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Autore: Eryca    09/01/2013    6 recensioni
Ce ne sono a milioni, di storie.
Ma questa non può essere classificata in nessuna di esse.
Forse, questa, non è nemmeno classificabile come storia.
Eppure deve essere narrata.

*
La realtà può trasformarsi in qualcosa di magico, se solo ci si ferma ad ascoltare, osservare.
Ed è proprio quello che accadrà al protagonista, che intraprenderà un vero e proprio viaggio attraverso la natura, sé stesso, i sentimenti e il mondo che lo circonda.
Una storia fatta di sensazioni, di odori e di personaggi alquanto bizzarri.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Parte I – Il tram

La meraviglia dell’attesa è attendere

 

 

Do uno sguardo alla grossa signora accanto a me: il sedile non è abbastanza spazioso per contenere il suo enorme didietro, quindi occupa anche metà del mio, costringendomi in uno spazio minuscolo.

Ogni giovedì è la solita storia, le solite vecchie facce sbiadite dalla monotonia. Solita strofa di una canzone che non è più in voga da anni, ma sembra dover ripetersi all’infinito.

«Una volta non ero così grassa, sai?» Mi guarda, la signora con il sedere abnorme, gli occhi piccoli e le palpebre cadenti.

Succede sempre così: quando meno te lo aspetti, le persone ti stupiscono, magari con un sorriso o, come in questo caso, con una parola. Una dichiarazione di coscienza, come a dirmi che è consapevole di essere in sovrappeso.

La guardo. Guardo questa signora grassa e malinconica, decadente come una di quelle case abbandonate di periferia. La guardo e il ricordo di una giovane donna dagli occhi vispi splende nelle sue iridi. E il suo sedere flaccido non ha più alcuna importanza.

«Ero bella. Sì. Ero bella.» Si guarda le scarpe, il doppio mento pronunciato è una visione raccapricciante. Assomiglia ad un budino andato a male, magari con la muffa. Sembra volare tra le nuvole, in cerca di un passato che non può ritrovare. In cerca di una sé stessa andata perduta.

È malinconica, questa donna budino.

Resto in silenzio mentre il tram striscia come un serpente per le strade della città.

In piedi, con la mano che afferra l’apposito appiglio, il solito barbone dai capelli unti e lo sguardo assente, perso in chissà quale pianeta di chissà quale galassia.

Mi guarda, l’accattone, forse perché si sente osservato. E rimango sconcertato, perché sembra avere in comune con la donna budino la malinconia.

Ma che cosa sta succedendo, su questo tram?

Una ragazza dai capelli biondi e il viso angelico chiama la fermata. Chiama la fermata e si avvicina alle porte, attendendo. Attendendo la sua fermata. Il tram si arresta.

Scende, la ragazza. Scende e sorride. È la sua fermata.

E io resto qui, seduto.

E attendo.

Attendo la mia fermata che, lo so, prima o poi arriverà.

Se non sapessi che in un tempo futuro anche io scenderò da questo tram, allora non starei più aspettando. E sarebbe un problema, perché l’attesa è il momento in cui ognuno di noi ricerca sé stesso.

La meraviglia dell’attesa è attendere.

Guardo fuori dal finestrino, ma non c’è nulla di particolarmente interessante, perché tutto ciò che può attirare la mia attenzione si trova all’interno del bus. La donna budino tossisce rumorosamente, sputa il suo catarro dentro un vecchio fazzoletto di stoffa, probabilmente utilizzato numerose volte, ma mai lavato.

«Ho capito che ero invecchiata quando è morto il mio cane. » Mi guarda di nuovo, con quei suoi occhi infossati, la signora con il sedere grosso. Mi guarda e aspetta un mio cenno. Una gocciolina di sudore scivola sulla sua fronte e io la seguo stomacato.

«Ero bello il mio cane, sai? Era uno di quei bastardini che non sono né di una razza né di un’altra. Come avrebbe detto il vecchio zio Gerardo, era un meticcio schifoso ed inutile.» Mi guarda e aspetta un mio cenno di approvazione. Non lo trova. Va avanti. «Comunque sia, quando è morto Bob – il mio cane – ho capito che ero diventata vecchia. Era con me da quasi quindici anni, sai...» No. Non so. Ma non glielo dico. Rimango in silenzio, la donna budino continua a parlare sputacchiando, ma io non la sto ascoltando. A volte, però, abbiamo solo bisogno di pensare che qualcuno ci ascolti, anche se non è così, in modo da poter parlare. Parlare. Parlare. Parlare.

E io resto qui, seduto.

E attendo.

Il tram si ferma, ma so che non devo scendere qui. Saluto allegramente l’accattone, che è smontato e ora mi sta facendo un cenno con la mano, il sorriso sotto la barba grigia. Spero che possa trovare ciò che va cercando.

La donna budino continua a raccontarmi di suo zio Gerardo e io provo una pena indescrivibile nei suoi confronti, perché so che le manca ancora molto alla sua fermata. Ha perso sé stessa, nel passato. Ha perso sé stessa negli anni.

Plin.

È la mia fermata.

«Buona permanenza, donna budino.» Mi alzo, lei mi guarda interrogativamente, forse scioccata dal nomignolo che lo ho affibbiato.

L’autista ha un capellino da basket blu, due grossi baffi neri e gli occhi più vacui che io abbia mai visto in tutta la mia vita. Lui guida sempre. Ogni mattina si alza, smonta dal letto e guida. Sale sul tram e guida. Lui è l’uomo del tram.

È l’uomo che attende.

Sorrido e scendo.

È la mia fermata.

 

*

 

Per chi di voi ha letto non posso fare altro che dire GRAZIE TANTE, anche perché questa storia è un vero e proprio viaggio mentale fatto di sensazioni e astrattismo.

Vi è piaciuta la donna budino? Sì? No? Fatemelo sapere, insomma! :D

Ringrazio chiunque di voi abbia letto, inserito la storia tra le Preferite, Ricordate o Seguite e chi ha recensito o lo farà! Grazie di cuore!

 

Un abbraccio,

Eryca.

   
 
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