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Autore: LyraWinter    12/01/2013    2 recensioni
Parigi, Natale Vigilia di Natale.
Cosa succede quando pochi secondi cancellano improvvisamente tutto ciò attorno a cui ruotano il tuo frammentato passato ed il tuo piccolo mondo?
Cléo approda a Montmartre, scappando da un' Inghilterra per lei piena di ricordi troppo dolorosi, alla ricerca di quell'unico, piccolo dettaglio che le testimoni visivamente che tutto ciò che ha avuto importanza nella sua vita é esistito davvero. Non vi é più nulla, oltremanica per lei, se non solitudine.
Non conosce nessuno, non ha una casa e l'ultimo pound che aveva in tasca lo ha speso per una bottiglietta d'acqua in una polverosa macchinetta a Victoria Station. Eppure, quando tutto le sembra perduto, la mano calda, familiare e confortevole di qualcuno che sembra conoscerla, le accarezza la fronte, la solleva per condurla salda attraverso il doloroso processo del ricordo, perché é solo attraverso quello che Cléo potrà accettare la nuova, mutata, realtà che si trova a dover affrontare.
[STORIA SOSPESA]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta | Contesto: Contesto generale/vago
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Al 2012, anno bisesto anno funesto.

Brindo a te, che sei finito.

A chi se n'é andato e ha lasciato un vuoto incredibile.

A chi é arrivato e l'ha colmato.

A chi é sempre stato qui.

 

 

 

3.

For those below

(video trailer della storia)

 

 

 

 

You told me life was long but now that it's gone
You find yourself on top as the leader of the flock
Called to be a rock for those below


For those below- Mumford and Sons

 

 

Se ripenso al febbraio di quell'anno a Parigi, ho un solo, nitido, cristallino ricordo.

 

Neve.


Sia chiaro, quella poltiglia bianca che tutti professano a gran voce di amare inizialmente, tempestando le bacheche dei social network con frasi di benvenuto come -Since we have no place to go, let it snow- e poi detestano manifestamente al primo ruzzolone, mi ha sempre messo di buonumore. Ma quell'anno, anche per me, fu troppo.

Gennaio era stato umido e piovoso, dopo un inizio all'insegna della neve. Ogni volta che uscivo per sbrigare commissioni, fare la spesa o qualunque altra cosa potesse risultare utile a Isabelle o Michel, rientravo con una coroncina di minuscoli ricciolini sulle tempie; questi non andavano via nemmeno dopo ore passate davanti al caminetto, fedele compagno di quei giorni in cui il freddo mi sembrava così pungente che nemmeno una doccia bollente riusciva a scuoterlo dalle mie ossa.

Alla fine del mese, un paio di giorni di sole splendente, di quelli in cui il cielo è di un blu così intenso tanto da sembrare di essere stati catapultati nel mondo dei Puffi, mi avevano fatto sperare nell'imminente arrivo della bella stagione. Ma così, evidentemente, non fu.

Una morsa di freddo colse l'Europa intera e ovunque imperversavano bufere e tormente. La televisione trasmetteva immagini apocalittiche, specialmente da quei luoghi che non spesso erano abituati al freddo. L'Inghilterra nel giro di poche ore fu integralmente coperta da un'unica coltre candida e le immagini dei turisti che si lasciavano sorprendere dalla bellezza di Hyde Park innevata, con la Serpentine ghiacciata, stavano facendo rapidamente il giro del mondo. Sulla BBC avevano mandato in onda un reportage da Brighton, con le sue spiagge scure e le sue stradine in salita, le case vittoriane, i muri intonacati di bianco. Ogni volta che mi capitava di vederle in televisione mi sorprendevo a guardarle con stupore e incredulità. Erano davvero quelli i posti che chiamavo casa? Vi erano davvero stati giorni in cui avevo camminato, corso, giocato a palle di neve su quelle immense distese di verde brillante? Avevo come la percezione che la mia vita prima dell'improvvisa fuga in Francia appartenesse a un'altra persona. Immatura, infantile, spensierata, a tratti psicotica, spaventata, avventata e talvolta spudoratamente felice. Chiunque fosse quella ragazza una cosa era certa: era morta il giorno in cui Cléo si era alzata, ma io ero rimasta immobile nel letto. Atterrita, terrorizzata, incapace di prendere decisioni razionali, sola.

 

Anch'io, a Montmartre, nella piccola colonia inglese che avevo impiantato al 37 di Rue Gabrielle, assistevo allo spettacolo del colle che dormiva sotto il metro abbondante di neve che era caduta in pochissimi giorni. Non ci volle molto prima che il richiamo di tutto quel pacifico candore mi spingesse a calarmi sulla fronte il berretto più pesante che riuscii a trovare, indossare due maglioni e uscire a godermi la quiete delle strette stradine del 18esimo Arrondissement.

 

Passeggiare fra la neve che sfiorava i solai dei balconi dei primi piani, nella totale solitudine e nel silenzio surreale di un mondo che si era fermato, mi dava l'impressione di esplorare una dimensione avulsa da quella in cui apparentemente mi trovavo. Gli abitanti della città riducevano al minimo le uscite, mettendo il naso fuori dalle loro case solo se strettamente necessario, specialmente a Montmartre, le cui strade in salita non facilitavano i pedoni.

Io, al contrario, uscivo a passeggiare per ore, sola, con il solo accompagnamento di un vecchissimo Ipod bianco che Isabelle aveva scovato in un cassetto e mi aveva fatto trovare pieno di musica accanto al comodino.

 

Penso che non le sarò mai abbastanza grata per quel piccolo regalo.

Nell'ormai obsoleto giga di musica che il lettore conteneva era riuscita a concentrare alcuni dei pezzi che più mi stavano a cuore e altri a me sconosciuti che divennero lacolonna sonora di quegli assurdi giorni d'inverno. Era così perfetta che io stessa non avrei saputo trovare brani più adatti per accompagnare i miei passi lenti e solitari.

 

Spesso mi sedevo sulle panchine del Parc de la Turlure, da dove si godeva una panoramica unica della città, e lì restavo per ore, facendomi trasportare dalla musica che mi riempiva e, scorrendomi nelle vene dallo stomaco fino alla punta delle dita, mi faceva arricciare le spalle e sentire i brividi lungo la schiena dall'emozione.

 

La sezione note del mio telefono era piena di parole e pensieri frammentati, che sorgevano nelle ore di solitudine.

 

Live love, give love.

Dark.

Child.

Innocence.

 

Annotare le emozioni e i ricordi che mi affioravano alla mente mi aiutava inizialmente a rimettere in ordine i pensieri che sgorgavano fitti e inesorabili. Era come se all'improvviso tutta la mia vita premesse per essere messa in luce, analizzata, studiata; ma io non riuscivo a fare chiarezza, a ragionare con lucidità. Sentivo le idee sfuggire, senza riuscirle ad afferrare ed eternare in una lunga serie di istantanee.

 

Ero un casino e una contraddizione vivente. Un minuto mi sentivo magnificamente, quello dopo scoppiavo a piangere. Mi commuoveva un violino, mi dava coraggio il suono di un banjo. Singhiozzavo alla vista di una nonna e un bambino, ridevo quando sentivo il vento sferzarmi le guance arrossate.

 

La vita mi scorreva davanti, mi avvolgeva, mi stringeva e poi fuggiva veloce.

E così io decisi di cristallizzarla: presi le parole che avevo annotato, le misi insieme e ricominciai a scrivere.

 

***

 

Era passato qualche mese dal suo arrivo a Blunderstone, ma ancora Teddy non aveva stretto amicizia con nessuno di noi piccoli. I grandi lo avevano preso sotto la loro ala protettiva, sicuramente a causa del suo aspetto indifeso e tenero: specialmente la Signora Gaskell sembrava aver preso a cuore quella pulce indifesa. Io ne fui inizialmente gelosa, visto che il primato di bambolina della casa spettava a me e che tutti mi avevano sempre adorato, così reagii nella maniera più naturale per un bambino: in un primo tempo decisi di escluderlo dalla mia vita.

 

Inizialmente non gli rivolsi mai la parola, se non per questioni strettamente necessarie come chiedergli di passarmi la brocca del succo di frutta a tavola. Tuttavia, se io mi limitavo a ignorarlo, Luke dimostrava addirittura di odiarlo. Solo ora mi rendo conto che lui aveva una ragione, se non molteplici, per prenderlo di mira. A casa non era molto amato fra i grandi a causa del suo carattere scontroso, arrogante e ribelle e l’invasione di un coetaneo a cui bastava sbattere le ciglia o balbettare timidamente qualcosa per attirare l'attenzione di qualunque adulto nei paraggi non lo aiutava di certo nei suoi innumerevoli tentativi di affermare e sottolineare la propria esistenza. A scuola, invece, dove esercitava il ruolo del capetto, naturalmente sentiva minacciato il territorio e, in virtù di ciò, non poteva esimersi dal prenderlo di mira come bersaglio prediletto per ogni cattiveria architettata.

Lui per parte sua si limitava a trotterellarci dietro, qualunque cosa facessimo. Se scendevamo in giardino, lui veniva con noi, se andavamo a giocare al molo, ci seguiva. Era come una silenziosa presenza, un'ombra fragile e tremolante, in costante attesa che qualcuno di accorgesse di lui.

 

Naturalmente fu per questo che dopo qualche mese non aveva ancora stretto nuove amicizie: nella mia classe, le bambine erano mie amiche e, data l'indifferenza che mostravo, non ritenevano utile sprecare tempo a fare la sua conoscenza. I maschi invece, tutti intimoriti dalla prepotenza di Luke, temevano che degnarlo di attenzione avrebbe irrimediabilmente significato la loro rovina, quindi, se possibile, lo evitavano come un appestato, nel perpetuo timore di divenire i prossimi a ritrovarsi lo zaino completamente impiastricciato dalla poltiglia di banana o l'astuccio immerso nella tempera gialla.

 

Per quel che riguarda me, ora che ho l'occasione di riflettervi su, in quel periodo non ignoravo solamente Teddy in sé, ma non consideravo quasi nessuno degno di attenzione. Dopo quel giorno nello studio del Reverendo Gaskell non riuscivo più a fidarmi di nessuno, come se l'unica persona degna di tale privilegio non fossi altro che io.

 

Ero sola, contro il resto del pianeta.

 

Naturalmente tutto ciò era impossibile per una bambina di sette anni, ma mi illudevo che tagliando fuori dalla mia vita chiunque mi dimostrasse affetto, non sarei più rimasta delusa. Fissavo chi mi stava attorno senza guardare davvero e passavo oltre come se fossero semplicemente ostacoli sul mio cammino, intralci da superare prima di proseguire lungo la folle strada che avevo intrapreso.

 

Non passò molto tempo prima che qualcuno si accorgesse che quello che portavo in giro non era che un ologramma di me stessa: Lilien, la mia compagna di banco e migliore amica, non faceva che tartassarmi di domande sul perché non desiderassi più andare a giocare da lei il pomeriggio, o al parco assieme a tutti gli amici. Mi disse che ero diventata noiosa, che non si divertiva più con un’amica che stava sempre zitta, che pensava sempre ad altro. Mi disse che stavo diventando stramba come il "mio amico", riferendosi, naturalmente a Teddy.

 

Come spiegare a una bambina di sette anni che ero paralizzata dalla paura? Il terrore che qualcuno potesse ferirmi, deludermi, o aprire nuovamente i miei occhi, rivelandomi qualcosa che avrebbe nuovamente sconvolto il mio piccolo mondo? Avevo smesso di aspettare, di rimanere in attesa che qualcuno arrivasse a salvarmi, che qualcuno mi concedesse le proprie attenzioni, che qualcuno mi amasse e mi dimostrasse affetto.

In quei frangenti non rispondevo nulla, limitandomi a scrollare le spalle. Allora, ricordo di essermi voltata più volte verso l'ultimo banco in fondo a sinistra, dove Teddy sedeva solo, verso la sua piccola figura rannicchiata, coperta da Matt e Jacob che lo superavano entrambi di una testa, e di averlo guardato con occhi di invidia, mentre giocava per distrarsi con i meravigliosi aeroplanini di carta che costruiva con meticolosità, incrociando gli occhi in un’espressione che mi faceva sorridere.

 

Cominciai a interessarmi a lui. Qualcosa nella mia testa mi diceva che forse, nel mio piccolo mondo, c'era spazio per una figura poco ingombrante come la sua; era così piccolo e delicato che avrei potuto fare finta che non esistesse, se solo lo avessi voluto. Avrei potuto scordarmene, in caso di necessità.

E io avrei voluto essere esattamente così, invisibile, dimenticata da chiunque e dunque libera. Libera di camminare in mezzo alle persone senza essere notato, disturbato, importunato.

La mia ingenuità, o forse il mio egoismo infantile, non mi faceva nemmeno accarezzare l'idea che quello che io consideravo il mio sogno, il mio desiderio nascosto, era in realtà il suo incubo, il suo fardello da portare avanti, nonostante tutto, a testa alta.

 

Tentai di rifiutare tutto ciò che rappresentavo, pur di perseguirlo: diventai silenziosa. Cominciai a buttare ogni mia energia nello studio, affinché la maestra non dovesse rimproverarmi, senza eccellere, per non cadere nel rischio di essere portata come modello. Protestavo per andare a nuoto, per uscire al parco, per andare a fare compere in centro con le ragazze, cosa che di norma mi divertiva tantissimo.

 

Solo a una cosa non ebbi il coraggio di rinunciare: il canto e la musica.  

 

Quasi tutti noi ragazzi di Blunderstone, tranne Laura che, poverina, era stonata come una campana, sapevamo cantare e suonare uno strumento: innanzi tutto perché la Signora Gaskell era un'eccellente pianista e ci incoraggiava a coltivare questa passione, in secondo luogo perché, crescendo in un ambiente parrocchiale, era quasi inevitabile che fra coristi, chitarristi e quant'altro nascesse l'interesse per la disciplina.

Io, per parte mia, avevo scelto la chitarra: ero troppo poco raffinata per il pianoforte, avevo le mani ancora troppo piccole, la schiena troppo curva e troppa poca costanza. Se a questo si aggiungeva il fatto che suonarlo avrebbe significato fare pratica con Luke, non è difficile comprendere quanto, piuttosto, avrei preferito farmi segare le mani con un’accetta da boscaiolo.

 

Ciò che realmente adoravo, tuttavia, era il canto: non passava minuto senza che intonassi qualcosa a voce più o meno alta e ogni occasione era buona per spaccare i timpani all'intera casa famiglia, rimediandomi spesso esasperati rimbrotti, quando mi andava bene, o lanci di oggetti di svariata natura, quando le orecchie dei presenti raggiungevano il limite di tolleranza.

 

Il picco della mia insopportabilità in ogni caso, fu raggiunto quando scoprii il fantastico universo dei musical.

 

Era un pomeriggio di febbraio e io mi stavo crogiolando distesa a pancia in giù sul grande tappeto colorato della stanza che i Signori Gaskell ci avevano attrezzato per lo svago, osservando attentamente le striature di colore che si alternavano sulla morbida superficie. Mi divertivo a fissarle, perché dopo qualche secondo di attenzione queste cominciavano a muoversi, per uno strano gioco di prospettive. Immaginavo che si

increspassero fino a diventare le onde del mare che mi piaceva disegnare, illuminate dal sole che, nel mio caso, era il caminetto acceso e crepitante.

 

Accanto a me, come sempre, Teddy fabbricava aeroplanini. Ne stava decorando uno con tale impegno che la lingua gli spuntava dal lato sinistro della bocca e le guance gli erano divenute rosse per la concentrazione. Luke, senza sapere come impiegare il tempo in maniera più costruttiva, fabbricava palline di carta, le metteva in bocca e gliele lanciava, aspettando invano che lui cogliesse la provocazione e tentasse di fermarlo. Se devo essere sincera, anch'io attendevo con ansia quel momento: desideravo che qualcosa si smuovesse, per smettere di annoiarmi, ma lui non accennava minimamente al voler rispondere per le rime.

Sbuffando accesi il televisore: c'era una signora con un vestito nero e un grembiule grigio che correva sulle montagne, cantando. Alzai il volume, fissando con meraviglia le cime innevate, sullo sfondo; da noi non c'era niente di simile e io avrei desiderato tantissimo poterle osservare da vicino.

 

Stavo ancora fissando la signora, che si chiamava Maria, quando notai che anche l'attenzione di Teddy era stata attratta dal piccolo schermo. Lo vidi muovere impercettibilmente i piedi incrociati a ritmo di musica, mentre con la testa spettinata seguiva la melodia chiudendo, di tanto in tanto gli occhi. Stava lì seduto in silenzio, con le spalle lievemente sollevate, come per proteggersi e nascondersi allo stesso tempo da chi gli era intorno. Chiuso nel suo piccolo mondo, ascoltava la canzone in silenzio, come paralizzato da quell'allegro susseguirsi di note, e io, mai come allora, desiderai poter entrare nel piccolo spazio in cui viveva. Per la prima volta dopo giorni, mentre io sentivo crescere in me la certezza che dentro di lui il cuore stesse battendo al ritmo della musica, desiderai nuovamente qualcuno accanto. Avrei voluto che il pulsare a tempo del suo sangue, che potevo quasi vedere scorrere attraverso il maglione di pesante lana grigia, mentre si mescolava a quella coinvolgente melodia, si unisse al mio, come in quelle canzoni dove le voci si uniscono perfettamente, pur rimanendo distinte.

 

Ricordo di averlo osservato a lungo, fino alla fine della scena: avrei voluto chiamarlo, prenderlo accanto a me, stringergli la mano che ancora reggeva l'aeroplanino, abbandonata sul ginocchio piegato, ma non lo feci. Più volte incrociai il suo sguardo, mentre osservavo il suo sorriso allargarsi timidamente. Ma non lo chiamai: avevo ancora paura.

 

The sound of music mi piacque così tanto che ne parlai a chiunque per giorni, mentre nella mia testa sognavo di divenire grande e brava abbastanza per poter recitare la parte di Liesel. Il Reverendo Gaskell, non potendone più di sentirmi intonare 16 going to 17 imitando tutte le parti, compresa quella dell'uomo, cominciò a chiedere a ogni persona di sua conoscenza se possedeva la videocassetta, nella speranza di poter almeno farsi rompere i timpani dalle versioni originali delle musiche, anziché dalla mia vocetta argentina.

 

Il momento in cui arrivò nelle mie mani segnò la rottura definitiva della mia "fratellanza" con Luke. Dopo una violentissima lite scoppiata per il monopolio del videoregistratore, dalla quale lui uscì con un graffio che gli percorreva la guancia e io con un occhio nero che mi faceva assomigliare alla versione bionda e innocente di un personaggio di The Warriors lui domandò una tregua. Io vinsi con grandissimo orgoglio la scelta dei cartoni per un mese e lui dovette assumersi come onere per la sconfitta il delizioso compito di spiegare alla Signora Gaskell il perché la camicia della sua divisa scolastica era strappata sulla schiena.

Non ci rivolgemmo più la parola.

 

Teddy, inspiegabilmente, continuò a seguire me. Non mi spiegavo il motivo per cui preferisse stare accanto a una bambina che nemmeno trovava il coraggio di intavolare con lui un discorso, piuttosto che uscire a giocare a calcio con Luke e gli altri. In realtà suppongo che gli appellativi di "femminuccia", "asociale", "stupido" che gli aveva attribuito con moltissima gentilezza Luke fossero il principale incentivo a lasciare perdere e trascorrere il suo tempo in casa, piuttosto che fuori con loro.

 

Qualche giorno dopo quell'episodio la Signorina Stone, l'insegnante di musica, ci comunicò che per quell'anno avrebbe voluto portare sul palcoscenico un musical, come spettacolo di fine anno. Nemmeno a farlo apposta scelse proprio "The sound of music", perché le permetteva di riunire ragazzi di diverse età provenienti dalla scuola elementare e media del polo della St. Bernadette. Chiunque desiderasse interpretare un ruolo principale doveva prepararsi un pezzo con cui esibirsi per poi essere valutati e selezionati.

 

Sconfissi la mia asocialità e mi presentai cantando ovviamente 16 going to 17. Non ottenni la parte di Liesel, vista la mia età, tuttavia incantai la maestra che mi assegnò immediatamente il ruolo di Brigitta.

 

Il pomeriggio ci furono le selezioni per le parti maschili: con mio enorme stupore,Teddy si sedette fra quelli che desideravano interpretare uno dei personaggi principali. Lo fissai sbalordita sedersi in mezzo al gruppo di ragazzi in attesa e lì rimanere, aspettando pazientemente il suo turno. Nello schedario delle persone che mi ero creata in testa Teddy era il solitario silenzioso: non riuscivo a comprendere come avrebbe potuto salire su quel minuscolo palchetto traballante e cantare davanti a tutti. E, sinceramente, non coglievo nemmeno la ragione per cui avrebbe dovuto farlo.

 

Vidi Luke e gli altri della nostra classe cominciare a guardarlo divertiti. Era evidente che stesse restituendo un ritratto dalle tinte fortissime di lui mediante teatrali gesti che lo dipingevano come uno scimmiotto rimbecillito che passava il suo tempo a giocare con gli aeroplanini e seguirmi come un ombra. Risultava cristallino che stesse raccontando che Teddy diveniva rosso e balbettava ogni volta che gli si rivolgeva la parola e che nessuno l'aveva mai sentito cantare prima di allora. Non capivo cosa ci trovassero tutti di tanto divertente. Mi sembrava che fossero loro un branco di scimmie ammaestrate per battere le mani e mi sorpresi a chiedermi cosa avrebbero fatto se fossi andata lì e gli avessi spiaccicato quel naso a patata con un pugno. Probabilmente avrebbero riso comunque, compiacendosi della propria stupidità.

 

Stetti a osservare in silenzio le esibizioni dei maschi, mentre accanto a me le mie compagne sollevavano commentini e risatine.

A che età si cominciano a odiare i maschi? Sicuramente deve essere più tardi, verso i tredici anni, perché ricordo che il canto era costantemente coperto dai loro apprezzamenti espressi con vocine stridule da gallina strangolata. Tentando di concentrarmi sulle voci degli aspiranti Von Trapp, io notavo invece che la metà di loro avevano a malapena una vaga idea di cosa fosse una canzone. La restante parte non imbroccava una nota nemmeno a strillargliela nelle orecchie. Quando fu il turno di Luke, volle cantare a tutti i costi Let it be, nonostante fosse consapevole di stonare sempre nello stesso punto, come gli ripeteva all'infinito il direttore del coro di St. John's, che ci dava lezioni di canto su richiesta della Signora Gaskell. Non aveva ancora imparato a controllare la voce passando in falsetto -e mai l'avrebbe fatto, nemmeno una volta divenuto famoso, aggiungerei malignamente io. Fortunatamente al giorno d'oggi esistono infiniti modi di regolare la voce di una traccia. In ogni caso, scese comunque dal palco sfoderando il petto, credendosi John Lennon in persona.

 

Poi fu il turno di Teddy.

Quando la maestra a gran voce chiamò Theodore Bertrand, nessuno rispose. Mi guardai attorno in ricerca della sua testa, che avevo visto sparire nel nulla poco tempo prima dell'esibizione di Luke. Dopo qualche secondo, dal fondo del teatro, vidi spuntare un ciuffo di capelli castani.

Sentivo i mormorii canzonatori dei nostri compagni e le risatine sollevarsi dai piccoli gruppetti che si erano creati sotto il piccolo palco, attorno al pianoforte dove sedeva la Signorina Stone e attorno a Steven, seduto su una sedia sgangherata con la sua chitarra nera in mano.

Me ne saltellavo fremente sulla mia sedia e mi guardavo intorno nervosa, incoraggiandolo mentalmente a sbloccarsi. Dentro di me una voce premeva per gridargli di alzarsi e cominciare a cantare, perché non sopportavo  i giudizi e le cattiverie che udivo su di lui attorno a me. Non aveva mai fatto del male a nessuno, non aveva colpe, se non quella di ritrovarsi catapultato in un mondo i cui i meccanismi erano ben oliati da tempo, e non meritava il rifiuto e lo scherno da parte di tutti. A un certo punto, quando udii qualcuno domandare a bassa voce “Ma perché, sa parlare?” non potei trattenermi oltre. Mi levai di scatto, facendo sobbalzare sulla sedia chi mi stava accanto. Mi avvicinai come una furia a lui e senza troppe cerimonie lo tirai per una manica, trascinandolo fino al palco.

 

Lo piazzai al centro e domandai a Steven di suonarmi Edelweiss. Teddy cominciò a protestare debolmente, arrossendo fino alla punta dei capelli quando dal basso qualcuno incitò Theodora a tirar fuori la voce.

 

-O quella o 16 going to 17,- obiettai con un sorriso soddisfatto, sentendo di averlo messo con le spalle al muro.

-Non la conosco! - Tentò di scusarsi con scarsa convinzione.

-Non provare nemmeno a trovare delle scuse! Guardi quel film con me cento volte al giorno da almeno un mese! L'unica giustificazione accettabile sarebbe la tua sordità, ma è evidente che tu ci senta perfettamente, quindi forza. Canta.

Feci un segno a Steven che iniziò a suonare, ma dopo le prime parole mi risultò chiaro che Teddy non aveva intenzione di aprire bocca. Gli rivolsi uno sguardo infuocato: dopotutto mi ero esposta per lui e non mi andava di cantare da sola, impalata come un baccalà, mentre tutti i nostri compagni cominciavano a ridere anche di me e della miaimprovvisa decisione di trasformarmi in un kamikaze della scala sociale. Teddy però era come impietrito e non dava cenno di volersi smuovere dalla condizione di equilibrio stabile in cui era caduto. Un po' come la pallina che ti fanno vedere sui libri di fisica: niente al mondo l'avrebbe smosso, o avrebbe sciolto le sue spalle lievemente sollevate e i pugni stretti lungo i fianchi. Perché iscriversi al provino allora?, continuavo a domandarmi.

 

-Theodore...,- lo incalzò dolcemente la Signorina Stone a metà della prima strofa, quando non sembrava dare segno di voler cantare.

 

Lo guardai mentre intonavo il ritornello e all'improvviso capii: Teddy non era timido. Era solo e spaventato. Fissava i nostri compagni come se desiderasse scusarsi per non essere alla loro altezza. Come per domandare perdono di essere un grillo piccolo e magrolino con i capelli disordinati e le unghie rosicchiate, anziché uno che guardava il mondo a testa alta, orgoglioso e sicuro di sé. Era come se si sentisse l'unico a cui attribuire la colpa del proprio isolamento e dell'indifferenza, o dell'astio, che tutti mostravano nei suoi confronti. Non era timore del palcoscenico il suo, ma terrore di lanciarsi, smuoversi e tentare di cambiare lo stato dei fatti e vedere che i propri sforzi per essere accettato e benvoluto erano stati inutili.

 

Cessò il ritornello e cominciò il piccolo stacco musicale che ci separava dall'inizio della seconda strofa. Mi avvicinai e gli strinsi la mano. Era bollente e tremava dalla paura.

 

-Ci sono io ad ascoltarti.

 

Lo sentii irrigidire il pugno chiuso al mio tocco e sgranare gli occhi per lo stupore. Non iniziai a cantare sperando che Steven capisse e facesse un altro giro nell'attesa. Ed ecco che, finalmente, sentii le sue dita incrociarsi alle mie e stringerle forte, per infondersi fiducia.

 

Ricominciai a cantare, chiudendo gli occhi, quando udii la voce di Teddy unirsi alla mia.

Dolce, delicata, controllata e sussurrata, senza una sbavatura.

 

Li riaprii solo qualche secondo dopo il termine del pezzo, quando la Signorina Stone ruppe il silenzio surreale e immobile che era calato nella sala quando Teddy aveva iniziato a cantare.

 

-Penso che abbiamo trovato il nostro Kurt,- mormorò incredula.

 

Con orgoglio lo guardai accennare un balzo trionfante, mentre i suoi occhi si illuminavano di emozione e tutti i presenti lo osservavano in silenzio apprestarsi a scendere dal palco, senza lasciarmi la mano, ormai bianca per lo sforzo di stringere la sua. Stava saltando, ma di una cosa ero sicura: sarebbe atterrato in piedi.

 

E io gli sarei stata accanto.

 

Rincasammo insieme quel pomeriggio, camminando in silenzio uno accanto all'altra.

 

 -Perché lo hai fatto? - mi domandò appena prima che entrassimo in casa.

Scrollai le spalle. Credo di essermi sentita in colpa, avrei dovuto rispondergli.

Invece mentii, anche se non mi so ancora spiegare il perché

 

-La prima volta che abbiamo visto the Sound of music tenevi il ritmo con il corpo e canticchiavi a bassa voce. Chiunque sia in grado di battere i piedi a ritmo alla nostra età ha la musica nel sangue. Non mi sbagliavo, hai una voce meravigliosa.

Teddy arrossì fino alla punta delle orecchie, sorridendomi compiaciuto. Solo allora notai che non fosse affatto piccolo come sembrava. Fiero del mio complimento aveva raddrizzato la schiena e io mi accorsi che mi superava di almeno mezza testa. Non che questo significasse essere un gigante, visto che sono sempre stata abbastanza piccola, ma nemmeno uno scricciolo come lo avevo sempre considerato.

 

-Perché non canti mai? - gli domandai sistemandogli la cuffia di lana che gli era crollata sugli occhi.

-La mia nonna non vuole.

-E che t'importa? È morta,- non lo dissi con cattiveria, ma con tutta l'innocenza e il candore di cui solo un bambino è capace. E con la leggerezza di chi, come me a differenza sua, non aveva mai provato cosa volesse dire perdere qualcuno.

 

Lui mi fissò incredulo, poi si voltò ed entrò in casa, senza dire una parola.

Lo ritrovai un'ora dopo, nella saletta dove prendevamo lezioni di musica. Stava seduto al pianoforte con una mano appoggiata sulla coscia, mentre con l'indice dell'altra picchiettava lentamente i tasti, solo per essere sicuro di prendere la nota. Cantava sottovoce, come se avesse paura delle sue stesse parole.

Mi avvicinai lentamente e presi posto accanto a lui.

 

-Non dovevo dire quelle cose,- mormorai, afferrando il suo dito e cominciando a farlo scorrere lungo i tasti fino a comporre la melodia della canzone finale di Anastasia, che mi aveva insegnato Juliet, una delle ragazze più grandi di Blunderstone.

 

-Sono contenta sai che ci sei... - gli dissi, continuando a suonare,- almeno non devo sopportare da sola Luke. E tutti gli altri, a scuola. Non mi stanno molto simpatici ultimamente, anche per come si comportano con te.  

-Tutti sembrano ignorare il fatto che esisto. E va bene, sono nuovo. Ma sono simpatico, davvero, e non son nemmeno tanto silenzioso come credono tutti,- mi rispose deluso.

Interruppi la canzone, sorridendogli.

 

Io lo so. Speravo di fargli capire.

 

-Oggi sono contento però,- mi disse, riprendendo a suonare lentamente. Imparava in fretta e già sapeva riprodurre meglio di me la melodia.

-Perché hai ottenuto la parte,- gli dissi trionfante.

-No, perché me l'hai fatta ottenere. Grazie.

-Non è me che devi ringraziare,- gli risposi, - sei bravo.

-Io penso che sia merito tuo.

-E perché? gli domandai.

-Perché mi hai fatto capire che non sono solo. Ora so che a me ci tieni.

 

Da quel giorno divenimmo inseparabili.

 

 

***

I know you care.

 

Stavo ancora annotando mentalmente le parole di Teddy, le palpebre chiuse, con il viso scoperto rivolto al sole, quando mi accorsi di non essere più sola. Aprii un occhio, coprendomi con la mano la fronte per proteggermi, riconoscendo nel ragazzo che stava in piedi davanti a me Marcus, uno degli inquilini del numero 37 di Rue Gabrielle. La sua stanza doveva essere a pochi metri dalla mia, perché più volte lo avevo incrociato nei corridoi. Era sempre indaffarato e di corsa. Ma questa volta non sembrava avere molto da fare: passeggiava per il giardino incurante del freddo e della neve per terra, aspirando profondamente dalla sigaretta elettronica: gli dava un'aria ricercata ed eclettica.

 

-Sei la fidanzata di Teddy, vero? - mi domandò, prendendo posto accanto a me.

Annuì lentamente, nascondendo il naso dietro la sciarpa e sbuffando per riscaldarne la punta divenuta insensibile.

Si sedette, tacendo per qualche istante. Sotto di noi Parigi riposava, coperta dalla neve e impreziosita dal sole. Era una sensazione strana osservare la città da quella prospettiva e non vi avevo ancora fatto l'abitudine. Era come tentare di dominare qualcosa che vegliava. Avevo sempre paura che la città sotto di me si sarebbe presto riscossa dal suo sonno e mi avrebbe inghiottito con i suoi tetti alla Mansart e i suoi grattacieli in lontananza.

 

-Ti piace Parigi? - mi domandò, accennando al panorama dinnanzi a sé.

-Sinceramente no. Ma non ho visto molto,- gli risposi.

Marcus sorrise con assenso, -I parigini son tosti. Ma non è tutto male, da queste parti.

Inarcai le sopracciglia, fissandolo prevenuta.

Alla mia risposta, aspirò profondamente e si mise nella mia stessa posizione, allungando i piedi e incrociando le mani al petto

-Prima o poi ti ci abituerai.

-Non credo.

-Perché non torni a casa allora?

 

Capii immediatamente che il suo fine non era quello di curiosare o risultare inopportuno. Fu una domanda candida, quasi come una constatazione; lo fissai a lungo per tentare di decifrare le sue intenzioni, ma tutto ciò di cui mi accorsi non fu altro che il mio bruciante desiderio di accogliere qualcuno nel mondo in cui ancora una volta mi ero rifugiata, per proteggermi da quello che nella realtà mi straziava. Me ne stavo rintanata in un angolino buio, in cui non vi ero altro che io, i miei ricordi, i miei fantasmi.

 

Londra, Brighton, la mia adolescenza, i miei errori, Teddy. La sua mancanza, il bisogno fisico di sentirlo accanto, la consapevolezza che non avrei mai più sentito le sue dita sfiorarmi la guancia per infondermi coraggio.

E lì c'era qualcuno che mi stava offrendo una pausa. Uno spiraglio di aria per non soffocare del tutto.

 

Non mi scrutava, anzi, continuava a fissare il cielo fumando distrattamente. Voleva semplicemente chiacchierare, fare la conoscenza di quella sua connazionale stramba del secondo piano, come immaginavo mi chiamassero.

A essere sincera, anch'io lo avrei pensato se fossi stata in loro: sebbene avessi cominciato a mettere il naso fuori dalla mia camera e, di tanto in tanto, mi facessi vedere con la testa tuffata nel frigorifero della cucina comune al piano terra, o vagare per i corridoi nel tentativo di orientarmi all'interno della struttura, non avevo mai preso parte alla vita che condividevano. Non mi ero mai presentata a nessuno, nonostante tutti ormai avessero accettato la mia esistenza e mi salutassero sorridenti quando mi incrociavano.

 

Avevo cominciato a mostrare interesse per il luogo dove vivevo: Isabelle e Michel, gli unici a cui concedevo il privilegio di udire la mia voce, mi avevano spiegato che la struttura dove risiedevamo altro non era che uno studentato per giovani artisti emergenti. Non servivano referenze o voti particolarmente alti per poter divenire gli inquilini di una delle numerose stanze dalle pareti verde acqua. Il solo metodo di selezione era il possedere un qualche talento artistico. Isabelle mi aveva raccontato che era stato suo nonno, un mecenate piuttosto conosciuto a Parigi, a inaugurare per primo una tale, alternativa, forma di alloggio negli anni '50. Amava l'arte e finanziava già l'Accademia e altre scuole della capitale, quando un professore gli fece notare quanto fosse difficile per un ragazzo che giungeva per studio in città, trovare luoghi che permettessero di allenarsi e coltivare le proprie passioni anche fuori dalle strutture scolastiche. E così, aveva convertito un paio dei palazzi di sua proprietà in studentati, ristrutturandoli in modo che vi fossero aule dedicate alla pittura, laboratori del legno, sale con strumenti musicali e quant'altro, in modo tale che gli inquilini potessero condividere la loro attività con tutti gli altri.

 

-Io suono il pianoforte, mi sto per diplomare al Conservatorio,- mi spiegò.

 

Michel invece frequentava l'ultimo anno dell' Accademia delle Belle Arti. Studiava architettura, ma aveva la passione della fotografia e molti suoi lavori erano già stati selezionati per comparire all'interno di prestigiose mostre in giro per la città.

 

Giorno dopo giorno, mi accorsi di quanto quel posto atipico, spesso disordinato e rumoroso, dove dovevi fare attenzione a dove mettevi i piedi per il timore di rovesciare un cavalletto, un vaso in terracotta o crollare rovinosamente su una chitarra lasciata in giro, mi stesse entrando nel cuore. Vi vagavo come un fantasma, ben attenta a dare il meno possibile nell'occhio, quando tutti uscivano per recarsi all' Università o in qualunque posto trascorressero le loro giornate fuori da casa. Al tramonto poi il sole penetrava attraverso le grandi vetrate che si affacciavano sul giardino interno, colorando gli interni di una luce rosa-giallastra, così intensa che mai avevo notato in altro luogo se non a Parigi.

 

Erano quelle le ore della giornata che preferivo. Avevo scoperto che, a poche stanze dalla mia, vi era una sala comune, con un meraviglioso pianoforte a coda nero e tante chitarre meticolosamente appoggiate alla parete ricoperta di carta da parati bordeaux, dal gusto retrò, rovinata in svariata punti. Evidentemente ricoprire le pareti con un materiale che si sarebbe inevitabilmente rovinato al solo sfiorarlo era una perversione dei francesi che nemmeno la più innovativa scoperta in materia di rivestimenti avrebbe potuto cancellare. Nelle ore di solitudine avevo cominciato a sedermi sul panchetto, rompendo qua e là il silenzio, spingendo lentamente il dito indice sugli immacolati tasti bianchi e neri: chiunque utilizzasse quello strumento, doveva trattarlo come un figlio, pensavo. Era sempre così lucido che appena finivo di usarlo correvo a cercare una pezzuola per pulirlo, quasi come fosse un oggetto sacro. Creava un contrasto con la patina di vecchiume che ricopriva ogni altro oggetto nella stanza che non smetteva mai di catturare il mio occhio.  Sedevo lì, tentando di ignorare il richiamo delle chitarre ordinatamente riposte nei loro cavalletti e di concentrarmi su quel pianoforte, senza mai suonare nemmeno quello. Rimanevo immobile per ore, come congelata, incapace di dare voce alle mie emozioni come avevo sempre fatto nella mia vita, reprimendo un istinto che temevo mi avrebbe portato sull'orlo di un precipizio, volontariamente muta.

 

Provavo ad aprire la bocca, ma una parte di me non desiderava che vi uscisse alcun suono.

 

Vi era stato un giorno in cui l'aria era calma e il cielo si era fatto improvvisamente di un nero brillante, privo di nubi, così che le luci tremolanti dei lampioni in strada vi si riflettevano come milioni di lampade cinesi.

Sedevo al pianoforte da qualche minuto, fissando il cielo fuori dalla finestra, quando mi resi conto che sovrappensiero avevo cominciato a canticchiare. Era stato un gesto improvviso, inarrestabile, finalmente liberatorio. Avevo l'impressione di stare ai piedi di un sentiero di montagna, sulle spalle il peso delle mie paure. Avete presente quella strana sensazione che si prova all'inizio di un cammino, quando a pochi passi dalla partenza pensi a tutta la strada che devi percorrere e tergiversi in quell'istante di indecisione nel quale non sai se fermarti e tornare indietro finché sei in tempo o guardare avanti e riprendere il cammino? Poi qualcosa ti fa andare avanti con leggerezza, incoscienza, coraggio: è uno dei momenti più duri, ma, per come la vedo io, è anche il più bello perché nulla potrà mai restituirti la scarica di adrenalina e il senso di libertà e sollievo che provi nel momento in cui, finalmente, decidi di proseguire.

 

Avevo accennato una nota, poi due, ascoltando il suono della mia voce che sgorgava timidamente dal mio petto, accompagnata dalle note secche e frammentate del motivo che stavo riproducendo con il dito rigido, come un piccolo germoglio che si faceva strada lentamente fra il terreno indurito dal ghiaccio e dalle piogge invernali, mentre lacrime invisibili mi percorrevano il viso.

Avrei voluto urlare, sciogliere quel nodo che mi infiammava la gola, per non sentire più dolore e ricominciare a vivere.

 

Avevo chiuso gli occhi fingendo di non essere me stessa. All'improvviso non ero più Cléo, ma quella ragazza dai capelli scuri incrociata qualche minuto prima nei corridoi, che mi aveva lasciato addosso un profumo delicato e talcato. Come lei mi sarei preparata canticchiando e avrei indossato quel vestitino rosso, buttandomi sulle spalle un giubottino di jeans e sulle labbra un filo di rossetto. Avrei sorriso al pensiero dell'appuntamento che mi attendeva al bistrot di Boulevard St. Michel.

 

E non avrei provato alcun dolore, non vi sarebbe stato il bruciante senso di impotenza dinnanzi a una realtà che sapevo essere la mia, ma che rifiutavo con incredulo zelo.

E, mentre la mia mente mi rifletteva l'immagine di questa ragazza sorridente, viva, e i muri bordeaux attorno a me si dissolvevano per lasciare spazio a pareti intonacate di chiaro, ricoperte di scritte e quadri appoggiati su mobili bassi e scuri, avevo ricordato d'improvviso dove e con chi ero l'ultima volta che avevo cantato.

 

A casa, a Londra, con Teddy.

 

Avevo chiuso il pianoforte di scatto e mi ero allontanata di gran fretta.

 

 

***

 

 

Sospirai profondamente, tentando di cancellare quei ricordi e di concentrarmi sul sole accecante che si stringeva e si allargava sotto il mio sguardo. Lo fissai finché gli occhi non cominciarono a dolermi dal male e a lacrimare. Sentivo l'aria mancarmi, nonostante la freschezza pungente dell'aria che si stava caricando nuovamente di neve.

 

Mi voltai verso Marcus, pregandolo con gli occhi di non attendere la risposta, sperando che capisse il mio bisogno di soprassedere su certi argomenti, almeno per il momento.

Lui evidentemente capì, perché mi sorrise, stringendomi delicatamente il braccio e si alzò, allontanandosi da me lentamente. Poi, mentre fissavo la sua schiena sottile allontanarsi passo dopo passo, lui si bloccò, si girò verso di me e con un cenno della testa mi esortò a seguirlo.

 

-Vieni con me. Ti mostro una delle cose per cui vale la pena questa città.

 

 Tornai a casa con la pancia piena di Macarons al caramello, alla vaniglia, e a ogni altro gusto mi proponeva la pasticcera de "La biscuiterie de Montmartre", il locale in cui Marcus mi aveva portata.

-Allora non ti nutri di aria! – aveva commentato, addentando lentamente un biscotto al burro.

 

Gli avevo sorriso, sollevando il naso dalla tazza di cioccolata calda con cui avevamo accompagnato la merenda, ascoltandolo raccontare le epiche mangiate che si erano fatti lui e Teddy quando dovevano dimenticarsi di essere due inglesi trapiantati in terra nemica.

 

-Non ti da fastidio che ne parli, vero?

Avevo negato, sorridendo, bevendo avidamente quegli spaccati di vita vera, aggrappandomi alle parole di Marcus per ritrovare la certezza che ci fosse stato un giorno in cui Teddy aveva vissuto, aveva respirato, era stato seduto in questi tavoli come me, rimpinzandosi di dolcetti e cioccolata.

Ero rientrata con le guance rosse per il freddo e gli occhi lucidi per l'emozione, mentre Marcus mi teneva sottobraccio e mi mostrava angoli di Montmartre che non avrei mai notato da sola. Quello in cui il fantoccio di un uomo di sporgeva dalla finestra di un teatrino, per esempio, spaventando chiunque avesse la sfortuna di incontrarlo sollevando il naso. O quel cortile selvaggio, seminascosto da un muro, che cresceva silenzioso dietro i cancelli di una casa abitata da una vecchia pazza, che mi indicò ridendo del mio entusiasmo.

 

Anch'io sorridevo spontaneamente, come non mi sembrava di fare da tempo. Come se non fossi più Cléo.

 

Poi all'improvviso, tutto precipitò.

 

Salimmo le scale a chiocciola attirati dal trambusto che vi era al piano di sopra: succedeva spesso che qualche inquilino si sedesse al pianoforte, o prendesse in mano la chitarra e cominciasse a cantare per gli altri. Erano momenti che di solito ascoltavo con le orecchie tese, con grande invidia dalla solitudine della mia stanza vuota e silenziosa.

Mentre giungevamo al secondo piano qualcuno cominciò a mormorare di tacere, mentre quella che riconobbi essere la voce di Isabelle diede inizio a una canzone che conoscevo fin troppo bene.

 

Il canto di un ragazzo che non sapeva come esprimersi se non attraverso la propria musica e le note tremanti di una canzone composta in una notte di solitudine. Le parole di qualcuno che aveva taciuto troppo a lungo, che richiedeva l'attenzione di chi gli aveva voltato le spalle, respingendolo con tutta la forza, la violenza e l'orgoglio di cui era capace. Ma era anche la dolce musica di chi, nonostante tutto il male, continuava a sperare, a pregare, ad attendere con pazienza il giorno in cui sarebbe venuto il suo turno.

La sua voce cominciò a svanire alle mie orecchie. Al suo posto una sporca e lievemente roca, sussurrata, con le sue s sibilate delicatamente, mi  rivelava il proprio amore, domandandomi con infinta calma di aprire gli occhi, di fidarmi e di lasciarmi amare.

Parlava a una me adolescente, infinitamente stupida e immatura che credevo di essermi lasciata alle spalle, di cui ora tornavo a vergognarmi.

 

La stanza cominciò a girarmi intorno vorticosamente. Mi voltai, lasciando il braccio di Marcus con un gesto secco e cominciai a correre trafelata verso la mia stanza.

Mi avevano visto tutti.

 

Mi appoggiai ansimante al vetro della finestra, desiderando ardentemente di dissolvermi per poterlo oltrepassare e sparire alla vista di Isabelle, i cui passi si stavano facendo sempre più vicini.

-Non ne hai il diritto,- urlai, quando la udii aprire la porta della mia camera.

 

-Cléo calmati per favore... - tentò di accennare lei, avvicinandosi.

-Non puoi... – sussurrai, abbassando la testa, sentendo il pianto risalire attraverso la gola, infiammandola di rabbia.

Isabelle si bloccò dietro di me

-Non posso, cosa Cléo?

-Non puoi cantare quella canzone! - sputai con voce stridula, voltandomi a fissarla dritta negli occhi. Volevo che mi guardasse, volevo che leggesse nel mio viso il fallimento di tutti i suoi mesi di cure, di finti interessi.

-Perché no? - rispose lei con rabbia.

-Perché... - iniziai prima che lei mi interrompesse

-Perché parla di te?

Mi arpionai con gli occhi al suo sguardo altezzoso, incenerendola con odio.

-Isabelle, ti prego... - vidi Michel avvicinarsi e tentare di trascinarla via, nel tentativo di evitare il peggio.

Lei però si liberò con uno strattone dal suo abbraccio e si precipitò in avanti, di nuovo di fronte a me e cominciò a urlare, incurante della piccola folla che si era assiepata vicino a noi, nonostante Marcus tentasse di allontanare tutti, affermando con scarsa convinzione che non c'era nulla di interessante.

 

-Che c'è forse non lo sai? O forse lo sai e per questo e ti senti in colpa? - mi domandò con voce rotta dal pianto.

-Mi stai forse accusando di ciò che è successo?

 

Non avevamo mai affrontato l' argomento, nonostante fossero trascorsi ormai due mesi da quando mi aveva raccattata per strada. In realtà, pensandoci ora, non avevamo mai parlato di Teddy in generale. Non vi era mai stata l'occasione, o forse entrambe con incredibile abilità, avevamo fatto in modo che non si creasse nemmeno.

 

-No, sto solo dicendo di smetterla di credere di essere l'unica a soffrire! - mi rispose lei, scoppiando finalmente in lacrime.

Chiusi la bocca più e più volte, senza sapere cosa rispondere.

-Tu non capisci. Teddy era tutto ciò che avevo... - azzardai. Ma non bastava.

-Ma davvero? E dov'eri quando ti chiamava e non ti facevi trovare? O quando avrebbe avuto bisogno del tuo sostegno e tutto ciò che ha avuto in cambio è stato orgoglio e bieca invidia?

-Isabelle, ti prego...,- Michel tentava ancora invano di calmarla, tirandole il maglione di morbida lana color panna.

 

Capii immediatamente che a nulla sarebbero valsi i suoi gesti delicati, il suo tentativo di proteggere entrambe dal male che dovevamo farci, per poter sperare di riprenderci, un giorno. Potevo quasi vederla, toccarla, quella rabbia che Isabelle aveva represso fino a quel momento, dedicandosi con meticolosità a fare in modo che la sua vita fosse la stessa di prima.

Ma il momento di scendere a patti con la realtà e dare una forma al dolore che ci si porta dentro, arriva per tutti. E quando succede che ti coglie, annebbiando la tua facoltà di raziocinio, non puoi fare nulla per fermarlo, se non lasciare scorrere ciò che hai dentro, augurandoti in cuor tuo di fare il minor male possibile a chi ti è accanto, anche se in quel preciso istante odi tutti. Non importa chi hai davanti, non importa ferirlo, distruggerlo. Tutto ciò di cui ti curi è farlo il più violentemente possibile, nel disperato e forse inutile  tentativo di scaricare una volta per tutte il marciume tossico che ti sta lentamente facendo a pezzi, giorno dopo giorno.

Ma questo lo capisco solo ora.

 

Così me ne rimasi lì, incapace di rispondere a tale sfogo. Mi ero lasciata andare con la schiena contro il vetro e me ne stavo seduta con le gambe rannicchiate, immobile, ancorata al pavimento, con le unghie piantate così forte nella stoffa dei jeans che temevo si staccassero dalle dita, a domandarmi chi mi voleva così male da non lasciarmi godere nemmeno quell'effimero attimo di pace tanto agognata e conquistata finalmente quel pomeriggio.

Isabelle si era inginocchiata, singhiozzando davanti a me. Sapevo che avrei dovuto calmarla, che non avrei dovuto rispondere, darle ulteriore motivo di attaccarmi. E invece me ne rimasi lì, immobile, ancorata al mio orgoglio accecante, congelata nell'incapacità di affrontare le piccole tempeste della mia quotidianità con ragionevolezza; fu così che, prima ancora di soppesare il valore delle mie parole, mi ritrovai a risponderle con la voce strozzata dalle lacrime.

 

-Mi sembra che, in fin dei conti, Teddy abbia superato benissimo il trauma del distacco, quindi evidentemente, da queste parti c'è stato chi ha fatto bene il suo lavoro. Èdavvero un peccato che alla fine abbia scelto di tornare a casa, da me. Evidentemente il mio egoismo valeva di più delle tue moine.

 

Non so cosa mi aspettavo. Stupore? Ulteriore ira? Urla?

 

Forse sì. Tutto ciò di cui avevo bisogno in quel momento era uno scontro, il più violento possibile. Un sadico modo per dimenticare il bruciante senso di colpa provocato dalla domanda provocatoria di Isabelle.

Tutto ero pronta ad accogliere, tranne la reazione che mi mostrarono lei e Michel, dopo essersi fissati a lungo con espressione così incredula da farmi quasi arrossire dal timore di avere detto la più smisurata delle assurdità.

Una paura che assunse una disarmante concretezza quando, Isabelle, fatto crollare il braccio destro lungo il fianco, si passo una mano sulle guance madide, domandandomi con tono esasperato

-È davvero questo quello che credi? Che io sia gelosa di te, perché Teddy non ha mai smesso di amarti, sin da quando eravate bambini?

 

Rimasi a fissarla impassibile.

-Io ero convinta che tu lo sapessi...

-Sapere cosa, esattamente?

-Che io non avrei mai potuto amare Teddy...non nel modo in cui intendi tu, perlomeno.

Continuai a osservarla disorientata.

-Cléo...Teddy era mio fratello.

 

***

 

-Stai bene?

 

Mi ero chiusa nel terrazzo della sala comune al piano terra, dopo aver rubato un paio di sigarette dal pacchetto di sigarette che Michel lasciava sempre dentro il grande vaso in ceramica sopra al caminetto.

Speravo che nessuno mi notasse nel buio della sera che era ormai definitivamente calata, ma Marcus mi aveva trovata.

 

-Ho le finestre qui sopra, ho sentito l'odore di sigaretta e mi sono affacciato per guardare chi fosse. Lo sai che i francesi non si fanno problemi quando si tratta di fumare in un ambiente chiuso. Dovevi essere per forza tu a rinchiuderti qui fuori.

Gli sorrisi sputando fuori il fumo che mi aveva riempito i polmoni.

-Volevo assicurarmi che l'avessi presa bene,- mi sussurrò delicatamente.

-Tu come l'avresti presa? Sapere che il tuo fidanzato ti nasconde una fetta fondamentale della sua vita. Ops, sai Cleo, beh ho una famiglia intera di cui non ti ho mai parlato.

-Potevi immaginartelo. Sapevi il motivo per cui era venuto in Francia.

 

Aveva ragione. Non avevo mai voluto sapere nulla dei suoi anni di lontananza, perché sapevo che alla fine l'avrei odiato. Perché lui aveva avuto tutto quello che desideravo, senza nemmeno chiederlo. E io invece di gioire l'avevo odiato, respinto, mi ero augurata che soffrisse, piangesse, che non trovasse niente quaggiù di quello che si aspettava.

Nonostante tutto, a distanza di anni lui mi aveva accettata lo stesso e io mi ero illusa di essere diventata una persona diversa, solo perché ogni giorno mi ripeteva di amarmi. Mi ero convinta che non vi fosse più nulla in me di quella ragazzina immatura che non lo aveva nemmeno salutato prima che partisse.

 

Sentivo freddo. Mi ero imbacuccata dentro a tutti i maglioni che avevo trovato e mi ero buttata addosso la giacca di Teddy, ma tremavo.

 

Ero stanca. Stanca di stare male, di trattenere il respiro, di piangere, di non dormire la notte e crollare di giorno, di sentirmi vuota, persa, sola, abbandonata.

Volevo solo tornare a essere una persona normale, camminare per le strade con uno scopo, incontrare persone a cui sorridere, amare fortissimo, essere amata. Volevo tornare a occuparmi di ciò che dava uno scopo alla mia vita, la musica. Soffrire è difficile, spesso più che sorridere. Implica la fatica di mettere continuamente in discussione sé stessi. Farsi delle domande e tentare di darsi risposte sensate, per evitare di andare alla deriva.

E io cominciavo a sentire le mie forze venire meno.

 

-Marcus, - lo chiamai, tirandogli un cordino del cappuccio per richiamare la sua attenzione.

Mi fissò negli occhi, stupito del mio cambio repentino.

-Quando Teddy è arrivato qui stava uscendo da un’adolescenza piena di problemi e paure.

Il ragazzo annuì, attendendo pazientemente il resto.

-Quando è tornato  a casa era un uomo. Non uno qualsiasi, ma quello di cui mi sono innamorata. Io invece sono ancora la stessa ragazzina viziata, capricciosa e impertinente di allora.

Inarcò le sopracciglia confuso.

-Voglio sapere come ha fatto a trasformarsi nella persona che era. Voglio crescere e maturare. Voglio che venga il giorno in cui sentirò di meritarlo.

-E quindi?

-E quindi devi parlarmi di lui. Devi raccontarmi cosa è successo negli anni che ha trascorso qui. E devi farmi rivivere tutto. Sono ancora in tempo per rimediare, in fondo.

-Io non so cosa ti aspetti da me... - obiettò lui.

-Mi hai detto che la vita è lunga, ma ora che se n'è andata sei chiamato a essere una roccia per quelli verranno dopo. Erano solo parole? - gli domandai, fissandolo dritto negli occhi scuri, nel quali si riflettevano tremanti i lampioni che illuminavano la strada, incapaci di sostenere il mio sguardo. Erano così fragili che avrei voluto chiuderglieli con la mano e proteggerli fino all'arrivo del giorno.

-Evidentemente non aveva omesso tutto. Di qualcuno mi aveva parlato, Marc.

Mi guardò sbattendo lentamente le palpebre, mentre due identiche lacrime gemelle sfuggivano dalle sue ciglia lunghe e scure. Veloci come erano nate, sparirono infrangendosi sul cappuccio della felpa blu.

 

Abbassò la testa deglutendo a fatica.

 

Lo presi per un sì.

 

 

 

 

 

 

 

 

Note di un'esaurita

 

Io sono una pessimissimissimissima persona. Due mesi, sono tremenda.

E poi me ne esco con la Bibbia in cinquecento capitoli, chiedo venia. Spero che non vi siate ammazzate, tagliate le vene buttate a mare una volta giunte qui. Beh in tal caso non sareste qui a leggere i miei stupidi commenti quindi....ok, la smetto.

 

Come molti avevano chiesto, le notizie cominciano a trapelare e si fa un pochino di chiarezza sui personaggi: ora io sono consapevole che vorrete tutti uccidermi per Teddy, anch' io vorrei farlo, perché lo amo a tal punto che potrei quasi quasi far sfociare la storia nel paranormale e farlo resuscitare, o tornare sotto forma di cane, uccellino, calzino o qualunque cosa. NOOOOOOOOOT, I'm just kidding.

Però spero di essermi fatta perdonare introducendo la nuova figura di Marcus, il cui nome, per chi mi conosce, immaginerà immediatamente venire da Marcus Mumford (momento di silenzio e adorazione) e per chi non mi conosce....beh, ora lo sa.Come forse avrete notato dall'immagine copertina, il suo meraviglioso faccino prestavolto é Jim Sturgess, che oltre ad essereun bravissimo attore é anche un cantante, quindi é particolarmente azzeccato per la parte. Ascoltare per credere: questa é la scena più bella forse di tutto Across the Universe e lui é proprio àspdfhnaàbfòsahdnxoencijfhxhòzoih. Beh avete capito, no?

 

Altre note: il 37 di Re Gabrielle esiste davvero: non é uno studentato per artisti ed accademici, ma deve essere qualcosa di simile, perché curiosando attraverso le finestre, ho scoperto una grandissima cucina comune gigante e un cortile interno meraviglioso. L'ispirazione per gli interni viene invece da uno studentato reale di Parigi, in tutt'altra zona, dove vive un mio amico.

 

Le Jardin de la Tourlure invece é il giardino che costeggia l' Eglise du Sacre Coeur ed é uno dei punti più belli di tutta Parigi, per i miei gusti.

Il musical a cui faccio riferimento é The sound of music, Tutti insieme appassionatamente. é il mio musical preferito, oltre che uno dei film con cui sono cresciuta ed ho imparato ad amare la musica: se non l'avete mai visto ve lo consiglio caldamente. La canzone che Teddy e Cléo cantano, Eleweiss é questa, ovviamente a parti invertite, nel mio immaginario. 16 going to 17 invece é questa anche se purtroppo non riesco a trovare la scena del film. Kurt Brigitta e Liesel sono tre dei sette fratelli Von Trapp, la famiglia protagonista del film.

 

Un ultimo, importantissimo, riferimento musicale é la canzone Can't you see di un giovanissimo Roo Panes (che vi ricordo essere il prestavolto di Teddy). Mi sono innamorata del pezzo, nonostante sia molto diverso dal suo solito genere poiché é proprio come quello di cui parlo nel capitolo: la disperata richiesta di ascolto di un ragazzo a colei che gli ha voltato le spalle che tuttavia non perde la speranza e continua imperterrito ad attendere che lei si accorga dei suoi errori e ritorni sui suoi passi.

 

Ora.....ah si ricordo nuovamente il video trailer della storia, in cui per forza di cose ho dovuto usare altri personaggi per il volto di Teddy e Cléo, ma che spero apprezzerete comunque.

 

Ora....niente, vi saluto che sta arrivando Elle Sinclaire (che ringrazio peraltro per betare questa infinita roba, per capirmi e beh...per tutto quello che lei sa), e fra poco é il mio turno di pagare in posta CANTIAMO INSIEME ALLELUJA, quindi devo muovermi a pubblicare e spegnere.

 

Per chi volesse passare a fare due chiacchiere, condividere un po' di musica, sentirmi sproloquiare sui miei amori...insomma, per entrare nel mio zoo questo é il link del mio gruppo.

Per chi invece volesse chiedermi l'amicizia, ne sarò ben felice! (magari scrivetemi chi siete, così vi posso riconoscere come lettori e non come casuali passanti dal mondo di EFP)

 

Buon fine settimana a tutti!

 

Lyra

 

 

 

 

 

   
 
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