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Autore: Eryca    23/01/2013    6 recensioni
Ce ne sono a milioni, di storie.
Ma questa non può essere classificata in nessuna di esse.
Forse, questa, non è nemmeno classificabile come storia.
Eppure deve essere narrata.

*
La realtà può trasformarsi in qualcosa di magico, se solo ci si ferma ad ascoltare, osservare.
Ed è proprio quello che accadrà al protagonista, che intraprenderà un vero e proprio viaggio attraverso la natura, sé stesso, i sentimenti e il mondo che lo circonda.
Una storia fatta di sensazioni, di odori e di personaggi alquanto bizzarri.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Parte III – Lo zoo

Libertà è sentirsi senza barriere nonostante si sia in gabbia

 

Sono di nuovo sulla grande strada asfaltata, quella principale, e l’incanto del bosco è un ricordo magico dentro di me; ma, proprio come ho imparato dal fiume, decido di non crogiolarmi nel passato. Guardo al presente. Che è questo cemento.

Porto avanti la mia marcia senza meta, dicendomi che ormai di tornare a casa non se ne parla: lo sento, oggi c’è qualcosa di solenne nell’aria, come se il vento mi stesse sussurrando all’orecchio di continuare a camminare e di non preoccuparmi, perché lui si prenderà cura di me e mi porterà dove avrò bisogno di essere. Si può contraddire il soffio fresco della brezza? No, non credo.

Ci sono giorni in cui il divano diviene il mio migliore amico e la tenda serrata la mia fidanzata. Sono giorni bui, giorni in cui il mondo mi è estraneo e il mio stesso corpo mi sembra astratto. Ma oggi, oggi è diverso. Lo sento.

Tiro un calcio ad un sassolino che rotola veloce, fermandosi poi ad un ostacolo avente l’aria di essere un grosso cancello di ferro battuto. Alzo gli occhi e, in effetti, è proprio un portone quello che ho davanti. In alto, tra gli spuntoni in metallo, sorge una scritta che ha un ché di apocalittico: Zoo.

Il vento ride soddisfatto e mi scompiglia i capelli, inducendomi a pensare che è un gran furbacchione. Perché proprio lo zoo? Dovrei aver capito che porsi domande non serve a nulla. Scrollo le spalle: cos’ho da perdere, dopotutto? Entro nel parco.

Mi ero immaginato bambini con in mano coloratissimi palloncini, mamme con tanto di passeggini e animo stanco, padri scocciati con orologi da polsi raffinati. E, invece, rimango deluso nel notare che il luogo è completamente deserto. Niente fanciulli, niente uomini di mezza età e niente casalinghe frustrate. C’è solo il vento, accanto a me.

Di fronte a me noto un chiosco con il tetto colorato a strisce gialle e rosse, probabilmente dove i clienti possono acquistare bevande e gelati, durante le stagioni calde. Seguo la stradina in ciottolato, lasciando che il mio amico soffio mi porti dove vuole e snobbando esplicitamente le offesissime segnalazioni. Scusate, seguo il vento.

Mi mette in soggezione, il rumore del silenzio: fa sì che nulla oltre a lui parli e si autoproclama attore protagonista della pièce, cantando a squarciagola. Ha una voce cristallina, il silenzio. Così trasparente che a volte si confonde con il Nulla: è per questo motivo che riusciamo a sentire la sua pura melodia solamente se drizziamo le orecchie. Ma ne vale la pena. È la musica più soave che ci sia. Credo mi stia ringraziando, il silenzio.

Il vento mi fa volare il cappello, credo si sia offeso perché ho dato più attenzioni alla quiete che a lui: è geloso. Rido e mi lascio trasportare dalla mia guida incorporea, che scuote le foglie inducendole a scendere dalle brande per iniziare una danza incantevole: decine di foglioline eseguono perfetti grand plié intorno a me, utilizzandomi come elemento scenografico.

D’un tratto, il vento si placa. Mi arresto, perché è questo il posto in cui vuole che mi concentri. Davanti a me sta un’enorme gabbia in metallo, le sbarre così resistenti e spesse che sarebbe impossibile per qualunque essere vivente sfondarle.

Dal fondo della gabbia spunta un grosso codone arancione a strisce, l’ombra si prende gioco di me, però, e mi impedisce di vedere il resto della creatura. Quella coda, comunque, non mente e non ho bisogno di vederla alla luce del sole per capire che si tratta di una tigre. Una maestosa tigre, aggiungo quando finalmente si fa vedere.

Non ho mai visto un animale tanto possente: grosse zampe in grado di graffiare nel profondo la carne, denti capaci di strapparti il cuore, muscoli che le permettono di correre con agilità, orecchie che captano il minimo rumore e... due occhi di una tristezza immane, che non trasmettono la minima voglia di predare, ma solo di fuggire e correre, correre di nuovo, correre ancora, correre almeno per un’ultima volta.

Si siede, la tigre dagli occhi sconsolati, proprio di fronte a me. Solo la gabbia ci divide. Mi guarda e noto che le sue iridi sono di uno splendido verde acceso, uno di quelli che non potrai sicuramente vedere su un uomo. Sono occhi puri. Occhi senza tranelli, senza secondi fini. Occhi animali.

L’uomo si ostina ad usare l’aggettivo “umano” per descrivere un qualcosa di estremamente sensibile, con la capacità di provare emozioni, mentre invece “animale” lo utilizza quando vuole dare l’idea di selvaggio, di rude e apatico. Ma si sbaglia.

Io credo che sia il contrario.

E questa gabbia – questa tigre dagli occhi tristi – ne è la prova schiacciante.

Io, io sono un animale, allora. Non voglio essere umano, no. Io mi sento animale, io sono animale, perché provo emozioni, perché condivido la rassegnazione della tigre, perché non sarei in grado di ridurre un essere così maestoso ad un animale senza speranze.

Perché io, io non sono capace di imprigionare la libertà.

La tigre mi guarda. «Credo di aver conservato un barlume di libertà, nel mio cuore» mi dice. I suoi occhi verdi sono umidi, luccicano come le stelle notturne. «Libertà è sentirsi senza barriere nonostante si sia in gabbia», finisce.  E con quelle parole malinconiche, la tigre dagli occhi tristi lancia un ultimo ruggito di dolore, mi dà la schiena e sparisce nell’ombra, tornando a leccarsi le ferite dell’anima.

Libertà è sentirsi senza barriere nonostante si sia in gabbia.

Il vento torna a scompigliarmi i capelli. Mi sta dicendo che il mio tempo qui è terminato, il mio viaggio deve continuare, non posso fermarmi qui per sempre. Ma, in fondo, una parte del mio cuore – quello libero – se l’è preso la tigre dagli occhi tristi e lo conserverà con cura e dedizione. Perché lei è animale.

Ciao amica mia.

E, con l’animo che ha acquistato un sentimento nuovo, torno sui miei passi pensando alla docile tigre dagli occhi malinconici.

*

 

 

Angolo Autrice

Queste note vogliono essere esplicative del capitolo, ovviamente, ma soprattutto rispondere ad alcune domande che credo siano utili per capire meglio il testo; mi farebbe piacere, insomma, farvi entrare un poco nella mia mente:

1-      1. A cosa pensavo mentre scrivevo questo capitolo? Al mio paese. Il mio piccolo paesino di montagna che potrebbe essere rappresentato con lo zoo e la gabbia che tengono prigioniera la tigre.

2-      2. Che cosa dovrebbe rappresentare la tigre? Me. Ma non solo, anche tutte le persone che, proprio come la sottoscritta, si sentono chiuse in una gabbia, schiavizzate da un paese troppo chiuso e persone troppo ottuse o da una società che non le dà sbocchi.

3-      3. Perché la scelta di uno zoo per parlare di libertà? Perché il modo migliore per far capire quanto essere liberi sia importanti è parlare di prigionia. L’uomo brama la sua libertà quando ne è privato.

4-      4. Perché la tigre è rappresentata con sentimenti? Credo sia abbastanza chiaro, anzi, quasi palese, ma forse è meglio soffermarsi: la tigre rappresenta la persona oppressa, quindi quella che è schiacciata dalle sue stesse emozioni, ed ecco perché gli uomini vengono descritti senza sentimenti.

Spero di essere stata abbastanza chiara, di avervi fatto ragionare su queste questioni, perché per me sono più che importanti: credo che ognuno di noi abbia il diritto di essere una persona libera, di potersi esprimere nel migliore dei modi senza essere giudicato pazzo o essere imprigionato da inutili pregiudizi.

 

Grazie per aver letto e un grosso abbraccio,

Eryca.

   
 
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