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Autore: Littlefinger    15/01/2013    1 recensioni
Una nuova avventura per Neil McRoberts. Stavolta il mago-mercenario finisce senza volerlo nel mezzo d'intrighi fra vampiri, mannari e altre creature sovrannaturali in Germania, nel cuore della Foresta Nera.
Genere: Avventura, Azione, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Neil McRoberts'
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La mattinata passò tranquillamente, mentre c’intrattenevamo in attività tipiche da campeggiatori: guardare animaletti, abbracciare alberi e altre sciocchezze di questo tipo. In realtà le stavo raccontando per filo e per segno com’era andata la ricognizione e tutte le informazioni che doveva conoscere. Verso mezzogiorno Josephine aveva ricevuto una chiamata ed era rimasta al telefono per almeno un quarto d’ora. Mi raccontò che Yelena aveva trovato la spia. Era risalita agli aggressori del fast food e con un po’ di pazienza aveva trovato il loro contatto nel clan, un giovane vampiro molto tranquillo che non si era mai fatto notare. Aveva detto a Josephine che la talpa non sapeva nulla della nostra gita, ma che aveva pensato personalmente a tagliare ogni possibile filo di collegamento, sistemando lui e la banda di cultisti che ci aveva attaccato.
    Zuccherino era una tipa tosta che sapeva il fatto suo, ma non ero sicuro che la situazione fosse così semplice. Per quanto Glavcoso fosse tranquillo riguardo minacce esterne, non potevo credere che la sua rete di osservazione si limitasse a un misero pedone nel clan di Greta. O forse sì. Avevo visto quanto fosse poco professionale la rete di sicurezza del paese, per cui non ci sarebbe stato nulla di strano se anche quella informativa fosse stata così. Alla fine non era importante, il nostro obiettivo era rubare l’uovo e poi svignarcela il prima possibile; non m’importava nulla di eventuali informatori nel clan di Greta.
    Fino a prima della chiamata di Yelena non ero sicuro se agire quella notte, oppure attendere qualche giorno ed effettuare qualche altra ricognizione - magari per trovare l’ingresso nella taverna - ma dopo quella notizia non ero più molto convinto della cosa. Restare là altro tempo aumentava la probabilità di vederci spuntare davanti un altro gruppo di simpatici omini armati fino ai denti e non volevo ripetere l’esperienza. Non che non sia abituato a combattere - figuriamoci, è il mio lavoro - ma preferisco sempre farlo secondo le mie preferenze e possibilmente quando il mio avversario non sa che stia per colpirlo. Al diavolo l’onore e le cavolate di questo genere, si tratta di essere efficiente e svolgere bene il proprio compito.
    Ho abbastanza paura quando mi puntano addosso un fucile. È normale. Se non hai paura in certe situazioni o sei un bugiardo o non hai tutte le rotelle a posto. È la paura che ti fa reagire correttamente in quelle situazioni; è la paura che ti affina i sensi e ti permette di fare correttamente quelle azioni che hai già fatto mille volte durante le esercitazioni.
    Inaspettatamente, anche Josephine concordava con me e voleva finire il lavoro il prima possibile: l’aveva persino detto a Yelena. Non mi suonava molto bene. Perché mai lei, dipendente di Greta, avrebbe dovuto aver fretta con la possibilità di mandare al diavolo il lavoro? Aveva dei motivi personali? Era una cosa da tenere a mente.
    Verso sera avevamo deciso a grandi linee il piano d’azione. Era molto facile: entrare il più silenziosamente possibile, trovare l’uovo e andare via; il tutto senza farci né sentire né vedere. Naturalmente c’era da tenere conto dei sicuri problemi che sarebbero saltati fuori. Come passare la sicurezza? Come trovare l’uovo? Avremmo dovuto improvvisare e ciò significava incappare sicuramente in qualche ostacolo non preventivato.
    Il tramonto giunse veloce e ci preparammo all’azione. Sistemammo tutto ciò che non ci serviva negli zaini da viaggio, tenendo due piccoli zainetti a spalla per trasportare armi, munizioni e l’altro equipaggiamento. All’ora stabilita ci muovemmo verso il paese, percorrendo all’incirca la stessa strada che avevo fatto la notte precedente. Ci fermammo all’albero “fulminato” per nascondere i documenti e ripartimmo.
     Portai Josephine verso la chiesa e le dissi di aspettarmi riparata dietro un muretto. Volevo dare un’occhiata alla taverna e non era necessario che ci fossimo entrambi. Anche quella notte, gli ultimi clienti erano fuori a bere e fumare. Stavolta erano in compagnia del proprietario, che non aveva né un bicchiere né una sigaretta. Sembrava essere là solo per parlare e infatti gli altri erano raccolti intorno a lui. Dopo qualche minuto rientrò nel locale e gli uomini lo seguirono uno dopo l’altro, bevendo l’ultimo sorso di birra, gettando a terra le cicche e spegnendole col piede. Li contai mentre superavano la porta: sei più il proprietario.
    Era una cattiva notizia: avremmo potuto trovarli nei sotterranei. Altre rogne di cui tenere conto.
    Le luci dentro la taverna si spensero e la strada rimase illuminata solo dal lampione là di fronte. Resistetti alla tentazione di dare un’occhiata più da vicino. Vista la novità era meglio sbrigarsi e agire il prima possibile. Tornai indietro a recuperare Josephine.
    Era ancora seduta dietro il muretto a cui l’avevo lasciata e stava guardando la chiesa.
    «Qualche movimento interessante?» domandai.
    Scosse la testa. «Tu hai visto qualcosa?»
    «Potrebbero esserci almeno sei uomini là sotto.» Sorrisi. Mi piaceva annunciare certe belle notizie.
    Lei fece spallucce, come a dire di non essere preoccupata, ma vedevo la tensione dipinta sui suoi lineamenti. Era una professionista e sapeva quello che stava facendo.
    «Andiamo.» mormorai.
    Entrammo tranquillamente nella chiesa e scendemmo nella cripta senza problemi. Arrivati alla porta metallica, analizzai nuovamente l’incantesimo e vidi che non era stato cambiato rispetto alla notte precedente. Le dissi di aspettare indietro e cominciai a lavorare col Leatherman.  
    Il luogo era silenzioso come il giorno prima e quando aprii la porta non trovai nulla di diverso. Feci un cenno a Riccioli d’Oro e cominciai a scendere. Mi fermai a tre quarti della rampa, in ascolto. Si sentivo le voci degli uomini nella stanza alla fine della scala. Mi voltai e guardare Josephine, che stava un paio di gradini indietro, e mi fece un cenno di assenso: anche lei aveva sentito. Procedetti a scendere fino a quando non arrivai alla fine della scala. La luce incostante di un televisore uscita dalla stanza di guardia, aggiungendosi e quella delle lampade a fluorescenza. Mi avvicinai all’entrata con le spalle poggiate al muro, mentre  Josephine faceva altrettanto sulla parete opposta.
    Josephine si teneva all’esterno per avere una migliore visibilità del locale, mentre io mi preparavo a fare irruzione. Alzò due dita della mano e indicò verso la parte lontana della stanza. Estrassi la pistola e tolsi la sicura. Gliela mostrai e scosse la testa, poi arretrò e venne al mio fianco.
    Bene, c’erano due uomini e, a prima vista, non sembravano armati. Si trattava solamente di essere veloci e precisi nel metterli fuori combattimento. Respirai profondamente e mi preparai a fare irruzione. Certe volte prima si comincia, meglio è.
    Nel momento in cui sentii le voci iniziare uno scambio più acceso, entrai velocemente nella stanza.  I due non si accorsero di me fino a quando non ero sopra di loro. Erano seduti su un divano malconcio e quello che guardava dalla mia parte mi lanciò un’occhiata stranita. Non gli diedi il tempo di domandarsi cosa ci facessi là perché lo colpii in faccia con il calcio della pistola e gli saltai addosso per continuare a colpirlo.  Josephine fece altrettanto con l’altro.
    Il volume del televisore era abbastanza alto da nascondere i lamenti dei due sfortunati. Quando fui sicuro che entrambi avessero perso i sensi mi tolsi lo zaino e tirai fuori il nastro per pacchi e, dopo aver fatto rotolare l’uomo a terra, cominciai a passarglielo intorno ai polsi.
    «Cerca qualcosa da metter loro in bocca.» dissi a Josephine. Quando si vuole zittire qualcuno è meglio ficcargli qualcosa nella bocca per evitare che il suono prodotto dalle corde vocali si amplifichi. E anche perché con un fazzoletto o uno straccio che rischia di finire in gola e soffocarli, le persone tendono a stare tranquille.
    Mentre finivo di legare le caviglie, Joesphine mi passò qualcosa. Strappai lentamente il nastro per evitare di fare troppo rumore e presi l’oggetto: era una calza. Diedi uno sguardo all’altro uomo e vidi che era a piedi nudi.
    «È la prima  cosa che mi è venuta in mente.» disse Josephine, col sorriso sulle labbra.
    Annuii, compiaciuto. Era un’ottima idea. Aprii la bocca del povero malcapitato e ci ficcai la calza. Poi feci un paio di giri di nastro intorno alle labbra. Ripetei l’operazione col secondo uomo e poi mi feci aiutare da Josephine a trasportarli dietro il divano, in modo che non fossero visibili dal corridoio.
    Il primo ostacolo era stato superato. «Bene.» dissi, mentre mi rimettevo lo zaino in spalla. «Ora si tratta di girare per i sotterranei e sperare di trovare qualcosa che ci aiuti nella ricerca.»
    «Detto così non sembra un buon piano.»
    «Non lo è.» ammisi. «Ci serve qualcuno da torchiare per scoprire qualcosa.»
    Indicò i due gentiluomini che aveva appena relegato nel mondo dei sogni. «Loro non andavano bene?»
    Mi avvicinai all’ingresso e diede un’occhiata all’ingresso. Nessuno in vista. «Al massimo avrebbero potuto darci informazioni sui programmi televisivi. Forza, andiamo. Niente magia, mi raccomando.»
    «Me l’hai ripetuto una dozzina di volte.» replicò irritata. «Non sono una stupida.»
    La ignorai e cominciai a percorrere il corridoio. Nella prima parte non c’erano altre stanze e dopo qualche metro s’intersecò con un ulteriore corridoio. Continuai ad andare avanti e trovai alcune stanze vuote. Erano dei magazzini, pieni di scatole che contenevano cibo, bevande e indumenti. Nulla che potesse interessarmi. Più in là c’erano un bagno e una cucina, vuoti anch’essi. Tornai indietro e studiai l’altro corridoio.
    Era pieno di porte, come se i suoi lati fossero formati da decine di piccole stanzette. Mi avvicinai alla prima porta e provai ad aprirla.
    Era chiusa.
    Anche la seconda e la terza che provai erano chiuse. Continuai ad andare avanti e al quarto tentativo ne trovai una aperta.
    «Che diavolo è?» mormorò Josephine alla vista della stanza.
    Il motivo di tanto stupore era l’arredamento, che sembrava quello della stanza di un collegio. Un lettino, una scrivania e un armadio a due ante. Lo aprii e vidi che c’erano solo abiti femminili.
    «Sicuro che siamo nella tana del drago?» chiese.
    «Mi pare ovvio.» Le mostrai il contenuto dell’armadio. «Glavcoso non colleziona donne? Evidentemente non le tratta nemmeno male.» Anche se ciò non combaciava con i vestiti stracciati e insanguinati che avevo visto la notte precedente. «Escludendo il fatto che le rapisce e le imprigiona sottoterra.» aggiunsi.
    Josephine aprì il cassetto della scrivania e ci rimestò un po’, come se non sapesse bene cosa cercare.
    «Non c’è tempo per cercare il diario segreto della principessa.» dissi, mentre uscivo dalla stanza.
    Stavo cominciando a farmi un’idea di come fosse strutturata la tana. Era molto simile proprio a un campus: con stanze per le donne e bagno e cucina comuni. Chissà quanti livelli c’erano.
    «Hai un’idea di quante donne facciano parte della collezione di Glavcoso?»
    «Qualche centinaio, forse di più.» rispose, incerta.
    «Diamine.» borbottai. Tanti livelli da esplorare.
    Esplorammo tutto il corridoio, ma tutte le stanze erano vuote o chiuse; il livello sembrava essere disabitato. Alla fine del corridoio trovammo una scala. Alzai le spalle, sconsolato, pensando che di questo passo saremmo finiti in Australia.
    Il livello inferiore sembrava essere più vivo rispetto all’altro, almeno stando ai suoni che arrivavano dalla scala. Quando arrivai a metà sentivo chiaramente dei gemiti e dei respiri affannati: qualcuno là sotto si stava divertendo.
    L’architettura era identica a quella del livello superiore: alla fine della scala partiva un corridoio che s’intersecava a croce con un altro; probabilmente le altre tre braccia erano piene di stanze, mentre in quello iniziale c’era solo una stanza di guardia. L’unica differenza era l’utilizzo che ne stava facendo il supposto guardiano, niente TV in quel caso.
    Ero appoggiato al muro opposto alla porta e, mentre mi avvicinavo, la scena mi si stava rivelando in tutta la sua sconcezza. C’era un uomo nudo in ginocchio sul letto e si stava dando da fare. Dava le spalle alla porta e dalla mia posizione potevo vedere le gambe di una donna sotto le sue. E un altro paio di piedi ai suoi lati. Il fortunello stava intrattenendosi con due signorine. A chi tutto e a chi niente, diamine.
    Peccato per lui che la sua fortuna stesse per esaurirsi. Feci un cenno a Josephine ed entrai. Dal ritmo delle spinte e dal respiro affannato sembrava essere al limite. In due passi fui su di lui, gli presi i capelli e tirai violentemente all’indietro, sbilanciandolo e facendolo cadere dal letto. Gridò qualcosa, ma prima che potesse alzare le mani lo colpii al naso con il calcio della pistola. Un fiotto di sangue schizzò, sporcandogli il viso.  Lo colpii una seconda volta e mentre cercava di parlare gli infilai la canna della pistola nella bocca. Lo spinsi a terra e gli misi un ginocchio sullo sterno.
    «Pensa alle due donne.» ordinai a Josephine. La vidi che cercava di calmarle con gesti rassicuranti parlando sottovoce e aggiunsi: «Che cazzo stai facendo! Stordiscile e imbavagliale!» Non era una bella cosa e mi spiaceva trattarle in quella maniera, ma non eravamo là per fare i buoni samaritani. In situazioni del genere non c’è tempo da perdere, bisogna subito mostrarsi forti e spietati, senza dare agli altri il tempo di pensare di potersi ribellare. Perché se si ribellano le cose si complicano e diventa una questione di vita o di morte. Bisogna essere veloci e violenti.
    Guardai il mio prigioniero. «Parli inglese?» domandai, applicando un po’ di pressione alla pistola. «Rispondi con un cenno della testa. Se fai qualche movimento che non mi piace ti faccio saltare la testa.» Anche se non avesse capito le parole, il tono e il linguaggio del corpo erano abbastanza chiari.
    L’uomo annuì, gli occhi dilatati per il terrore e il sangue che gli colava dal naso, insozzandogli tutto il viso.
    «Ora ti toglierò la pistola dalla bocca e ti farò alcune domande a cui dovrai rispondere . Sinceramente.»
    Altro cenno di sì.
    «Se crederò che mi stia mentendo, ti ammazzo. Se provi a ribellarti, ti ammazzo. Se fai qualsiasi cosa che non ti ho ordinato, ti ammazzo. Chiaro?»
    Chiaro.
    Sfilai l’arma dalla bocca, tenendola sempre puntata su di lui. Alle mie spalle sentivo gli strappi del nastro per pacchi. «Dov’è l’uovo?»
    «Che uovo?» balbettò.
    «Non fare l’idiota. Dov’è l’uovo?»
    «Non lo so. Non lo so.» ripeté con le lacrime agli occhi. «Glavnyognya non parla con nessuno dei suoi affari.» Parlava un inglese abbastanza sciolto, ma si sentiva il pesante accento tedesco.
    Probabile, visto la professionalità dei suoi sgherri. «Dov’è la sua stanza?»
    «Al quinto livello.»
    Diamine.
    «È la che tiene i suoi tesori?» intervenne Josephine, mentre stava trascinando sotto il letto le due sfortunate signorine.
    «È possibile. Non lo so, non lo so, vi prego.»
    «Chi sei?»
    Pronunciò uno di quei complicati nomi tedeschi e non avevo nessuna voglia d’impararlo. «Troppo complicato. Ti chiamerò Harry.» Non  replicò e aggiunsi: «Cosa fai qua?»    
    «Sono l’apprendista di Gregor.» Anticipò la mia domanda e aggiunse: «È il mago che serve Glavnyognya.» Mi guardò stupito, come se avesse finalmente realizzato qualcosa. «Come avete fatto ad entrare senza far scattare l’allarme?»
    Stava riprendendosi dallo shock e cominciava a ragionare. Evidentemente il sangue aveva ripreso a circolare verso il cervello. Ignorai la sua domanda e gli chiesi: «Ci sono altre protezioni magiche?»
    «No, gli allarmi sono le uniche cose che Gregor mi ha fatto congiurare. Ha detto che non lo pagava abbastanza per tenere attiva una rete di controllo.»
    Più probabilmente non ne era capace. Comunque, era un’ottima notizia: potevamo usare la magia liberamente. «Quanti uomini ci sono?»
    «Due all’ingresso e solitamente cinque o sei nei livelli inferiori»
    «Sono dei professionisti o sono là solo per fare quello che stavi facendo tu?»
    «Non lo so. Sono sempre molto zelanti nel mostrare che possono sparare.»
    Pivelli. «Qual è il modo più veloce per scendere?»
    «C’è solo una scala, nel corridoio a sinistra. Non ci sono altri modi per scendere. Tutti i livelli sono identici.»
    «Perché in quello di sopra non c’è nessuno?»
    «Perché le stiamo trasferendo nel livello più basso.»
    «Così vicine alla superficie erano tentate a fuggire?» chiese Josephine.
    «Esatto.»
    Sentii Josephine borbottare un’imprecazione. «Quanto è bravo con la magia il tuo padrone?» chiesi.
    «Abbastanza da friggerti il culo. Il mio maestro è stato…»
    Lo bloccai aumentando la pressione sullo sterno. «Non me ne frega nulla del tuo maestrino, pivello, voglio sapere del drago.»
    Si mise a ridere. Bisognava dargli credito: pochi hanno abbastanza coraggio da mettersi a ridere con una pistola puntata in faccia. Oppure era troppo stupido per rendersi conto che facevo sul serio. «Glavnyognya disprezza la magia e non si fida dei maghi. Non si fida di nessun umano, ci considera alla stregua d’insetti. Ha assoldato Gregor solo per avere una minima sicurezza magica.»
    «Soldi proprio ben spesi.» commentai. «Bene. Grazie per le informazioni, Harry.» Lo colpii con forza alla testa e perse i sensi. «Josephine, il nastro.»
    Stava guardando fuori dalla porta. «Non credo ci sia tempo per legarlo, il corridoio sta iniziando a riempirsi.»
    Imprecai e spinsi l’uomo sotto il letto, almeno per conservare le apparenze. «Chi sono?»
    «Solo ragazze.» rispose.
    C’era poco da fare. Bisogna muoversi spediti verso il quinto livello e sperare di non incappare in qualche uomo della sicurezza. «Cerca di comportarti come se appartenessi a questo luogo. Dobbiamo non dare nell’occhio per il maggior tempo possibile e scendere.» Più facile a dirsi che a farsi.
    Josephine annuì, ma non sembrava convinta.
    «Sono certo che le prigioniere non conoscano ogni uomo che serve il drago, per cui se mi vedono camminare in mezzo a loro non si metteranno certo a pensare  “Sicuramente è un ladro o una spia!”. Hai visto come la sicurezza sia fallata, no?»
    «D’accordo. E io?»
    Sorrisi. «Tu sei la nuova acquisizione dell’harem.»
    La presi non troppo gentilmente per un braccio e la feci camminare avanti a me. Percorremmo il corridoio a passo tranquillo, come se la nostra presenza là fosse naturale. Qualcuna delle ragazze ci guardò senza interesse, ma nessuna ci fissò come se fossimo dei mostri rari. Nessuna di loro mi sembrava essere in cattive condizioni. Tutte indossavano abiti succinti e più che un campus sembrava uno strip club. Probabilmente il potere acquisito dal drago dipendeva anche dalla qualità della collezione, per cui le teneva ben curate. Mi chiedevo come gli altri gruppi magici del luogo permettessero una cosa del genere.
    «Non c’è niente che possiamo fare.» disse Josephine, sottovoce, come se avesse intuito i miei pensieri. «Se riusciamo a trovare l’uovo e ricattare Glavnyognya, possiamo fermare tutto questo.»
    «Non si tratta di fermare, ma di smantellare.» replicai. Stavamo scendendo le scale che portavano al quarto livello e per ora nessuno ci aveva dato problemi.
    «Potresti farlo tu.»
    «Non mi pagano abbastanza.» Le feci cenno di fare silenzio. Eravamo arrivati al quarto livello e l’aria che tirava era diversa rispetto al piano superiore. C’era meno movimento e qualche ragazza faceva capolino dalla sua stanza e ci guardava con un misto di paura e speranza. Mi diressi senza perdere tempo verso la scala per scendere e mi accorsi che c’era un uomo a controllarla. Era vestito casual, con un paio di jeans e una t-shirt dal collo a v, e teneva uno stecchino fra i denti. Particolare non trascurabile: dalle spalle gli pendeva una tracolla fissata a un SMG.
    Sbuffai. Fine della corsa. L’uomo andava eliminato, ma volevo evitare che cominciasse a sparare in mezzo alle ragazze. E soprattutto eventuali rumori che mettessero in allarme tutto il mondo.
    Agitai una mano per salutarlo e mi guardò dubbioso, prima di ricambiare. Probabilmente stava cercando di ricordare chi fossi. Strattonai Josephine, poi scossi le spalle e sorrisi. Stavo per superarlo, quando mi mise un braccio davanti per fermarmi.
    Disse qualcosa in tedesco che poteva essere “dove credi di andare?” come “tu chi diavolo sei?”, ma non era importante.
    Ecco un consiglio in caso anche voi vi troviate nella stessa situazione dell’omino che mi stava davanti. Se volete fermare una persona e avete una mitraglietta al collo, usate quella a distanza di sicurezza e non perdete tempo a fare domande inutili.
    Se Johnny Stecchino mi avesse tenuto a distanza con l’arma - come avrebbe fatto qualsiasi guardia capace - non si sarebbe ritrovato con la gola squarciata dagli aculei di ghiaccio che avevo evocato sulle mie dita.
    «Conosci qualche incantesimo di mimetizzazione?» chiesi a Josephine, mentre adagiavo il cadavere a terra, cercando di non sporcarmi di sangue. Alcune delle ragazze ci guardavano e altre erano uscite dalle proprie stanze.  Mi girai verso di loro e, sfoderando il mio sguardo più minaccioso, dissi: «Tornate a fare quello che stavate facendo se non volete fare la stessa fine!» Anche se non capivano l’inglese, il tono era abbastanza chiaro.
    Dovetti risultare abbastanza spaventoso, perché tutte corsero via e si allontanarono da me, chiudendosi nelle proprie stanze.
    Mi voltai nuovamente verso Riccioli d’Oro e il fu Johnny Stecchino, ma il cadavere era scomparso.  Fischiai. «Alla faccia della mimetizzazione.» Si vedeva giusto un po’ di sangue accanto a dove doveva trovarsi una gamba.
    «Forza, non durerà per molto.» disse Josephine, cominciando a scendere per le scale.
    La seguii non prima di darmi un’occhiata alle spalle. Nessuno, bene.
    Il quinto livello era strutturato diversamente. Il corridoio dopo la scala s’immetteva dopo qualche metro in un’ampia sala, in cui si trovavano tre porte. Quella a cui ci trovavamo di fronte era più corretto definirla portone e sembrava essere ben chiusa. Le altre, che si trovavano ai lati, erano identiche a quelle che si trovavano negli altri livelli. Non c’era nessun indizio per effettuare una scelta sensata, per cui mi diressi verso quella a sinistra.  Il grande portone davanti non m’ispirava per nulla. Sembrava proprio l’ingresso per un grande salone in cui Glavcoso si rilassava nella sua forma naturale ed era qualcosa che proprio non ci tenevo a vedere.
    La porta era aperta e dava su una grande stanza, arredata come un ufficio. Una grande scrivania in mogano dominava la sala e i muri erano letteralmente coperti da librerie cariche di volumi di ogni specie. Un portatile chiuso si trovava al centro della scrivania, affiancato da un hard disk esterno, una pila di cartelle e documenti sparsi per tutta la superficie. Un’elegante lampada di porcellana torreggiava su un lato ed era l’unica sorgente di luce della stanza.
    Josephine non aveva perso tempo e si era messa a frugare nei cassetti della scrivania.
    «Calma.» le dissi. «Non sappiamo nemmeno se siamo nella tana del drago o nell’ufficio di un CEO.»
    «Dobbiamo trovarlo! Non c’è tempo per le tue buffonate.» replicò acida.
    Scossi le spalle e continuai ad esaminare la stanza. In un lato semi-nascosto dalla lampada c’era uno di quei mappamondi in legno, antichi e che valevano una fortuna. Gli scaffali delle librerie erano pieni di piccoli soprammobili e gran parte sembravano essere di valore. Sicuramente quella non era la stanza di uno sgherro qualunque. Sull’unica parte di muro non occupata da librerie era appeso un arazzo, in cui riconobbi quello che mi avevano mostrato in foto qualche giorno prima all’albergo. Sicuramente era l’originale. Eravamo nell’ufficio di Glavcoso, c’era poco da dubitarne.
    Intanto, Josephine aveva finito di controllare i cassetti e si stava dedicando ai soprammobili. Io, invece, mi sedetti sulla poltrona di pelle davanti alla scrivania. Oltre al fatto che era così comoda da rendere vana qualsiasi similitudine con una nuvola, mi permetteva di vedere la stanza come la vedeva ogni giorno il drago.
    «Dove terrei la cosa a cui tengo di più?» mi chiesi, sottovoce.
    Mi venne la tentazione di accendere il computer, ma mi fermai. Non c’era tempo per provare a superare la sua sicurezza e magari non trovare nulla d’interessante. Il mucchio scomposto di documenti m’incuriosiva. Allungai la mano per prendere qualcuno, ma sentii come una scarica elettrica percorrermi il braccio.
    Mi voltai verso Josephine e dissi: «Forse l’ho trovato.»
    Stava chiudendo lo zaino e la sua risposta fu meno felice di quanto mi sarei aspettato. «Ok, allora possiamo andare via.»
    «Frena i cavalli, tesoro. Ho detto che forse l’ho trovato.»
    Chiusi gli occhi e mi concentrai sul fluire dell’energia magica. Quando avevo controllato due giorni prima, la radiazione di fondo della zona era caotica, ma in quella stanza sembrava regnare una calma assoluta, come se fossimo nell’occhio del ciclone. Nonostante ciò, il livello di energia era elevatissimo: congiurare incantesimi in quella stanza avrebbe portato a risultato molto interessanti. Peccato non ci fosse il tempo di provare.
    Quello che m’interessava in quel momento era il picco di energia che mi aveva dato la scossa. Spostai un po’ di fogli e lo trovai.
    L’uovo del drago.
    Era là sulla scrivania, che fungeva da fermacarte, tenendo fermi alcuni documenti. Un classico nascondiglio da “lettera rubata”. Probabilmente Glavcoso aveva letto il racconto. Diavolo, vista l’età probabilmente con Poe ci aveva pure parlato.
    Rimasi un po’ deluso. Mi aspettavo una via di mezzo fra un diamante e un uovo Fabergé, ma sembrava un ciottolo raccolto da un ruscello. Era un oggetto piccolo e anonimo, ma sprigionava un’energia tale da impedirmi di prenderlo in mano senza tremare. Doveva essere per forza l’uovo, che altro oggetto magico poteva emanare così tanta energia? Lo feci scivolare con calma dentro la tasca inferiore della zaino.
    Spinsi indietro la poltrona e mi alzai.
    «Filiamocela.»
    Tornammo nella stanza centrale, ma la fortuna che fino a quel momento ci aveva accompagnato si era esaurita. Oppure i nostri angeli custodi avevano sbagliato strada e si erano persi nell’harem sotterraneo. Fatto sta che la strada da cui eravamo arrivati era occupata da un gruppo di uomini armati. Fecero fuoco, ma le pallottole rimbalzarono sullo scudo che avevo evocato, disperdendosi per tutta la sala. Evocai un globo di fuoco e lo lanciai verso di loro, mentre mi buttavo a terra per schivare i proiettili.
    La palla di fuoco esplose con una forza inaudita e del tutto inaspettata. Avevo usato abbastanza energia per generare un proiettile pericoloso quel tanto bastava per far capire loro che dovevano fare attenzione, invece era esploso come una palla di C4. L’onda d’urto e di calore che ne seguì mi bruciò le sopracciglia e le punte dei capelli. Alzai lo sguardo e lo spettacolo che mi si presentò non era certo per stomaci sensibili. Gli uomini, quello che rimaneva di loro, erano sparsi a pezzi per il corridoio e sui muri, diventati completamente neri, mentre una pozza di liquido si era formata dove il pavimento pendeva. Il puzzo di carne bruciata era insopportabile e sentivo la cena risalire dallo stomaco.
    Josephine era sdraiata poco dietro di me.
    «Tutto a posto?» gridai. Le orecchie mi ronzavano a causa dell’esplosione e sentivo a malapena la mia voce.
    Non sentii risposta e mi rialzai lentamente, per aiutarla.
    «Che diavolo hai fatto?» mi chiese, alzando la testa.  Il ronzio stava diminuendo.
    Le porsi una mano e l’aiutai a tirarsi su. «Non ne ho idea. Dev’essere l’energia latente che c’è in questo posto. Ha potenziato l’incantesimo.» risposi. Era l’unica spiegazione possibile, a meno che non fossi improvvisamente diventato un arcimago da guinness dei primati. Comunque non era certo il momento di applicarsi in teoria magica. Mi diressi verso il corridoio,  ma dalla scala apparve un altro gruppo di uomini.
    Estrassi la pistola e feci fuoco, prontamente imitato da Riccioli d’Oro. Non era il caso di usare la magia senza sapere bene come l’ambiente ne avrebbe modificato il comportamento. Il fuoco intenso tenne a bada i nemici, che tornarono indietro sulla scala. Quella via d’uscita era bloccata, a meno che non decidessimo di combattere a tutto quartiere, opzione che volevo evitare. Per quanto tempo avremmo potuto giocare a Dungeon & Dragons, prima che arrivasse il vero drago?
    «Dall’altra parte, Jo.» gridai. Premetti il tasto di rilascio del caricatore e inserii quello nuovo. «Speriamo che l’altra porta sia aperta.»
    La fortuna ricominciò ad aiutarci. Non solo la porta era aperta, ma portava a una scala a chiocciola che saliva. Tolsi l’MP5 dallo zaino e mi affacciai nella sala. Gli uomini, ne contai tre, si stavano avvicinando. Sparai un paio di raffiche per far capire loro che non era una buona idea muoversi allo scoperto e poi chiusi la porta. Posai la mano sulla serratura e cominciai a congiurare un incantesimo trappola, ma mi fermai. Non sapendo come avrebbe interagito con l’energia latente, era meglio non rischiare che mi scoppiasse in faccia.
    «Andiamo!» gridò Riccioli d’Oro, mentre cominciava a salire le scale.
    La seguii di corsa.
    La scala saliva e saliva senza interruzione. Avevo smesso da un pezzo di contare i gradini ma ero certo che avessimo superato già un paio dei livelli che avevamo attraversato prima. Ci volle un po’ perché arrivassimo a una botola sul soffitto.
    «È chiusa dall’altra parte.» disse Josephine, dopo aver provato a spingere.
    «Fammi passare.» replicai. «Ora provo col mio passepartout.»
    Posai una mano sulla botola accanto al punto in cui doveva trovarsi il passante dall’altra parte. Non ero certo di essere abbastanza lontano dalla zona di casino magico, ma dovevo comunque rischiare. Non potevamo tornare indietro e lo spazio era troppo stretto per rischiare di sparare alla serratura. “Neil McRoberts, ucciso da una pallottola di rimbalzo” non era il massimo come epitaffio.
    Rilasciai un po’ di energia e feci saltare la serratura. La botola rimbalzò per la piccola esplosione e ne approfittai per sfruttare il momento e aprirla con facilità.
    Salii e poi tesi una mano a Josephine. Ci trovavamo in una specie di magazzino illuminato da una lampada a fluorescenza. Da un lato c’erano delle botti di legno e più indietro, posate sul muro, parecchie scatole di cartone. Una scala portava a una porta. Stavo cominciando a odiare le scale, Glavcoso poteva pure “tecnologizzarsi” un poco e mettere qualche ascensore.
    «Dieci a uno che siamo nella taverna.» dissi.
    Uscimmo da quella che sembrava essere una cantina e ci trovammo, infatti, nel locale. Esattamente nel momento in cui entrammo, le luci si accesero e da una porta alla sinistra uscì un uomo. Era quello che avevo identificato come il proprietario. Vederlo così da vicino metteva in risalto quanto fosse alto: superava i due metri. Con due falcate si mise fra me e l’uscita.
    Feci un passo avanti con sicurezza, tenendo in bella mostra la mitraglietta. «Suvvia, amico, siamo di fretta.» dissi. «Fuori dalle palle.»
    Avanzai ancora, ma l’uomo non dava l’impressione di volersi spostare. I suoi occhi neri mi fissavano dall’alto in basso con disprezzo. Un brivido mi corse lungo la schiena. C’era qualcosa che non andava e ne ebbi la conferma quando mi mossi per spostarlo con una spallata, ma l’unico effetto fu un forte dolore all’articolazione, come se avessi provato a sfondare un muro.
    «Hai qualcosa di mio.» La sua voce era bassa e profonda, come se uscisse da una caverna.
    Sospirai. Eravamo nei guai. L’unica persona del paese che non avrei mai voluto incontrare e ci ero andato a sbattere addosso.
    Una sferzata di vento potentissima ci sollevò da terra e ci fece volare verso la vetrata dell’ingresso. L’impatto non fu dei migliori e caddi di peso sul marciapiede, accompagnato da una pioggia di vetro. Sentivo il sangue che mi scendeva sul viso e sulle braccia, ma non era importante. Dovevo alzarmi.
    «Forza, Neil!» gridò Josephine tirandomi su con forza. In mano aveva la sua bacchetta da direttore d’orchestra.
    «Il drago.» balbettai a stento, mentre una fitta di dolore mi face tremare. Esaminai le labbra e ci trovai un pezzo di vetro piantato. Lo rimossi, mentre guardavo imbambolato il barista che usciva dal locale con un fucile in mano. Mi guardai intorno alla ricerca della mia arma, ma non la vidi da nessuna parte.
    «Dai!»
    Josephine mi strattonò e cominciai a correre insieme a lei. L’importante era arrivare dall’altro lato della strada e scomparire nelle viuzze. Quando si fugge in un ambiente urbano, non è importante tanto la distanza in linea retta quanto il numero di angoli che si mettono fra se stessi e l’inseguitore.
    Ma chi stavo prendendo in giro. Ci stava inseguendo un dannato drago. Poteva volare. Poteva incendiare tutto il fottuto paesello e la foresta.
    Sentii il rumore dello sparo, prima che potessi pensare a proteggermi. Istintivamente chinai la testa, ma il proiettile mi perforò il polpaccio. Persi l’equilibrio e caddi malamente a terra. Provai ad attutire la caduta con le mani, ma ciò non fece altro che far scendere in profondità le schegge di vetro che avevo nei palmi. Mi voltai e vidi che Glavcoso teneva il fucile puntato contro Josephine, che lo fronteggiava di petto, con uno scudo magico davanti a lei. L’incantesimo di difesa sembrava una semisfera di cristallo che circondava la donna.  Poiché in genere non si spara ai polpacci della gente, supposi che ero stato preso da una pallottola di rimbalzo. Che fortuna.
    Riccioli d’Oro stava fronteggiando il drago, ma persino io, dalla mia precaria posizione, vedevo che tremava. Anche Glavcoso doveva essersene accorto perché rideva. Alzò il fucile - un vecchio Mosin-Nagant che probabilmente era stato usato durante la Grande Guerra Patriottica - e sparò ripetutamente contro lo scudo magico. La donna riuscì a mantenerlo attivo, ma cadde su un ginocchio per lo sforzo.
    Il dolore mi stava uccidendo e avevo difficoltà a concentrarmi, però mi ricordai che dovevo avere ancora la pistola infilata nei jeans. Rotolai di lato e la estrassi. Glavcoso era concentrato su Riccioli d’Oro e non mi stava considerando, per cui non mi fu difficile prendere la mira con calma e scaricare tutto il caricatore sul drago. Mi trovavo a una decina di metri da lui e della dozzina di proiettili che sparai solo un paio lo colpirono. Nemmeno l’impensierirono, ma lo distrassero abbastanza da permettere a Josephine di abbassare lo scudo e di attaccarlo con la bacchetta.
    Un’onda viola d’energia magica lo colpì in pieno petto e lo scaraventò nuovamente dentro l’edificio. Mi sollevai a fatica, reggendomi sulla gamba sana, evocai una palla di fuoco e la lanciai dentro il locale, le cui parti in legno s’incendiarono.
    «Dammi una mano.» gridai, mentre cercavo di allontanarmi zoppicando. Mi voltai per vedere se avesse sentito, ma vidi solamente un qualcosa sfrecciare fuori dall’edificio in fiamme, un qualcosa così veloce che non ne intuii nemmeno le fattezze. Mi colpì alla schiena e volai avanti, cadendo sul bordo del marciapiede e battendo  all’altezza delle ginocchia. Fu come se me le avessero allegramente prese a martellate.
    Sentii un urlo, poi diversi spari e infine un corpo che sbatteva sull’asfalto. Piegai di lato la testa e vidi Glavcoso che tirava Josephine per i suoi bei riccioli, portandola verso la taverna. Si era completamente disinteressato a me e probabilmente voleva aggiungere Josephine alla sua collezione. Magari pensava che avessi abbastanza ossa rotte da non potermi più alzare e che avrebbe recuperato l’uovo appena posata la donna.
    Si sbagliava. Con le ultime forze rimastemi mi alzai in piedi e inserii nella pistola l’ultimo caricatore rimastomi. Mi mossi verso Glavcoso in quella che era una via mezzo fra una corsa e una gara di salto su un piede, ma il drago era troppo pieno di sé per pensare che un misero umano potesse rialzarsi dopo che l’aveva colpito.
    «Ehi, lucertolone.» dissi, quando mi trovavo un passo dietro di lui.
    Glavcoso si girò e si trovò sul naso la canna della pistola.
    La testa dell’uomo rinculò brutalmente all’indietro, quando le pallottole gli sfondarono il cranio. Cadde a terra come un frutto maturo, ma continuai a sparare fino a quando il carrello dell’arma non rimase immobile, in attesa di un altro caricatore. Buttai la pistola e guardai la poltiglia che era rimasta al posto della faccia di Glavcoso.
    Avevo ucciso un drago? Era stato troppo facile. Comunque, non c’era tempo per pensare a quelle quisquilie, bisognava fuggire. Josephine era ridotta piuttosto male - aveva il naso rotto e un braccio le pendeva molle sul fianco - ma sembrava in grado di camminare, sicuramente molto meglio di me.
    Un rumore di motori riempi la notte. Mi voltai in direzione del suono e feci appena in tempo a vedere due SUV neri con le luci spente, prima qualcuno mi prendesse per il collo.
    «Mi hai fatto arrabbiare, insetto.» tuonò Glavcoso, muovendo il poco di mandibola che gli era rimasta.
    Mi scagliò a terra e si trasformò.
    Mi aspettavo una trasformazione stile Malefica della Bella Addormentata, invece fu una cosa netta, improvvisa. Prima c’era l’uomo con la faccia spappolata e un secondo dopo era apparso un colosso di scaglie e artigli, alto quanto un edificio di due piani. Ero scosso da un misto di terrore primordiale e ammirazione smisurata per quella creatura. Mi sollevai sui gomiti: tremavo incontrollabilmente e lo stomaco mi si era accartocciato. Piegai la testa e vomitai.
    Nonostante la paura però non potevo fare a meno di rimanere incantato davanti al drago. Le scaglie rosso sangue riflettevano cupamente la luce. Gli artigli, lunghi quando spade, erano tanto eleganti quanto letali. Lo schema delle scaglie e degli aculei sui possenti arti e sulla coda creava un disegno ipnotico da cui era difficile staccare gli occhi. Le ali erano estese al massimo e catturavano il minimo accenno di vento, gonfiandosi come degli spinnaker. Occhi di brace mi fissavano con odio e spregio.
    Un ruggito potente e rumoroso quanto la partenza di un razzo spaziale riverberò per tutto il paese e la foresta e capii di essere arrivato al capolinea. Per quanto potessi essere abile e forte al confronto di quell’essere ero un insetto, un brutto e goffo scarafaggio che andava schiacciato. Qualsiasi cosa avessi potuto lanciargli contro avrebbe avuto l’effetto di uno sputo su un carro armato. Notavo però dei rivoli di sangue scendere lungo il ventre molle, partendo da piccoli buchi che sembravano essere i fori d’ingresso di proiettili.
    Stava immobile erto sulle zampe posteriori, probabilmente gustando la paura che trasudavo. Glavcoso, anzi Glavnyognya - vista la mia posizione non avevo diritto di essere sarcastico né di insultare quell’essere maestoso - era però troppo arrogante e superbo. Perché perdere tempo con i cliché da boss finale di un videogioco, quando poteva farci fuori in mezzo secondo?
    Ok, avevo ripreso a insultarlo, ma quello che successe dopo mi diede ragione.
    Alla mia sinistra sentii dei tonfi sordi di proiettili che uscivano da dei lanciagranate e poi vidi i suddetti proiettili cadere ai piedi del drago. Mi sdraiai a terra a pancia in giù, sperando di non venire colpito dalle schegge. Al diavolo, me n’erano già capitate abbastanza e non volevo pure un green on blue - militarese per “colpito da fuoco amico” - o supposto tale. In quel momento chiunque stesse attaccando il drago era mio amico, il mio migliore amico.
    Mi coprii la testa con le braccia.
    Le granate esplosero facendo irritare il drago ancora più di quanto non lo fosse già. Subito dopo cominciarono le raffiche di armi pesanti. Erano attacchi ritmati, eseguiti da gente addestrata, non il suono continuo di un pivello che usava l’arma in modalità automatica e sparava come se stesse usando uno spruzzatore.
    Spostai un poco la testa. Il drago era poggiato su tutte e quattro le zampe e notai che una di quelle anteriori era completamente spappolata. I proiettili dei fucili lo colpivano sul muso e sul ventre, come uno sciame di vespe impazzite.
    Le raffiche s’interruppero all’improvviso e quattro lupi comparvero nel mio campo visivo e saltarono addosso al drago. Non erano lupi normali: erano grandi quasi quanto un cavallo e, soprattutto, i draghi non fanno parte della loro tipica dieta. Dovevano essere mannari del branco di Robert Von Kempf, per cui l’orchestra di fucili d’assalto e lanciagranate probabilmente era stata gentilmente offerta dalla signora Zimmermann.
    Era arrivata la cavalleria. Se avessi avuto un po’ di fiato mi sarei messo a fischiettare il Garry Owen.
    Glavcoso si dimenava follemente, cercando di scuotere via i lupi, aggrappati con zanne e artigli alle sue zampe, alla coda e alla schiena. Intanto le raffiche di mitra continuavano, dirette con precisione sul muso del drago, impedendogli di concentrarsi nell’attaccare i lupi.
    Mi guardai in giro e vidi Josephine, sdraiata a terra poco lontano da me. Strisciai verso di lei.
    «Tutto a posto?» domandai urlando per  superare il casino che ci circondava.
    La smorfia di dolore che si dipinse sul suo volto quando si voltò per guardarmi era una risposta fin troppo chiara.
    «Sono arrivati i rinforzi.» urlai per rassicurarla, poi mi concentrai nuovamente sull’azione.
    Il drago continuava a subire, ma non sembrava intenzionato ad arrendersi. Uno dei lupi era a terra in un pozza di sangue e con il ventre squarciato. Un altro era stato appena colpito da una sferzata della coda e si era spezzato in due come un ramoscello calpestato. Glavcoso non se la passava meglio. Giaceva poggiato su un fianco, in un lago di sangue. Una seconda zampa era fuori uso, un occhio era chiuso e il ventre era crivellato dai proiettili.
    Non avevo idea di come funzionasse il metabolismo di un drago, per cui non sapevo se erano ferite pericolose oppure se il suo fattore di rigenerazione gli avesse permesso di curarsi in poco tempo. Ci voleva qualcosa di più incisivo che lo mettesse fuori combattimento per abbastanza tempo da poter fuggire.
    Mi accorsi che una piccola fiammella azzurra guizzava fuori da un taglio al centro della pancia e mi tornarono in mente le parole di Josephine di qualche giorno prima: forse avevo modo di aiutare la cavalleria.
    Controllai la gamba a cui ero stato colpito. La pallottola aveva trapassato il polpaccio, ma fortunatamente non aveva colpito né le ossa né un’arteria. Nonostante il dolore mi stesse facendo impazzire non ero in pericolo di vita.
    Almeno per ora, dato che ciò che avevo in mente di fare poteva tranquillamente farmi guadagnare un Darwin Award.
    Mi sollevai su un ginocchio, pronto a scattare come un centometrista. Tirai un paio di respiri profondi, riempiendomi i polmoni d’ossigeno, e scattai. A essere pignoli non fu proprio uno scatto. Zoppicavo tirandomi dietro la gamba ferita e stavo accucciato per evitare  il fuoco amico. Arrivato accanto al ventre del drago mi gettai a terra e cominciai a strisciare mezzo immerso nel sangue del mostro. Se in quel momento Glavcoso si fosse sdraiato mi avrebbe trasformato in una frittata. Arrivai all’altezza della fiammella blu che avevo visto prima e mi fermai. Usciva da uno squarcio nel ventre di almeno mezzo metro.
    Josephine aveva detto che i draghi sputavano fuoco utilizzando metano prodotto dalla digestione. Probabilmente lo immagazzinavano in qualche organo particolare, per poi utilizzarlo quando dovevano accendersi un sigaro o preparare un barbecue. O dar fuoco a un mago rompiscatole. La fiammella blu era chiaramente una perdita di gas che aveva preso fuoco e il metano produce una fiamma di quel colore.
    Allargai lo squarcio e guardai dentro. Non m’intendo di anatomia umana, figurarsi se potevo capire qualcosa dell’interiora di un drago. C’era roba rossastra e bianca, che poteva essere tessuto muscolare come una roba strana esclusiva di quei lucertoloni.  L’unica cosa che capivo, e che m’interessava, era il foro di proiettile da cui usciva il gas. Evocai un piccolo scudo magico per tappare la perdita e quando la fiamma si dissipò lo disattivai. Essendo il metano inodore, l’unico indizio della fuoriuscita era il leggero vibrare delle labbra della ferita.
    Frugai nelle tasche ed estrassi il Leatherman. Allargai al massimo la pinza e poi estrassi tutti gli utensili da entrambi i lati. Non era perfettamente dritto, ma lo era abbastanza da sembrare un’antenna. Lo piantai nella ferita in modo che rimanesse circa perpendicolare al terreno e non si muovesse troppo, poi mi allontanai saltellando su una gamba, in direzione di Josephine. La presi per un braccio e la costrinsi ad alzarsi e ad allontanarsi con me, verso l’altro lato della strada. Arrivati, la feci sdraiare e le ordinai di stare così fino a nuova comunicazione.
    Intanto la battaglia continuava: i lupi continuavano imperterriti a saltare sul drago, mentre gli uomini armati continuavano a sparargli in testa. Nessuno dei due attacchi, però sembrava riuscire a mettere a segno un colpo decisivo.
    Dal punto in cui mi trovavo il Leatherman-antenna, che usciva per qualche centimetro dalla ferita, era un puntolino metallico e difficilmente lo vedevo nonostante la luce dei fari dei SUV che illuminavano il drago. Comunque l’importante era che mi ricordassi la sua generica posizione, al resto ci avrebbero pensato le leggi dell’elettromagnetismo.
    Mi concentrai cercando d’ignorare il dolore. Avevo bisogno di tutta l’energia possibile per congiurare l’incantesimo che avevo in mente. Tenendomi su un ginocchio e una mano, allungai l’altra in direzione del coltello multiuso, mentre raccoglievo l’energia magica sulla punta delle dita. Sudore misto a sangue mi colava sugli occhi, ma non potevo far nulla per alleviare il fastidio, perché avevo paura che qualsiasi movimento avrebbe distrutto la concentrazione e dunque il flusso di energia.
    Iniziai a tremare a causa della posizione scomoda in cui mi trovavo.
    L’incantesimo che volevo evocare era abbastanza difficile di suo, farlo in quelle condizioni di caos sarebbe stata un’impresa memorabile, ammesso che fossi sopravvissuto. Quando fui abbastanza sicuro di aver incanalato abbastanza energia verso il Leatherman, esclamai la parola di comando e l’incantesimo partì.
    Successe tutto così velocemente che registrai a malapena il risultato della mia azione.
    L’arco elettrico che avevo generato  ronzò e vibrò nell’aria fondendo il coltello-antenna e generando la scintilla che fece esplodere la bombola di gas nel corpo del drago.
    Feci appena in tempo a sollevare il braccio davanti al volto che detriti e sangue mi colpirono. Barcollai e finii a terra di peso. Un ruggito carico di rabbia e sofferenza mi scosse i timpani e fui costretto a coprirmi le orecchie. Alzai lo sguardo e vidi Glavcoso che si sollevava a fatica, appoggiandosi su un edificio. Nella parte centrale del ventre c’era un cratere e gli organi interni erano scoperti. Il drago ruggì una seconda volta, poi spalancò le ali e spiccò il volo, allontanandosi barcollante.
    Mi misi a ridere, o almeno ci provai perché avevo esaurito le forze. Il dolore che prima pulsava come non mai era diventato come un flebile rumore di fondo che faticavo a sentire. Il respiro era veloce e incostante e tremavo come se mi trovassi nudo al Polo Nord. Avevo appena sconfitto un drago, ma non avrei potuto vantarmene con nessuno.
    Ero ormai certo che quello fosse stato il mio ultimo incantesimo quando sentii due mani prendermi per i fianchi e tirarmi su. Qualcuno mi sollevò e mi buttò sulla sua spalla, caricandomi di peso. Alla mia sinistra potevo vedere che un uomo, vestito con un’uniforme nera e un passamontagna, aveva fatto lo stesso con Josephine.
    Ci trasportarono fino ai SUV e ci caricarono sul sedile posteriori. All’interno c’era abbastanza spazio per cinque persone armate di tutto punto.  Sembrava una dannata squadra anti-terrorismo dell’esercito.
    «I miei complimenti, Neil.» disse una voce femminile. Un volto scuro rigato dal sudore faceva capolino fra i sedili anteriori.«Pensavo fossi un bluff. Tutto fumo e niente arrosto, invece… »
    Il SUV partì. Mi focalizzai su quel viso ma avevo difficoltà a tenere gli occhi aperti. Due occhi grigi spuntavano da una faccia sporca di polvere e sangue.  «Grazie, Yelena.» biascicai.
    Uno degli uomini mi stava prestando il primo soccorso, fasciandomi la ferita al polpaccio.
    Con un ultimo sforzo prima di perdere i sensi portai una mano verso la tasca inferiore dello zaino e sentii l’energia magica dell’uovo. Sorrisi con soddisfazione e chiusi gli occhi.
   
 
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