Parte
III – Lo zoo
Libertà
è sentirsi senza barriere nonostante si sia in gabbia
Sono di nuovo
sulla grande strada asfaltata, quella
principale, e l’incanto del bosco è un ricordo
magico dentro di me; ma, proprio
come ho imparato dal fiume, decido di non crogiolarmi nel passato.
Guardo al
presente. Che è questo cemento.
Porto avanti la
mia marcia senza meta, dicendomi che ormai
di tornare a casa non se ne parla: lo sento, oggi
c’è qualcosa di solenne
nell’aria, come se il vento mi stesse sussurrando
all’orecchio di continuare a
camminare e di non preoccuparmi, perché lui si
prenderà cura di me e mi porterà
dove avrò bisogno di essere. Si può contraddire
il soffio fresco della brezza?
No, non credo.
Ci sono giorni
in cui il divano diviene il mio migliore
amico e la tenda serrata la mia fidanzata. Sono giorni bui, giorni in
cui il
mondo mi è estraneo e il mio stesso corpo mi sembra
astratto. Ma oggi, oggi è
diverso. Lo sento.
Tiro un calcio
ad un sassolino che rotola veloce, fermandosi
poi ad un ostacolo avente l’aria di essere un grosso cancello
di ferro battuto.
Alzo gli occhi e, in effetti, è proprio un portone quello
che ho davanti. In
alto, tra gli spuntoni in metallo, sorge una scritta che ha un
ché di
apocalittico: Zoo.
Il vento ride
soddisfatto e mi scompiglia i capelli,
inducendomi a pensare che è un gran furbacchione.
Perché proprio lo zoo? Dovrei
aver capito che porsi domande non serve a nulla. Scrollo le spalle:
cos’ho da
perdere, dopotutto? Entro nel parco.
Mi ero
immaginato bambini con in mano coloratissimi
palloncini, mamme con tanto di passeggini e animo stanco, padri
scocciati con
orologi da polsi raffinati. E, invece, rimango deluso nel notare che il
luogo è
completamente deserto. Niente fanciulli, niente uomini di mezza
età e niente
casalinghe frustrate. C’è solo il vento, accanto a
me.
Di fronte a me
noto un chiosco con il tetto colorato a
strisce gialle e rosse, probabilmente dove i clienti possono acquistare
bevande
e gelati, durante le stagioni calde. Seguo la stradina in ciottolato,
lasciando
che il mio amico soffio mi porti dove vuole e snobbando esplicitamente
le offesissime
segnalazioni. Scusate, seguo il vento.
Mi mette in
soggezione, il rumore del silenzio: fa sì che
nulla oltre a lui parli e si autoproclama attore protagonista della
pièce,
cantando a squarciagola. Ha una voce cristallina, il silenzio.
Così trasparente
che a volte si confonde con il Nulla: è per questo motivo
che riusciamo a
sentire la sua pura melodia solamente se drizziamo le orecchie. Ma ne
vale la
pena. È la musica più soave che ci sia. Credo mi
stia ringraziando, il
silenzio.
Il vento mi fa
volare il cappello, credo si sia offeso
perché ho dato più attenzioni alla quiete che a
lui: è geloso. Rido e mi lascio
trasportare dalla mia guida incorporea, che scuote le foglie
inducendole a
scendere dalle brande per iniziare una danza incantevole: decine di
foglioline
eseguono perfetti grand plié intorno
a me, utilizzandomi come elemento scenografico.
D’un
tratto, il vento si placa. Mi arresto, perché è
questo
il posto in cui vuole che mi concentri. Davanti a me sta
un’enorme gabbia in
metallo, le sbarre così resistenti e spesse che sarebbe
impossibile per
qualunque essere vivente sfondarle.
Dal fondo della
gabbia spunta un grosso codone arancione a
strisce, l’ombra si prende gioco di me, però, e mi
impedisce di vedere il resto
della creatura. Quella coda, comunque, non mente e non ho bisogno di
vederla
alla luce del sole per capire che si tratta di una tigre. Una maestosa
tigre,
aggiungo quando finalmente si fa vedere.
Non ho mai visto
un animale tanto possente: grosse zampe in
grado di graffiare nel profondo la carne, denti capaci di strapparti il
cuore,
muscoli che le permettono di correre con agilità, orecchie
che captano il
minimo rumore e... due occhi di una tristezza immane, che non
trasmettono la
minima voglia di predare, ma solo di fuggire e correre, correre di
nuovo,
correre ancora, correre almeno per un’ultima volta.
Si siede, la
tigre dagli occhi sconsolati, proprio di fronte
a me. Solo la gabbia ci divide. Mi guarda e noto che le sue iridi sono
di uno
splendido verde acceso, uno di quelli che non potrai sicuramente vedere
su un
uomo. Sono occhi puri. Occhi senza tranelli, senza secondi fini. Occhi
animali.
L’uomo
si ostina ad usare l’aggettivo “umano”
per descrivere
un qualcosa di estremamente sensibile, con la capacità di
provare emozioni, mentre
invece “animale” lo utilizza quando vuole dare
l’idea di selvaggio, di rude e
apatico. Ma si sbaglia.
Io credo che sia
il contrario.
E questa gabbia
– questa tigre dagli occhi tristi – ne è
la
prova schiacciante.
Io, io sono
un animale, allora. Non voglio essere umano, no. Io mi sento animale,
io sono animale, perché
provo emozioni,
perché condivido la rassegnazione della tigre,
perché non sarei in grado di
ridurre un essere così maestoso ad un animale senza
speranze.
Perché
io, io non
sono capace di imprigionare la libertà.
La tigre mi
guarda. «Credo di aver conservato un barlume di
libertà, nel mio cuore» mi dice. I suoi occhi
verdi sono umidi, luccicano come
le stelle notturne. «Libertà è sentirsi
senza barriere nonostante si sia in
gabbia», finisce. E
con quelle parole
malinconiche, la tigre dagli occhi tristi lancia un ultimo ruggito di
dolore,
mi dà la schiena e sparisce nell’ombra, tornando a
leccarsi le ferite
dell’anima.
Libertà
è sentirsi senza barriere nonostante si sia in gabbia.
Il vento torna a
scompigliarmi i capelli. Mi sta dicendo che
il mio tempo qui è terminato, il mio viaggio deve
continuare, non posso
fermarmi qui per sempre. Ma, in fondo, una parte del mio cuore
– quello libero
– se l’è preso la tigre dagli occhi
tristi e lo conserverà con cura e
dedizione. Perché lei è animale.
Ciao
amica mia.
E, con
l’animo che ha acquistato un sentimento nuovo, torno
sui miei passi pensando alla docile tigre dagli occhi malinconici.
*
Angolo
Autrice
Queste
note vogliono essere esplicative del capitolo, ovviamente, ma
soprattutto
rispondere ad alcune domande che credo siano utili per capire meglio il
testo;
mi farebbe piacere, insomma, farvi entrare un poco nella mia mente:
1-
1. A cosa pensavo mentre scrivevo questo
capitolo? Al mio paese. Il mio piccolo paesino di montagna che potrebbe
essere
rappresentato con lo zoo e la gabbia che tengono prigioniera la tigre.
2-
2. Che cosa dovrebbe rappresentare la tigre? Me.
Ma non solo, anche tutte le persone che, proprio come la sottoscritta,
si
sentono chiuse in una gabbia, schiavizzate da un paese troppo chiuso e
persone
troppo ottuse o da una società che non le dà
sbocchi.
3-
3. Perché la scelta di uno zoo per
parlare di
libertà? Perché il modo migliore per far capire
quanto essere liberi sia importanti
è parlare di prigionia. L’uomo brama la sua
libertà quando ne è privato.
4-
4. Perché la tigre è
rappresentata con
sentimenti? Credo sia abbastanza chiaro, anzi, quasi palese, ma forse
è meglio
soffermarsi: la tigre rappresenta la persona oppressa, quindi quella
che è
schiacciata dalle sue stesse emozioni, ed ecco perché gli
uomini vengono
descritti senza sentimenti.
Spero di
essere stata abbastanza chiara, di avervi fatto ragionare su queste
questioni,
perché per me sono più che importanti: credo che
ognuno di noi abbia il diritto
di essere una persona libera, di potersi esprimere nel
migliore dei modi
senza essere giudicato pazzo o essere imprigionato da inutili
pregiudizi.
Grazie per
aver letto e un grosso abbraccio,
Eryca.