4
– Face the truth
Non
nevicava più. Continuò a fissare il vetro con
insistenza, ammirando quando il suo fiato lasciava nuvolette appannate
su
quella fredda superficie. Non riusciva ad essere pienamente
soddisfatto: lui
era così vicino, eppure non abbastanza. Gli era sfuggito
ancora, come quella
volta, nove anni prima, quando era riuscito a regalargli solo buchi di
pallottole. Non erano sufficienti, per un regalo d’addio.
Ma,
nonostante avesse fallito la sua missione, non
riusciva a trattenere la risata che cominciava a risalirgli nel petto,
per
esplodere alta, cattiva, terribilmente distorta. Lui era lì
ed era fuggito come
un cucciolo spaventato. “Ahi, ahi, Jigen…
è il tempo che ti ha rammollito o il
tuo nuovo amichetto? O è perché lei non
c’è più?”
Se
la ricordava bene, dopo così tanti anni, ma non
era una cosa strana: donne di quel genere sono assai rare. La miglior
killer in
circolazione, corteggiata da tutte le organizzazioni malavitose del
mondo; si
era lasciata assoldare da un uomo prestigioso, che pagava in contanti,
ma si
era sempre rifiutata di
lavorare in
gruppo fino a quando non aveva conosciuto Jigen.
Oh,
se la piccola Ariadne avesse capito subito che
seguire quell’uomo col cappello era pericoloso…
specie a causa degli altri
componenti del gruppo. Scoppiò a ridere e il vetro davanti a
lui s’appannò così
tanto da celargli alla vista la città addormentata.
Erano
stati un bel gruppetto in fin dei conti, no?
Lui, Jigen, Ariadne e Gin. Il loro datore di lavoro non si era mai
lamentato
del loro operato, erano professionisti dopotutto; un vero peccato,
proprio, che
tutto quell’oro finisse nelle mani di un lardoso miliardario
e che quel misero
30% che il vecchio intendeva rifilare loro andasse diviso per quattro
– sei,
contando quelle due macchiette che dovevano aiutarli. Un vero peccato,
specie
quando c’era qualcuno che sul mercato offriva molto di
più per i suoi servigi.
Davvero,
se si fosse lasciato sfuggire un’occasione
come quella se ne sarebbe pentito… rimpianti per tutta la
vita, no, non avrebbe
potuto sopportarlo. Il primo era stato Jigen. Davvero, doveva fidarsi
ciecamente di lui se gli dava le spalle senza tanti problemi, quando
sapeva di
che pasta era fatto il suo collega.
Una
scarica era bastata per lui e per quel paio
d’idioti mandati dal capo; ancora si chiedeva come fosse
riuscito a
sopravvivere, con tutti quei buchi nella schiena: fortuna,
probabilmente, solo
una sfacciatissima fortuna.
Poi
aveva cercato Gin, ma invano. Quella volpe
doveva aver annusato il pericolo nell’aria o qualche offerta
più allettante, ma
non c’erano più tracce di lui. Scomparso, come una
nuvola di fumo. Era andato
dal capo, allora, pronto a regolare i conti e a prendersi un
po’ di extra dalla
sua cassaforte, quando Ariadne gli si era parata davanti.
Lei
gli aveva dato qualche problema, effettivamente,
ma alla fine il proiettile decisivo era arrivato anche per lei. Tutto
il resto
era filato liscio come l’olio e, davvero, Mash aveva
considerato la faccenda
chiusa, almeno fino a che non era venuto a sapere di Jigen. Il caso
aveva
voluto che anche Gin sbucasse fuori nel momento più
opportuno.
Ridacchiò:
tutto sembrava andare per il verso
giusto. Il panico sul volto del suo caro vecchio amico era stato
qualcosa di
impagabile; non vedeva l’ora di trovarselo di fronte, di
vederlo scappare come
un coniglio. L’avrebbe inseguito, sì,
l’avrebbe inseguito con sommo piacere.
Chissà se anche Gin si sarebbe unito a loro…
forse era tempo di organizzare una
rimpatriata in grande stile. In memoria dei vecchi tempi, ovviamente.
*
<
Bé, non è stato molto carino da parte tua
lasciarci
in quel modo, sai?>
In
un’altra situazione Jigen avrebbe volentieri
mandato al diavolo quell’idiota del suo collega, ma date le
circostanze sentiva
di meritarsi un poco di biasimo. Non riusciva a darsi pace. Cosa gli
fosse
preso, in quel momento, sdraiato tra la neve del parcheggio, non lo
sapeva
proprio, sapeva solo che più ripensava a quanto era successo
e più se ne
vergognava.
In
realtà neanche Lupin sembrava troppo intenzionato
a fargliela pesare: vagava pensoso per la stanza, mentre ripeteva ad
alta voce
tutte le informazioni che aveva accumulato fino a quel momento e come
pensava
di articolare il suo geniale piano. Dal divanetto lì vicino
Erika Lenher lo
fissava attenta.
Sembrava
aver recuperato un po’ di lucidità dopo
quanto era successo poche notti prima e per fortuna, perché
se l’Organizzazione
avesse provato ad attaccare di nuovo bisognava essere tutti pronti e
reattivi.
Avevano richiamato anche Goemon per l’evenienza e ora il
samurai stava seduto
accanto alla ragazza, spada in grembo e occhi chiusi, intento a
meditare.
Ad
un certo punto il ladro più famoso del mondo
interruppe il suo andirivieni e guardò Jigen come se lo
vedesse per la prima
volta dopo secoli. < Dov’è Fujiko?>
L’uomo
sgranò gli occhi da sotto il cappello.
<
Credevo fosse con voi quando Gin ha
attaccato.>
<
Lo era, ma poi si è precipitata fuori non
appena sono cominciati gli spari. Credevo fosse venuta da te.>
Calò
un silenzio di tomba e Jigen non poté fare a
meno di pensare che quello era l’inizio di un altro,
terribile, casino.
*
C’erano
delle regole che si era data, dopo essere
stata costretta a lasciare Shinichi e il dottor Agasa. Regole che aveva
seguito
con cura maniacale, perché, lo sapeva, se qualcuno,
chiunque, l’avesse
riconosciuta, per lei sarebbe stata la fine. Troppe volte aveva sfidato
la
sorte, troppe volte si era salvata per il rotto della cuffia: non
doveva
accadere più.
Così
non usciva mai prima d’indossare la sua
maschera; non quella che aveva dovuto portare per tutti gli anni in cui
era
stata costretta a collaborare con l’Organizzazione, ma un
travestimento fisico:
occhiali spessi, parrucca, lenti a contatto, abiti completamente
diversi da
quelli che indossava usualmente.
Da
quando aveva saputo che Gin era in circolazione,
la sua attenzione aveva rasentato la paranoia. Specie in quei momenti,
in cui
era costretta a camminare per strade particolarmente affollate, doveva
costringersi a non voltare continuamente la testa per controllare che
non ci
fosse nessuno di sospetto; era un logorio nervoso massacrante.
Fece
un respiro profondo, cercando di mantenere la
calma. Accanto a lei una fiumana di persone si lasciava trascinare
dalle solite
faccende di poco conto; avrebbe tanto voluto mischiarsi a loro,
riuscire a
comportarsi con naturalezza come tutta quella gente così
banale, così normale.
Ci
provò. Si mise davanti ad una vetrina, come
moltissime altre donne, e osservò la merce esposta: una
serie infinita di
scarpe, nessuna delle quali le piaceva veramente. Se Akemi
l’avesse vista in
quel momento, con ogni probabilità sarebbe scoppiata a
ridere: la sua
sorellina, quella che aveva consacrato la sua vita allo studio e alla
scienza,
cercava quella frivolezza che le aveva sempre dato il voltastomaco.
Davvero
ridicolo.
Ma
era davvero così innaturale? Shiho lanciò
un’occhiata
attorno a sé, per vedere se aveva attirato
l’attenzione di qualcuno: nessuno la
stava osservando. Si sentì un po’ rincuorata,
forse non era così fuori luogo
come le sembrava.
Tornò
a fissare la vetrina, ma qualcosa nel riflesso
le fece gelare il sangue: cappotto nero, tratti affilati, occhi di
ghiaccio.
Gin.
Rimase
immobile, sguardo fisso sulla vetrina, ma
dentro di lei si stava scatenando un putiferio: l’aveva
vista? L’aveva
riconosciuta? Forse se fosse rimasta lì dov’era,
continuando a guardare il negozio,
non l’avrebbe neanche notata. In fin dei conti aveva il suo
travestimento, no?
Come poteva riconoscerla?
Lo
osservò nel riflesso mentre avanzava piano, lungo
la strada dietro di lei; il suo passo, in genere così
deciso, sembrava
affaticato, più lento del solito. Che gli fosse successo
qualcosa? Forse era
ferito? Le venne il sospetto che ci fosse la storia della ragazzina
Lenher
dietro tutto questo, ma non ne aveva più sentito parlare
dopo quella terribile
esplosione. E difficilmente Gin si sarebbe fatto coinvolgere in un
attacco del
genere.
Era
così presa nelle sue riflessioni che ci mise
qualche secondo per rendersi conto che l’uomo si era fermato
proprio dietro di
lei e che i suoi occhi erano puntati su quelli di lei, nel riflesso.
Vacillò
per un istante, deglutì, poi tentò disperatamente
di fissare quel dannato paio
di scarpe attraverso la vetrina.
Ci
fu un attimo in cui si sentì morire. Poi Gin,
come se niente fosse, si allontanò così come si
era avvicinato, lasciando Shiho
in balia del suo stremato autocontrollo e dei brividi di panico.
Era
ancora parecchio scossa quando tornò a casa; si
chiuse la porta dietro le spalle con un po’ troppa forza e si
disfò in fretta e
furia di quella terribile parrucca che le dava un gran fastidio. Mise
sul
fornello il pentolino per il tè e si gettò sul
divano, il viso affondato tra i
cuscini.
Si
sentiva veramente stanca, come se quell’incontro
inaspettato l’avesse prosciugata di tutte le sue poche
energie; mentre lasciava
che il calore e il buio la cullassero e le permettessero un
po’ di meritato
riposo, un pensiero le attraversò la mente: doveva avvisare
Jigen di quanto era
successo. In fin dei conti lui le aveva promesso di aiutarla, no? Aveva
paura
di non essere riuscita a mascherare così bene la sua
identità. Forse all’uomo
qualche dubbio era venuto, mentre la fissava a quel modo…
Si
alzò e frugò nella borsa per recuperare il
cellulare. Stava per chiamare Jigen, ma qualcosa la trattenne: era
sempre
restia a parlare con lui, specie quando non poteva guardarlo in
faccia… scosse
la testa e gli inviò un sms, chiedendogli dove e quando
potevano incontrarsi
per parlare con comodo.
L’aveva
appena spedito quando qualcuno bussò alla
porta, facendola sobbalzare. Gettò un’occhiata
all’orologio: non aspettava visite
a quell’ora. Deglutì nervosamente: forse stava
davvero diventando paranoica.
Piano,
ma molto piano, frugò ancora nella borsa ed
estrasse la pistola: erano secoli che non la utilizzava, ma si sentiva
più
tranquilla ad averla sempre affianco. Tenendola ben stretta si
avvicinò alla
porta d’ingresso e cercò di sbirciare dallo
spioncino, ma il corridoio era buio
e non riuscì a vedere nessuno.
<
Chi è?>
Avrebbe
preferito che la sua voce suonasse un po’
più ferma, ma la pistola nella sua mano era più
pesante che mai e lei sentiva
che non era fisicamente in grado di resistere ad alcun assalto. Ci fu
un
silenzio inquietante dall’altro lato della porta e per
lunghi, interminabili
secondi la ragazza sentì il cuore martellarle nel petto.
Poi,
quasi provenisse dall’oltretomba, arrivò
strozzata la voce della sua anziana vicina.
<
Per favore, signorina, potrebbe aprire?>
Questo
la prese completamente alla sprovvista;
abbassò immediatamente l’arma, senza
però lasciarla andare, e aprì con cautela
la porta. Ciò che vide di fronte a lei le mozzò
il fiato in gola: nel corridoio
c’era Gin, pistola puntata alla tempia della povera vicina di
pianerottolo.
*
Quando
Fujiko riprese conoscenza pensò di essere
diventata improvvisamente cieca. Solo dopo qualche secondo si rese
conto di
molti elementi di primaria importanza: la benda legata attorno agli
occhi, la
testa che le pulsava dolorosamente, la scomoda sedia su cui era
costretta a
stare, le braccia legate allo schienale.
Cercò
di sforzare la propria memoria e ricordare
cosa diavolo le era accaduto: le era tutto chiaro fino al momento in
cui lei e
Lupin non avevano sentito gli spari nel parcheggio. Ricordava di aver
intravisto una figura là fuori, di averla inseguita per
tramortirla e ci
sarebbe anche riuscita a mettere fuori gioco quell’uomo tozzo
e dall’aria un
po’ stupida, se qualcuno non fosse strisciato alle sue spalle
e non l’avesse
colpita con una violenza inaudita.
Il
mal di testa lo doveva al suo aggressore,
probabilmente. Senza perder tempo cominciò a saggiare le
corde che le legavano
le braccia, sperando di riuscire a trovare un punto di cedimento, ma
pareva
fosse il lavoro di un vero professionista. Stava quasi per lasciar
perdere e
preparare un nuovo piano, quando delle voci attirarono la sua
attenzione.
Vodka
era più perplesso ogni giorno che passava:
prima Vermouth arrivava di punto in bianco, poi Gin se ne andava senza
dare
spiegazioni, Vermouth lo costringeva a seguirlo e alla fine di tutto si
ritrovavano con una donna – una gran bella donna –
legata ad una sedia e senza
Gin, che aveva fatto perdere completamente le proprie tracce.
<
Non fare quella faccia stupida, Vodka.>
L’uomo
osservò un po’ perplesso la donna mentre si
stiracchiava come un gatto, elegante in ogni suo movimento. Vermouth si
avvicinò con nonchalance alla prigioniera, un sorrisetto
dipinto sulle labbra.
<
Fujiko Mine… – le soffiò in un orecchio
– tu
sarai la chiave che ci permetterà di giungere a
Lupin.>
*
Fosse
stato per lui, non si sarebbe certo scomodato
per andare a cercare una tale piantagrane, anzi, l’avrebbe
lasciata ben
volentieri nelle mani del primo malintenzionato che passava; ma,
ovviamente, la
cosa non dipendeva da lui e, non appena si era reso conto che la sua
amata
cherì non si trovava da nessuna parte, Lupin aveva
letteralmente dato di matto.
Dal
canto suo, Jigen si sentiva in debito verso il
suo amico, specie dopo quanto era accaduto quella sera, e non era
riuscito a
tirarsi indietro quando l’uomo gli aveva chiesto di
ritrovarla mentre lui
cercava di scoprire il nascondiglio di quel meraviglioso tesoro. Jigen
gli
avrebbe dato volentieri il cambio, ma in quel momento Lupin era il
più adatto
per trattare con Erika.
La
ragazzina non sembrava nutrire una gran simpatia
nei suoi confronti, mentre si trovava molto più a suo agio
con il ladro e
questo aveva tolto ogni possibilità di scelta. Quando lui e
Goemon erano usciti
dal nuovo nascondiglio per cominciare le ricerche, Lupin e Erika
stavano ad un
tavolo a smontare pezzo per pezzo quel vecchio orologio da taschino che
pareva
contenesse tutte le informazioni necessarie per trovare il tesoro.
<
Che facciamo ora?>
Daisuke
lanciò un’occhiata al samurai che aspettava
stoicamente al suo fianco,
Controllò
un’ultima volta il cellulare: Shiho
l’aveva contattato una mezz’ora prima per fissare
un incontro, ma, nonostante lui
le avesse risposto subito, non gli aveva più scritto.
“Avrà altro da fare che
mandare messaggi a te” si disse mentre riponeva il telefono
nel cappotto.
<
Adesso, mio caro Goemon, setacciamo tutta la
città, metro per metro.>