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Autore: exitwounds    16/01/2013    7 recensioni
[avril x evan]
«Wow, allora la voce ce l'hai, Lavigne!» esclama Dave, fingendosi sorpreso. «Voce di merda per una persona di merda.»
Silenzio.

Amy, Evan, Avril. Semplicemente tre adolescenti. E il potere dell'amicizia.
Genere: Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Keep holding on.

(1)

 

12 giugno 1996, New York, NY, USA.

Evan.
«Evan stai scherzando, vero?» mi chiede con le lacrime agli occhi.
«Purtroppo no.» le rispondo con voce rotta, stringendola forte a me. Singhiozza convulsamente, stretta al mio petto. Le accarezzo i capelli, cercando di tranquillizzarla, ma la verità é che neanche io riesco a stare tranquillo. Mi bruciano gli occhi, non riesco a trattenere le lacrime.
«Amy ti giuro, io non lo voglio fare, ma devo per forza. Non riusciamo a vivere qui a New York, é troppo cara, non ci bastano i soldi. Devo andare per forza.» le spiego, con le lacrime che scendono silenziose dal mio volto.
«Evan, io capisco, ma maledizione, Napanee, Canada! Migliaia di kilometri!» ha continuato a singhiozzare.
Non riesco a staccarmi da lei. Noi due, amici inseparabili da una vita, tredicenni che non riescono a stare per più di un'ora senza sentire la voce dell'altro, fra poco saremmo divisi da migliaia di kilometri.
«Andiamo a prenderci un gelato, okay?» le asciugo le lacrime e la prendo per mano, sembra tranquillizzarsi un po'.
Insiste per offrirmi il gelato con gli ultimi dollari che le sono rimasti in tasca, e come al solito prendiamo una coppa enorme, vari tipi di cioccolato, panna, crema, vaniglia e la ciliegina.
Cerchiamo di chiacchierare come se nulla fosse, ma non riusciamo. Se parliamo il discorso va a finire sul tema 'trasferimento', quindi finiamo il gelato in silenzio.
«Fra quanto parti?» mi chiede Amy.
«Due giorni.»
Vedo i suoi occhioni verdi riempirsi di lacrime, non posso vederla così. La stringo forte a me, mentre lei continua a piangere.
«Non posso stare senza di te!» riesce a dirmi tra le lacrime.
«Neanche io. Amy, tu sei la mia migliore amica, sei la cosa più bella che mi sia mai capitata in tutta la mia vita, anzi, tu sei la mia vita. Io senza di te non ci voglio stare, non voglio lasciarti da sola, ma devo.» le sussurro nell'orecchio. La tengo stretta forte a me, sento la sua fragilità, é talmente debole che se stringessi forte potrei romperla, come se fosse una bambolina di vetro.

Amy.
All'aeroporto cerco di non piangere, mentre lo vedo allontanarsi con i suoi genitori, trascinando le valige. Mamma e papà li salutano con la mano, io sono talmente scioccata che non riesco a muovermi.
Evan si gira verso di me, i nostri sguardi si incrociano per l'ultima volta, gli occhi lucidi che cercano di trattenere le lacrime.
«Evan, non te ne andare!» urlo con tutto il fiato che ho in gola, correndo verso di lui.
«Ti voglio bene Amy!» mi urla lui di rimando.
Papà mi ha corso dietro e mi ha fermata.
«Tesoro, non puoi corrergli dietro. La vostra amicizia non é finita, vi potete sentire per telefono.» mi dice.
«Papà, non capisci, io voglio sentire la voce di Evan che mi risponde al campanello, che apre la porta e mi abbraccia, non voglio sentire la sua voce da un maledetto telefono! Io senza Evan non ci voglio vivere!» scoppio a piangere tra le braccia di papà.

Senza Evan é tutto più monotono. Non che non abbia amici, ne ho a bizzeffe, ma non é più come prima. La verità é che nessuno di loro é Evan.
Mi manca da morire. Una volta sono scappata di casa, ho preso un autobus e sono andata in aeroporto, pronta a comprare un biglietto di sola andata per il Canada usando tutti i miei risparmi. Mamma mi aveva fermata appena in tempo.
Non avevano ancora capito quanto significhi per me l'assenza di Evan. Per farmelo sentire un po' più vicino, ci avevano permesso un'ora di telefonata ogni sabato, una volta chiamavo io, una lui, e ci raccontavamo qualsiasi cosa, da cosa avevamo fatto a scuola a cosa avevamo mangiato a colazione. Avrei voluto parlare di più per telefono, ma già quell'ora settimanale era una grande spesa, maledette telefonate internazionali. Di andare a trovarlo neanche se ne parla, non nuotiamo nell'oro, e dei biglietti aerei sono totalmente fuori dalle nostre capacità economiche.
Ogni sera scrivo una lettera ad Evan, in cui gli racconto qualsiasi cosa mi sia successa quel giorno, anche se parliamo per telefono, e a fine mese le raccolgo e le spedisco, e così lui fa con me. Non é come averlo ancora qui, ma é pur sempre qualcosa.

12 giugno 1996, Napanee, ON, Canada.

«Hai visto come cammina quella palla di lardo?»
«Cammina? Ma che dici, quell'essere là rotola!»
I due ragazzi ridono fragorosamente, incuranti del fatto che l'oggetto delle loro prese in giro sia lontano solo pochi metri.
Lei si stringe nel suo felpone, più grande di tre o quattro taglie, stringe forte i pugni e respira profondamente per evitare di piangere. Non gliel'avrebbe data vinta,mai. Volevano solo vederla star male, vederla piangere, ma non lo avrebbe permesso.
Cammina a testa alta proprio davanti a quei due, per sbatter loro in faccia quanto poco gliene fregasse delle loro prese in giro.
«Ciao eh.» la saluta con sguardo sprezzante Dave, il biondino. Lei rimane in silenzio.
«Ti abbiamo salutata eh!» la riprende Mark, il moro.
Fa per andarsene ma Dave la ferma per un braccio. «Dove vai eh, palla di lardo? Rimani qua, io e Mark vogliamo prenderti in giro ancora un po'!»
«Non sarebbe bello trovarti un altro soprannome? Tipo... 'maiale'! Ti piace, no?» aggiunge Mark.
Le lacrime cominciano a pizzicarle gli occhi, ma non vuole cedere.
«É un soprannome di merda.» risponde secca. Per la prima volta ha trovato il coraggio di rispondere a quei bulli che la tormentano da quasi due anni ormai.
«Wow, allora la voce ce l'hai, Lavigne!» esclama Dave, fingendosi sorpreso. «Voce di merda per una persona di merda.»
Silenzio.
«Mi hai stufato, Lavigne. Vattene con le tue gambe o a casa ti ci mando a calci in culo, okay?» la minaccia Mark, ma lei rimane ferma. Mark alza un braccio e le schiaffeggia la guancia sinistra con un colpo secco.
«Ho detto vattene. Napanee non ha bisogno di una palla di lardo come te, faresti meglio ad ucciderti.» continua Dave.
Avril se ne va in silenzio.
Per l'ennesima volta le cattiverie di quei due passeranno sotto silenzio. Per l'ennesima volta tornerà a casa con le lacrime agli occhi, fingerà un sorriso e mentirà alla mamma dicendole che vada tutto bene.
Ma lo specchio non mente. Si guarda e vedendo la sua immagine riflessa capisce che Mark e Dave hanno ragione. Non riesce ad accettarsi, non riesce a capire che quei pochi chili di troppo non sono assolutamente un male.
Così si chiude in bagno, e con la voglia di spaccare sia specchio che bilancia si appella a ciò che le pare l'unica soluzione: due dita in gola, e tutto il cibo che ha mangiato sparisce, un po' come sembrano fare i suoi problemi, e come vorrebbe sparissero Mark e Dave.



my space.
sono nuova in questa sezione, quindi mi pare giusto presentarmi (?)
sono fabiana e sono una little black star da quasi 7 anni. *sembra una presentazione da club degli alcolisti anonimi ma vabbé.*
questa storia nasce da vecchi appunti sparsi. era tantissimo che volevo scrivere su avril, la donna che ha salvato la mia vita.
spero quest'inizio vi piaccia e soprattutto di postare presto.
un bacio, fabi.
  
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