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Autore: AinwenWings    15/01/2013    0 recensioni
È estate. È estate in un certo luogo, di un certo anno, in uno stato chiamato Italia.
È inverno. È inverno in un certo cuore, in un certo tempo, in un corpo che si chiama Emma.
Genere: Introspettivo, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Capitolo 2
- Just be Happy -

“Puoi farci” sempre qualcosa.
Per esempio, puoi riderci sopra.
- Erma Bombeck

 
Emma si guarda allo specchio. Ha un bel vestito addosso, a stampe color pastello raffiguranti un fiore di loto.
Glielo deve aver portato qualche parente da lontano, anche se in questo momento non ricorda bene chi, né il luogo da cui il capo provenga.
Prende la gonna a balze tra le mani, e ondeggia leggermente, guardando il suo riflesso.
“Dai, così sono anche carina”, sussurra. Poi pensa alle sue compagne di scuola con quel vestito, e si odia.
Non è che lei non sia abbastanza magra, abbastanza bella o abbastanza graziosa. Semplicemente porta le cose troppo umilmente, sembra che siano addosso ad un manichino, o almeno così lei crede.
Non sfoggia mai nulla, non si può mai carpire dal suo modo di fare se quel capo sia nuovo o meno.
I sentimenti, neanche quelli li porta bene. Appaiono vecchi e sgualciti, non sembra che gliene importi troppo.
Emma si guarda ancora, per l’ultima volta quella mattina. Ha i capelli biondi appuntati con delle forcine in alto, la pelle fresca di una notte passata a dormire serenamente e una catenina ‘Born for the USA’ al collo.
Si sente pronta per l’intervista con ‘the director’. Okay, forse non proprio pronta, meglio abbastanza pronta. Può darsi che sia un po’ meno di abbastanza. Diciamo che non è così pronta né così perfetta come vorrebbe essere, e teme di sbagliare i tempi verbali inglesi in tutto quel che dirà.
Scende di sotto dove i suoi l’aspettano già da un bel po’, passando da un pezzo di scottex all’altro, sorridendole e dicendole che ‘in realtà in questo periodo dell’anno entrano molti moscerini dalle finestre, per questo che ho gli occhi rossi’ e che ‘tutti i traguardi che hai raggiunto sono nelle tue mani ora, tesoro, sfruttali!’.
Entra nella Multipla grigia assieme alla mamma e al papà, ripetendosi nella testa il discorso.
Le faranno delle domande personali? Le chiederanno cosa le piace fare? Si insinueranno nella sua vita striscianti e vorranno sapere tutto di lei?
Sa bene di non doversi fare un’idea sbagliata di ciò che accadrà in quella stanza, ma è più forte di lei avere pregiudizi riguardo al suo ‘futuro’.
Riguardo alle persone, agli eventi, alle reazioni. E questo è un paradosso: Emma odia le persone con i pregiudizi.
Ecco perché per una certa parte odia se stessa e per un’altra se ne compiace: cerca di evitare i difetti che odia, ma ci ricasca ogni volta, compie gli stessi errori. Quando esce il lato migliore di lei, lì si che esulta, e si piace, si piace da morire. Si piace come quando Francesco le parlò per la prima volta in classe, a scuola, dicendole che era vestita bene; si piace come quando la prof di matematica le disse che era intelligente.
Si piace così tanto quando pensa di poter piacere agli altri.
Ridacchia tra sé e sé: crede di non poter andare a genio al ‘the director’. Ne è fermamente convinta, sente palpabile la sua ansia, e la risatina nervosa che esce dalla sua bocca si propaga per l’auto contagiando i suoi genitori, forse ancora più in ansia di lei.
“Non devo avere pregiudizi. Devo piacermi. Devo amarmi. Così verrò amata. Quindi, non devo avere pregiudizi.”



Mi esce una risatina nervosa dalla bocca.
Mia madre sente la canzone alla radio e sembra che improvvisamente la mia risata abbia contagiato l’auto.
- Ahahahaha, senti questa canzone Nicola! – urla mia madre ridendo.
È una canzone normalissima, che recita anche parole profonde. Mia madre non capisce l’inglese, perciò mi chiedo come faccia a dire che è divertente.
- Ahahahaha, guarda come ridi Simona! – la indica mio padre con l’altra mano sulla pancia.
In questa risarola collettiva non mi resta che appoggiarmi con la fronte al finestrino, sperando due cose completamente opposte: che il viaggio duri poco e che il viaggio duri molto.
Prendiamo diversi semafori, e sembra che l’autostrada non arrivi mai. Devo andare fino a Milano, è lì che si trova la sede della EF. Cosa volete che siano tre ore di auto!
Mi assopisco un attimo e quando mi sveglio stiamo prendendo l’uscita per Milano; l’allarme META VICINA inizia a lampeggiare nella mia testa, e inizio a sentire vagamente qualcosa di più che quel formicolio di ansia allo stomaco. Sento le formiche che salgono dallo stomaco.
- Papà, sblocchi il finestrino qui dietro per favore? – chiedo, con una mano sulla bocca.
- Stai bene? – domanda preoccupato voltandosi un momento.
- Tira giù questo dannato finestrino! – impreco, sperando che si dia una mossa.
Arriva l’aria fresca sul mio viso, e sembra che le formiche optino per una tregua. Se avessi vomitato, rovinando il mio vestito, sarebbe stata la fine della mia intervista.
Mi guardo attorno e inizio a vedere i primi veri palazzi. Il segnale meta vicina si fa sempre più insistente e, quasi come fosse un avvertimento, iniziano a fischiarmi le orecchie. Che ‘the director’ mi stia pensando? Ma cosa pensa di me? Qualcosa di positivo? “Non ti fare pregiudizi!” mi ripeto, sbuffando.
- Guarda Emma, siamo vicini. – dice mia madre tutta eccitata.
La frase mi rimbomba in testa per un po’. Esagerato, direte, ma sto per decidere del mio prossimo anno, del mio futuro probabilmente. Voglio fare grandi cose della mia vita e non voglio rimanere in Italia un minuto di più.
 
Parcheggiamo vicino ad un palazzo grigio/bianco, alto. Mio padre paga il ticket e mi sorride debolmente, dandomi una pacca sulla spalla.
“Cristo, un abbraccio no, eh! Vogliono già lasciarmi! Stanno già pensando a rimpiazzarmi!” sussurra il diavoletto che è in me.
Cerco di dissuadermi dal girarmi, ma vedo i miei stretti come se mi stessero portando in un orfanotrofio.
“Ah si? Ah si? Bene, farò vedere loro che non ho bisogno di tutto questo affetto che vogliono darmi! Che sono abbastanza forte e indipendente e che me ne voglio andare da qui!”
Così, la mamma mi prende la mano e fa per entrare con me.
- Dal momento che oggi potrebbe essere il cruciale distacco tra noi, vorrei entrare da sola. Non ho più bisogno di voi. – dico, abbassando gli occhi verso le loro mani strette.
Mia madre ci rimane visibilmente male. Loro non hanno bisogno di me? Io non ho bisogno di loro.
Perché dovrei avere bisogno di loro quando, mentre io sono tutta preoccupata, pensano solo a coccolarsi e a tenersi stretti? Io avrei bisogno di essere stretta!
Sull’onda di questi pensieri spingo il portone d’entrata. È un palazzo con un grande atrio, e di fronte a me c’è la segreteria.
- Ehm, salve. Mi chiamo Emma Lo Cuoco e sono qui per il colloquio con il direttore. – dico, facendo un sorriso il più rassicurante possibile.
- Primo piano, aula 13. –
Cerco di mantenere la calma quando salgo le scale. Conto i gradini, conto i respiri, conto i battiti. Credo che potrei svenire su queste scale. Sto per mettere nero su bianco il mio sogno, sto per decretarne il successo o il frantumo.
Dopo un’iniziale incertezza inizio quindi a percorrere i gradini due a due, correndo. Arrivo al primo piano con il fiatone, colpa dell’asma, e trovo subito la stanza.
Guardo l’orologio: mancano cinque minuti all’orario in cui devo entrare nella stanza; devo calmarmi, subito, perdere questo rosso sulle gote dovuto alla fatica.
Devo comportarmi come una dama dell’Ottocento. Ecco come. Fine, opportuna, composta, acculturata, con un’ampia proprietà di linguaggio.
Ce la posso fare. Ce la posso fare.
 
Entro nella stanza: è spaziosa, con una scrivania nell’angolo sinistro della parete di fronte a me, su cui si apre una grande finestra con un grande davanzale. Nella parete alla mia destra c’è un altro banco, occupato da una donna e il suo computer. Oddio, scriveranno ogni cosa che dirò.
L’ansia cresce quando vedo che ‘the director’ è di fianco a me e mi invita a togliermi il cappotto. Dopo che l’ho consegnato ad una ragazza bionda, mi invita ad accomodarmi sulla sedia di fronte alla sua scrivania. Lo faccio, e finalmente posso osservarla meglio.
‘The director’ è una donna giovane. Avrà una trentina d’anni, l’accento inglese marcato, un tailleur nero con gonna e due tacchi vertiginosi che ne slanciano la figura. I capelli rossi le incorniciano il viso e gli occhi verdi spiccano e le danno un’aria abbastanza inquietante, almeno in questo momento.
- Ciao, Emma. Hai fatto un buon viaggio? So che non sei di Milano. – dice, scostandosi una ciocca di capelli dagli occhi.
Ma che razza di domanda è? Se il viaggio fosse andato male non sarei lì, no? Sarei arrivata in ritardo, oppure facendo l’autostop e ora il mio vestito sarebbe tutto sgualcito.
- Sì, il viaggio è trascorso in modo ottimale, grazie. – dico, accennando un sorriso.
“Spalle indietro, Emma. Non scivolare con il sedere sulla sedia, è segno di noia. Mento alto. Non arrossire. Occhi sempre puntati nei suoi. Sii forte.”
Mi ripeto la postura che mi ero preparata a casa, e sono pronta per ascoltare le domande della donna.
Inizia guardando le mie pagelle, dicendo che ho un’ottima media, dal momento che è dell’8,33.
- Beh, ecco, mi sono impegnata molto per ottenerla e…- dico, attorcigliandomi nervosamente le dita sul ventre.
- Nessuno sta dicendo il contrario, Emma. – mi dice, alzando la testa ed aprendosi in un ghigno, per poi continuare a guardare le scartoffie sulla scrivania.
Passiamo una decina di minuti in silenzio, finché lei non inizia a pormi delle domande.
Mi chiede da quanto tempo desidero partecipare al programma, quale sarebbe la mia meta preferita, perché vorrei partecipare al programma.
Mi parla in inglese, velocemente, e mi chiede di spiegarle cosa mi ha detto. Glielo spiego prima in lingua, e poi in italiano. Sembra molto soddisfatta, a giudicare da tutti i ‘bene bene’ che le escono dalla bocca.
A questo punto credo che l’intervista sia quasi alla fine, perciò mi rilasso.
- Come sai, sarai sistemata in famiglia. Ho bisogno di sapere ciò che sai fare da sola, prima di darti l’approvazione. – dice, sistemandosi sulla sedia.
- Capisco perfettamente. – replico, sorridente.
- Sai cucinare qualcosa? Sai prendere un taxi, o trovare la fermata della metro. Hai coraggio di chiedere indicazioni? – domanda guardandomi.
Mi sto agitando. Sta iniziando ad entrare nei particolari, e io ho paura di crollare.
- Beh, cucinare si. Abbastanza. Comunque ci sono anche i piatti pronti al supermercato, no? Per quanto riguarda il taxi, sicuramente riesco a prenderlo. Beh ecco, la metro l’ho presa sempre con i miei, e lo stesso per le indicazioni, ma suppongo di potercela fare. – affermo esitante.
- Supponi? – precisa la donna alzando un sopracciglio.
- Ho molte capacità. Sono una persona intelligente, so fare molte cose. Non importa se non so cucinare la pasta, no? – chiedo, sperando con tutto il mio cuore che faccia un sorriso e passi alla prossima domanda.
- Un buon cervello non basta in un altro paese, sai? Devi sapertela cavare senza i tuoi genitori, voglio dire, nulla di semplice, e non so se tu sia adatta. Supponi un po’ troppo: non dovresti aspettare di acquisire più sicurezza? – insinua quindi appuntandosi qualche cosa su un foglio.
- Voglio dire, Emma, non ti mancherà troppo tutto questo, vero? –
Panico. Perché devono tutti toccare i miei punti deboli? Volevo che parlasse di tutto, ma non della famiglia. E lei di che parla? Della famiglia. NORMALE NORMALISSIMO.
Scosso la testa, cercando di trattenere le lacrime. Mi chiede se sono sicura di quello che voglio fare, se voglio davvero partire. Sto diventando tutta rossa, le lacrime sono calde e pesanti e sento che non riesco più a trattenerle.
- Sentite, lei e tutti quelli che credono che io non ce la possa fare. – dico, avvicinandomi con la sedia alla scrivania. – Non so cucinare un piatto di pasta. Non so cucirmi i calzini, né amministrare bene i miei soldi. Non so precisamente i prezzi degli oggetti, non so farmi la tinta. Ma voglio imparare. In questi giorni imparerò a fare tutto, leggero più libri di cucina di Gordon Ramsay e metterò il timer mentre preparo le torte come a MasterChef. Andrò in giro per la mia città facendo finta di non conoscerla, chiedendo indicazioni a tutti i passanti, parlando in inglese. Imparerò, sapendo che dovrò andarmene da casa mia, lasciare mia madre in balia del suo costante essere svampita e mio padre della sua pigrizia e malinconia verso ‘la sua cucciola che cresce’, per un anno. Che tornerò a casa e dovrò chiedere dov’è il bagno, o dove teniamo i piatti, e so che starò malissimo quando sarò in una nuova casa e non ci sarà più la mia stanza tappezzata di peli di cane. Ma ho deciso che voglio essere una ragazza con le palle, una di quelle che per farsele deve staccarsi da una vita che vuole proteggerla a tutti i costi. Non sarò la più adatta per questo posto, ma lo voglio più di chiunque altro! – dico, tra le lacrime, prendendo il fazzoletto che ‘the director’ mi porge.
Continua a scrivere sul suo dannato foglio da quando ho iniziato a piangere, e ora mi guarda mordicchiandosi l’interno della guancia.
- Okay, Emma. Ti saprò dire oggi pomeriggio, va bene? –
- Si, certo. – replico, alzandomi e uscendo dalla stanza.
Scendendo le scale penso a Boston, a quanto si stia allontanando e a quanto i miei sogni siano schifosi ora come ora.
E inizio a ridere. A ridere come non ho mai fatto, a ridere di gusto. Rido tra le lacrime, ma è una risata sincera, una risata liberatoria, è la risata che cerco da tanto tempo.
Arrivo di sotto e c’è mia madre che mi chiede com’è andata.
- La prendo sul ridere! – dico, avviandomi con loro verso un ristorante di Milano.

 
   
 
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