A fatica. Era difficile. Era dannatamente difficile. Lo sapeva. Lo aveva sempre immaginato. Lo aveva sempre visto. Qualunque cosa succedesse a palazzo, lui non la informava, non la coinvolgeva. Lasciava che si occupasse dei feriti, ma non le permetteva di avvicinarsi alla sua vita militare. Una sola concessione: quando Morigawa aveva iniziato a impiegare le granate, Sesshomaru era stato costretto ad ascoltarla, a farla entrare per un istante nel mondo militare. Alessandra lo aveva aspettato nello studio quella notte, ben decisa a rifiutarsi di coricarsi se prima lui non l’avesse ascoltata. Ascoltata davvero. Perché lei conosceva una possibile difesa, lei conosceva quelle armi e sapeva come arginarle. Come tentare almeno. Aveva dovuto cedere. L’inuyoukai aveva dovuto cedere e ascoltarla. L’unica volta che avesse parlato con lei di guerra trattandola come un generale. L’unica volta in cui Alessandra si era sentita finalmente utile. A lui.

 

Sesshomaru non parlava. Non rispondeva. Perché non l’aveva coinvolta? Non erano cose da donne, le guerre. Non era sua competenza l’intendersi di strategia militare; lei non era in grado di seguire quei discorsi tecnici e contorti Lei non doveva interessarsi di armi e battaglioni; lei non doveva sapere nulla di guerra…Lei non doveva soffrire. Lei non doveva essere in pericolo. Piegò la testa di lato. La voleva proteggere. Da tutto. E da se stesso. Soprattutto da lui. Dal demone che era, da quella parte ferina e violenta che Alessandra non aveva mai conosciuto. E che non avrebbe mai dovuto vedere.

 

Tenerla fuori dalla sua vita…Non era così. Lui non voleva affatto allontanarla, relegarla in un angolo della sua esistenza. La voleva sempre. Presente. Costante. Rassicurante. La voleva e basta. Ma non poteva dirle tutto, non poteva rivelarle le ombre della sua natura. Non poteva raccontarle delle stragi che aveva perpetrato in passato, senza il minimo rimorso, senza la più lontana esitazione. Non poteva dirle di aver ucciso in modo indiscriminato uomini e donne, vecchi e bambini solo per capriccio. Per noia. Non poteva dirle di essere morte per chiunque gli avesse attraversato la strada. Bastava che lui lo volesse, e chiunque, colpevole o innocente, periva sotto i suoi artigli. Un gesto veloce quanto il suo respiro freddo. Spietato.

 

Non poteva dirle l’orrore che lo accompagnava e per cui lui non provava repulsione. Non poteva dirle di aver avuto la violenza come amante senza neanche che la voce si incrinasse. Non poteva dirle nulla, e allora taceva e la teneva lontana. Lontana da quello che era; lontana da una parte di lui di cui era sempre andato orgoglioso, e che adesso non sapeva come mostrare. La notte che lo aveva visto uccidere per la prima volta Alessandra aveva solo sfiorato la sua reale essenza. E ne era rimastra traumatizzata. Sesshomaru ricordava nitidamente lo stato di apatia in cui era caduta, e non voleva rischiare. Non voleva ferirla. Per questo aveva taciuto. Per questo aveva cercato di nasconderle tutto.

 

Chiuse gli occhi, respirando l’aria della notte che gli arrivava con l’odore di lei. La vide: in piedi, accanto alla finestra aperta. Doveva avere il suo kimono tagliato corto e i capelli raccolti; non gli scioglieva quasi mai. Peccato. Erano belli i suoi capelli. Molto belli. Gli piaceva intrecciargli ai suoi artigli, gli piaceva percorrerli in tutta la loro lunghezza, dalle punte fino all’attaccatura per poi massaggiare dolcemente il cuoio capelluto. Gli piaceva il modo in cui lei gettava indietro la testa a quella carezza, il modo in cui le sue labbra dovevano schiudersi in un mugolio di rilassamento. Avrebbe voluto vedere la sua espressione, in quei momenti. Avrebbe voluto vedere i suoi sorrisi, i suoi occhi, la sua determinazione, le labbra arricciate da un broncio di bambina quando era offesa. Avrebbe voluto vedere le sue lacrime, e non dover immaginarle scorrere sulle sue guance. Lucide. Accecanti. Intense nell’odore di acqua e sale. Avrebbe voluto vederle, per poterle asciugare, e non doverle ricordare. Come in quel momento. Perché, lui lo sapeva bene, Alessandra stava piangendo. Silenziosa. Disperata.

 

Alessandra lo sentì avvicinarsi. Sentì la punta del suo artiglio sfiorare la stoffa dl kimono. Delicatezza. Sesshomaru risalì lungo la colonna vertebrale premendo appena l’indice per intuire lo scorrere delle vertebre. Risalì con lentezza esasperante, facendole fremere il respiro. Una smorfia leggerissima gli incurvò le labbra. Era arrivato al date-eri. Poteva scegliere: ridiscendere o continuare. Doveva scegliere. Sfiorò la base del collo, insinuando il polpastrello sotto lo scollo. La ragazza ebbe un brivido, e il respiro si trasformò. Basso, difficile, irregolare. Il suo dito era freddo, gelido. Un brivido di eccitazione.

 

Alessandra sentì l’artiglio posarsi sulla sua nuca. Dal basso verso l’alto. Un brivido intenso. La stava torturando piano. Lentamente. Con gusto. Dall’alto al basso. Il suo respiro a sfiorarle il collo, le solletica la pelle. Lo sentì. Si era chinato su di lei. Dietro. E adesso risaliva piano fino al suo orecchio, sfiorandola appena con la punta del naso, regalandole solo brividi, quasi nessun contatto. L’artiglio continuava. Malvagio. Non smetteva di percorrerle la nuca, intrecciandosi ai suoi capelli. Continuava. Il respiro ormai alto.

 

Sesshomaru sorrise. aveva incrociato un ostacolo, una massa di capelli raccolti. Spinse con lentezza l’ago crinale. Un tonfo lievissimo, e i capelli di Alessandra furono liberi. Ricaddero a coprirle la nuca, a sfiorale il collo, a nasconderle la pelle. Ricaddero sulla mano di lui. Sesshomaru li strinse, li arrotolò alle dita, lasciò che gli avvinghiassero il polso. Li rialzò in modo disordinato e li premette contro la sua testa. Lentamente. Lentamente la sua mano la massaggiava. Alessandra chiuse gli occhi. Si abbandonò a lui, reclinando appena la testa. Gli offriva la gola, le labbra lucide e socchiuse. Gli affidava il suo corpo. Alle sue carezze. A quel tocco dannatamente eccitante.

 

Un uomo. Quello che aveva alle spalle, che le stuzzicava la pelle, che le percorreva la schiena, che le respirava sul collo era un uomo. Svanito il ragazzo; mai esistito il demone. Era solo un uomo. un uomo innamorato. Lei lo sapeva. Ma lo sapeva anche lui. Sesshomaru si era accorto che, lentamente, con il passare dei mesi, le sue mani aveva perso la loro timidezza. Si erano fatte più audaci, vogliose di toccare, di percorrere quel corpo che dormiva accanto a lui. Si era accorto che il respiro della ragazza sul collo, nel sonno, non lo lasciava indifferente. Avrebbe voluto assaggiare la sua pelle, avrebbe voluto accarezzare il suo copro nudo. Avrebbe voluto la sensazione della loro pelle che si sfiora, che si tocca, che si abbraccia. L’ostacolo del kimono stava diventando una costrizione snervante. Un impedimento che avrebbe voluto abbattere. Strappare.

 

Si era accorto di desiderarla. Di volerla con un’intensità che non si sarebbe mai aspettato di poter provare. Eppure, sentiva di non volerla solamente. Non era semplice desiderio carnale. Non solo. Perché altrimenti l’avrebbe violata senza preoccuparsi di lei. L’avrebbe avuta senza possibilità che lei si ribellasse. Non voleva. Non in quel modo. Cosa voleva davvero da lei? Voleva il suo corpo, il suo viso trasfigurato dal dolore e dal piacere, voleva i suoi gemiti? Voleva sentirsi supplicare, sentirla in suo potere come doveva essere ciò che lui voleva? Cosa voleva? Cosa?!

 

Si staccò da lei, ma continuò a torturarle la nuca. Era bella la sua nuca. La ricordava bene. Aggraziata, accarezzata da piccoli ciuffi di capelli che non riusciva mai a domare del tutto. Era bella. La vedeva nitida nella sua mente. E rivedeva i suoi capelli sciolti. Li sentiva scorrere di seta fra gli artigli. Li liberò lentamente, scendendo fino alle punte e portandosene una ciocca alle labbra. Morbidi. Freschi. Umidi. Doveva essersi da poco concessa un bagno. I suoi capelli avevano ancora una leggera umidità. Conturbante. Sensuale. Eccitante.

 

Non era solo divertimento. Non era solo basso istinto. C’era qualcos’altro. Qualcosa di selvaggio e delicato. Qualcosa che gliela faceva desiderare con ogni fibra e gli impediva di prenderla con la forza. Qualcosa che lo spingeva a spiare sempre la sua espressione; ogni suo gesto, fin nel più innocente, era compiuto solo dopo che aveva sentito che non c’era timore a mescolarsi con il suo odore. E in quel momento l’odore che sentiva era di eccitazione e paura. Odore di donna e di bambina.

 

Alessandra inghiottì rumorosamente. Faceva fatica. Una maledetta fatica. Non poteva pensare che quelle sarebbero potute essere le ultime carezze che le donava. Non riusciva a immaginare il freddo del suo letto, la mancanza del suo copro. Non riusciva a immaginare la mancanza di lui. Non voleva immaginarla. Non poteva. Non era giusto. Perché doveva succedere? Perché?! Aveva già perso i suoi genitori e suo fratello. Aveva già perso se stessa una volta. Perché adesso doveva perdere anche lui? Per quale crudele gioco lui doveva andarsene? Via, lontano da lei. Preso. Rubato. Strappato. Sottratto alle sue braccia, alla sua bocca. Violentata la sua anima. Affondò le unghie nella stoffa. Lacrime sul viso. Lacrime in gola.

 

...Sesshomaru...

 

Ruvido. Freddo. Delicato. Lento. Qualcosa sulla guancia. Sulla sua guancia. Passava e ritornava. Una, due, tre volte. Si portava via il sale; si portava via la sua debolezza, il suo dolore. Le braccia si rilassarono. Svuotate. Si stesero lungo i fianchi, seguirono il contorno del suo braccio che le cingeva la vita e l’attirava a lui.

 

Ora era dietro l’orecchio, sulla carne tenera del collo, scendeva lungo le vertebre cervicali. Le zanne si insinuavano fra il rame, sfioravano appena la pelle sempre più calda, sempre più coinvolta. La stoffa scivolò sulla pelle, scoprì la spalla delicata. Spalle che troppo a lungo avevano sopportato il dolore e la solitudine. Spalle sottili, ma forti come le sue nell’affrontar il destino. Sesshomaru le sfiorò con le labbra, lasciò che i suoi capelli le solleticassero la pelle.

 

Alessandra non sa come sia successo. Un istante prima Sesshomaru era dietro di lei, che le baciava la schiena, che le saggiava la pelle con i suoi artigli. Affilati, ma inoffensivi. Premurosi. Ora eccitanti ora innocenti. Un istante prima era in piedi, gli occhi sulla piazza d’armi. Un istante prima, lui era alle sue spalle. Adesso, Alessandra era a terra, con il kimono scivolato a scoprirle le spalle e a mostrale il decolté fino all’attaccatura del seno. Adesso, lei era stesa su quei tatami che sapevano di polvere e di chiuso. Adesso, lui era sopra di lei. Il respiro irregolare, i capelli spettinati dalle mani irriverenti della ragazza. La sua bocca socchiusa, le spalle tese a reggere il suo peso. La sovrastava, la dominava. Lui sopra di lei. A petto nudo. La giacca del kimono di Sesshomaru era a terra. Non ricorda nemmeno lui quando sia scivolata dalla sua pelle. Non gli interessa ricordare quel particolare insignificante.

 

Tornò a impossessarsi delle sue labbra, delicato, ma passionale. Desideroso, ma non prepotente. Rispettoso anche se affamato. Di lei. Della sua pelle. Del suo corpo. Della sua anima. È fuoco, è forza. Brucia. Devasta. Ma non scotta. Sesshomaru non ha ancora perso totalmente il controllo. È calmo, pacato, attento. La baciò sulla bocca, scese lungo il collo, lungo la linea della gola. Scese sul petto, sfiorò la stoffa che le celava i seni. Non proseguì. Risalì fino alla spalla. Scie di fuoco. Baci e solchi leggeri che le fecero accelerare il respiro, che le velavano la pelle di sudore. Alessandra sentì le mani del demone sui fianchi. Le sentì insinuarsi nell’incavo della schiena e risalire lungo la stoffa. Le sentì stringerla al petto di Sesshomaru, forte e delicato. Odore di pelle, odore di uomo. Il torace prestante schiacciava il suo seno. Le mani bramose si infilavano nelle ampie maniche. Sesshomaru la brama. Sesshomaru la desidera. Lo sapeva. Lo sentiva. Lo vide. Nell’ombra che gli velava lo sguardo.

 

Il demone si fermò all’improvviso. Qualcosa di strano. Di sbagliato. Sollevò la manica sinistra del kimono scoprendo la fasciatura. Garza, lino. Stoffa sotto gli artigli. Stoffa che gli sottraeva la sua pelle. Stoffa che celava la sua pelle profanata. Sentì la collera montare, sentì il sangue affluire vorticoso al cervello, sentì formarsi un ringhio sordo nella sua gola e le zanne stridere per non urlare. Non se ne era accorto. Quando si era precipitato al campo, dopo l’esplosione della granata, non si era curato di verificare che non fosse ferita. Aveva sentito la sua voce imporsi sul caos, aveva sentito i suoi ordini secchi sovrastare urla e grida concitate. L’aveva sentita viva, e il pensiero che fosse ferita non lo aveva minimamente sfiorato.

 

Sfiorò con le dita la fasciatura appena velata di un alone rossastro. Sentiva l’odore lievissimo del sangue. Il suo sangue. Un odore che non avrebbe più voluto sentire. Un odore che non doveva sentire. In un lampo, la rivide davanti a , una mano stretta al petto. Una mano graffiata dai suoi artigli. Occhi bassi. E una supplica nella voce. Sesshomaru sentì lo stomaco contrarsi. Sentì male. E le piantò in faccia i suoi occhi vuoti, come se potesse guardarla. Come se, tenendo ferme le iridi opache, il viso della ragazza potesse emergere dal nulla che vedeva. Rabbia; colpa; dolore; tristezza; desiderio. Era consapevole che i suoi occhi erano velati di qualcosa che non avrebbe mai creduto di poter provare. Qualcosa che razionalmente lo disgustava, ma che lo accendeva di vita se solo si soffermava un istante su quel pensiero. E il disgusto diventava solo un’eresia formulata da una mente troppo abituata a giudicare solo secondo parametri demoniaci. Una mente vedova di affetto da molto, moltissimo tempo. Alessandra fece scivolare la propria mano sul braccio nudo del demone. Pelle fredda e tesa. Una sensazione che le toglieva la lucidità. Il polso disegnato da graffi sottili, l’incavo del braccio, il bicipite tonico. Poi la spalla dura nello sforzo di reggerlo.

 

Fronte contro fronte. Capelli nei capelli. Bocca sulla bocca. Le mani del demone le racchiusero il viso, sfiorandole la pelle con i lunghi artigli. Scesero peccaminose sul collo, si soffermarono sullo scollo; lo ignorarono; giù, lungo i fianchi fasciati dal kimono. E intanto continuava a baciarla. Con ardore e passione. Con violenza e urgenza. Sesshomaru aveva perso il controllo. Per la prima volta nella sua vita. Per la prima volta in quattrocento anni di vita, non rispondeva più di se stesso. Non riusciva a fermarsi, non voleva fermarsi. Baciarla. Averla. Voleva solo lei. C’era solo lei nella sua mente. Sparita la guerra. Dimenticato l’onore, la brama di potere, l’orgoglio. Messo a tacere anche il suo freddo e indifferente orgoglio. Scomparsa la glacialità. Adesso, c’era solo calore. Tanto. Intenso. Acceso. Calore. Fuoco. Desiderio. Passione.

 

La voleva, non riusciva a staccare il pensiero da lei. E non la odiava. Non desiderava ucciderla perchè aveva abbattuto la sua imperturbabilità; non era adirato con lei perchè aveva svelato qualcosa di troppo fragile, di troppo umano che il demone aveva relegato nei recessi più profondi della sua anima. Dimenticato.

 

Alessandra ansimò, reclinando appena la testa e accarezzando il collo del demone, che scendeva lungo l’incavo della spalla, sul petto. Si era fermato sul suo seno. Non lo aveva scoperto, ma adesso, con la fronte appoggiata sul suo plesso solare, lei lo sentiva respirare pesantemente. Respiro caldo e affaticato. Respiro d’amante. Gli insinuò timidamente una mano fra i capelli. Seta pura. Lisci. Bellissimi al tatto. Perfetti. Sentiva la testa pulsare per l’imbarazzo, il piacere. Sentiva caldo. Molto caldo. E la testa girare in preda ad una forte vertigine. Eccitazione. Eccitazione pura. Il suo respiro galoppante sulla pelle, i canini che la sfioravano appena. Qualcosa di umido a disegnarle le vene della gola, le scapole. Il suo petto nudo. La sua pelle sudata su di lei. Le sue mani che la sfioravano, che la toccavano, che la bramavano. Sempre più intense, sempre più audaci.

 

 

*****

 

 

Aria fresca.

Gli accarezzava la pelle calda e sudata. Gli rinfrescava il petto nudo, gli sfiorava il viso all’apparenza impassibile. S’insinuava nei capelli arruffati, nelle pieghe della veste svogliatamente lasciata aperta. Vento fresco. Refrigerio. Salvezza. Per recuperare anche solo un barlume di autocontrollo. Per consolidare la scintilla che gli era balenata nell’animo. Sesshomaru lo desidera. Lo agogna. Voleva solo cercare di recuperare la sua freddezza. E’ tardi, gli ripete una vocina. È irrimediabilmente tardi. E lui lo sapeva. Lo sapeva bene. Perso. Irrimediabilmente perso in lei. Stravolto. Non riusciva a restare indifferente. E allora cercò di svuotare la mente, anche se sapeva che quella partita contro se stesso era persa. Definitivamente persa. Non poteva ignorarla. Non riusciva a ignorarla. Il fruscio della stoffa era un musica tentatrice, il respiro della ragazza che si regolarizza un sadico invito. Vorrebbe sentirlo di nuovo sulla sua pelle, aritmico, spezzato, caldo. Vorrebbe di nuovo le mani di Alessandra a esplorargli il corpo, a risvegliare ogni più piccolo centro nervoso del suo petto.

 

L’accolse fra le braccia, ostentando apaticità e continuando, cocciuto, a fissare lo sguardo fuori dalla finestra. Intenso e ancora velato di passione e desiderio. I sui occhi brillavano. Rilucevano di qualcosa di violento e mai prima d’ora conosciuto. Alessandra gli sorrise: grata per l’appoggio che la sua gamba tesa le offriva; grata per quella luce intensa che gli leggeva nello sguardo. Grata perchè si è fermato. Fermato...Sesshomaru carezzò la seta degli hakama; la mano si contrasse appena, come se dovesse forzarla per trattenerla lontana dalla carne della ragazza. Lontana da quel corpo che lo aveva fatto impazzire.

 

Si era dovuto imporre di fermarsi. Ha dovuto ricorrere a tutta la sua forza di volontà per allontanarsi da lei. Ha costretto le mani a rallentare le carezze, a ridiscendere sul tatami e conficcare le unghie delle foglie di riso pur di non tornare da lei. Ha costretto il respiro a regolarizzarsi. Piano. Con estrema lentezza. Per niente facile, con il suo odore a pochi centimetri, con Alessandra che gli respirava sulla giugulare. Una sola volta, si era detto. Un solo, ultimo bacio. Le aveva catturato le labbra con forza, con disperata urgenza. E si era allontanato con estrema lentezza, continuando a immaginare il suo viso arrossato, i suoi occhi socchiusi, il piacere nei suoi lineamenti. Avrebbe voluto vederla. Avrebbe voluto gustarsi le sue espressioni. Avrebbe voluto guardarla.

 

Si era allontanato. Con falsa decisione. Con cocciuta razionalità. Non poteva averla. Non doveva averla. Non ancora. Non in quel modo e in quel momento. Doveva reprimere il suo istinto maschile, doveva mettere a tacere il suo desiderio. Non doveva e non poteva averla solo per portarsi il ricordo di una notte sul campo di battaglia. Sbagliato e ingiusto. Soprattutto per Alessandra. Doveva cercare di proteggerla in ogni modo. Non doveva permettere al suo copro e al suo cuore di aver ragione della sua freddezza demoniaca. Non poteva averla e poi lasciarla a palazzo, preda di una corte che non aspettava altro che sentire il cambiamento dell’odore della ragazza per gridare apertamente allo scandalo. Non poteva lasciarla alla mercè di demoni spietati e indifferenti. Doveva aspettare. Doveva illudersi che avrebbero avuto molto tempo, dopo quello scontro. Doveva darle quella mendace certezza. La sicurezza che lui sarebbe tornato, e che lei lo avrebbe aspettato.

 

Alessandra lo costrinse ad abbassare lievemente il viso. Glielo accarezzò maliziosa e innocente, tracciando i graffi rosa che denotavano la sua natura demoniaca. Seguì il percorso dritto del naso, il contorno arcuato degli occhi dalle sopraciglia sottili. Ridiscese lungo lo zigomo e finalmente gli accarezzò le labbra, facendogliele schiudere appena a liberare un respiro profondo mentre chiudeva gli occhi per un istante. Doveva fermarla, o poteva dire addio al suo autocontrollo e ai suoi buoni propositi. Le strinse la mano e se la portò alle labbra. Meno pericoloso. Un semplice ed eccitante baciamano, con la pelle premuta contro la guancia e le labbra che, maliziose, sono volate a tradimento a sfiorarle le dita e il dorso.

 

Alessandra rise leggera per quel gioco di sottile seduzione. Per quel modo che aveva di amarla. Si accoccolò meglio contro il suo petto e lasciò vagare lo sguardo sulla stanza. Quando vi era entrata, dopo aver vagato svuotata di ogni emozione per i corridoi del palazzo, non vi aveva neanche prestato attenzione. Le bastava aver trovato un riparo, un luogo dove poter restare tranquilla a frenare le lacrime. A contorcere l’anima. Poi, quando era entrato Sesshomaru, aveva riconosciuto solo il mormorio dei tatami musicali. L’unico elemento conscio che avesse di quella stanza. Non sapeva neanche in che ala si trovasse, ma ha giudicare dalla vista era ancora nell’edificio riservato alla famiglia del Principe.

 

Socchiuse gli occhi, respirando l’aria fresca della notte. L’odore di polvere e chiuso si era attenuato di molto. Restava un profumo di antico, di pergamena invecchiata. Dovevano essere i primi che entravano in quella stanza da molto tempo. La luna piena permetteva di distinguere le masse scure di un tansu e di un byobu. Bagliori soffusi, per la polvere e la poca luce. Alessandra risalì con gli occhi le linee severe e slanciate del paravento, su fino al soffitto, fino alle ramma arabescate di fiori e motivi geometrici. Listelle lignee sottili e mirabilmente intagliate a comporre qui motivi. Ridiscese lungo i telai delle fusume elegantemente decorate. Paesaggi sfumati in grigio e azzurro. Rupi ammantate di neve e nebbie. Vallate soffuse di inchiostro appena accennato. Un grande cane bianco si mostrava in tutta la sua potenza: pelo folto, testa fiera, occhi rossi e intensi dalla sclera blu, coda vaporosa. Affascinante. Magnetico.

 

La karakami socchiusa lasciava intravedere un’altra stanza, forse ancora più raffinata e austera. Quella tamarinoma sorprendeva per la semplice raffinatezza dei suoi arredi e delle decorazioni. Gusto femminile, senza alcun dubbio. O comunque era stata una donna ad arredarla. Una donna decisa come il grande cane raffigurato sulla parete di fronte a lei, e femminile per la delicatezza dei paesaggi. Una donna importante. Si soffermò sul rotolo del tokonoma: aki; autunno. L’unico carattere che riuscì a decifrare. La stagione in cui quella stanza è morta.

 

Alessandra sollevò lo sguardo al demone. Sembrava che l’aria della notte l’avesse aiutato a domare il desiderio, a restituire un po’ di equilibrio alla sua mente. La ragazza avrebbe voluto chiedergli a chi apparteneva quella stanza, se forse Sesshomaru aveva anche una sorella. Avrebbe voluto conoscere ogni angolo della sua mente, ogni fibra dei suoi ricordi. Avrebbe voluto conoscere un po’ di più il suo passato. Finora, aveva saputo solo che aveva un fratello e che suo padre era morto per salvare Inuyasha e sua madre. Di sua madre, Sesshomaru non le aveva mai fatto parola, di altri possibili parenti. Sembrava che tutto il suo mondo affettivo e relazionale fosse sempre ruotato attorno a lui stesso e a Rin. Esclusa ogni altra cosa. Anche Inuyasha; meglio, mai considerato.

 

“...Questa stanza doveva essere bellissima un tempo...”

 

Frase neutra. Perfetta. Per avviare pacatamente una conversazione. Per provarci almeno. Alessandra sapeva che adesso tutto dipendeva da lui. Era Sesshomaru che doveva scegliere: poteva parlare o semplicemente assentire con la testa, e allora lei avrebbe fatto cadere ogni altro tentativo di dialogo. Perchè ormai aveva imparato che lui non parlava soprattutto per un motivo: evitare di soffrire. Quando il discorso cadeva su qualcosa di personale, Sesshomaru tendeva a chiudersi su se stesso, limitandosi a monosillabi o semplici cenni del capo. A volte, lasciava anche la stanza pur di non sentirsi costretto a rispondere ad Alessandra. Se la ragazza, ingenuamente, gli domandava qualcosa che lo riguardava troppo da vicino e che era collegata con la sua infanzia, si alzava senza dire una parola e usciva. Le prime volte Alessandra si era arrabbiata, ma quando aveva cercato di fermarlo, esasperata da quel suo comportamento irrispettoso nei suoi confronti, aveva letto dolore nei suoi occhi e le sue parole erano state un sussurro strano. Innaturale. Provato.

 

“Non costringermi a risponderti...”

 

Da quel momento, Alessandra cercava di evitare qualsiasi domanda troppo personale, anche se dentro fremeva. Non era semplice curiosità, ma anche il desiderio di aiutarlo, di provare a capirlo, di alleviare un po’ quell’ombra triste in fondo ai suoi occhi. Per questo aveva imparato a porgli le domande in modo indiretto. Stava a lui scegliere se aprirsi o declinare, ma in quel modo non si sentiva costretto a rispondere. E Sesshomaru lo sapeva. Come sapeva che forse doveva iniziare a parlare con lei, che lei non avrebbe provato pietà per lui. Non lo avrebbe compatito con indifferenza. Sapeva che era il momento di parlare. Perchè, da quando era entrato in quella stanza, non le aveva ancora rivolto una parola. Non aveva risposto alle sue domande e non aveva detto nulla. Aveva lasciato uscire dalle labbra solo il suo respiro caldo e accelerato.

 

“Erano le stanze di mia madre”

 

...Ha detto erano...

 

Alessandra sentì il respiro fermarsi fra i denti e rimase immobile. La voce del demone era così distante, sembrava che pronunciare quelle parole gli fosse costato uno sforzo immenso, quasi avessero prosciugato le sue energie. Lo spiò di sottecchi. Il viso non aveva tradito un’emozione. La stessa espressione algida e distaccata, la stessa imperturbabilità. Sesshomaru non aveva mosso un muscolo, ma non era più lì. Non si era accorto che la ragazza lo stava osservando; non si era reso conto che i suoi occhi si erano incupiti, facendo trapelare una scintilla di dolore. Non si era accorto che Alessandra gli aveva passato le braccia attorno al busto, e ora premeva la sua testa sul suo petto. Non si era accorto di nulla. Sentiva solo i ricordi insinuarsi con prepotenza attraverso le difese della sua mente. Li sentiva bussare alla porta della sua coscienza.

 

Quella stanza...Illuminata. Inondata di un sole gentile e profumata di umido. Rivide il rosso accecante degli aceri, risentì il sapore di bosco e terra bagnata. La finestra di quella stanza spaziava sulla piazza d’armi, ma proprio lì accanto c’era l’ultimo tratto dei giardini provati. Con quel meraviglioso albero. Un albero infuocato. Rosso. Rosso come il sangue che macchiava il tatami. Si era morso nervosamente un labbro. Sua madre si sarebbe arrabbiata. Adorava quelle stanze e non permetteva a nessuno di rovinarle. Le custodiva come un gioiello. Non gli avrebbe perdonato di averle rovinate con il suo sangue. Di non essersi accorto della leggera ferita che aveva gocciolato a terra. Avrebbe dovuto aspettare, invece di entrare subito. Aspettare alcuni minuti, il tempo che si rimarginasse da sola e poi sarebbe dovuto entrare.

 

Rialzò la testolina arruffata sulla fusuma. C’erano brusii, voci, mugolii. Nessun urlo. E questo era ciò che non riusciva a sopportare. Non poteva capire. Non riusciva a capire. Si avvicinò alla fusuma fino a poggiarvi contro la testa. La carezzò con le mani sporche di terra e fango. Sfiorò la carta decorata e il legno. Non importava se poi sua madre si sarebbe arrabbiata. Ormai aveva già fatto un danno; anche se avrebbe peggiorato il tutto non gli importava. Voleva che sua madre lo sgridasse. Voleva la sua voce farsi fredda e tagliente. Voleva le sue parole dure. Voleva che lo fissasse con i suoi occhi freddi e magnetici. Voleva vederla.

 

Un inserviente lo prese in braccio un attimo prima che un guaritore facesse aprire le fusume per entrare nella camera da letto. Uno spiraglio. Dannatamente sufficiente. Sesshomaru vide sua madre stesa a letto, il bellissimo kimono macchiato di scuro, i capelli scarmigliati distesi sul cuscino. No. Doveva dire a qualcuno di ricomporglieli. Sua madre odiava mostrasi a qualcuno in disordine. Odiava apparire scomposta. Tese la piccola mano alla fessura. Vedeva la pelliccia bianca di sua madre a terra. Accartocciata. Il suo viso pallido e contratto in una smorfia appena percettibile. Vide suo padre che le stringeva la mano, che le baciava il dorso. E lei non reagiva, lei lo lasciava fare. Mentre attorno a loro si muovevano demoni. Molti demoni. Era sbagliato. Era tutto sbagliato. Sesshomaru lo sapeva. Sua madre non sopportava le effusioni soprattutto in pubblico. Era stata lei a insegnargli a controllarsi. Era stata lei a dirgli che un demone deve esser sempre padrone delle proprie emozioni. E adesso, invece, lasciava che suo padre l’accarezzasse e la baciasse davanti a estranei. Suo padre non lo aveva mai fatto. Conosceva bene la differenza di comportamento che teneva fra le stanze pubbliche e i sui alloggi privati. E solo quando erano soli con lui, Sesshomaru aveva visto sua madre abbandonare la rigidità del viso e sciogliersi in un sorriso, in una risata. Ridere come una ragazzina alla battuta che il marito le aveva sussurrato all’orecchio. Ridere gettando indietro con grazia la testa. Ridere mostrando i canini appuntiti, e concedergli un bacio appassionato.

 

Sesshomaru vide gli occhi d’oro di sua madre. Occhi freddi e stupendi. Occhi velati. Tremanti. Luccicanti. Non le aveva mai visto quello sguardo. Gli occhi di sua madre erano lucidi, e lui non poteva crederci. Non poteva credere che sua madre stesse per piangere. Che fosse una lacrima quella riga umida che le disegnava la guancia pallida. La fusuma si richiuse su quel viso e sulla mano che cercava di alzarsi verso il figlio intravisto.

 

Sesshomaru restò a fissare quella porta così grande. Enorme rispetto a lui. Rimase lì in piedi per ore, e poi si accoccolò vicino alla finestra. Le braccia sulle ginocchia strette al petto. Il visino tuffato nella stoffa del kimono sporco e strappato. Sentiva gli occhi bruciare, pizzicare. Sentiva la paura crescere lentamente. Era piccolo ancora, appena otto anni, ma aveva capito. Aveva capito che qualcosa non andava, che sua madre stava male. Molto male. E che la colpa era sua. Solo sua.

 

Restò immobile mentre le ore passavano. Nessuno si avvicinò al piccolo principe. Nessuno si preoccupò di rassicurarlo, di dirgli una parola gentile. Lo lasciarono solo nello strazio dell’angoscia e dell’ignoranza. Perchè era questo che gli faceva più male: essere lì, a pochi metri da lei, e non sapere come stava, non poter entrare nella sua stanza. Non poter spalancare la fusuma e correre da lei come faceva ogni mattina; vederla spazzolarsi i bellissimi capelli d’oro bianco, riporre il pettine d’osso intarsiato di madreperla; seguire i suoi movimenti che acconciavano le ciocche in modo semplice e perfetto. Gli piaceva guardarla prepararsi. Perchè, alla fine, sua madre lo prendeva sulle ginocchia per separarli a dovere la frangetta ribelle e rivelare la mezzaluna sulla sua fronte. Identica alla sua. Gli diceva sempre di andar fiero di quel simbolo, l’emblema del loro casato. La falce che contraddistingue i membri della famiglia inuyoukai. Il simbolo dell’eredità.

 

Sesshomaru sfiorò la fronte. Alla mattina, quando sua madre posava sempre un bacio sulla sua fronte, lui incrociava le braccia al petto e si fingeva offeso. Imbronciato. Sua madre gli diceva di non sopportare le smancerie, ma appena poteva con lui si abbandonava a baci e carezze. Nella solitudine delle stanze private. Non era affatto coerente. No. Non lo era proprio. E vedendo quel visetto arricciato dal disappunto, sua madre sorrideva divertita. Sesshomaru non riusciva a capire perchè mostrasse sempre due volti: la demone e la madre. Comunque, la venerava. Con suo padre, sua madre era tutto il suo mondo. Il suo solo universo.

 

La fusuma strusciò lentamente. Al rallentatore. Solo silenzio. Non riuscì a capire se era un bene o un male. Non voleva doverlo capire. Aspettò. Ancora silenzio. Sollevò lentamente la testolina. Oscurità. Notte fonda. A quell’ora, di solito, lui era già a letto; sua madre però quella volta non si sarebbe arrabbiata se aveva fatto un po’ tardi. Forse, lo avrebbe fatto dormire con lei. Perchè sparisse la paura provata. Non è dei demoni, la paura. Ma un cucciolo può ancora esserne preda, soprattutto nelle braccia della madre.

 

Inutaisho lo vide rialzare la testa. Nel buio, sembrava un fagottino abbandonato. Sembrava più piccolo e fragile di quanto non fosse. Sembrava terribilmente umano nei suoi occhioni d’oro lucidi e tremolanti. Il demone lo seppe subito: nel momento stesso in cui era riuscito a metterlo a fuoco, Sesshomaru aveva capito. Aveva saputo. Forse non avrebbe saputo dare un nome a quello che era successo, ma aveva capito che era qualcosa di grave, di irreparabile. Qualcosa che non si può cambiare, e che gli faceva male.

 

Inutaisho aveva avuto appena il tempo di inginocchiarsi, prima di stringere a il figlio. L’aver riconosciuto suo padre alla luce della luna, il leggere il dolore infinito nei suoi occhi bagnati e arrossati, l’alzarsi per correre da lui e farsi stringere erano state azioni autonome. Senza pensiero. Il corpo si era mosso d’istinto. E il bambino si era ritrovato contro il petto del padre, a strofinare la testa d’argento contro di lui, ad afferrarne con disperazione il kimono sgualcito e scomposto. A piangere. Sesshomaru piangeva e singhiozzava. Non occorreva che glielo dicessero. Lo sapeva. Dietro quella porta non c’era più sua madre.

 

Non sarebbe più andato da lei al mattino. Non avrebbe più seguito la sua tolettatura; non avrebbe ricevuto quel bacio tradizionale che tanto fingeva di detestare. Non avrebbe visto mai più i suoi occhi severi e austeri accendersi d’orgoglio per un suo risultato positivo, brillare di rabbia per una sua disobbedienza. Non più la solennità del suo incedere e la finezza di ogni suo gesto. Non avrebbe più camminato al suo fianco per il palazzo, con il portamento fiero che lei gli aveva insegnato.

 

Sesshomaru sentì la mano di suo padre accarezzargli la testa. Stringerselo al petto di più, come se potesse in quel modo proteggerlo dal dolore. Sentiva che gli sussurrava qualcosa. Parole basse e roche. Parole rotte da lacrime. Non voleva ascoltare. Non poteva ascoltare. Sentiva solo le sue lacrime. Sentiva solo il suo viso bagnato. Sentiva solo male. Tanto male.

 

Sesshomaru si portò una mano al viso, stropicciandosi gli occhi. Quanti anni erano che non ripensava a quel giorno? Quanti anni erano trascorsi da quando aveva fatto chiudere quella stanza? Proibito l’ingresso. Per chiunque. Chiusa. Sprangata. Dimenticata. Abbandonata nel fondo del cuore, relegata nei recessi dell’anima. Quanti anni erano che non pensava a sua madre? Molti davvero. Troppi anche per un demone. Per quel demone freddo e spietato che era diventato dopo che lei se ne era andata. Dopo che lei lo aveva lasciato solo a crescere.

 

Si passò la mano nei capelli, arruffandoli leggermente. La testa lievemente reclinata di lato. Un respiro. Due. Tre. Sguardo distante; lontano. Chiuse gli occhi. Rivedeva l’ovale perfetto di sua madre, dai tratti decisi e aggraziati. Risentiva la sua voce delicata e altera. Gli occhi d’oro e la mezzaluna in fronte. Le sottilissime strisce rosate sulle guance. Un capriccio della sua natura demoniaca, tanto erano impalpabili. La ricordava benissimo. In ogni particolare. Nella sua mente, nulla era mutato del fulgore accecante che sembrava portare sempre con .

 

Un sorriso gli storse malinconico le labbra. Suo padre aveva dannatamente ragione: lui le assomigliava molto. Davvero. Quasi una sua copia al maschile. Stessi occhi. stessa tonalità nei graffi. Stessa postura rigida e altera. Stessa falce di luna in fronte. Bastava che si soffermasse sulla sua immagine e la rivedeva. Gli mancava? Una volta avrebbe detto di no. Come sosteneva che non gli mancava suo padre. Sentimenti...Stupidi freni degli esseri umani. Adesso, mentre sentiva le mani di Alessandra massaggiargli le spalle tese e affaticate, cercare di stemperare la rigidità che lo aveva attraversato quando la sua mente era stata preda di quei ricordi...adesso non avrebbe più saputo cosa rispondere. Ricordarla non gli faceva male come quando era piccolo e lei era appena morta, ma non lo lasciva nemmeno indifferente. Sentiva una vena sottile di nostalgia. Di rimpianto. Di rassegnata mancanza.

 

Soffocò una lieve risata. Chissà come avrebbe reagito sua madre se si fosse presentato a palazzo con Alessandra. La immaginò dilatare le iridi in modo quasi doloroso, si figurò la sua voce fremente di sdegno represso. Non gli sarebbe stato facile convincere sua madre ad accettare Alessandra. Ad accogliere una ningen. Eppure, gli mancò. Gli mancò la possibilità di scontrarsi con lei; l’occasione di imporle la sua volontà. Rimpianse che non fosse più per poterla fronteggiare, per non poter vedere i suoi occhi fremere d’ira e il suo copro d’indignazione. Per non poterle mostrare la fierezza e la sicurezza di un figlio cresciuto. Di un figlio ormai uomo.

 

“Mia madre era una donna straordinaria”.

 

Alessandra lo fissò. C’era una nota malinconica nella sua voce e di reverenziale affetto. Sesshomaru doveva averla amata molto, doveva esser stata per lui un punto fermò insostituibile. Sapeva come si doveva esser sentito. Sapeva cosa si provasse nel rivivere ogni banale consuetudine, e accorgersi all’improvviso che tutto è passato e non tornerà più. Mai più. Alessandra conosceva il sapore amaro dell’impotenza, dell’incapacità a rassegnarsi. Sentiva ancora il nodo alla gola che ti impedisce di respirare. Lo aveva vissuto sulla sua pelle. E anche Sesshomaru. Allora, si strinse a lui, per dirgli con le azioni che lo capiva. Che lo comprendeva.

 

“Se vorrai, ti parlerò di lei”.

 

Non sapeva neanche lui perchè, ma voleva raccontarle della sua infanzia, di sua madre. Del suo cipiglio fiero e della dolcezza nascosta. Voleva che Alessandra riuscisse ad averne anche solo il barlume di un’idea. Voleva che, quando sentiva il nome di sua madre, la ragazza lo associasse ad un volto delicato e intenso. A un viso che lui non avrebbe mai potuto cancellare. Neanche volendo. Perchè lo rivedeva ogni volta che si specchiava. Non sapeva perchè, ma aveva bisogno di parlare. E dopo sua madre, forse avrebbe trovato la forza anche di parlare di suo padre.

 

Alessandra non riusciva credere alle sue parole. Lui. Lui si era offerto spontaneamente di parlare. E di qualcosa di intimo e riservato anche. Di un segreto della sua mente. Non gli rispose a parole. Gli cinse il collo con le braccia e lo baciò. Fu un attimo, e si ritrovò di nuovo a terra, i polsi bloccati dalle mani del demone, il suo sorriso pericoloso. Sesshomaru tornò a catturarle le labbra. rosse, gonfie, tumide. Labbra assetate come le sue. Labbra affamate. Doveva fermarsi subito, prima di essere sicuro di non riuscire a trattenersi. La liberò e si risistemò contro la finestra.

 

“Non voglio che tu vada”

 

Glielo aveva detto. Sapeva che non sarebbe servito, ma doveva dirglielo ugualmente. Glielo aveva soffiato in un orecchio. Terribilmente provocante. Astuta. Malvagia. Il demone sorrise non visto. Doveva divertirsi molto a provocarlo in quel modo, sfiorandogli col respiro la pelle ancora calda e vogliosa di lei, incendiandogli il fuoco nelle vene. Lo stuzzicava e poi si ritraeva. Innocente. Ingenua.

 

“Tornerò”

 

Le accarezzò una guancia con gli artigli, risalendo allo zigomo per poi proseguire verso l’orecchio, insinuarsi nei capelli e sollevarli a scoprile parte del collo. Scivolò fino alla sua nuca e l’attirò al suo petto. La strinse nell’incavo del collo, sfiorandole la fronte con le labbra, stringendole la vita in modo possessivo. Bramoso.

 

“Tornerò...e allora...”

 

Non completò la frase. La baciò con più passione di prima. Un bacio così diverso dal primo che si erano scambiati. Il bacio di un uomo. Il bacio di un demone: intenso, voglioso, passionale, dolce, delicato, rispettoso. Alessandra si strinse a lui cingendogli il collo, premendosi al suo petto. Sentiva le sue mani esplorarla attraverso la stoffa del kimono come se Sesshomaru volesse imprimersi bene nella mente il suo copro. Ogni centimetro della sua pelle. Ma sapeva anche che non l’avrebbe amata ancora. Che quel tocco incendiato era ancora razionale. Non l’avrebbe amata solo per soffocare nel piacere fisico una notte di tensione snervante, per scaricare l’adrenalina che sale con l’avvicinarsi del momento decisivo.

 

Sarebbe tornato. Glielo aveva promesso. Una sola parola. Una constatazione ovvia. Quasi una precisazione superflua. Sarebbe tornato. E allora...Allora cosa sarebbe successo? Le avrebbe parlato di sua madre? Possibile. L’avrebbe amata? Forse. Non lo sapeva. Non voleva saperlo. Solo rivederlo entrare nella piazza d’armi. Solo quello.

 

Sesshomaru non sapeva esattamente perchè glielo aveva promesso. Sapeva che era quasi un suicidio quello scontro. Sapeva che sarebbe potuto morire. Sapeva che era ingiusto darle una falsa speranza, ma lui era egoista. In fondo, era un demone abituato a concentrarsi su se stesso. E lui aveva bisogno di quella parola per avere uno stimolo in più a vincere. Sarebbe tornato. E allora... Allora cosa?...Le avrebbe raccontato di sua madre, della sua infanzia. Avrebbe finalmente avuto il tempo per decidere il nome del sentimento che li legava. Avrebbe avuto il tempo di risentire la risata allegra di Rin e il calore di Alessandra. Già...Il suo calore. Il suo corpo. Lo avrebbe risentito contro il suo. Completamente questa volta.

 

Tornerò...e allora andrò fino in fondo...In ogni cosa.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Parentesi

 

 

Molte scene, dunque, in questo capitolo: ben quattordici. E su più piani temporali anche. Dall’infanzia di Inuyasha al presente, al passato più prossimo fino alla memoria di Sesshomaru. Piccole scene che ho voluto costruire per voi e per i protagonisti della storia, in questo ultimo capitolo che permette loro di avvicinarsi e chiarirsi, di parlarsi come forse alcuni non hanno mai fatto. Certo, ci sono spunti e appigli; ci sono elementi che iniziano a delinearsi. Tutto rimane sospeso in istanti, ma avrà un seguito. Ve lo assicuro.

 

Un capitolo anche sofferto, perchè può sembrar pesante concentrare in una sol colpo molte rivelazioni, forti cambi di relazioni interpersonali. Il filo conduttore è quello di un erotismo sottile e di sentimenti che crescono e maturano. Di consapevolezze che si lasciano sbocciare e di ricordi dolceamari. Ma in fondo è l’amore stesso che scioglie le membra, dolceamara irresistibile creatura.  I demoni non gli sono indifferenti. Non possono essergli indifferenti, nonostante l’apparente repulsione. Che sia semplice piacere carnale o passione travolgente, che sia puro sentimento platonico o acceso desiderio di comunanza di anime, l’amore colpisce anche loro. Soprattutto loro. Perchè è un qualcosa di nuovo e bello. Di mai provato e quindi pericoloso.

 

Troppo veloce, forse. Questa può essere l’impressione. In un solo capitolo ho concentrato più situazioni equivoche e ardenti di quanto non abbia fatto in oltre quaranta capitoli. Non è un fatto casuale, un accorgersi in ritardo di dover aggiustare le narrazione e rimediare in modo veloce. É stata una vera scelta. Perchè è adesso che tutto è a un passo da precipitare. É adesso che siamo sul confine: dopo una granata che ha colpito il cuore del palazzo; prima dell’ultimo scontro da cui Sesshomaru e altri potrebbero non tornare. É un sentimento che esplode con violenza, che non accetta di nascere e crescere lento per poi rassegnarsi a perdersi senza possibilità di ritorno. É un amore che non accetta il rimpianto, che non può vivere di rimpianto. E non si vergogna ad ammetterlo. É egoismo. Perchè in definitiva l’amore è anche egoismo. Una forma distorta, lontana dal cinismo e dall’egocentrismo, ma pur sempre egoismo. Dolce. Violento. Delicato. Prepotente. Il desiderio della felicità. Propria e altri. Il desiderio di un ricordo.

 

Ayame e Koga. Prima scena. Vi ho ingannati. Ho giocato sulle illusioni, sul fatto che la yasha e Alessandra condividono il simile colore dei capelli e che la scena riprende una in cui i protagonisti erano Sesshomaru e la ragazza. Troppo facile, però. E la suspance verrebbe a cadere. No. Non Sesshomaru, ma un altro demone comunque. Koga. Come lui, simile al Principe fino a non molto tempo prima. Un demone che è cambiato per amore, che per l’affetto nutrito verso Kagome si è messo in discussione. Koga è orgoglio, è forza selvaggia, è istinto; ma è anche passione, dolcezza, calore. É il principe di cui Ayame si è innamorata bambina e lui lo sa e sa anche che ormai non può più allontanarla. Non vuole allontanarla. Ayame gli chiede solo una notte, una notte d’amore per conservare un suo ricordo. Non le importa se poi lui se ne andrà, se poi lui la lascerà per anni o forse per sempre. É disillusa. Non nutre più sogni. Culla solo ricordi. Crea già ricordi per un futuro che non sa ancora come sarà. Lo plasma lei nella sua mente. Per non soffrire. Come il copione di una recita.

 

Ayame recita. Vorrebbe almeno. Recita la parte dell’amante disinibita, della ragazza facile che cede per passione. Però sa che non se ne vergognerà mai. É pronta a tutto purchè, per almeno una notte, Koga abbia solo il suo nome sulle labbra. Abbia solo lei nella mente e nell’anima. Perchè la abbia. Sa che fra loro ci sono differenze. Sa che lui è l’ultimo erede della loro stirpe. Non le importa. Non vuole saperlo. Vuole ignorarlo. Perchè soffermarsi su quel pensiero le farebbe troppo male. Koga conosce la sua posizione, ma non ne approfitta. Non può farlo. Averla e poi trattarla come l’ultima delle concubine. Sa di essere incapace con le parole. Sa di non averle mai detto nulla di romantico. Sa di aver solo goduto di lei senza darle certezze. Senza permettere certezze e speranze a se stesso.

 

Koga non parla. Non ne sente il bisogno. Perchè è l’istinto a guidarlo. E l’egoismo. Perchè sarà per quel suo amore che lui considera maledetto, deliziosamente maledetto, che morderà Ayame. Che la sposerà a . Un legame antico e ferino. Un ordine del corpo, della mente e dell’anima. Un qualcosa di necessario, per tornare a vivere.

 

Koga ormai vive nel presente. E nel futuro. Inuyasha no. Inuyasha non può. Continua a ondeggiare fra passato e presente. Continua a ricordare. Ed ha la consapevolezza al contempo del suo cambiamento. Tre donne. Nella seconda scena sono tre le donne che visitano i pensieri del nostro hanyou. Loro, e il calore del loro abbraccio. Di ciò che Inuyasha non ha mai ricevuto da suo fratello. Non necessariamente un abbraccio fisico, ma neanche metafisico.

 

Prima Izayoi. L’infanzia di Inuyasha è ridotta a poche immagini di cellulosa, e mi sono divertita a immaginare altri particolare, altre piccole situazione. Sono ancora accenni, ma in futuro diverranno racconti più estesi. Soprattutto quando i nostri due fratellini dovranno confrontarsi sulle loro esperienze infantili. Perchè, in effetti, negli anni, Sesshomaru e Inuyasha parleranno. Forse a modo loro, ma parleranno. Soprattutto infittiranno la loro conversazione nei primi capitoli della seconda parte. E Sesshomaru vedrà con i suoi occhi, proverà sulla sua pelle cosa significa sentire la parola mezzodemone e il dolore che porta con . Lo capirà, e suo fratello lo aiuterà a sentirlo e a cercare di superarlo.

 

Izayoi, e poi Kikyo. Due donne del passato. Due ricordi belli e malinconici. La madre e il primo amore. Perchè Inuyasha ha davvero amato Kikyo. Amore platonico, ma comunque acceso di forza e passione. Kikyo...Lei è stata la diversità in anni di grigia rassegnazione. La prima simile a sua madre. Ma Kikyo era una sacerdotessa, non una donna. E forse non sarebbe mai riuscita ad amarlo davvero per quello che era. Amava il ragazzo, ma non il demone. Quello era il problema. Quello era il conflitto. Il demone. La natura di Inuyasha, che il ragazzo ha sempre avvertito pesante e opprimente. Che ha sempre detestato e amato. Perchè, anche se lo ha fatto soffrire, gli ha regalato emozioni che lo facevano sentire vivo. Vivo. Anche nella consapevolezza dell’errore; anche nella coscienza che lui era sbagliato, e le avrebbe fatto solo del male. Ma a lei non poteva rinunciare. Non poteva tronare alla solitudine dopo aver conosciuto il calore di un sorriso e di un abbraccio. Gli bastava il poco che Kikyo gli poteva dare. Gli bastava la sua vicinanza.

 

Ma Kikyo è morta. Per lui. Due volte. Due. E lui non ha mai potuto far nulla per evitarlo. Mai. Il lutto c’è ancora. Lento. Lento. Inuyasha inizia piano ad accettare di aver sbagliato, di averla lasciata sola. Accetta la sua colpa senza sentirsene schiacciato. Perchè lui l’ha amata, e per lei era pronto a tutto, ma adesso non è Kikyo il presente. Adesso è Kagome.

 

Kagome. La nostra amica è dovutoa crescere. Velocemente come sono precipitati gli avvenimenti. E si è accorta che il mondo di Inuyasha non è una realtà onirica e bella. Ma è sangue, dolore e morte. Lo ha visto con i suoi occhi, lo ha sentito sulla sua pelle, lo ha sentito dentro di . Fin nel profondo. E ha avuto paura. Paura di non tornare più indietro. Paura di non riuscire ad andare avanti. C’è solo lei. E le sue emozioni. Non sente Inuyasha. Non sente nulla. La granata è esplosa, e l’unica cosa che la scuote sono i conati di vomito per l’orrore. Non vede null’altro. Non sente null’altro. Neanche Inuaysha che le stringe le spalle e serra gli occhi. Annichilito dal dolere che per causa sua sta vivendo.

 

Kagome. Kagome che trema, che si smarrisce. Che ritorna ad essere quella di sempre. Solo più adulta. Solo più consapevole. Kagome che costringe il nostro mezzodemone a reagire, a essere lui a consolarla, a essere lui a sostenerla. E quando la fuga le è offerta, lei non tentenna. Sa cosa vuole: lui. Anche se questo significa il dolore e la morte. La sofferenza. Vuole lui. E resta con lui. Con  un Inuyasha che si sta accorgendo di quanto lei sia cambiata, che la sta guardando come non ha mai guardato neanche Kikyo. Kagome è una donna. La donna che lui ama. Sta crescendo la ragazza, ma sta crescendo anche lui.

 

Inuyasha che osa, che prova, che difende. Che inizia a fidarsi. Inizia davvero ha sapere cosa significa avere amici su cui contare. Amici cui non interessa la sua natura, ma solo quello che pensa e che ha nel cuore. Amici che erano nemici, e che resteranno compagni. Come Koga. Perchè è a lui che affida la cocciutaggine di Kagome, perchè è a lui che si rimette. In tutto e per tutto.

 

Ma Inuyasha, in questo capitolo, è anche malizioso. Gioca. Gioca come non lo abbiamo mai visto fare. Con le parole, con i sottintesi, con le ambiguità; gioca con candore e malizia. Gioca come un ragazzo che d’ingenua ha solo la faccia. Gioca e protegge. Perchè qui il velo cade. E lui per primo lo vede scivolare a terra. Alessandra. Alessandra gli parla. Gli rivela quello che intercorre fra lei e suo fratello. E Inuyasha è felice. Felice per lei, e per Sesshomaru. Triste solo di non potersi congratulare con lui. E’ felice, ma sa anche che non sarà mai facile. E per questo si ripromette di proteggerla sempre. Lì dove suo fratello non può arrivare, nel peso di esser additati come diversi dai demoni.

 

Proteggere Alessandra. Dai demoni e da Miroku. Soprattutto da miroku, in questo capitolo. Il monaco cerca di approfittare della situazione. E della sua abilità retorica; Alessandra però non  si lascia ammaliare. Conosce il peso delle parole; lo ha imparato da Sesshomaru. lo conosce  e gioca. Gioca con la voce, con i significati. Seduce. E non se ne rende nemmeno conto. Ma Miroku sì. Lui è esperto, lui capisce. E avverte il sottile gioco civettuolo che Alessandra ha creato, cui si è adeguata senza nemmeno averne coscienza. Perchè Alessandra, anche se non lo dimostra, è profondamente insicura, soprattutto nella sua natura femminile. Nel suo essere donna. Mortifica se stessa in abiti dal taglio maschile e anonimi. Certo, la situazione contingente non offre occasione per sfoggiare vestiti di gala, ma ogni scusa è buona per sottrarsi all’attenzione. Anche semplicemente l’ostinare a tenere raccolti i capelli. Scioglierli è un rischio, è come se mostrasse meglio che lei è donna e quindi si svelasse. No. I capelli non vanno sciolti. E’ accaduto una volta, e Sesshomaru l’aveva quasi baciata. Accade anche alla fine di questo capitolo, e Alessandra si scioglie, assieme alla sua acconciatura. É donna, e accetta le attenzioni del demone che ama.

 

Sesshomaru. Il Principe ha fatto breccia, è riuscito ad avvicinarla, ma non è stato affatto facile. Come per Inuyasha. Alessandra non ha superato ancora del tutto il trauma. Forse non lo supererà mai e continuerà ad essere diffidente. Ma di certo l’esser toccata è una repulsione che non l’aiuta. Toccare, sfiorare, abbracciare. Se lei subisce l’azione, è perchè è debole, esposta. E quindi pericoloso. Allora reagisce, e schiaffeggia Inuyasha. Come aveva colpito Sesshomaru. Di riflesso. Per rabbia, paura, dolore. Disperazione. Alessandra non sopporta il contatto fisico, ma quando lo concede dà anche la fiducia. Totale.

 

Dopo che Inuyasha l’ha toccata, gli rivelerà il suo segreto. Dopo che l’ha curata, si instaurerà fra loro un rapporto di complicità. Un legame importantissimo, perchè sarà a quella complicità che Alessandra farà appello in futuro; sarà per l’affetto fraterno che li lega che riuscirà a convincere Inuyasha al silenzio. Sarà perchè rivede in Inuyasha un fratello simile a quello che a perso, simile a Leone, che Alessandra accetterà di mostragli le sue lacrime. A lui solo, oltre che a Sesshomaru.

 

Ma questo sarà. Adesso...adesso semplicemtne la menzogna è caduta fra loro, ma non per gli altri. Inuyasha dovrà reggerla. E deve proteggere Alessandra. Dal contatto fisico. Dal suo rifiuto a lasciarsi andare. Può solo proteggerla; lo sa. Inconsciamente, ma lo sa. Solo Sesshomaru può aiutarla a vincere la paura. Solo lui potrebbe.

Non ci saranno Inuyasha Sesshomaru. Quando Alessandra avrà davvero bisogno di esser protetta, quando mani estranee percorreranno il suo corpo, lei potrà solo chiudere gli occhi e inghiottire lacrime. Illudersi. Che ha toccarla sia il Principe, e che tutto finisca in fretta. Molto in fretta. Ignorando le parole e il respiro sconosciuto.

 

Ma questo accadrà. Sarà. Il presente...Il presente è, appunto, questo capitolo. Con un’altra coppia. Possibile, almeno. Shin e Homoe. Forse ve la aspettavate tutti. Forse durerà. Forse no. É difficile dirlo. Homoe...Homoe non ha risposto al bacio, ma poi ha accarezzato il corpo del demone. E non come fa un medico, ma una donna. Certo. Scontato. E invece no. Perchè Homoe ha un segreto. Qualcosa che le fa male al cuore. Soprattutto, inoltre, è l’ultima della sua stirpe, e nel Giappone medievale i matrimoni sono combinati, per creare alleanze a mantenere domini. Kumamoto potrebbe accettare Shin? A voi immaginarlo.

 

Amore...Anche negli ultimi due paragrafi. Erotismo e sensualità. Alessandra e Sesshomaru. Il demone trema, ha paura. E per la prima volta si scopre a sua volta umano. Perchè Sesshomaru è più sensibile di quanto lui stesso sappia, ricordi. La ama, vorrebbe amarla. E si ferma; si trattine facendo violenza a se stesso. Alessandra resterà a palazzo e lui deve impedire che qualcuno possa ferirla. Anche solo con il sospetto. Deve custodirla. Come custodisce il suo passato. I ricordi di sua madre. Schizzi che ho tracciato velocemente, ma che con il tempo assumeranno sempre più una passato e un futuro.

 

Al vostro affetto e alla vostra gentilevva.

  
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