Anime & Manga > I cinque samurai
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Autore: Kourin    01/02/2013    3 recensioni
La fiamma rossastra di una candela si accese, permettendo agli occhi di Seiji di esplorare la stanza. Intravide alcuni mobili, uno specchio, delle spade. La parete recava dipinta una battaglia dove si scontravano eserciti di uomini in armatura. I loro volti, deformati dalla collera, non li rendevano dissimili da un'orda di feroci oni.
Lui era seduto lì, le spalle coperte da un tetro haori, capelli ribelli, perfidi occhi di notte, il volto sfregiato da un antico taglio di spada.
“Anubis. Il tempo della nostra guerra è finito. Perché sei venuto da me?”

Questa storia si colloca in un momento imprecisato dopo Message. I personaggi sono Seiji e Anubis, con la partecipazione straordinaria di Ryō.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Cale, Ryo Sanada, Sage Date
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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(Tōryanse)
 
2. I ricordi dell'Oscurità


“Penso che la mia casa natale sia andata bruciata durante le guerre, ma visto che mi sono unito ad Arago prima che ciò avvenisse, in me è rimasta così come vedi. In famiglia non abbiamo mai amato gli spazi luminosi”. Kujūrō rise. La fiamma della candela, già debole, tremolò fin quasi a spegnersi.
Kōrin non disse nulla. Si limitò a fissarlo con occhi chiari e taglienti, privi d'ombra e quindi di umani sentimenti.
“Venivo da una famiglia di samurai di basso rango che aveva ottenuto il titolo durante la conquista di Ezo, ma di fatto i miei genitori vivevano da contadini. Il clima di Ōu non era clemente: dovevano spaccarsi la schiena per coltivare i campi e dare da mangiare me e i miei fratelli. Però mio padre teneva al codice e mi insegnò l'arte della spada. Ero bravo. All'età di dodici anni entrai al servizio dei signori del castello di Sannohe.” Kujūrō si interruppe per alcuni istanti. Poi comandò: “Versami dell'altro sake.”
Kōrin ubbidì con un movimento elegante, non più ampio di quanto fosse necessario. La manica del kimono si spiegò rivelando il volo delle gru che la decoravano. La fiamma che aveva ripreso vigore gli illuminò il volto parzialmente nascosto dai capelli. La calma immobile rendeva difficile comprendere se fosse uomo o donna, sereno o furioso. Era così che si manifestava Rei. Un tempo Kujūrō si era persino divertito a spezzare l'equilibrio di quel cuore perché Arago potesse impossessarsi della forza dell'armatura che governava. Mentre rammentava quei momenti permise che il sake gli inumidisse le labbra, quindi lo lasciò scendere nella gola. Insieme ad un leggero bruciore risalì una consapevolezza: anche lui aveva un cuore. Si chiamava Kō, Pietà Filiale, e al contrario di Rei era stato facilmente corrotto.
“In quel periodo c'erano battaglie ovunque e Ōu non venne risparmiato. Il mio signore entrò in guerra con i Date.”
Kujūrō osservò la reazione del samurai. Un lampo gli aveva attraversato le iridi, tradendo una certa sorpresa. Nella guerra delle armature i nomi perdevano importanza, ma in quelle degli uomini le cose stavano diversamente.
“Prima di continuare, vorrei sentirti pronunciare il tuo nome.”
Senza nessuna esitazione, Kōrin disse: “Mi chiamo Seiji Date.”
Kujūrō tacque, assaporando il suono di quelle quattro sillabe in grado di toccare le corde dell'odio, libere di vibrare cupe nel cuore da poco sgomberato dal Male. La sensazione riusciva ad eccitare ancora la mente avvezza alla corruzione.
Volse quindi lo sguardo al dipinto e proseguì. “Quella guerra devastò le nostre terre, la conobbi da vicino. Dimmi, principino dei Date, sai che cosa vuol dire morire di fame?”
“No. So solo che cosa vuol dire morire di dolore.” Kōrin accompagnò le parole con un'occhiata tagliente, che Kujūrō ricambiò con uno sguardo ricolmo di piacere perverso.
“È già qualcosa per uno della tua razza. Di solito chi gode di privilegi manda a morire gli altri. Non sai quanta gente che conoscevo ho visto morire. Di fame. Di lama. Di legge. A me non importava di come la si chiamasse, era morte e basta. Eppure continuavo a servire il mio signore meglio che potevo, perché il titolo di samurai era la cosa migliore che mio padre fosse riuscito a trasmettermi. La superiorità dei Date era evidente, ma il mio signore ci fece resistere fino allo stremo. Venni sconfitto nell'ultima battaglia, mi trovavo alle porte di Sannohe, avevo appena un pugno di uomini. Morirono uno dopo l'altro, finché mi ritrovai a lottare per la vita in mezzo ad un lago sangue: il loro, quello dei nemici, il mio. Spesso al castello avevo udito racconti di valorosi samurai che si toglievano la vita per evitare di subire l'umiliazione della sconfitta, ma io non lo feci: come ci si può dare per vinti se non si è lottato fino all'ultimo?
Infine i miei avversari mi circondarono. Avevano armature ed elmi, spade e lance. Riuscivano a ferirmi, ma non ad abbattermi. Il comandante nemico si avvicinò, scrutandomi dall'alto del suo cavallo bianco bardato di tutto punto. Compresi che non era un signorotto qualunque e, per una ragione che mi era ignota, sentivo di non poter sopportare la sua presenza. Mosso dalla stessa furia che mi aveva permesso di sopravvivere, tentai di raggiungerlo. Fu un errore: venni colpito alla spalla da una freccia e la mia mano non riuscì a trattenere la spada. Sapevo che presto sarei morto, ma volli ugualmente guardare negli occhi il nemico. Erano straordinariamente chiari, viola, come quelli dei demoni. Le punte delle lance mi sfioravano la gola, quando egli ordinò ai suoi uomini di non uccidermi. Non so perché lo fece, se volesse disonorarmi o se volesse permettermi di compiere il mio Destino.”
Kōrin sorrise impercettibilmente. “E così anche voi Generali Demoni finite per odiare chi vi ha guidati verso le armature.” Detto questo iniziò a riempire nuovamente la coppa, ma Kujūrō gli afferrò il polso, tirandolo a sé. La bottiglia cadde, il sake si spanse sul tatami rilasciando l'alcol nell'aria stantia. I loro volti si trovarono vicini. Poterono percepire l'uno il respiro dell'altro. Quello di Kōrin era regolare mentre quello di Kujūrō era fuori controllo.
“Continua, Anubis,” ordinò Kōrin.
“Non permetterti!” Sibilò Kujūrō mentre con la mano sinistra ghermiva il collo del samurai. La sua pelle era così fredda che sarebbe potuta essere quella di uno yōja. Kōrin non appariva turbato, era come se... risplendesse. Il contatto diretto con l'oscurità sembrava risvegliare il suo elemento. Se si fosse prolungato, la luce, quell'insopportabile luce, gli sarebbe entrata nel petto. Kujūrō rilasciò il giovane con un moto di stizza e comandò: “Siediti e ascolta.”
Kōrin raccolse coppa e bottiglia, riponendoli sul vassoio come se nulla fosse accaduto. Poi si sedette, sistemando le maniche del kimono. Le foglie che lo decoravano sembrarono adagiarsi lentamente per formare un manto bruno di fine autunno. Infine attese, in silenzio.
“Ero stato tramortito e lasciato sul campo di battaglia insieme ai cadaveri. Fu il gracchiare dei corvi a svegliarmi. Cercai subito la spada, ma non la trovai. Era il tramonto, era appena iniziato l'inverno e dal cielo scendeva qualche fiocco di neve. Presto dai monti, oltre al gelo, sarebbero scesi i cani selvatici. Mi affrettai, arrancando lungo sentieri noti solo a me e pochi altri. Avevo scelto di non sparire come un codardo. Avevo deciso di tornare a Sannohe. Tuttavia quando raggiunsi il castello venni fermato, spogliato dell'armatura e legato come un ladruncolo da quattro soldi. Venni a sapere che il mio signore stava trattando con i Date ed ebbi la sensazione che l'avesse fatto ancor prima di conoscere l'esito della battaglia. Scoppiai a ridere, così le poche persone che potevano dirsi mie alleate mi abbandonarono credendomi uscito di senno. Quando ormai era notte fonda, il mio signore scese a giudicarmi. Non era contento di vedermi. Mi chiese perché non mi fossi tolto la vita in battaglia. Io non dissi nulla, perché non potevo fornire una risposta che io stesso non possedevo. Mi autorizzò ad andare incontro alla morte onorevole del seppuku ed io gli dissi senza alcuna esitazione: 'Anche voi dovreste andare incontro al seppuku.' Il mio signore si infuriò, estrasse la spada corta e mi tagliò il volto.”
Kujūrō fece una pausa. Sfiorò con le dita il lato sinistro della fronte. Individuò il solco formato dalla cicatrice, lo seguì lungo la palpebra e la guancia.
“Prima di farmi gettare nel buio di una segreta, mi disse solo: 'Stupido cane'.”
Richiuse la mano in pugno. “Non so quanto per quanto tempo rimasi lì sotto. Un occhio era ferito, l'altro era parzialmente accecato dal sangue rappreso che non avevo modo di rimuovere. A fatica individuai la luce di una torcia che penetrava dalla feritoia, ma mi mostrò solo il pavimento di terra battuta su cui giacevo riverso. Poi scese una notte senza luna e non vidi più nulla. La mia mente era confusa a causa della febbre, le ferite aperte si stavano infettando, non saprei dire se fossi addormentato o svenuto quando apparve Shikkoku. Una perla scura si materializzò dal mio sangue e dalle mie lacrime, permettendomi di vedere. Era un'armatura splendida, come non ne avevo mai viste. Dal pettorale spuntavano zanne e dal bracciale artigli. La maschera era rossa e racchiudeva un vuoto che mi stava scrutando. Una voce che non conoscevo disse: 'Shikkoku, ecco il cuore che stai cercando'. Cercai di capire da dove provenisse, nello sforzo persi ancora una volta i sensi. Quando mi risvegliai mi stavano portando tra i monti, a perire nel ghiaccio come un criminale. Non sentii dolore quando mi gettarono sulle rocce, né sentii freddo quando la neve iniziò a ricoprire il mio corpo. Solo un suono mi impedì di addormentarmi per sempre: Kō, il mio cuore che non voleva arrendersi, continuava a chiamare quell'armatura.
'Shikkoku protegge gli uomini che vagano perduti nell'oscurità. Il cuore giusto che la muove è Kō, la Pietà Filiale. Tu lo hai risvegliato combattendo per chi hai amato.'
'Shikkoku,' gorgogliai appena, destatomi dal sonno che precede la morte. L'armatura si mosse e afferrò la spada.
'Questa spada assorbe la luce e nasconde agli occhi degli uomini sia la verità che la menzogna. Sta a te fare da guida a chi non è ancora pronto a vedere la durezza del proprio destino.'
Avevo mani e piedi legati. Se qualcuno mi avesse liberato dalle corde non ce l'avrei fatta a sopravvivere perché i miei arti erano già stati presi dal gelo. Non avrei in alcun modo potuto evitare quella spada, così come non avevo potuto evitare quella del mio signore. 'Vestizione,' riuscii a dire, o forse lo pensai soltanto. L'armatura emise un suono cupo, che ascoltai come se fosse la melodia di uno strumento mai sentito. Poi si inginocchiò davanti a me che versavo in quello stato miserabile, porgendomi la sua splendida spada.
Allora la costrizione delle corde venne sostituita dalla carezza della seta. Le parti dell'armatura cinsero l'una dopo l'altra il mio corpo, guarendolo. Quando indossai l'elmo riacquistai l'uso dell'occhio ferito e mi guardai intorno. Mi resi conto di essere circondato da un branco di cani selvatici: erano accucciati, in un atteggiamento di reverenza. Decisi che sarei diventato uno di loro perché non volevo che il potere della mia armatura venisse asservito a quelli che erano stati i miei nemici, né a quelli che erano stati i miei amici. Per un anno vissi tra quelle montagne in solitudine. Per gli uomini divenni prima una divinità, poi un demone. Provarono a bandirmi, a condannarmi, si liberarono di me solo quando mi prese Arago donandomi l'immortalità. Lo servii sempre, per più di quattrocento anni, così Arago ebbe sempre Shikkoku.”
Kujūrō cercò gli occhi chiari di Kōrin, ma stavolta li trovò chiusi.
“Questi sono i miei ricordi. Questo è ciò che ti serve.”
“Tristezza e tragedia, a che dovrebbero servirmi, Anubis? Noi Samurai Troopers ne abbiamo viste abbastanza. È forse comprensione che cerchi?”
Kujūrō si avventò su Kōrin, che invece di evitarlo gli appoggiò la mano destra sul petto. La sentiva, fredda e abbagliante, accarezzargli il cuore in un contatto doloroso e impietoso. Una parte di lui avrebbe voluto respingerla per evitare la sofferenza, un'altra la cercava avidamente per fare sì che il dolore diventasse così forte da perderne la misura, per dimostrare con orgoglio al suo avversario che era in grado di sopravvivervi. Luce, dannata luce, ecco perché la odiava.
“Lo senti, Kōrin? È Kō. Nel nome del padre Kō è in grado di uccidere, torturare, stuprare. Dimmi, Kōrin, ti piace? La vorresti come compagna?”
Il contatto non doveva essere facile da sopportare neanche per Kōrin. Il suo volto si contrasse in una smorfia di sofferenza. Gli occhi mutarono, divenendo umani, riflettendo rabbia e disperazione. Nella stanza si alternavano lampi di luce e buio. Le porte si spalancarono una dopo l'altra, prima quelle interne, poi quelle esterne finché il vento gelido della notte poté entrare con violenza, trasportando raffiche di minuscoli cristalli di ghiaccio che andavano a conficcarsi nella pelle. Poi il dolore al petto cessò, lasciando in Kujūrō una sensazione di vuoto. La sua vista era annebbiata, ma riuscì a mettere a fuoco il volto chiaramente scosso del Samurai della Luce. I capelli erano scarmigliati, alcune ciocche si attaccavano al viso madido di sudore. “E così nemmeno tu vuoi accettare il tuo cuore,” ansimò Kōrin mentre si arretrava trascinandosi sulle ginocchia, lasciando che il kimono si aprisse per rivelare le gambe maschili. Nella mano destra teneva stretto un magatama nero racchiuso in rosario di perle rosse.
“Io combatterò fino all'ultimo,” disse Kujūrō. Poi ordinò a Shikkoku di separarsi dal suo spirito e ricadde privo di sensi. L'ultima cosa che avvertì fu il tocco delle braccia del samurai che tentavano di sorreggerlo. Erano lungi dall'essere salde. Tremavano.


L'autobus sfrecciava lungo l'autostrada per Sendai. Il sedile reclinato era decisamente confortevole, ma Ryō non riusciva a dormire. Continuava a pensare a Seiji che era solo e aveva bisogno del suo aiuto. Si alzò per sgranchirsi un po' le gambe. Dovette apparire ben nervoso, perché il conducente gli chiese: “Ragazzo, c'è qualcosa che non va?”
Ryō si passò le mani tra i capelli, imbarazzato. Non era facile spiegare la causa del suo tormento. “No... No, niente, mi scusi. È solo che sono impaziente di arrivare, ma poi non saprei dove andare...” Resosi conto di stare pronunciando frasi senza senso, si bloccò. Stava per scusarsi di nuovo ma l'uomo, per niente sconcertato, continuò la conversazione: “Questo sì che è grave. Non puoi non sapere dove andare nel Tōhoku, è un luogo pieno di spiriti e di fantasmi, è pericoloso. Sei di Tōkyō?”
“Quasi, vengo da Yamanashi.”
“Allora non sei uno di città! Hai mai visto un kappa?”
“No, decisamente.” Ryō aveva visto ben peggio, ma non gli sembrava opportuno rivelarlo.
“Una signora che viaggia spesso su questa linea mi ha raccontato che nel Nord si sentono ancora i lupi che ululano di notte.”
Ryō rise. “Ma sono estinti da un bel po'!” Suo padre gli aveva raccontato di essere andato a cercarli nelle foreste di Kōchi quando studiava all'università. Non li aveva trovati, naturalmente.
“I lupi un tempo conducevano i viaggiatori a destinazione, ma soltanto quelli dal cuore giusto.” L'uomo sorrise. “Scusami, non volevo prenderti in giro, è che prima di iniziare il turno ho letto quel libro,” disse inclinando il capo alla sua sinistra. Ryō notò un corposo volume intitolato 'Fantasmi e mostri del Tōhoku'.
“Pensavo che mi avrebbe aiutato a rimanere sveglio. Prendilo pure, ti aiuterà a passare il tempo. Mah, chissà, a forza di guidare di notte diventerò io il fantasma. Ha ragione mia moglie quando dice che dovrei cambiare lavoro, ma come si fa?”
Ryō ringraziò, tornò al suo posto, accese la luce e si mise a sfogliare il libro che gli era stato gentilmente prestato. Non che l'argomento lo coinvolgesse più di tanto, ma forse la lettura lo avrebbe aiutato a non arrecare disturbo agli altri passeggeri. Si trattava di una serie di racconti tradizionali raccolti alla fine del secolo precedente. Ryō non poté fare a meno di pensare di nuovo a Seiji. Si offendeva sempre quando gli altri parlavano del Tōhoku come una terra da medioevo: se lo avesse sorpreso a sfogliare quelle pagine l'avrebbe come minimo trafitto con una delle sue micidiali occhiate.
Ryō venne incuriosito da un'illustrazione che stava al centro del volume. Era un disegno particolare, di forma ovale, che dava al lettore la sensazione di stare spiando l'interno di una una stanza illuminata da una debole fiammella. I protagonisti della scena erano un uomo, probabilmente un samurai, e una bellissima donna, probabilmente un fantasma. Lo sfondo era scuro ma dettagliato: Ryō poté identificare alcune spade, un dipinto e forse due armature. Una era chiara e si distingueva piuttosto bene, l'altra era scura. Forse non era nemmeno un'armatura, forse era solo un'ombra, un vuoto da riempire, un disegno incompleto. Ryō sussultò e richiuse bruscamente il libro.
“Tutto bene ragazzo?” Chiese il conducente.
“Sì, sì... Certo... Mi scusi. Non è che potrebbe andare più veloce?”
“Ma se non sapevi nemmeno dove andare!”
“Mi sono fatto un'idea.”


Seiji adagiò Anubis sul tatami. Gli controllò le pulsazioni: erano deboli ma regolari. Era davvero un essere umano come lui, anche se aveva sempre fatto fatica a considerarlo tale durante la guerra con Arago.
Il gioiello che era uscito dal suo petto aveva riassorbito la propria energia e ora circondava il polso di Seiji come un ornamento. Perché proprio a lui erano stati affidati quei tragici ricordi?
Mosse alcuni passi verso l'esterno. La stanza si affacciava su un giardino sepolto dalla neve, stranamente vasto per appartenere ad una famiglia di samurai di basso rango. C'era perfino una piccola cascata, ora cristallizzata dal gelo. I confini di quel luogo erano delimitati da una staccionata di bambù, al di là della quale si poteva scorgere qualche conifera china sotto il peso della neve. Poi c'era solo buio, senza nessuna luce artificiale a creare illusioni: l'oscurità era vera, tangibile. Al di fuori della recinzione sarebbe stato difficile orientarsi perfino per Seiji. Solo il potere devastante della sua armatura avrebbe potuto salvarlo, forse non sarebbe nemmeno bastato.
Seiji alzò gli occhi verso gli spessi nembi sovrastanti. Alcuni fiocchi di neve si sciolsero sulle sue guance e un quieto gelo iniziò a propagarsi sulla sua pelle. Doveva iniziare a fare qualcosa, altrimenti sarebbe divenuto parte di quell'inverno senza tempo.





NOTE

Ōu è il nome antico del Tōhoku.
Shikkoku letteralmente vuol dire “nero lacca”.
I termini “cane selvatico” e “lupo” in giapponese sono un po' sinonimi. In realtà sia gli animali chiamati “cani selvatici” (yama-inu) che gli animali chiamati“lupi” (ōkami) sono stati sterminati all'inizio del novecento e non è quindi mai stato possibile studiarli con metodi scientifici per capire se si trattasse effettivamente di due specie distinte. Entrambi erano più piccoli rispetto al lupo grigio, la gente li considerava come entità benevole e talvolta erano al servizio delle divinità. Col periodo Meiji arrivò il progresso occidentale, questi canidi furono bollati come nemici degli allevamenti intensivi... e ciao lupi giapponesi ;_; [Blatero tanto perché 1) Mi piacciono i lupi 2) Ho letto un bellissimo libro sull'argomento! The Lost Wolves of Japan di Brett L. Walker, solo per veri appassionati di ōkami e yama-inu!]

Kourin


 
  
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