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Autore: LubyLover    06/01/2013    5 recensioni
11/09/2001: Quell'undici settembre, una data pressoché simile alle altre nel sua visione del mondo, un altro giorno in cui servire e proteggere, era stato assegnato al WTC. Era un lavoro di routine; Manhattan era sempre caotica a causa degli abitanti e del flusso interminabile dei turisti ed a Flack non aveva dato fastidio dare indicazioni stradali, scambiare due chiacchiere con i turisti e controllare che nessuno infrangesse la legge.
Genere: Drammatico, Generale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Danny Messer, Don Flack
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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September Morn

 

Titolo: September Morn

Fandom: CSI: NY

Personaggi: Don Flack (principale); Danny Messer (secondario)

Set In Time: 11/09/2001. Quanto raccontato nella fiction è ispirato dall'episodio di CSI: NY 08x01: Indelebile

Rating: Giallo

Conteggio parole: 2003 (lo so, è una lunghissima one-shot...) 

Disclaimer: I personaggi utilizzati non mi appartengono, ma sono di tutti gli aventi diritto. Il titolo della fiction è preso da una canzone stupenda di N. Diamond, September Morn, appunto.

Nota: Quanto narrato (escluso ciò che è riconducibile direttamente alla puntata) è una mia interpretazione.  

 

 

September Morn


Non ho paura, non ho paura, non ho paura... questi i pensieri dell'agente Donald Flack Junior, mentre camminava lento – gli occhi strizzati a cercare di vedere attraverso la polvere – sorreggendo una donna ferita per portarla lontano dall'inferno fino a poche ore prima conosciuto come World Trade Center.

Il giovane aveva sempre desiderato fare il poliziotto; persino da bambino, quando giocava con gli amici a “Guardie e ladri” si sentiva più a suo agio come guardia. Non era solo a causa di suo padre, era una cosa che aveva dentro, la necessità innata di far rispettare la legge. Non si era mai pentito della sua scelta, nemmeno quando gli amici lo avevano preso in giro e nemmeno durante l'addestramento in Accademia. Era orgoglioso della sua divisa blu – che portava spessissimo in lavanderia a far lavare –, del suo distintivo – che veniva lucidato almeno una volta al mese - e della sua pistola – che veniva pulita da cima a fondo ogni sette giorni. Lo sapeva che alcuni dei suoi colleghi ritenevano che lui prendesse tutto troppo sul serio, ma a lui non importava.

Quell'undici settembre, una data pressoché simile alle altre nel sua visione del mondo, un altro giorno in cui servire e proteggere, era stato assegnato al WTC. Era un lavoro di routine; Manhattan era sempre caotica a causa degli abitanti e del flusso interminabile dei turisti ed a Flack non aveva dato fastidio dare indicazioni stradali, scambiare due chiacchiere con i turisti e controllare che nessuno infrangesse la legge.

Solo poche ore prima si era ritrovato a parlare con un turista tedesco, spalle alle Torri; sentito il rombo dei motori aveva confusamente pensato che l'aereo stesse volando troppo basso e, con fascinazione, aveva osservato gli occhi dell'estraneo spalancarsi fino a diventare enormi. Allora si era voltato di scatto e non aveva potuto far altro che prendere nota del velivolo che si schiantava contro la torre. Dopo un secondo di shock, aveva subito afferrato la radio e chiamato la centrale. Poi aveva cercato di far allontanare più persone possibile. Avrebbero dovuto evacuare la torre e mettere in sicurezza la zona; per Flack era ovvio si trattasse di incidente, brutto, orribile, ma pur sempre casuale. Era una delle cose che avevano imparato in Accademia: gestire con lucidità un'emergenza. Tutto sommato, mentre stava aiutando i primi cittadini, si era sentito ancora bene. Un po' preoccupato, ma si trattava del suo lavoro, sapeva cosa fare e non aveva intenzione di farsi prendere dal panico.

Poi, però, c'era stato un altro impatto contro la seconda torre. Un altro aereo. Flack si era paralizzato sul posto, incredulo. Non era un incidente. Non più. Aveva frugato nella sua testa alla ricerca della procedura da seguire in caso di attentati, ma gli ingranaggi sembravano fuori uso. Per un istante eterno non era nemmeno riuscito a muoversi. Era rimasto in piedi, la gamba sinistra in avanti, nel bel mezzo della corsa, e la testa in panne. Davanti ad i suoi occhi spalancati le torri gemelle stavano esalando respiri di dolore in lunghissimi nastri di fumo grigio e denso. Un vigile del fuoco gli era sfrecciato accanto, rapidissimo, ridestandolo, fortunatamente, dalla trance. Aveva cercato di recuperare, ma, obiettivamente, era troppo per un ragazzetto poco più che ventenne ancora fresco di Accademia. Muovendosi confusamente aveva scorso altri colleghi: anche sui loro volti era dipinta un'espressione di shock profondo. Chi aveva mai potuto prevederlo? Chi aveva mai potuto organizzarlo? Voglio andare a casa! aveva urlato la sua parte infantile. Per un brevissimo, ma lucido, istante si era visto scaraventare il distintivo a terra, subito inghiottito dal fumo e dalla confusione, ed immergersi nel fiume umano in fuga. Ma poi si era immaginato suo padre, come avrebbe fatto a dirglielo? Non poteva scappare. Sospirando per cercare di recuperare un po' di coraggio si era incamminato verso le torri.

Ed ora le gloriose Twin Towers, appartenenti al mitico e celebre skyline di New York, non esistevano più. Si erano accasciate, sconfitte, su loro stesse. E Flack si ritrovava a camminare piano, sorreggendo quella povera donna sotto shock. I pompieri, nonostante la celerità con cui stavano lavorando, faticavano ad estrarre le persone dalle macerie; e, spesso, ciò che ne uscivano erano solo corpi senza vita. Non voglio tenere il conto, non voglio pensare a quante vite abbiamo perso, non voglio immaginare nessuno che conosco là sotto, non ho paura. Inginocchiato di fronte alla ferita, lasciò che lei lo abbracciasse, sperando di poter sembrare la roccia di cui lei sembrava aver bisogno. Impresa ardua.

Poi, nella nube di polvere e detriti che ricopriva tutto, vide qualcosa: una sorta di fantasma bianco che avanzava verso di lui a passo svelto. Si alzò, intercettando il civile sciagurato che, chissà come, era riuscito a superare i cordoni di sorveglianza. Lo bloccò.

"Sono un collega... Danny Messer"  

Flack guardò il distintivo che penzolava dalla maglia e pensò scioccamente che il ragazzo con la salvietta intorno alla bocca sembrava un mezzo bandito, altro che collega. Ma vide anche la disperazione nei suoi occhi, la disperazione che ti faceva commettere qualcosa di stupido ed avventato. Non aveva potuto impedire gli attentati; non aveva potuto impedire che tutti quegli innocenti perdessero la vita; non aveva potuto impedire che la sua Città venisse colpita al cuore; avrebbe impedito che altri rischiassero inutilmente. C'erano già i vigili del fuoco che stavano lavorando alacremente ed anche la loro vita era a repentaglio, nonostante gli equipaggiamenti e l'addestramento. No, non avrebbe permesso che un suo collega diventasse vittima.

Non lo lasciò continuare, dicendo che erano tutti morti. Lo vide l'orrore negli occhi azzurri dell'altro, probabilmente un orrore simile a quello che provava lui. Si fissarono: sei un poliziotto, non ti lascerò andare, non ti lascerò morire. Tu ci – mi – servi vivo.

Allentò la presa ed indicò la donna seduta a qualche metro da loro: "È gravemente ferita... mi serve una mano per portarla dai paramedici", sei con me? era la domanda muta che suggerivano i suoi occhi.

Non aspettò la risposta allontanandosi, ma, quando chinato di fronte alla donna, sentì la presenza di Messer disposto ad aiutarlo non fu troppo sorpreso. Sotto lo sguardo irrazionale c'era chiaramente una persona che sapeva qual era la scelta giusta da fare.

Sostenendo la poveretta con delicatezza verso uno degli edifici adibiti ad infermeria, i due poliziotti non parlarono. Una volta lasciata la giovane nelle mani abili di un medico, Danny e Flack si ritrovarono fuori, per strada, sentendosi di nuovo impotenti mentre nellaria continuavano a suonare le sirene delle ambulanze. Si guardarono, come per dirsi qualcosa, ma uno dei superiori di Flack lo raggiunse di corsa e lo trascinò verso una nuova emergenza. 

Danny Messer, si disse, non fare assurdità, non adesso. Si voltò a guardare l'altro un'ultima volta. Messer sostenne il suo sguardo con onestà.

Molte ore dopo, Flack era sul punto di cedere. Non si era fermato un attimo, passando da una situazione drammatica ad un'altra, indirizzando i sopravvissuti verso luoghi sicuri e cercando di confortare i feriti. Aveva allontanato la stanchezza che aumentava sempre di più, concentrandosi sui compiti assegnatigli, ripetendosi che non poteva essere debole ed inaffidabile, non in un giorno così tragico. Ma nell'ultima ora si era visto costretto a fermarsi di tanto in tanto a causa di una serie di crampi alle gambe. Niente di preoccupante, ma iniziava a domandarsi per quanto tempo avrebbe resistito ancora.

Nel bel mezzo del suo ragionamento, venne avvicinato dal suo Sergente: "Flack... sei qui da parecchio; tra poco arriverà una squadra di supporto. Ho già madato a casa Martini e Jackson. Vai anche tu"

"Ma...", nonostante tutto, non se la sentiva di abbandonare il campo.

"Niente ma. Ho bisogno di agenti, è vero, ma mi servono persone riposate" 

Flack abbassò il capo, studiando la punta impolverata dei suoi anfibi. Praticamente, il Sergente stava verbalizzando quello che lui stesso – chissà quanto tempo prima – aveva cercato di suggerire a quel Messer.

"Vai a casa, fatti una doccia, mangia qualcosa, dormi un po'. Poi torna qui. E non guardare i notiziari, mi raccomando"

Don non commentò, ma era d'accordo. Aveva già dovuto allontanare qualche cronista con le sue sciocche domande. Sospirando un'ultima volta, il giovane agente fece quanto ordinatogli. Senza guardarsi indietro, si allontanò da quello che sembrava un fronte di guerra.

Non incontrò praticamente nessuno (o forse le persone, notando il suo aspetto impolverato, lo avevano evitato come la peste) ed in men che non si dica si trovò nel caldo del suo appartamento. Era quasi il tramonto e Don si stupì di quanto fosse passato velocemente il tempo. Si tolse le scarpe e si diresse verso il bagno. Con movimenti automatici aprì l'acqua della doccia e poi si voltò, faccia a faccia con lo specchio.

Per un istante irreale pensò di essere di fronte ad uno sconosciuto. Dalla superficie riflettente lo osservavano due occhi stanchi e scioccati - di un colore noto, anche se stranamente slavato - piantati su un viso completamente coperto di calce grigiastra. Si osservò con il respiro mozzo per qualche secondo.

E la sua mente fu invasa da tanti dettagli terribili.

Il rumore assordante dei motori degli aerei; l'odore acre della morte e del sangue e della carne bruciata; le persone disperate che si buttavano dalle torri; il freddo mortale che si era impossessato di lui; la gola secca a causa del caldo delle fiamme; il terrore; la sua Città ferita a morte. La Città che aveva giurato di proteggere solo pochi mesi prima. Aveva fallito.

Si accasciò sul pavimento con un mezzo tonfo, raggomitolandosi in posizione fetale e lasciandosi andare a singhiozzi rumorosi e dolorosi. Durante quei lunghi minuti di agonia non si sentì altro che impotente ed inutile. Alla fine, però, il pianto cessò. Flack rimase ancora per qualche istante sdraiato sul pavimento, cercando di trovare lo slancio necessario per alzarsi e, soprattutto, per non impazzire. Quando sembrò certo di avere trovato un certo equilibrio mentale si drizzò, si tolse la divise lurida, gli indumenti intimi e si scaraventò sotto lo spruzzo potente e caldo della doccia. Si sfregò la pelle con energia e determinazione, cercando di togliersi di dosso l'olezzo terribile della morte; cercando di tornare ad essere, di nuovo, il poliziotto affidabile a cui appogiarsi. Quando si sentì abbastanza pulito, uscì dalla doccia e si infilò la divisa di ricambio che teneva nell'armadio. Abbottonandosi la camicia blu, si studiò nello specchio della camera da letto: non era per nulla sorpreso di trovarsi invecchiato rispetto a quello che era stato quella mattina. Ma non crollerò. Io sono forte. E non ho paura. Si fece un panino al volo e lo mangiò mentre si preparava ad uscire.

E, ancora, fu World Trade Center.    

La polvere sembrava essersi depositata un pochino e gli occhi non bruciavano più così tanto. Camminava lento e guardingo, evitando calcinacci ed altri residui che avevano invaso la strada. Stava cercando il suo superiore, quando lo vide: a pochi metri da lui, appoggiato ad un muro, c'era il poliziotto in cui era incappato quella mattina. Danny Messer. Senza rendersene conto si diresse verso di lui, grato di vederlo vivo, grato che – almeno una persona – l'aveva messa in salvo.

L'agente Messer gli rivolse una specie di mezzo sorriso e si staccò dal muro per andargli incontro. Senza parlare, gli porse uno dei due bicchieri di caffè che aveva in mano.

Flack arricciò le labbra, inclinando il capo e poi afferrò il caffè. Lo sollevò verso l'altro, in un ringraziamento silenzioso. Prima di girare lo sguardo verso la ferita aperta nel cuore di New York, i due si guardarono per un istante: non lo avrebbero mai raccontato – non con così tante persone che avevano perso così tanto in un unico giorno – ma loro due si erano trovati. Amici.

 

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NdA: Se siete arrivati fin qui... grazie. Se la storia vi è piaciuta fatemi sapere perché. Anche se la storia non vi è piaciuta (ma siate buoni, accetto critiche ragionevoli, non flame sconsiderato) 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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