Storie originali > Soprannaturale > Angeli e Demoni
Segui la storia  |       
Autore: Ella ago 98    24/01/2013    1 recensioni
Come può una persona cambiare per amore? Fino a che punto può cambiare?
Forse perché non è mai stata se stessa.
Attenzione: possono essere presenti delle parolacce.
Genere: Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Ciao ragazzi, scusate se ci ho messo tanto ad aggiornare, ma vi ho scritto un capitolo abbastanza lungo. Spero vi piaccia. BUONA LETTURA.
p.s: probabilmente ci saranno degli errori. Non ho avuto tempo di rileggierlo, scusatemi. =D

p.p.s: in questo capitolo sono presenti delle parti a rating rosso. 

Scesi dal treno, la pullulante folla di ragazzi oggi non c’era, all’una tutti erano più affamati e correvano verso casa. Le strade deserte erano un bel posto per pensare in pace. L’amore per Matteo sarebbe durato per molto? Così credevo, erano ormai quattro mesi che mi piaceva e girava la voce che una cotta non può durare più di tre mesi. Magari era vero amore. Chi lo sapeva. Le cuffiette pompavano musica nelle mie orecchie ma io non ci prestavo molta attenzione.
“Hai già mangiato?”
“No, sto andando a casa, oggi non vado da mia nonna, è una rottura di palle.”
“Ti capisco … “
“Mi capisci?”
“Si …”
“Ok.”
Entrai dal garage della vicina, il mio era chiuso, salii le scale e aprii la porta di casa. Il silenzio regnava in casa, buttai la cartella sul letto ed andai in bagno, mi misi i vestiti da casa e mi feci un toast. Mi coricai un po’ sul divano, accesi la televisione e guardai  Futurama e i Simpsons. Verso le tre e mezza decisi di studiare per il giorno dopo. I compiti di greco non ce li aveva dati perché non aveva avuto tempo, quelli di latino li avevo fatti in classe. Studiai Greco e Geografia, avevo troppa paura di essere interrogata. Non ci capivo una mazza tra tutti gli accenti, le declinazioni, il futuro, il passato …
Alle sei arrivò mia madre. Quando la vidi la abbracciai e la salutai. Il suo volto era cupo, gli occhi tristi e rossi, la bocca arcuata verso il basso.
-Ciao mà, cosa c’è che non va?
-Senti Chris … mi ha chiamata Simona, cercano di nuovo una cuoca a Vienna ed io voglio andarci, ma non me la sento di farti spezzare così l’anno scolastico, preferirei se tu mi raggiungessi quest’estate.
Non era possibile, avrei dovuto andare a vivere da mio padre di nuovo, e per una moltitudine di tempo. TROPPO TEMPO!
-Va bene mamma, ma quando dovresti …
-Per il prima possibile, se riesco dovrei prendere il biglietto e partire domani.
-Capisco, allora cosa aspetti a prendere il biglietto?
-Chris, sei sempre così … così … - mi abbracciò. – così determinata e forte.
-Dai mamma corri a comprarlo.
Mia madre uscì ed andò a comprare il biglietto. Io mi feci una doccia veloce. Mi misi un paio di mutande in pizzo nero ed un reggiseno rosso. Non ero del Milan, anzi lo detestavo e prendevo sempre in giro mia madre perché era milanista, d'altronde lei prendeva in giro me perché ero Juventina. Sentii la porta chiudersi. Mi misi il pigiama e mi arrotolai i capelli in un asciugamano. Uscii dal bagno.
-Ri-ciao mamma. – le sorrisi, era sempre così solare, ed oggi, così diversa dal solito, così cupa ed abbattuta.
-Ciao, non voglio che tu stia male, sei sicura di voler stare da tuo padre?
-Sì mamma, tu devi stare tranquilla. Ora mi preparo la roba da portare via. Ma non dobbiamo avvisare papà?
-Lo ho già avvisato io.
-Ah … va bene. A dopo.
Andai in camera e presi la valigia da sotto il letto. La aprii. Era vuota, il tessuto grigio di finta seta rivestiva la grezza plastica blu. Presi tutti i paia di Jeans che possedevo, tutte le maglie e i gioielli. Lo so, non avrei dovuto essere così crudele con me stessa, passare tutti quei mesi con mio padre, sarebbe stato meno doloroso farmi torturare dalla mia sadica amica Miki. Presi il grosso lucchetto e lo misi alla valigia. Buttai la piccola chiave scintillante sul divanetto della mia camera. Andai dalla grossa scrivania di legno scuro. Riposi il computer nella sua borsetta insieme al caricatore. Presi i libri e li misi tutti in una borsa, tutti tranne quelli che mi sarebbe serviti l’indomani a scuola. Nell’altra stanza sentivo mia madre che iniziava ad ansimare, poi i singhiozzi ed infine il silenzio, il suo solito pianto silenzioso. Corsi da lei e la abbracciai forte.
-Dai mamma non fare così.
-Chris.
Restammo abbracciate per cinque minuti all’incirca. Poi lei dovette prepararsi le valige. Ormai erano le otto, andai in cucina e misi una padella anti-aderente sul fornello. Quando fu ben calda ci misi dentro due bistecche di vitello, mentre si cucinavano preparai l’insalata di pomodorini pachino. Girai le bistecche. Le lasciai rosa all’interno, come piacevano a noi.
-Mamma, ho cucinato cena.
-Arrivo. Non era il caso.
Quella sera la cena era diversa. L’ultima cena con la mia adorata madre. Dalla sera del giorno dopo avrei sentito la sua voce solo attraverso un cellulare. Alle nove finimmo di mangiare. Riposi i piatti nel lavabo, salutai mia madre e misi i libri in cartella. Tornai da mia madre.
-Mà, io ora vado a coricarmi, se hai bisogno chiamami.
-Certo pulcino, a domani, sogni d’oro.
-Notte topolina.
Il letto caldo mi attendeva, e il cellulare sul mobile lampeggiava illuminando la stanza. Lessi il messaggio.
“Sei sparita?”
“Scusa, ho scoperto che mia mamma domani parte e va a Vienna per lavoro. Io sto qua con mio padre, a Savigliano. Mi mancherà molto.”
“Ah, capito. Mi dispiace molto. I sentimenti nel confronto di tuo padre sono migliorati?”
‘’No, anzi tutto il contrario.”
“ Mi dispiace.”
“Capita. Ora dormo. Senti domani mattina mi mandi un messaggio quando ti svegli?”
“Certo buona notte cucciola.”
Erano le dieci, l’ultima cosa che mi ricordai era il messaggio di Matteo.
 
Una di notte. I singhiozzii di mia madre si sentono dalla mia camera. Soffre molto nel lasciarmi con mio padre. Vado in camera sua e mi infilo sotto le coperte. La abbraccio e le dò un bacio sulla guancia. Rimanemmo accoccolate per tutta la notte.
 
La sveglia suonò tempestiva nella mia camera, mi svegliai di scatto e corsi a staccarla. Erano le 5:45. D'altronde la sveglia era sempre a quell’ora. Mi ricordai che avevo fatto la valigia e che non avevo lasciato nulla fuori. Mi fiondai dal divano a cercare disperatamente la piccola e graziosa chiave. Non c’era, sparita.
-Mamma come faccio?- le sussurrai piano all’orecchio.
-Cosa è successo?
-Non ho lasciato fuori niente dalla valigia.
-Prova a chiedere a Carlotta.
-Grazie topolina.
Mandai un messaggio a Carlotta chiedendole se aveva un paio di Jeans da imprestarmi e se per caso avesse anche una maglia.
“Sali, così guardi che cosa vuoi.”
“ok”
-Mamma, io vado da Carlotta a vedere dei vestiti.
-ok.
Salii le scale di corsa.
“Kikka aprimi sono nelle scale”. Di solito la chiamavo sempre Kikka, era tenero.
La porta si aprì e un piccolo spiraglio di luce si intrufolò nella casa. Entrai senza fare rumore e andammo in camera sua.
-Qua ci sono i Jeans che ho. Dimmi come li vuoi.
-In che senso? – ero confusa, quanti tipi di jeans potevano esistere?
-Nel senso, grigi, marroni, neri, denim, blu, eccetera.
-Ah … - sulla mia faccia si dipinse un’espressione dubbiosa.
-Cosa c’è che non va?
-Che colore è denim?
-I Jeans classici, ma il blu è leggermente più scuro.
-Ok, allora prendo quelli. – mi aspettavo un paio di jeans come quelli che portavo io, larghi, invece.
Kikka aprii l’armadio e si allungo sulla mensola, prese un paio di jeans, il colore era stupendo, peccato che fossero attillati. Non li avevo mai provati attillati.
-Grazie.
-Prego. Come maglia ti consiglio questa con questo sopra.
-Grazie mille. – non avevo capito cosa mi avesse dato, ma presi tutto lo stesso.
-Kikka io vado a vestirmi sotto così mi pettino, ciao a dopo.
-A dopo.
Uscii per le scale e mi fiondai in casa. Mia mamma aveva preparato il latte.
-Ho trovato da vestire. – annunciai.
-Le scarpe?
-Le scarpe non le ho ancora messe nella valigia.
-Menomale. Dai bevi il latte e poi ti vesti.
-Ok.
Bevvi il latte tutto di un sorso e andai in camera. Mi misi i jeans attillati. Dovevo ammettere che mi stavano bene, mettevano in risalto il fondoschiena e i polpacci, nella parte retrostante c’erano dei bottoncini in cristallo, brillavano in un modo straordinario. Presi ciò che mi aveva dato per il busto. Mi aveva dato un top bianco senza maniche. Lo indossai. Era parecchio attillato. Metteva in risalto la mia quarta. Le bretelline rosse spuntavano fuori. Presi l’altro capo. Era un gilet in jeans. Me lo misi. Il gilet era uno di quelli che prendevano sotto il seno e si abbottonavano con tre bottoncini piccoli. Le spalline del gilet si incontravano dietro. Non era per niente male come insieme, il problema era che si continuavano a vedere le bretelle del reggiseno e che essendo nel mese di Novembre faceva freddo.
“Kikka ho un problema?”
“Dimmi.”
“ Mi si vede il reggiseno ed o freddo.”
“Beh, per il reggiseno basta che gli togli le bretelle e per il freddo ti do una felpa io.” 
“Grazie.”
Mi tolsi il gilet e il top. Tolsi le bretelle al reggiseno e mi rivestii. Guardai l’ora, erano le 6:30. Ero in ritardo.
Andai in bagno. I capelli ricci della sera prima avevano perso un po’ di volume. Misi la testa in giù e stropicciai un po’ i capelli e, con uno scatto deciso, tirai su la testa. Il volume era tornato. Mi misi un filo di matita all’interno dell’occhio e un po’ di mascara.
Andai da mia madre.
-Christina stai benissimo.
-Grazie mamma. Che scarpe metto?
-mmm… ci vorrebbero i tacchi, ma mettici le mie scarpe bianche.
-Cosa? Ma io mi ammazzo con quelle mamma.
-Ma vah. Sono in camera mia dietro la porta.
Mi diressi in camera di mia madre, le trovai e le provai. Erano degli stivaletti che arrivavano fino alla caviglia, color avorio, con un tacco da dieci centimetri a base larga in gomma rigorosamente bianca. L’interno dello stivaletto era rivestito di pelliccia, la sensazione era bellissima, sembrava di camminare sulle nuvole.
Mi arrivò un messaggio.
“Chris, te lo do io il cappotto che ci sta bene, se no rovini il mio abbinamento, spero che tu abbia un paio di scarpe che ci stiano bene.”
“ok, ti aspetto.”
Andai da mia madre. Camminare era semplicissimo, nonostante io non avessi mai messo un tacco.
-Stai benissimo.
-Grazie. Ora Kikka mi porta una felpa e il cappotto.
-Ma ai il tuo, anche se non ci sta per niente bene con questo completo.
-Appunto, e per quello che mi dà uno dei suoi.
-Brava.
Una mano si abbatte sulla porta d’ingresso.
La aprii, era Carlotta.
-Wow, stai benissimo.
-Grazie.
-Tieni.
-Grazie ancora, sei stata la mia salvatrice.
-Eh, lo so. – mi fece un occhiolino.
Mi misi la felpa, anche quella era abbastanza attillata, ma non era possibile. Il cappotto era stupendo, anche se più che cappotto era una giacca. Lo indossai. Dalla parte sinistra del collo della giacca c’era un pezzo di tessuto più lungo, dall’altra una fessura.
-Riesci a capire come si abbottona?
-Forse.
Presi il pezzo di tessuto e lo infilai nella fessura, abbottonai i due bottoni e la giacca in tessuto grigio era chiusa.
-Visto? Ce l’ho fatta.
-Sì. Andiamo se no perdiamo il treno.
-Ok. Ciao mamma, oggi torno a casa.
-Ma tuo padre ..
-… non me ne frega.
Le diedi un bacio sulla guancia, presi lo zaino blu scuro e uscii di casa.
-Grazie ancora Kikka.
-prego, prego. Senti, ricordami una cosa.
-Cosa?
-Di non imprestarti più i miei vestiti.
-Perché?
-Perché stai troppo bene.
-Ok.
Scoppiammo a ridere tutte e due. Era bello camminare con quelle scarpe, il freddo non passava e la pelliccia cullava i miei piedi.
-Oggi vengo alla stazione con te.
-Ah, ok. Come va con Manu?
-Bene, oggi pomeriggio esco con lui.
-Sono felice per lui.
Per tutto il tragitto Carlotta continuò a parlare di Manu, io pensavo al mio crudele destino, il nervoso si impossessò di me.
-CHE ROTTURA DI COGLIONI!!! –gridai dal nulla.
-Cosa è successo? Ti do fastidio che ti parlo di Manu?
-No, scusa stavo pensando …
-Ne vuoi parlare?
-Sì, mia mamma parte per Vienna e io devo stare con mio padre fino a Giugno.
-Ma sono tanti mesi. E tua madre? Cosa dice?
-La ho convinta io ad andare.
-Hai fatto bene.
La stazione era deserta. Uscimmo e usammo il sottopassaggio. Kikka si sedette sulla prima panchina che trovammo. Mi ero sempre chiesta perché tutte le panchine delle stazioni fossero in vernice verde lucida. Non mi sedetti a causa della panchina umida. Carlotta si accese un sigaretta.
-Ne vuoi una?
-No.
-ok.
-Te li riporto poi appena riesco i vestiti.
-Stupida. Te li regalo per natale. Un po’ in anticipo, ma ti stanno benissimo.
-Ma non è il caso.
-Stai benissimo punto.
-Beh, allora grazie.
-Beh, allora prego. – mi fece una linguaccia e io ricambiai.
-Stasera esco con un mio amico, come mi posso truccare
-Se ascolti me con la matita anche sopra gli occhi e un rossetto.
-Non ne ho.
-Matita per labbra?
-Sì, rossa ma non mi sta bene.
-Prova.
-Ok.
Il treno arrivò, io ero preoccupata per il commento di Miki sul mio vestiario. Il cappellino rosso passo veloce davanti ai miei occhi, anche oggi le sarei dovuta correre dietro, visto che non ne avevo voglia salii sul treno e la raggiunsi sul treno.
Nel primo vagone non c’era, passai nel secondo, niente, passai nel terzo. La vidi in fondo, camminai tranquilla, fino a quando non mi accorsi che sarei dovuta passare difronte a Francesco. Feci finta di niente, proseguii lungo la mia strada e feci finta di non vederlo.
 
-Francy, sta per arrivare Christina. E’ bellissima oggi.
-Ah, ok. – come solo oggi? Lei era bellissima sempre. Non poteva essere bella solo oggi. Non mi fidavo molto dei gusti di Lorenzo, aspettavo che passasse accanto a me per vederla. Chiusi gli occhi e mi rimisi le cuffiette.
Il treno si fermò. Ora avrei dovuto vederla.
-Beh, non arriva?
-E’ già passata.
Non era possibile.
 
Miki mi guardò spaesata, come se non mi riconoscesse.
-Miki sono io.
-Sei diversa.
-Lo so. Poi ti spiego il perché.
-va bene.
-Andiamo dall’altra uscita.
-Perché?
-Perché non voglio vedere il tuo amore.
-No.
-Ok, restiamo qua.
Il treno si fermò. La cabina dove si trovava l’uscita si riempì di gente. Vidi i capelli di Francesco che si stavano avvicinando. Tirai subito le leve per aprire le porte e mi fiondai giù, tirando per la mano anche Michelle. Una ricca folla di gente si accalcava intorno a noi, continuando a tenerla per il polso corremmo giù per le scale. Dei ragazzi si pararono difronte a noi, ed altri dietro. Il polso di Michelle mi scivolò dalla mano. Continuai a correre su per le scale prendendo a gomitate chiunque si parasse davanti a me. Arrivata fuori dalla stazione aspettai Miki, quando vidi da lontano Francesco, mi nascosi dietro ad un gruppetto che si trovava accanto a me. Lui si fermò poco più avanti insieme al suo amico. Michelle mi sbucò alle spalle.
-Da chi ti nascondi?
-Chi? Io? Da nessuno.
-Certo, certo.
-Sì, ti giuro. Ora andiamo che ho freddo.
-Ok. Comunque stai bene così.
-Grazie.
Ci incamminammo verso scuola, passammo alle spalle di Francesco. Camminai veloce, Miki mi correva quasi dietro.
-Ma come fai a correre su quei trampoli? – la sua voce stupita era accompagnata da un’espressione indecifrabile.
-Non sono così alte. E comunque non sto correndo ma camminando veloce.
-Che differenza.
-Ok, rallento.
Rallentai, Francesco era dietro di noi in perfetto silenzio, riuscivo a sentire la musica dalle cuffiette dell’amico.
 
Una ragazza davanti a noi rallentò per aspettare l’amica di Christina. Non so chi fosse quella ragazza, ma era veramente bella. Forse più bella di Christina. I capelli mossi e vaporosi le scendevano lungo la giacca. Il passo sicuro era un tocco di classe. Pensare a quella ragazza mi sembrava di tradire Christina, ma che cosa le tradivo? Non era la mia fidanzata, non si era neanche accorta di me. Dovevo distrarmi da quei pensieri assurdi.
-Che cosa ascolti?
-Gangnam style.
-Ah, ok.
 
Proseguii per la mia strada facendo finta di niente. In tutto il tragitto Miki aveva smesso di parlare solo una volta, la stavano per investire, o come dicevamo io, Miki e Laura stava per vedere “il posto incantato”. Sorrisi tra me e me. Le scale della scuola erano freddissime, aprii la porta antincendio ed entrai nei corridoi della scuola. Nella nostra classe come sempre regnava il buio ed il caldo. Accesi la luce, il mio posto in ultima fila, il mio posto adorato. Michelle era in seconda fila. La settimana prossima avremmo dovuto cambiare i posti.
-Mi accompagni a prendere un te, Chris?
-Sì, mi impresti i soldi per una lattina di Coca?
-Chris? Ma sono le sette e venti!?
-E  allora?
-Non è l’ora.
-Ok, allora accompagnami in bagno.
-Va bene.
Il corridoio era più fresco, tenni la giacca addosso. Le macchinette erano a una ventina di metri dalla nostra classe. Miki prese il the caldo, girandomi la feci quasi scottare. Per poco non mi tirò un accidente.
-MERCOLEDì!
-Scusa Miki.
Le sue esclamazioni mi facevano ridere per ore.
-Dai andiamo in bagno.
-Ok.
Il corridoio perpendicolare si dilungava per diverse decine di metri. In pochi secondi lo percorremmo. Difronte alla porta del bagno mi fermai. Vidi un corridoio che non avevo mai visto. Svoltai e mi incamminai in  quel nuovo posto. Mi sedetti sulla scrivania della bidella, misi i piedi sulla scrivania e mi misi a masticare un chewing gum. Le aule erano tutte buie. Decisi di andarne a vedere una a caso. 2B. Con le luci spente mi intrufolai e mi sedetti sulla cattedra.
-Miki? Come mi ci vedi, potrei fare la professoressa stronza?
-Sì, di gran lunga. Non molto professoressa, ma stronza si.
-Spiritosa.
In quell’aula faceva parecchio caldo. Decisi di togliermi la giacca, a parer mio la quarta era troppo evidente.
-Ma che cosa hai lì? Dei meloni?
-Ma vah. Sono mie.
-Brava.
Da dietro la testa di Miki sbucò l’amico di Francesco e dopo di lui anche Francesco. Una vampata di timidezza si impossessò della mia amica che divenne rossa come un peperoncino. Non era possibile tra tutte le classi proprio la sua? Miki non riuscì a spiaccicare parola, ed intralciava il passaggio. Scesi dalla cattedra, appoggiai la giacca sul mio avanbraccio e prendendo Miki a braccietto passai davanti a Francesco e il suo amico per poi andarcene dal corridoio.
-Scusate.
 
Arrivai in classe. Non mi sarei mai aspettato ciò che vidi. Era seduta sulla cattedra con le gambe accavallate, la ragazza del viale era lei in realtà. Il seno abbondante era rinchiuso sotto un top striminzito, contornato da un gilet di jeans. Con i tacchi stava benissimo. L’amica era in piedi al centro della porta, avrei voluto vederla meglio. Christina scesa dalla cattedra, prese la giacca e se ne andò con la sua amica.
-Scusate. –sussurrò.
Avrei voluto dirle mille cose, invece.. non potevo. Con i tacchi stava benissimo.
-Visto? Te lo avevo detto che oggi stava bene.
-Sì.
Volevo rivederla. Sapevo che a mezzogiorno non l’avrei vista alla stazione. Ogni sabato venivano a prenderla in macchina. Buttai la cartella sul mio banco.
-Io vado a farmi un giro.
-Aspettami.
Partii senza aspettarlo, non avevo voglia di sentire lui che non la smetteva di parlare di Christina. Già ci pensavo da solo, se poi lui continuava anche. Arrivato nel suo corridoio entrò Gianluca.
-Dove vai?
-A fare un giro.
-Ok, poso la cartella e vengo.
-Io sono dalle altre macchinette.
-A dopo.
Erano ormai le otto meno venti. Mi incamminai verso la classe di Christina. Lorenzo e Gianluca mi chiamarono. Li aspettai. Nella classe c’erano diverse persone, sentivo il chiacchierio. Difronte ad essa si trovavano due divanetti. L’amica bionda e l’altra mora erano sedute su uno di essi, Christina uscì dalla classe e si avvicinò a loro. Si era rimessa la giacca grigia. Ero ad un metro da lei, era così vicino. Il mio passo rallentò fino quasi a fermarsi. L’amica bionda mi guardava, lei non si era neanche accorta della mia presenza e continuò il suo discorso.
-… cioè eravamo nella 2B e sono ….
Non riuscii a sentire di più, però era la mia classe. I miei amici erano andati avanti. Mi sedetti nel divanetto accanto al loro.
-Miki andiamo a prendere da bere?
-Ma io? –replicò l’amica bionda.
-Michelle. – Christina la chiamò con un tono duro e tirando le labbra, come se volesse farle capire qualcosa. L’amica bruna le tirò una gomitata. Michelle si alzò.
-Boia! Ma la smettete? – si volto verso di me. –Ok, andiamo.
Come se avesse compreso qualcosa che per me era indecifrabile. I miei amici tornarono in dietro e presero il posto delle due ragazze.
Otto meno cinque, la prima campanella suonò. Christina, Michelle e l’amica bruna si fermarono dal termosifone difronte a noi.
-No, Lidia, tu non capisci una beata minchia.
-Cosa? – la mora ribatté.
-Sì, tu non capisci un cazzo.
-Dai Christina dosa un po’ il linguaggio.
-Va beh vah.
Entrò in classe. La seconda campanella suonò. Rimasi lì per altri dieci minuti, i miei amici tornarono subito in classe. La professoressa di Storia entrò subito nella classe di Christina. Non pensavo di avere dei professori in comune con lei. 
Otto e un quarto. Ero in ritardo, MERDA. Camminai veloce in classe, la lezione di algebra era già iniziata.
-Scusi il ritardo prof, non avevo sentito la campanella.
-Le solite scuse, Castel?!
-Scusi prof.
Il banco in ultima fila era uno spettacolo assurdo. Potevi fare niente senza che i professori se ne accorgessero. Beh, non è che non feci niente. Mi immaginai Christina al posto della professoressa, mentre mi castigava, con il suo top che sarebbe scoppiato da un momento all’altro.
 
La lezione di storia era noiosa. Finì la prima ora e seguirono tre ora di interrogazioni di greco. Per mia fortuna non mi interrogò. Nell’intervallo non uscii, non avevo voglia di vedere quell’origliatore. Era ora di tornare a casa.
-Miki oggi prendo il treno con te.
-Come mai?
-Ah, già, giusto ti devo ancora spiegare. Mia madre va a Vienna per lavoro. Io vado da mio padre.
-COSA? –esclamarono Michelle e Livia all’unisono.
-Sì. – la mia voce si riempì di angoscia e rabbia.
-Fino a quando?
-Fino a Giugno. Poi ..
-Poi? – domandò Lidia.
-Poi vado anch’io.
-Ma tu non puoi! –Michelle mi pareva piuttosto adirata.- Non puoi abbandonarci, tu non puoi ABBANDONARMI.
-Mi dispiace ragazze.
Il treno di Lidia arrivò. Lei e tutti  i nostri compagni di Fossano ci salutarono e salirono sul treno. Mezzogiorno, il sole picchiava caldo e scaldava la giacca in lana. Mi tolsi la giacca. Non mi sentivo per niente a mio agio con quei vestiti addosso, o meglio, non mi sentivo a mio agio la mattina, ora mi ero abituata.
-Sta arrivando.
-Ma chi? – mi voltai verso il sotto passaggio, Francesco mi passo accanto. –Ah…
-Capito?
-Sì.
Mi sedetti sulla panchina vicino a noi, a cui però era vicino anche Francesco.
-Dai Miki ti siedi?
-Sì, ma non urlare.
Francesco sorrise. Si accese una sigaretta.
-Miki?
-Sì?
-Mi dici come continua la tua storia?
-Si sul treno, tanto sta arrivando.
Il treno arrivò. Francesco salì dalla nostra stessa porta. Il treno era a due piani. Francesco si sedette al piano soprastante, io e Miki restammo in piedi. Il rumoroso treno sfrecciava a tutta velocità in mezzo ai campi ghiacciati. Miki ascoltava i Coldplay. Mi sembrava tutto una scena di un film. Mi sarebbe piaciuto scappare via, insieme al mio amato Matteo, ma non era possibile. Lui era fidanzato con la cugina di una mia amica. Era così ingiusta la vita.
“Che fai sta sera?”
“io?”
“Sì, tu scemo.”
“Niente. Perché?”
“Hai voglia di uscire?”
“Certamente.”
“Ok, alle nove in punto al parco dell’ospedale”.
“Va bene. Che fai cucciola?”
Non avevo più voglia di rispondergli, gli avrei risposto dopo.
 
Sapevo già che cosa mi aspettava. Di certo ci sarebbe stata Michelle da sola e Lorenzo che non la smetteva di parlare di Christina. Poteva andare peggio? No, credevo. Arrivato alla stazione salii sulla piattaforma passando dal sottopassaggio. Alzai gli occhi. Christina si stava togliendo la giacca. Si voltò verso di me, abbassai gli occhi. Si sedette sulla panchina, non potevo andarmene solo perché c’era lei, non avrebbe avuto alcun senso. Lorenzo le dava le spalle.
-Che cosa fa?
-niente.
-Ne sei sicuro?
-Sì.
-Sicuro sicuro?
-Dio perché non guardi da solo?
-ok, mi fido.
Dio santo, ma ce l’avevano tutti con me? Non ce la face più. Mi accesi una sigaretta. I muschi si lasciarono andare. Senza farmi accorgere le lanciavo delle occhiate.
Il treno arrivò. Salii e mi sedetti sopra, sperai che facesse come aveva fatto il giorno precedente, ma il fato non era a mio favore. Rimase giù. Fu l’ultima volta che la vidi.
-Stasera usciamo?
-Dove?
-A Savigliano. Ci siamo tutti. Manchi solo tu. Ci siamo io, Gianluca e gli altri, si insomma, sai chi siamo.
-ok.
-Ci sei?
-Si, ci sono, tanto non ho niente da fare. – era un’ottima occasione per trovare qualcuna con cui divertirmi, qualcuna che mi togliesse dalla testa Christina, anche se lei era unica.
 
Il treno freno bruscamente, l’impacciata Miki cadde addosso ad un ragazzo alto e moro. Dio, era Samuel, un mio ex compagno di classe, nonché amico. Scesi.
-Ciao Miki.
-Ciao.
-Ci sentiamo domani.
-Ok carciofina, a domani.
Samuel scese dopo di me, corsi fuori dalla stazione. Samuel continuava a starmi dietro.
-Sai, sei proprio una bella ragazza.
-Samuel con me non funzionano sti’ sotterfugi.
-Come fai a sapere il mio nome? – sul viso del ragazzo si dipinse un’espressione sorpresa e spaventata.
-Senti ti dò il mio numero e poi ti dico chi sono ok? Ora devo andare, sono di fretta.
Gli sfilai il cellulare di mano. Il codice, merda, com’era? Giusto 2288 non avevo mai capito il perché ma era quello.
-il codice … -iniziò lui.
-Tieni ti ho già salvato il numero.
Rimase senza parole, sempre più perplesso. Era possibile che non mi aveva riconosciuta? A quanto pare.
-Aspetta, dove vai?
- A casa mia.
-Non hai capito, dove vai come via.
-Ah, dove abita Michele, il cugino di Alex.
-io devo andare da Michele.
-ok.
Partii non mi interessava di dove doveva andare lui. Samuel, gli ero morta dietro per due anni e non se ne era mai accorto. Avrei potuto farmelo qualche volta e poi… lasciarlo.
Arretrai.
-La fai con me la strada?
-Certo, bella ragazza.
Era strano che lui fosse così gentile. Di solito era sempre stato sincero e spigliato con me. Parlavamo di Simo, la sua ex e di tutti i nostri compagni di classe, facendo le classifiche dei culi più belli, sia maschili che femminili.
Arrivai a casa. Aprii la porta, un intenso profumo di Cannella e aromi vari si impossessò del mio olfatto.
-Che profumino.
-Sì, ti ho fatto una cosa che ti piace tanto.
Andai in camera mia a abbandonai lo zaino sulla poltrona. Misi il cappotto sul bracciolo del divano. La nostalgia mi prese alla gola. Ancora non ero andata via e già mi mancava tutto ciò.
Mia mamma era presa a cucinare. Le arrivai da dietro e la abbracciai forte. Si girò e mi abbracciò anche lei. Mi tolsi le scarpe. Per andare da mio padre era meglio mettere le scarpe da ginnastica. Nel forno una strepitosa torta al cioccolato e pesche. Sul piano da cucina una teglia di lasagne con besciamella alla cannella. E le spezie? Le stava travasando da un contenitore all’altro.
-Come mai tutte ‘ste delizie?
-Visto … visto che poi non ti potrò più cucinare…- la voce divenne malinconica. Capii che non avrei dovuto mai porre quella domanda, avrei dovuto arrivarci da sola.
-Grazie mamma.
-Prego.
Ci sedemmo a tavola. Una ricca porzione di lasagne fu seguita da una bella fetta di torta. Era tutto così buono, semplicemente delizioso. Riposi tutti i piatti nel lavabo e li lavai. Eravamo così di fretta, avrei voluto passare più tempo insieme a lei.
-Mamma dove sono le mie scarpe?
-Ti ho già preparato la valigia.
-Grazie mamma. Ti adoro.
Qualcuno bussò alla porta. Aprii la porta. Era Kikka.
-Ciao Chris, volevo regalarti questa roba. Spero ti piaccia, visto che vai a vivere da tuo padre. Spero di vederti presto. Se ogni tanto vuoi venire a dormire da me.
-Grazie Kikka. Grazie davvero. Sei unica. Vuoi entrare?
-Se posso.
-Certo scemina. 
Portai tutto in camera. In effetti mia mamma mi aveva fatto  una borsa delle scarpe. Grande, parecchio.
-A che ora andate via?
-non lo so. A che ora andiamo vi mamma?
-Alle cinque, tuo padre viene alle cinque e mezzo a prenderti da Bob.
-Ok, così sto un po’ con il mio fratellino.
Le quattro e mezza arrivarono in fretta. Tra una chiacchiera e l’altra non mi ero accorta del tempo che passava.
“Allora stasera ci sei?”
“Sì, ti ho invitato io ricordi?”
“Già, hai ragione tu cucciola. A dopo.”
Mi misi le scarpe con i tacchi lo stesso. Non mi importava di cosa pensasse mio padre. Mio fratello ci attendeva alla stazione. Caricammo le mie valige sulla sua macchina.
-una valigia in più?
-non ce l’avevo.
-Peccato.
Entrammo nella stazione, sulla pedana che io ormai conoscevo così bene. Binario 2. Treno da Savona a Torino Porta Nuova.
-Il treno 4103 proveniente da Savona e diretto a Torino Porta Nuova è in arrivo al binario 2. Attenzione, allontanarsi dalla linea gialla. –la vecchia voce stridula annunciò dalle casse.
Abbracciai forte mia madre. Dopo pochi minuti il treno arrivò. Mia madre ci abbracciò forti e salì sul treno. La porta si chiuse all’istante. Il mio viso si rigò di lacrime. La porta era chiusa, eppure il treno non si degnava di partire. Quella scena faceva molto più male. Se fosse partita subito non l’avrei mai vista piangere dietro al vetro sporco del treno. Era tutto così difficile. Questa dannata vita mi faceva sempre soffrire. La fidanzata di mio fratello, Axel, abbreviativo di Alexandra, mi abbracciò. Avevo un bel rapporto con lei. Erano già sette anni di convivenza e sette anni e mezzo di fidanzamento. Mio fratello Bob mi prese sotto braccio e mi strinse forte a lui. Salutammo energicamente nostra madre. Il treno si decise finalmente a partire.
-A che ora viene papà?
-Papà? Giusto, papà. Ha detto a mamma che veniva per le cinque e mezza. Tra mezz’ora.
-Lo so. Sono ancora capace a farli i calcoli.
Gli feci una linguaccia. Salii sull’auto rossa di mio fratello. Casa sua distava circa duecento metri dalla stazione. Era una casa semi-dipendente. Il cortile era unico e il caseggiato anche, ma le entrate erano diverse. Axel aprì il portone che dava sulle scale, l’alta porta in legno scuro si aprì lasciando entrare il freddo nelle scale. I muri giallini davano una sensazione di tranquillità. L’assenza di mia madre si sentiva già. La mancanza era immensa. Al piano superiore si entrava nella vera e propria casa. Un lungo corridoio percorreva tutta la casa. A destra due porte, la prima lasciava spazio alla cucine e al salotto, la seconda ad una stanzetta piccola, per un futuro mio nipote; a sinistra altre due porte, la prima alla grossa camera da letto nel quale mio fratello e Axel tenevano i loro strumenti e dormivano, la seconda dava sul bagno che a sua volta dava su un terrazzo. Nel corridoio la stufa a pellet scaldava la casa. Mi sedetti accanto ad essa. Mia mamma mi mandava messaggi dolci.
“Ti voglio bene cucciola.”
“Anch’io topolina.”
Erano già le cinque e venti. Le lacrime ricominciarono a fluire lungo il mio viso, come i fiumi bagnano la terra asciutta. Axel si sedette accanto a me. Mi accarezzo il braccio, con fare consolatorio.
-Se hai bisogno di qualcosa noi ci siamo, io ci sono.
-Grazie.
Per distrarmi Axel mi fece giocare con il suo 3ds. Super Mario 3d land, lo avevo già finito, ma mi liberava dai pensieri. L’unica mia consolazione erano mio fratello, Axel, Miki, Lidia e Matteo. Già, Matteo. Ci sarei uscita insieme quella sera, anche se mio padre non avesse voluto. D’altronde che cosa ero io per lui? Una figlia legittima di cui non gli importava niente, una ragazza che chiedeva sempre soldi, cinque euro una volta al mese per il cellulare o colei che faceva sempre del male alle sue ‘’Amiche’’. Gli importava talmente tanto di me che erano già le sei e non si era né fatto vedere né sentire.
-Se entro le sei e mezza non arriva io non ti lascio andare da lui. – esclamò Axel parecchio adirata.
-Ma vah. Va bene così. Lui è fatto così.
-Ma sei sua figlia. – replicò lei pronta.
Alle sette finalmente arrivò. Io ero su facebook con il computer di mio fratello. Chiusi subito tutte le pagine. Entrò in casa. Bob lo salutò. Mio padre si accomodò sulla sedia e si fece fare il caffè.
-Non si saluta neanche più? – la sua vociona tonò.
-Ciao. – nella mia voce si sentiva lo sprezzo e la svogliatezza che avevo nel vederlo.
-Solo così?
-Sì pà, ora andiamo?
-Sì, hai sempre fretta.
-Sì, ho sempre fretta. – la mia voce salì di alcune ottave.
Scendemmo per le scale insieme a mio fratello. Presi le mie valigie dal cofano della macchina di mio fratello e le caricai nella macchina di mio padre. Abbracciai forte mio fratello e salutai Axel che mi guardava dal balcone. Baciai sulla guancia mio fratello e salii sulla macchina. Incastrai le cuffiette rosa nelle orecchie e schiacciai play. La musica partì. In poco più di dieci minuti fummo a casa delle sua ragazza a Savigliano. Presi le due valigie e la borsa e feci le scale. Entrai in casa, sentivo la televisione accesa in salotto. Percorsi il corridoio ed entrai nel salotto. La casa era bella, le persone che ci vivevano no.
-Ciao.- la mia voce era piuttosto cupa.
-Ciao… - la voce di Elena, la fidanzata di mio padre, era particolare. Materna quando voleva, ma quando poteva attaccarmi e farmi litigare con mio padre era sempre pronta.
-Dove le metto le valigie?
-in camera mia.
Ritornai nel corridoio. La prima porta a destra era camera sua. Aprii la porta e lasciai le valige in un angolo. Sentii la porta d’ingresso chiudersi. Il figlio di Elena, Alessandro, non si era neanche fatto vedere. Ero certa che stava giocando alla wii o al 3ds se non all’xbox. Tornai in salotto e mi accomodai sul divano. Mio padre era seduto e faceva zapping tra i canali, si fermò poi su un programma di macchine, Top Gear. Lo guardai per alcuni secondi, poi mi arrivò un messaggio.
“Ciao Cucciola, allora stasera sicura di esserci?”
“Sì!!! Costi quel che costi!”
“A dopo allora.”.
“A dopo”.
Mio padre mi guardò, quando mi voltai verso di lui distolse lo sguardo.
-E’ pronta cena. – annunciò Elena.
-Arriviamo. – la voce profonda di mio padre rimbombò nel mio cervello. Lo vidi andare in camera di Alessandro, uscirono insieme. Alessandro era un ragazzino di undici anni. I suoi capelli parevano di oro colato, peccato che non li lavasse quasi mai. Dal salotto passai per un piccolo arco ed entrai in cucina.
-Ciao! – mi salutò energico Ale.
-Ciao … - non ero stata di molte parole, non avevo voglia di parlare con nessuno. Posai il cellulare sul tavolo e mi sedetti. Le posate erano state appoggiate casualmente su un pezzo di Scottex ripiegato accuratamente, i bicchieri di vetro erano macchiati da alcune gocce di acqua ormai evaporizzata, il piatto accanto al bicchiere era bianco, bianco puro. Elena poso due piatti al centro della tavola, uno conteneva una montagna di bistecche impanate con i bordi sbrucciacchiati, l’altro  era stracolmo di patatine fritte. Di certo quella cena non mi avrebbe fatto bene visto che soffrivo di gastrite. Ero giovane, eppure il nervoso me l’aveva fatta venire lo stesso. Mi limitai a prendere una bistecca e a toglierle tutta l’impanatura, ora sembrava carne bollita piena d’olio.
-Che cosa fai?- la voce di mio padre sembrava accusatoria.
-Tolgo l’impanatura, mi sembra evidente. – risposi cercando di rimanere tranquilla.
-Sei appena arrivata e già ti lamenti?
-Cosa? – mi sentivo stranita, cosa avevo fatto ora?
-Sei proprio una maleducata.
Mi alzai ed andai dove avevo lasciato le valigie, presi la busta che mi aveva dato Kikka, ci trovai un biglietto. Lo infilai nella tasca dei pantaloni.
-Torna subito a tavola! – gridò mio padre a squarciagola.
Guardai velocemente cosa c’era dentro. Presi una giacca in pelo nero. Guardai nella valigia delle scarpe accuratamente preparata da mia madre. Quando la aprii rimasi senza parole, mi aveva dato tutte le sue scarpe con il tacco. Un paio di scarpe rosse scarlatto spiccavano tra tutte, le presi. La porta alle mie spalle si spalancò, nascosi le scarpe sotto la giacca nera.
-Ho detto torna di là!
Andai in cucina, mi sedetti e posai la roba sul divano. Mio padre si calmò e si sedette a mangiare.
-Sei proprio una maleducata.- questo era troppo.
-Si sono una maleducata e allora? Se fosse per te sarei sotto un ponte e non avrei neanche un’educazione. Devi smetterla di trattarmi male.
-Ragazzina come ti permetti di parlare così a tuo padre?- la voce acida di Elena gridò.
Alessandro faceva finta di niente, anzi, sorrise divertito mentre mangiava.
-Io sono pur sempre tuo padre!
-Non me ne fotte un cazzo!- ora ero davvero adirata, non avrei mai parlato così con mio padre in una situazione normale. – Io sono tua figlia, e allora? E’ sempre la solita storia, stai con una e ti dimentichi di me! Sei arrivato con un ritardo di un ora, non dieci minuti, un ora! Lo sai? Potevi almeno mandarmi un messaggio. E tu! –indicai Elena.- Tu, non ti devi neanche osare a guardarmi e neanche a parlarmi, sei solo una zoccola come tante, prima di tutto sei tu che ti sei intromessa in un discorso in cui non centravi una beata minchia! Secondo per me non sei niente, e so che tu da mio padre vuoi solo i soldi, brava ci stai riuscendo. Per me non ha neanche tre euro per il biglietto ma per portare alle terme te ce li ha sempre! –mio padre si alzò ed alzò una mano in aria, con fare per tirarmi uno schiaffo. – Sì, dai, tirami uno schiaffo, tanto so dove sono gli sbirri! Dai cosa aspetti?
La mano volò nell’aria e si adagiò sulla mia faccia, lo schiocco fu talmente forte che mi parve di sentire l’occhio schizzare fuori dall’orbita oculare. Tolse la mano, sentivo la mia guancia che pulsava, ci misi la mano sopra, era calda. Guardai con aria stupita mio padre.
-Bravo, era ora che la mettessi in riga. –esclamò Elena felice.
-Bravo … bravo .. continua. Me ne vuoi dare un altro? Sono qua dai tiramene un altro, sono il tuo pungi ball. Presi la roba sul divano, tornai da loro, ora Alessandro stava mangiando in silenzio, mio padre era di nuovo seduto ed Elena mi guardò con aria di sfida. Restai in mobile davanti a loro per alcuni secondi. Sputai nel piatto di mio padre e me ne andai di casa, mi fiondai giù per le scale, sentivo mio padre che mi correva dietro a passi pesanti, mi cadde una scarpa, la raccolsi, aprii il portoncino delle scale ed uscii per la strada. Corsi verso il grosso parco dell’ospedale, erano le otto. All’angolo delle due strade che circondavano il giardino si trovava un bar. Entrai, una ragazza mi accolse.
-C’è un bagno? –ero ancora scossa dalla conversazione tra me e mio padre.
-Dio, ragazza cosa ti è successo?
-E’ così rossa?
-E’ fucsia. – la ragazza mora del bar mi accompagnò in bagno e mi aspettò fuori dal bagno. Mi diede un correttore ultra coprente. Lo applicai sulla guancia, il rossore fu coperto del tutto. Mi misi la giacca. Mi ricordai del biglietto che avevo nei jeans, lo lessi.
“Ciao Chris, ti lascio questa roba perché sono certa che starà meglio a te. Mi mancherai, a proposito ti ho lasciato delle cose nelle tasche delle giacche. Ciao.”
Guardai nelle tasche della giacca, trovai un rossetto rosso fuoco e un eyeliner nero. Mi misi il rossetto e l’eyeliner. Il rossetto così acceso stava davvero bene con la mia carnagione scura. Il gilet in jeans non mi piaceva sotto la giacca in lungo pelo nero. Lo tolsi e mi rimisi la giacca. Uscii dal bagno.
-Sei sicura che non hai bisogno di niente?
-Sicura, grazie di tutto. Anzi, mi potresti fare un favore?
-Dimmi.
-mi puoi tenere il gilet e le scarpe?
-Certamente. – mi tolsi gli scarponcini bianchi e mi misi le decolleté rosse scarlatto.
-Grazie mille di tutto, vengo a prenderle dopo.
-Vai tranquilla, vieni appena puoi.- le sorrisi ed uscii dal bar.
Mi sedetti su una panchina del parco.
“Ciao, io sono già qua, appena puoi arriva.”
“Ok, allora arrivo tra cinque minuti.”
“Ti aspetto.”
In lontananza vidi un gruppo di ragazzi, immaginai che avessero all’incirca 16 anni a testa. Mi parve di vederne uno o due familiari, ma pensai di essermi immaginata tutto.
-Ciao, tutto bene? – la voce calda e passionale di Matteo mi fece rabbrividire. Mi alzai era alle mie spalle.
-Ciao, io tutto bene e tu?
-Tutto a posto. –mi voltai verso di lui, i suoi occhi avevano il colore del cielo e del mare cristallino. Le sue labbra morbide erano socchiuse, quando mi vide però si aprirono in un’espressione di sconcerto. Gli occhi sbigottiti mi scrutavano.
-Ho messo male la matita? Cosa… ?
-Chi cazzo è stato?
-Non ti seguo …- avevo capito a cosa si riferiva.
-La guancia, chi cazzo è stato? E’ stato uno di quel gruppo laggiù? Non avrei mai dovuto farti aspettare qui da sola! – la sua voce era parecchio adirata.
-No … non sono stati loro. –abbassai il viso verso il basso, non potevo guardarlo in viso, non mi piaceva vederlo così, non mi piaceva essere sfigurata. Le sue dita mi cinsero il mento, una lacrima percorse il mio viso e si fermo sulle sue dita. Mi alzò il mento, obbligandomi a guardarlo.
-Chi è stato? – la sua voce era dolce adesso, i suoi occhi curiosi continuavano a scrutarmi.
-Mio … mio padre … - il fiato mi uscì a stento, le lacrime iniziarono a fluire lungo il mio viso. Lasciò andare il mio viso e con una mossa decisa e veloce mi catapultò contro il suo petto, mi strinse forte a se. Lo abbracciai più forte che potevo. Dopo un po’ mi allontanò. Mi prese in braccio e mi portò su un’altalena piuttosto alta. Mi spinse rimanendo accanto a me. Si accese una sigaretta. Lo osservai.
-Hai dei soldi?
-Sì, perché?
-Stasera ho voglia di bere.
-Ok, andiamo in un bar.
-Andiamo in quello lì all’angolo. Ci ho lasciato delle cose dentro.
-Va bene signorina. –il tono scherzoso mi rallegrò.
-Grazie mister.
Scesi dall’altalena e ci dirigemmo verso il bar. Matteo mi prese sotto braccio. Era così dolce e alto. La sigaretta gli pendeva dalle labbra. Gliela rubai e ne feci un tiro, era piacevole, in bocca lasciava un retrogusto di caffè, non riuscivo a capire come fosse possibile, ma era così. Il gruppo che avevo visto prima stava venendo verso di noi. Ci passarono accanto. Vidi l’amico di Francesco. Entrai nel bar, salutai la barista.
-Ciao.
-Ciao, ma è stato lui?
-No.
Alla cassa un ragazzo stava pagando una birra. Si voltò verso di me. Rimasi senza parole, non sapevo neanche più dov’ero. Era Francesco. Che cosa ci faceva lì? Mi stava perseguitando.
-Un tequila. –ordinò Matteo- tu che cosa vuoi?
-Io … io un doppio Jack Daniels.
-Ma sei sicura?
-Certo. –Francesco sparì dalla porta del bar.
-Senti, vengo domani a prendere le scarpe.
-Ok.- mi rispose la barista. Bevvi il mio superalcolico. Matteo pagò i drink e uscimmo. Mi chiedevo dove fossimo andati adesso.
-Ti va bene se restiamo al parco?
-Certo. – Matteo acconsentiva sempre a tutto. Ci sedemmo sulla panchina su cui mi trovavo prima io. Poco dopo il gruppetto di Francesco si sedette sulla panchina difronte. Matteo mi abbracciò di nuovo e io gli scroccai un’altra cicca. Il gruppetto continuava a schiamazzare. Volevo divertirmi, ma non in sua presenza, non con Matteo davanti. L’amico di Francesco aveva una birra in mano.
-Voglio quella bottiglia. –sussurrai a Matteo.
-Basta che fai la carina con loro.
-Ma io ne conosco due …- vidi anche l’amico alto. – tre.
-Fa niente allora te ne compro una io.
Mi alzai e mi avvicinai a loro.
-Ciao.
-Ciao. – risposero in ordine sparso.
-Come ti chiami? – mi riferivo all’amico di Francesco.
-Lorenzo.
Mi sedetti sulle sue gambe. Parlai un po’ con loro mentre giocavo con Lorenzo. Vedevo Matteo che sghignazzava e Francesco con lo sguardo perso nel vuoto. Mi alzai. E mi misi a cavalcioni su Lorenzo, il piccolo top sembrava sul punto di esplodere, Francesco si voltò di scatto a guardare. Baciai Lorenzo e presi la birra che si trovava accanto a lui. Mi alzai e andai verso Matteo.
-Ciao ragazzi, grazie per la birra. –non sapevo se erano stati gli alcolici a farmi agire così o se ero io che stavo cambiando, era più plausibile la prima.
-Brava è così che si fa. – mi sussurrò Matteo. Ormai erano le undici.
-Devi andare a casa?
-No, mi viene a prendere mio padre verso mezzanotte, tu a che ora devi essere a casa? – mi domandò Matteo.
-Io non ci torno a casa, dormirò su una panchina stanotte.
-Ma sei cogliona? –prese il suo cellulare e scrisse un messaggio.
-No, la mia amica non mi risponde. –in effetti avevo provato a chiamare Miki due o tre volte ma non mi aveva risposto. Gli arrivò un messaggio.
-Stanotte  sei mia ospite. –mi sorrise.
-Cosa? – ero felicissima, pensavo di aver capito male, invece aveva proprio detto ciò che avevo sentito.
-Sì, tra mezzora vengono a prenderci.
-Wow.
-Si immagino come dormiranno. – esclamò l’amico alto di Francesco e Lorenzo.
-Come ti chiami? – gli gridai.
-Gianluca.
-Bel nome.
-Grazie , anche il tuo. – fece con voce da sbruffone.
Mi avvicinai ulteriormente a Matteo. Gli diedi un bacio leggero sul collo, gli rimase il segno rosso della matita.
-No Gianluca, neanche io credo che dormirò stanotte. –mi piaceva giocare con i loro pensieri, mi pareva quasi di riuscire a sentirli, come piccoli sussurri che arrivavano al mio cervello. Di certo era tutto frutto della mia fantasia, e quella notte non avremmo fatto niente. La macchina nera dei suoi genitori arrivò, ci attendeva sul ciglio della strada. Matteo si alzò, lo seguii, sotto il suo braccio mi sentivo protetta. Gianluca, Lorenzo e Francesco mi seguirono con lo sguardo. La macchina luccicava sotto le luci dei Savigliano. Mi accomodai dietro, accanto al mio dolce amato. L’auto partì, la musica si udiva leggermente. Il padre di Matteo si accese una sigaretta.
-Come si chiama? –gli sussurrai.
-Giovanni e mia mamma Dorotea.
-Ok. – la madre non era presente, ma mi immaginai che l’avrei conosciuta presto. Le luci della città sparirono. Dai finestrini si vedeva una distesa nera. I campi invadeva il paesaggio di giorno mentre ora venivano sovrastati dal nero profondo. Dopo poco più di dieci minuti rividi delle luci arancioni, rendeva la strada così poco naturale, tutti i colori erano distorti. La macchina continuò il viaggio ancora per poco, svoltò a destra, poi a sinistra e infine si fermò. Una grossa cascina a due piani era visibile di fronte a noi, era stata ristrutturata da poco, era ben tenuta. Il colore azzurrino delle pareti la rendevano irreale, allora era questa la dimora di Matteo? Sì. Matteo mi esortò a scendere.
Entrai nella splendida casa. Il salotto era enorme, sulla destra si trovava un divano e un televisore, accanto al televisore si snodava un corridoio; a sinistra si trovava la cucina. Mi condusse al piano soprastante. Era un lungo corridoio con cinque camere, mi spiegò che una era dei genitori, una della sorellina, una de fratello, il bagno e la sua camera. Mi spiegò bene tutto, ma ero troppo distratta e non ci capii niente. Mi portò nella sua stanza.
-E’ qui che dormirai sta notte.
-Come? È camera tua, è giusto che ci dorma tu.
-No, sei mia ospite e voglio che tu dorma qua, sul mio letto, al caldo.
-Allora me ne vado!
-No, tu dormi qui. –mi prese e mi buttò sul letto, rimbalzammo sulle doghe. –non credi che sia comodo? – era scivolato e sospeso su di me, il suo viso era così vicino, mi stava per baciare, quando la graziosa sorellina aprì la porta.
-Ciao, piacere io sono Ingrid.
-Ingrid? È un bellissimo nome, io sono Christina, ma mi puoi chiamare Chris.
-Ok, Chris. Grazie. Richiuse la porta, Matteo si riconcentrò su di me e sulle mie labbra, io sulle sue.
-A proposito, mamma ha detto di scendere. – la sorella ci stava di nuovo osservando. Non penso abbia avuto più di dieci anni, i capelli corti erano legati in un piccolo codino, i grossi occhi scuri ci osservavano incuriosita, immaginai che avesse frainteso.
-Dov’è?
-In camera sua, non vuole essere disturbata perché ha sonno ma ha detto che ti deve dire una cosa.
-Va bene, a domani Ing, ora vai a dormire. –la graziosa sorella uscì dalla camera. –vado e torno, tu non scappare, mi raccomando. –mi fece un occhiolino e sparì anche lui. Avevo sonno, socchiusi gli occhi. La porta si spalancò nuovamente.
-Dov’è Matteo?
-E’ andato dalla madre. Comunque grazie di tutto.
-Di niente, siamo contenti di poterti aiutare.
-Grazie, buona notte.
-Anche a te signorina.
Da dietro le spalle di Giovanni sbucarono i capelli del mio amore. Restarono un po’ a parlare. Infine Matteo entrò, prese delle cose dall’armadio e le posò accanto a me.
-Tieni, per dormire.
-Grazie.
Si sedette alla sedia della scrivania e si voltò verso di me. –Allora, non ti cambi?
-E tu? Non ti devi cambiare?
-Sì. Prese un paio di pantaloni grigi e uscì dal bagno.
Mi tolsi la giacca e il top. Esaminai ciò che mi aveva dato, esattamente come avevo fatto la mattina. Mi aveva dato una grossa felpona grigio sbiadito e i pantaloni di una tuta, anch’essi larghi. Mi sentivo a casa. Indossai i due capi e mi sedetti sul letto.
“Ciao tesoro, sono appena entrata in Austria, domani mattina appena arrivo a Vienna ti mando un messaggio.”
“Ok, ti adoro, a domani. Kiss.”
Dallo stipite della porta fece capolino il viso di Matteo.
-Io vado a dormire. Buona notte e sogni d’oro.
-Grazie anche a te. – sparì dietro alla porta, la luce del corridoio filtrava da sotto la porta, sparì. Il buio regnava attorno a me. Non potevo crederci, ero a casa di Matteo. Dormivo nel suo letto e avevo conosciuto quasi tutta la sua famiglia, già quasi, all’appello mancava ancora il fratello maggiore, non è che me ne importasse realmente. La sorellina era così graziosa. Sicuramente non mi ero fatta una bella figura con lei, le uniche due volte che mi aveva vista ero sdraiata sul letto con suo fratello sospeso sopra di me. Chissà che cosa pensava di me. Quel bacio tanto atteso, atteso da mesi. Anche lui mi voleva baciare. Magari provava quello che provavo io per lui. Decisi di ascoltare un po’ di musica. Dalla cellulare iniziò a fluire fuori una serie di note che mi fecero addormentare.
Due e mezza di notte. Mi svegliai di colpo. L’occhio sinistro mi bruciava, probabilmente mi era finito un ciglio dentro. Lo stropicciai per bene. Ecco così andava meglio. Mi guardai la mano, era macchiata di nero, merda, l’eyeliner. Scostai le coperte e mi alzai, il pavimento era piacevolmente caldo. Uscii dalla camera. Ero decisa a cercare un bagno. Nel piano di sopra no di certo, c’era gente che dormiva beata nel proprio letto. Scesi le scale senza far rumore, non volevo svegliarlo. Passai accanto al divano, decisi di non guardarlo. Una mano mi afferrò il polso e mi fece cadere addosso a Matteo.
-Che ci fai in giro per casa a quest’ora?
-Cerco un bagno.
-E’ l’ultima porta del corridoio. Comunque ce n’è anche uno sopra.
-Non mi ricordavo dov’era.
Scoppiò a ridere. Mi liberò dalla sua presa. Andai dritta in bagno. Accesi la piccola luce. Avevo tutto l’occhio nero. Mi sciacquai con abbondante acqua tiepida e tolsi tutto il trucco. La guancia livida si stava sgonfiando, ma il colore rossastro non era ancora sparito. Si vedevano ben chiare le cinque dita, quattro lunghe e una più corta. Non volevo farmi vedere così da Matteo, non in quello stato. Tornai in salotto.
-Buona notte. -gli dissi.
-Vieni qua. –mi tirò a se e mi coricò accanto a lui. D’istinto tirai su la grossa felpa, fino a coprirmi il viso. Le sue mani erano accanto al mio collo. Lo sentivo sopra di me.
-Che fai?
-Niente .- la mia voce sembrava così infantile.
-Su, dimmi perché ti nascondi.
-No.
Restammo immobili per alcuni minuti, non sapevo se era ancora lì, abbassai un po’ la maglia per vedere. Subito mi blocco le mani, in modo che non potessi ricoprirmi. Il suo viso era illuminato solo dal bagliore della luna. Vederlo così mi ammonì. I suoi occhi mi continuavano a scrutare. Sembravano non accorgersi della guancia.
-Perché ti nascondevi?
-Non lo capisci?
-Dimmi, non ci arrivo proprio.
-Per la guancia. –abbassò lo sguardo, sentii i suoi nervi tendersi, strinse i pugni, come se dovesse trattenere qualcosa, ma cosa? Gli presi il mento e lo portai verso di me. Era furioso, furioso di rabbia.
-dai non fare così. –gli sussurrai. Avvicinai il mio viso al suo e le nostre labbra si sfiorarono. Fu come una droga. Misi le braccia intorno al suo collo e lo feci scivolare su di me, i pugni si lasciarono andare, sentivo il suo petto attraverso la maglietta. Lo baciai nuovamente, in modo molto più passionale, mi morse il labbro inferiore. La sua mano si intrufolò sotto la maglia e mi sfiorò il ventre. Ora lo desideravo con tutta me stessa. Le mie mani gli scivolarono lungo la schiena, sentivo i muscoli contratti. Le sue mani salirono arrivando al seno. Alzai la schiena e mi sganciò il reggiseno, ora i suoi arti erano liberi di farmi godere giocando con i miei piccoli seni. Ero presa da lui, da quella situazione, dal mio desiderio. Lo baciavo e non avrei mai smesso, ma lui si bloccò di colpo. I suoi occhi erano rivolti verso le scale. Seguii il suo sguardo. La sorellina stava scendendo dalle scale. Si abbasso verso di me. Mi nascose in mezzo alle coperte. Vedevo la sua schiena.
-Ciao Ing, cosa ci fai qui?
-Ciao fratello, sono venuta a bere, ma non dovresti dormire alle tre e un quarto?
-Potrei farti la stessa domanda bambina. Mi hai svegliato. Ora prendi da bere e corri a dormire. –sentii i piccoli talloni di Ingrid che correvano in cucina, il frigorifero si aprì e si chiuse. Ingrid tornò di sopra. Gli baciai la schiena. Un brivido lo percorse. Si girò verso di me e si coprì anche lui con le coperte.
-È meglio se vado a dormire.
-Sì, è tardi e non voglio che domani tu sia stanca.
-Perché?
-Vedrai!
-Potresti venire sopra tu, però.
-Verrò a trovarti. –scesi dal divano, lo baciai e tornai in camera sua. Le coperte si erano raffreddate, avrei preferito essere sotto con lui, tra le sue braccia. Nella stanza accanto si sentiva Giovanni russare. Dopo poco le coperte si scaldarono e io caddi in un dolce sonno.
 
Il cellulare vibrò facendo rumore sul comodino di Matteo.
“Ciao cucciola, sono arrivata a Vienna. Ti voglio bene. Qua ci sono sessanta centimetri di neve. Ti saluta zio. A dopo.”
“Ciao topolina. Sono felice che tu sia arrivata sana e salva. Salutami zio. Ti voglio bene, a dopo.” Decisi di non dirgli niente di ciò che era successo con mio padre. Erano le sei e mezzo di mattina. Non avevo più sonno. Decisi di cambiarmi. Mi tolsi i pantaloni della tuta e mi misi i jeans, mi sfilai la felpona, mi accorsi di essermi dimenticata il reggiseno sotto. Aprii piano la porta cercando di non fare rumore, scesi le scale in punta di piedi e andai da Matteo.
-Buongiorno. –gli sussurrai.
-Buongiorno. Perché stai sussurrando? –sussurrò a sua volta lui.
-Per non svegliare gli altri.
-Ah. –esclamò ad alta voce. – Mia mamma è a lavoro. Si scusa per ieri sera ma era parecchio stanca, va a lavoro alle quattro e mezza. Mio papà è andato con mia sorella da mia nonna.
-E tu? Se sei rimasto solo per me non era il caso.
-Ma vah. Mia nonna non mi vuole più vedere perché mi ha visto fumare. Però non lo ha detto ai miei.
-Ah … mi dispiace.
-Già. Comunque perché sei scesa?
-Cercavo il reggiseno.
-Ah, è qui. –alzò il braccio e tra le sue dita penzolava il mio reggipetto rosso. –ma cosa te ne fai?
-Lo voglio mettere.
-Non credo che lo metterai, non voglio.
-Stupido dammelo.
-Cosa? –sul suo viso si dipinse un’espressione da furbetto. Mi fece capire che intendeva giocare con i doppi sensi visto che non c’erano i suoi.
-Fottiti. –tornai in camera sua, mi tolsi i jeans e mi ricoricai, era presto e non c’era nessuno oltre lui, cosa avrei fatto. Sarei restata al calduccio sotto le coperte. Mi misi le cuffiette e chiusi gli occhi. Le canzoni si susseguirono in un turbinio di note. Mi girai nel letto, diedi le spalle alla porta. Dopo alcuni istanti sentii un peso sulla coperta e un braccio mi cinse forte a se. Tentai di guardare indietro. Intravidi i capelli scompigliati di Matteo. Mi diede un bacio sul collo, tolsi le cuffiette e mi girai verso di lui. Lo baciai. Oggi non ci avrebbe disturbato nessuno, ne ero certa. Si infilò sotto il letto. Come la notte precedente indossava solo dei pantaloni slargati, mentre io indossavo solo la felpona e le mutande in pizzo nero. Gli salii sopra a cavalcioni. Mi chinai per baciarlo, i capelli sciolti gli coprirono il viso. Le nostre bocche restavano unite, come incollate. Le mie mani gli accarezzarono il petto, le sue mi tolsero la felpa. Non ero mai stata con così pochi vestiti con un ragazzo. Lo baciai sulla clavicola, sul petto, sulla costola, sul ventre. Gli snodai il laccio dei pantaloni e glieli sfilai. Tornai a baciarlo. Le coperte caddero dal letto. La porta si spalancò di colpo, il fratello spuntò prorompente dalla porta. Matteo mi spinse giù da lui e mi sdraiai accanto a lui, raccolsi una coperta e mi coprii.
-Ma sei scemo?!?
-Scusa Matte, non pensavo …
-Esci fuori di qui. Che ci fai a casa?
-Sono passato a salutarti prima che torni a Milano.
-Ciao.
-Ciao, buon divertimento. Comunque io sono Luca, piacere.
-Piacere, Elisa. –risposi io. Ero rossa di vergogna. Diciamo che non avevo fatto per nulla una buona impressione sulla famiglia di Matteo, gli unici con cui non avevo fatto brutte figure ancora erano Giovanni e Dorotea. Il fratello uscì dalla stanza, dopo qualche minuto lo sentii uscire da casa e andare via in macchina. Matteo tornò a me, si chinò su di me, i suoi baci erano dolci e teneri. Mi baciò il ventre e mi sfilò le mutande. Mi baciò il pube. Era così bravo e leggiadro. Gli tolsi le mutande, io ero così impacciata. Aprì il secondo cassetto del comodino e sfilò un preservativo, lo tirò fuori dall’involucro e lo applicò. Mi penetrò, non lo avevo mai desiderato così tanto. All’inizio faceva un po’ male, ma poi fu come se fossimo diventati una cosa unica, come se ci fossimo uniti. Tutto finì in un orgasmo. Rimanemmo accoccolati fino a mezzogiorno. Mi alzai.
-Dov’è il bagno?
-E’ la prima porta che vedi appena esci dalla camera.
-Un asciugamano?
-Me la faccio anch’io la doccia. –si alzò e mi accompagno in bagno. Non potevo ancora credere a ciò che era successo quella mattina. Mi era così piaciuto. Lo avrei fatto di nuovo. Era un’unione carnale con il mio amore. Com’è che dicevano? La carne è debole. Lo desideravo troppo. Mi fece vedere dov’erano gli asciugamani. Uscì dal bagno, mi lasciò sola. Aprii l’acqua mettendola al massimo del caldo. Il vetro si appannò. Il fumo riempì la stanza. Abbassai un po’ la temperatura dell’acqua. Entrai, lo scroscio mi rilassava. Rimasi immobile a pensare a Matteo, a me, a noi. Mi insaponai con il primo bagnoschiuma che vidi, il felce azzurra classico. Mi ricordò mio nonno, il padre di mia madre. Erano già sei anni che era mancato, la perdita mi aveva addolorato nonostante io e lui non fossimo molto uniti. Mi mancava la sua risata contagiosa e la sua barba bianca.
-Sei viva? –la voce sua voce mi riportò alla realtà.
-Sì, perché?
-È quaranta minuti che sei sotto la doccia.
-Scusa, ti costerò un occhio in acqua calda, vi ridò i soldi, ve lo giuro. – nel frattempo mi insaponai i capelli e li sciacquai accuratamente.
-Ma vah, scema. Volevo solo essere sicuro che non fossi scivolata e svenuta.
-Tenero. –uscii dalla doccia, presi l’asciugamano che avevo preparato e ci avvolsi il mio corpo. Con un asciugamano più piccolo avvolsi i capelli. Aprii la porta.
-io tenero?
-Sì, tu. –gli presi il viso con tutte e due le mani e lo baciai. Rimase spiazzato, lo passai e mi chiusi in camera sua. Mi asciugai e mi misi la larga tuta, non sapevo come fare, non avevo mutande dietro, rimasi senza. Mi misi il felpone. Bussò, non risposi. Mi frizionai bene i capelli. Bussò nuovamente, decisi di aprirgli. Girai la chiave nella serratura.
-Che vuoi?
-Te! È te che voglio. –mi alzò da terra e mi sedette sulla scrivania. Mi baciò ancora, e ancora, e ancora. Lo tirai a me. Una canzoncina partì. Qualcuno mi stava chiamando. Era mia madre.
Restammo a parlare per una buona mezzoretta, era stata difficile non cedere alle avance di Matteo, i baci sul collo, le carezze, … non le dissi che ero da un mio amico. Preferii dirle che papà era uscito ed ero rimasta a casa da sola.
-E’ meglio se ti asciughi i capelli.
-No …
-Sì, non voglio che tu abbia una polmonite.
-Ok … -andò in bagno e tornò con un asciugacapelli di ultima generazione. Oramai era l’una e mezza. Mi asciugai bene i capelli, se no rompeva.
-Scusa mi ero dimenticato, vuoi pranzo?
-no.
-Sicura?
-no.
-Cosa no?
-Non sono sicura, ho fame. –scendemmo le scale. Preparammo un piatto di penne rigate al pesto, era delizioso. Mi raccontò di sua mamma. Era una grande lavoratrice. Ora era in una panetteria e avrebbe lavorato fino alle quattro. Non vedevo l’ora di conoscerla. Dai suoi racconti doveva essere una donna straordinario. Le quattro arrivarono in fretta tra una coccola e un bacio. Era una donnina non troppo alta, i capelli castani erano corti fino al mento, i piccoli occhi erano scuri, coperti da piccoli cespugli marroni. Le labbra carnose  erano come quelle del figlio. Verso le cinque mi ricordai che avevo promesso a Miki che l’avrei chiamata. La chiamai. Restammo al telefono per molto tempo, ma Matteo sapeva come farmi impazzire. Ogni tanto mi scappava qualche gemito e la mia amica preoccupata mi chiedeva che cosa fosse successo. Le spiegai tutto. Mi disse che mi poteva ospitare. Matteo non voleva, ma mi sembrava più sensato che io andassi da lei piuttosto che da lui. Decidemmo che lunedì pomeriggio mi sarei trasferita da Michelle. Volevo chiamare anche mio fratello, ma sapevo che era impegnato per lavoro, quindi decisi di non disturbarlo. La sera arrivò in men che non si dica. Giuseppe e Ingrid arrivarono a casa verso le sette, la piccola si era addormentata durante il tragitto. La misero a letto. Mangiammo cena tutti insieme. Quella sera davanti a me si presentava una bella ciotola di minestrina in brodo di carne.
-Come vi siete conosciuti? –chiese Giuseppe.
-Una mia amica mi ha dato il suo numero. – gli risposi sinceramente. Matteo lanciava strane occhiate a suo padre, che però sembrava non vederle.
-Tua mamma è a ….
-Vienna. –disse in tono duro il mio passerotto. La mia faccia si incupì. Mi mancava, non lo fecero apposta lo so, ma la sofferenza era grande.
-Mi scuso da parte di mio marito. –disse in tono pieno di vergogna Dorotea. La donna si alzò e iniziò a sparecchiare, mi alzai anche io e le diedi una mano.
-Scusami se ieri non mi sono fatta vedere, ero molto stanca.
-Vada tranquilla, mi ha spiegato suo figlio.
-Oh, sei una brava ragazza. Io mi vado a coricare, domani mattina ho di nuovo la sveglia presto.
-Buona notte signora.
-Dammi del tu.
-Buona notte Dorotea.
-Anche a te.
Giuseppe si andò a coricare insieme a sua moglie, non so se dormirono subito. Matteo lavò i piatti e io insistetti per asciugarli, alla fine cedette e mi diede l’onore. Iniziò a preparare il divano letto.
-Che fai?
-Mi preparo dove dormire.
-Se tu dormi lì, io dormo con te.
-Perché?- la sua faccia era davvero stupita.
-Perché non è sensato che tu dorma scomodo a causa mia.
-Io pensavo che era per il fatto che mi volevi bene.
-Stupido, io non ti voglio bene.
La sua faccia divenne una cosa strana, indecifrabile. Alla fine ci coricammo tutti e due sul divano letto. Mi abbracciava, mi teneva stretta a sé. Mi addormentai.
 
Era notte profonda. Qualcuno di mia conoscenza mi baciava la nuca.
-Che fai?
-voglio farti un regalo.
-Perché?
-Per Natale.
-Ma manca un mese.
-Giusto … -ci pensò un po’ e poi continuò. – allora per il fidanzamento.
-Ma noi non siamo fidanzati.
-Chris vuoi tu fidanzarti con me?
Lo baciai passionalmente. –Sì. 
  
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Soprannaturale > Angeli e Demoni / Vai alla pagina dell'autore: Ella ago 98