Anime & Manga > I cinque samurai
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Autore: Kourin    17/01/2013    2 recensioni
La fiamma rossastra di una candela si accese, permettendo agli occhi di Seiji di esplorare la stanza. Intravide alcuni mobili, uno specchio, delle spade. La parete recava dipinta una battaglia dove si scontravano eserciti di uomini in armatura. I loro volti, deformati dalla collera, non li rendevano dissimili da un'orda di feroci oni.
Lui era seduto lì, le spalle coperte da un tetro haori, capelli ribelli, perfidi occhi di notte, il volto sfregiato da un antico taglio di spada.
“Anubis. Il tempo della nostra guerra è finito. Perché sei venuto da me?”

Questa storia si colloca in un momento imprecisato dopo Message. I personaggi sono Seiji e Anubis, con la partecipazione straordinaria di Ryō.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Cale, Ryo Sanada, Sage Date
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Lasciami passare
(Tōryanse)
 
1. La scomparsa della Luce


Era inverno, e come ogni anno sui larghi viali addobbati a festa era scesa la neve. Fili luminosi intrecciati ai rami degli alberi formavano una ragnatela splendente che teneva lontano il buio dal cuore di Sendai. Mentre gli abitanti si affollavano nelle lunghe gallerie commerciali per illudersi di dimenticare il gelo, Seiji continuava a camminare lungo la via che conduceva al monte Aoba. Le maglie della tela di luminarie si allargarono fino a restituire la scena ad ordinari lampioni, poi questi vennero meno e gli occhi si lasciarono guidare dall'illuminazione delle abitazioni che si facevano più rade mentre la strada si trasformava in salita. Quando questa iniziò a contorcersi all'interno del bosco, a Seiji non restò altro che fare affidamento sull'istinto. Finì per venire abbagliato dai fari di un autobus, che scendeva dalle rovine dell'antica dimora dei signori del Tōhoku per ricondurre alla stazione uno sparuto gruppo di coraggiosi turisti.
Nessuno lo obbligava a recarsi lassù, ma Seiji lo faceva spesso, rigorosamente da solo, per ragioni che non avrebbe potuto spiegare né ai suoi parenti, né agli allievi del dōjo: le persone che vivevano in tempi di pace non comprendevano che cosa volesse dire lottare per la propria vita o subire torture volte a sradicare il proprio credo e il proprio cuore.
Il parco del castello era ammantato da una coltre di silenziosa neve. La statua equestre di Masamune Date si stagliava contro un cielo opaco che rifletteva le luci artificiali della città, rendendosi complice delle illusioni degli uomini. La falce che ornava l'elmo da battaglia sembrava un astro oscuro che, in assenza di sole e luna, si permetteva di regnare indisturbato sulle lunghe notti di fine anno.
Seiji seguì le orme dei turisti e raggiunse il tempio. Quando passò sotto il torii d'ingresso si sentì accarezzare dalla luce delle lanterne che lo affiancavano. Calda, come di fiamma, contrastava con il gelido splendore della neve che dominava il piazzale antistante.
Raggiunse l'altare, gettò una moneta, scosse la corda. La campana tintinnò, Seiji ne ascoltò l'eco. Le vibrazioni gli raggiunsero il cuore, placandolo, sostituendosi al suono di Kōrin che quel giorno si era mossa. Un movimento appena accennato, quasi impercettibile, ma sufficiente per farlo piombare in uno stato di inquietudine. L'armatura doveva aver sentito una battaglia imminente, ma Seiji sapeva che non era il tempo e, in ogni caso, la decisione di aprire una guerra non sarebbe dovuta scaturire da lei. “Fa' che io e i miei compagni non dobbiamo combattere,” pregò. Batté le mani, si inchinò e poi, semplicemente, si rimise in ascolto. Nella neve che lo circondava lo spazio e il silenzio apparivano uniformi. Qualsiasi accadimento sarebbe stato facile da percepire. Trascorsero alcuni minuti, nei quali il buio sembrò farsi più fitto al di là delle lanterne. Poi riecco il suono metallico, che Seiji sapeva avere origine nello spirito. “Kōrin, perché sei così inquieta? Non ne hai motivo,” disse piano mentre si incamminava lentamente per abbandonare l'area sacra.
L'oscurità a cui andava incontro sembrava divenire sempre più densa, quasi animarsi.
Seiji capì e fece appello a tutta la freddezza che fu capace di trovare nella mente: tornare indietro non sarebbe stato semplice.


Ryō aveva approfittato delle vacanze invernali per tornare nella casa in cui era cresciuto, uno chalet che si ergeva poco distante dalle sponde del lago Yamanaka. Era stato costruito per i turisti negli anni settanta, ma era rimasto invenduto finché suo padre non aveva deciso di farne il suo studio dopo la prematura scomparsa della moglie.
Ryō aveva vissuto per quasi dieci anni tra quei monti. La folla della capitale, congiunta all'obbligo di chiassosi festeggiamenti, lo faceva sentire a disagio.
Ryō non aveva parenti con cui riunirsi per onorare le tradizioni. Suo padre si trovava all'estero, impegnato in una delle sue interminabili missioni scientifiche. La sua unica compagnia era costituita da Byakuen, lo spirito tigre che aveva vegliato su di lui fin dall’infanzia e che gli era accanto anche ora, acciambellato sul tappeto come un felino domestico.
Però Ryō aveva anche Seiji, Tōma, Shin e Shū. Poteva sentirne la presenza attraverso il calore del fuoco che aveva iniziato ad ardere nel camino.
Ciascuno di loro vestiva un’armatura per combattere battaglie furiose contro il Male, a beneficio di persone che mai avrebbero dimostrato comprensione o gratitudine.
Ciascuno di loro aveva un cuore per governare l'armatura, impedendole di venire utilizzata dal Male generato dai cuori delle stesse persone che proteggevano.
Erano i cuori dei suoi compagni che davano Ryō la forza per sopravvivere tra le creature del Male, e quella per vivere in pace tra gli esseri umani.
Quel giorno Ryō era arrivato da Yamanakako a piedi, percorrendo un sentiero sommerso da neve alta e immacolata. Erano passati mesi dall'ultima volta che aveva lasciato il cemento della metropoli per fare trekking e quella camminata era stata per lui una liberazione. Il sole era tramontato presto, lasciandogli in dono un cielo invernale stellato e limpido dove si poteva scorgere l'ultima falce di luna.
Fu osservando quell'astro che Ryō la sentì mancare. La tranquillità di un mattino di primavera, quando la luce tiepida penetra attraverso le foglie per porgere una carezza senza abbagliare, perché non è nelle regole che si è imposta. E se era vero che nella loro esistenza di Samurai Troopers nulla poteva svanire ma solo trasformarsi nel suo rovescio, questo significava un'unica cosa: Seiji era oscurità.
Byakuen si avvicinò, strofinandogli il muso sul fianco.
“Resta qui, tornerò presto. Te lo prometto,” disse Ryō accarezzando la testa della tigre, che rispose con un sommesso ruggito di approvazione.


Non era così male l'oscurità. Erano trascorsi alcuni anni da quando l'aveva affrontata, combattuta, sconfitta e nuovamente combattuta fino allo sfinimento. Con grande soddisfazione di Arago, che da quelle battaglie aveva tratto soltanto giovamento. Che stupido ragazzino era stato! Se non ci si opponeva, l'oscurità diventava ovattata, silente, enigmatica. Il suo abbraccio non soffocava e permetteva di trovare sollievo dal costante dolore arrecato dalla verità.
Tuttavia Seiji era nato per Kōrin. Per lui non esisteva destino diverso dalla luce, dalla guerra, dalla vita. Fu così che si sforzò di fare appello ai suoi sensi per capire dove si trovasse.
Il corpo era steso su un pavimento, che al tatto appariva percorso dalla trama regolare di un tatami. Lo circondava un ambiente chiuso, colmo d'aria stantia che odorava di cera e incenso. Non provava né caldo né freddo, sebbene le orecchie potessero percepire lontani e sinistri ululati di vento. Con cautela si alzò sulle ginocchia e, rivolgendosi a colui che sapeva essere presente, chiese: “Dove mi trovo?”
“È così che mi saluti, Kōrin?” Rispose una voce di cui non si poteva identificare la direzione di provenienza. Sembrava nascere da ogni angolo di tenebra e la tenebra era tutt'intorno, uniforme e profonda.
“Ti darò un aiuto, oggi mi sento quasi una brava persona.”
La fiamma rossastra di una candela si accese, permettendo agli occhi di Seiji di esplorare la stanza. Intravide alcuni mobili, uno specchio, delle spade. La parete recava dipinta una battaglia dove si scontravano eserciti di uomini in armatura. I loro volti, deformati dalla collera, non li rendevano dissimili da un'orda di feroci oni.
Lui era seduto lì, le spalle coperte da un tetro haori, capelli ribelli, perfidi occhi di notte, il volto sfregiato da un antico taglio di spada.
“Anubis. Il tempo della nostra guerra è finito. Perché sei venuto da me?”
Le spalle dell'uomo si scossero in una risata silenziosa. “Ragazzino arrogante, la tua ottusità ti rende sempre divertente.”
Seiji strinse i denti. Non gli piaceva che qualcuno giocasse con il suo orgoglio, specialmente se per farlo si serviva della verità. Colui che era stato il Generale Demone dell'Oscurità richiuse le labbra in un sorriso crudele. Quando Seiji lo sfidò con lo sguardo lui disse: “Non guardarmi così. Sei tu che sei venuto a me, non te ne sei reso conto?”
Seiji non poteva sapere se quelle parole fossero verità o tranello, tuttavia durante la guerra quel generale spietato non gli aveva mai mentito. Parlò quindi in modo diretto. “Oggi la mia armatura si è mossa. Dimmi il perché e dimmi in che luogo mi trovo.”
“Dovresti chiedere le cose con più rispetto, dato che questa è la casa della mia famiglia.” Poi Anubis cambiò tono e sussurrò: “Se vuoi la risposta che cerchi, devi ascoltare la mia storia. Ma la mia storia non è una cosa che posso elargire senza chiedere nulla in cambio.”
“Perché la dovrei ascoltare? Perché dovrei fidarmi di te, Anubis?” Seiji si alzò in piedi, Anubis fece lo stesso. “Non sfidarmi qui, perderesti. Non posso negare che tu sia forte, ma non sei nelle condizioni di potermi battere.”
“Non provare ad avvicinarti!” Il comando di Seiji uscì fermo, minaccioso. Con orrore si rese conto che la spada di Kōrin stava iniziando a materializzarsi nella sua mano. Anubis non si scompose. “Stupido ragazzino, non ti sai proprio trattenere? Non farmi venire voglia di darti una lezione.” Solo allora Seiji si rese conto che il suo rivale non portava alcuna arma a fianco dell'hakama nera che indossava. “Allora? Hai dimenticato l'etichetta? Vieni armato in casa del tuo ospite?”
Seiji lasciò cadere la spada. Il lampo che questa emanò rivelò solchi e cicatrici nel volto del generale, che si contorse in un'espressione di evidente fastidio.
“Mi basta qualcosa del tuo passato, Kōrin. Qualcosa che hai dimenticato. Suvvia, che ti costa?”
Seiji indietreggiò di alcuni passi mentre l'altro lo incalzava: “Lasciami passare. Sono l'oscurità che è in te, dovresti avere imparato che non puoi respingermi.”
Un attimo dopo era sparito dalla sua vista.
Lo cercò nella stanza, illuminata dal tenue e pulsante alone verdognolo della spada, che continuò a chiamarlo prima di svanire nuovamente dal mondo. I mobili, lo specchio, le spade: tutto era come prima, ma c'era qualcosa di strano.
L'ombra, la sua stessa ombra proiettata sulla battaglia era in realtà quella di Anubis.
Seiji non perse tempo. Si inginocchiò sul tatami e assunse la posizione di meditazione. Non c'era altro modo per comprendere ciò che stava succedendo. Impose al corpo il ritmo del respiro mentre scendeva a ritroso nei suoi ricordi. Scese velocemente, sforzandosi di non lasciarsi coinvolgere dai dettagli.
Ignorò le urla della battaglia, il dolore di quando l'armatura gli era stata strappata, il sollievo di quando era andata in frantumi. Sondò il buio dello scantinato in cui l'armatura lo aveva scelto per poi attraversare infiniti allenamenti, notti di studio, albe che rivelavano impietose la sua figura al mondo sollevando sconcerto in chi lo incontrava. Ma scendere fin lì non bastò. Allora con determinazione Seiji proseguì più in fondo, verso un pozzo che conservava frammenti di memoria non sempre disposti ad affiorare per incontrare il sole.
Come in uno specchio d'acqua, gli apparve il volto di una bambina dai capelli chiarissimi tagliati a caschetto. Aveva gli occhi grandi, di un viola innaturale, come di bambola. Vestita di un kimono verde, stringeva tra le mani una palla.
A lato dell'immagine iniziò a delinearsi la cornice finemente decorata di uno specchio, dove un uomo dalla carnagione scura e il volto sfregiato muoveva le labbra aride per sussurrare: “Vieni con me.”
“Anubis!” Urlò Seiji. Riaprì gli occhi, ma era risalito troppo in fretta e fece fatica a rimettere a fuoco la vista e il pensiero. Quando vi riuscì, davanti a lui c'era una ragazza dagli occhi viola. Aveva la carnagione chiara ed era vestita di un kimono verde decorato da foglie autunnali. La presenza della cornice gli fece capire che si trovava davanti ad uno specchio. Era lo specchio di quella stanza. Sullo sfondo si rifletteva la figura di Anubis. Seiji non si voltò, ma richiuse gli occhi e chiese: “Che cosa significa?”
“Sei ancora un Samurai Trooper perché hai accettato di vestire un'armatura fatta dei ricordi di una mocciosa, perché dovresti farti problemi ad indossarne uno dei tuoi? Se vorrai versarmi il sake, ti racconterò di me. Anche se ti sembra strano, ti riguarda.”
Seiji strinse i pugni, poi rilasciò le braccia lungo i fianchi. Non poteva permettersi di perdere il controllo. Anubis era tornato dal mondo degli yōja. Non era più al servizio di Arago, era giunto senza armatura, tuttavia sarebbe stato sciocco fidarsi di quella creatura non più umana che troppe volte gli aveva inflitto dolore trattandolo al pari d'un giocattolo. Era intelligente, possedeva l'orgoglio di un samurai ma sapeva essere crudele come una belva: finché non ne avesse capito le intenzioni, a Seiji non restava che assecondarlo.


Ryō non era mai stato troppo abile nel concentrarsi. Una volta Seiji gli aveva spiegato che non era colpa sua: aveva un'ottima capacità di entrare in contatto con Jin, il suo cuore, ma non aveva fatto la pratica necessaria per rendere questo contatto continuo e consapevole. Solo in combattimento, in bilico tra vita e morte, i sensi gli avevano permesso di sentire i rintocchi dei cuori dei compagni.
Seiji ad una prima impressione poteva sembrare senza un cuore, ma ce l'aveva eccome. Era insistente, orgoglioso e tendeva a farsi sentire per primo. Si chiamava Rei, Cortesia, e, se in principio appariva arrogante, quando si arrivava a toccarlo si veniva avvolti solo da gentilezza.
Per trovare Seiji era necessario individuare il suono di Rei. Ma spesso l'oscurità reca con sé un silenzio profondo, così Ryō non riuscì a percepire nulla nella stanza dove raccolse le poche cose che gli servivano per rimettersi in viaggio. Nulla nei cumuli di neve che cadevano dai cedri che affiancavano il sentiero ripercorso al buio. Ancora nulla nel rumore ipnotico del motore dell'autobus che imboccava l'autostrada. Tuttavia, una volta sceso alla stazione di Shinjuku, una melodia riuscì ad invadergli la mente. Proveniva dal semaforo pedonale, l'aveva sentita un'infinità di volte ma ora gli sembrava eccezionale, diversa. 'Tōryanse, Tōryanse', diceva il testo che aveva cantato da piccolo su quelle note.
La luce verde lampeggiava, non era rimasto molto tempo per attraversare. Senza rendersene conto, Ryō aveva iniziato a correre.
“Seiji, sto arrivando!”


Si concesse ancora qualche momento per osservare il giovane che gli stava versando il sake. Era bello, difficile pensare che fosse letale quando impugnava la spada. Aveva un nome, aveva un cuore, ma per lui era sempre stato solo Kōrin, l'armatura della Luce. Così come per il samurai lui era ancora Anubis, il Generale Demone dell'Oscurità. Era la legge della guerra, quella di Arago non aveva fatto eccezione.
Eppure quel ragazzo così abile e dall'aspetto così insolito era riuscito ad impressionarlo. Indossava un'armatura difficile da governare, aveva una personalità altrettanto singolare, ma aveva saputo contrastare caparbiamente la corruzione, a costo dell'orgoglio e della vita. Era stato il rivale più degno che avesse mai affrontato: non era facile tenere a bada la brama di incrociare nuovamente la spada con lui.
Colui che era stato il più fedele servitore di Arago gustò il sapore insieme aspro e dolciastro del sake. Dopo più di quattrocento anni era arrivato il tempo di riassaporare i piaceri terreni e di rimettere insieme il racconto della sua antica e umana esistenza. Disse: “Nacqui nella provincia di Mutsu nel diciannovesimo anno dell'era Tenbun sotto il regno dell'Imperatore Go-Nara. Avevo un nome: mi chiamavo Kujūrō Sasaki.”




NOTE

Questa storia fa riferimento al CD drama Kōrinden, agli OAV Message e a vari dettagli che si trovano sulle schede dei personaggi dei libri “Daijiten” e “Memorials Gekan”. Probabilmente sarà di difficile comprensione per chi conosce solo la serie TV ma, se dovessi spiegare tutto nelle note, queste supererebbero la lunghezza della storia. Mi limiterò quindi all'essenziale.
Tōryanse è una canzone popolare. Il testo parla di una donna che porta la figlia di sette anni al tempio, chiedendo agli spiriti di lasciarla passare. In alcune prefetture del Giappone questa melodia è associata ai semafori: le strisce pedonali si sostituiscono metaforicamente allo stretto passaggio che conduce al tempio. Nel CD drama Kōrinden Tōryanse viene cantata da un Seiji bambino, presente nei sogni dello stesso Seiji che si trova in bilico tra vita e morte.
La provincia di Mutsu corrisponde all'incirca all'attuale prefettura di Aomori. Il diciannovesimo anno dell'era Tenbun dovrebbe essere il 1550.

Kourin



 
  
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