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Autore: Artemisia89    14/08/2007    1 recensioni
Era sempre così.
[lei piangeva e la pioggia brillava]
Ed era sempre troppo presto, o troppo tardi.
Genere: Triste, Malinconico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Tifa Lockheart, Vincent Valentine
Note: Alternate Universe (AU) | Avvertimenti: nessuno
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<< Perché? Perché?! >>

La pioggia scrosciava, cadeva, forte. C’era un lago di sangue tutt’intorno. Intorno a loro. A lui, che stava immobile a subire la pioggia e alla voce di lei, più forte e violenta del rombo del tuono.

<< Io ti amavo! >>

I suoi occhi rossi si limitavano a guardarla: si muoveva in maniera frenetica, e il suo sguardo andava a spostarsi dagli occhi alla lunga massa di capelli corvini, agitava le braccia nell’aria come una forsennata. E piangeva, e le sue lacrime andavano a mischiarsi alla pioggia, e al sangue, e alle scintille di mako che saturavano l’aria e rendevano tutto quanto così brillante.

<< Hai mai pensato a me, eh? Ci hai mai pensato?! >>

Vincent Valentine rimaneva dritto. E subiva la pioggia. [e le sue lacrime]

 

Shining tears [waiting for the sun]

 

Puliva la pistola, controllava le munizioni, la materia che brillava nei suoi alloggiamenti, i suoi dischi d’argento lucido che parevano refrattari allo sporco. Erano un po’ come dei mostri che bevevano sangue: non ne lasciavano nemmeno una goccia.

Nella città, le persone rimaste dovevano contarsi sulle dita di una mano, lui compreso. C’era un silenzio irreale, smorzato appena dal suono della pioggia sul cemento, sui palazzi. Edge era una grossa gabbia, al momento. O un rifugio, dipendeva dai punti di vista. Però Vincent poteva vederli tutti quanti, chiusi e rannicchiati nelle loro cantine blindate, tutti quei topi tremanti di paura.

Che poi anche lui aveva paura, a volte. E anche tanta. Solo che lui aveva paura di un’altra cosa, che forse loro nemmeno conoscevano [li invidiava così tanto, quei topi].

Le finestre dei palazzi lo spiavano a volte, come degli occhi ciechi, vacui: a volte sembravano ammiccare nella sua direzione, altre invece parevano indifferenti a quel mantello rosso che si aggirava nel grigiore della città disperata. Un bel rosso porpora, su quella coscienza di un passato nero come la morte.

Stavano per venire a riprenderlo. E al momento era grato a Reeve per questo. Era esausto, non aveva un briciolo di forza nel corpo, dopo quello che era successo nel magazzino, con Rosso e quella cosa che era uscita da lui…gli si annebbiava la vista. E i ricordi invece si facevano più chiari.

Non sapeva chi avrebbero mandato, si era solo trascinato fino al punto prefissato e si era gettato su una cassa, cercando di recuperare le forze.

Con i vestiti e il mantello zuppo di pioggia [i ricordi, nella pioggia], si sentiva sempre più pesante, sempre più stanco. Anche la vista, gli giocava brutti scherzi, non riusciva più a mettere a fuoco. In tutta quella pioggia, le cose perdevano i propri contorni, a volte anche i colori.

Reclinò la testa indietro verso il muro. Nessun motore in lontananza, nemmeno l’ombra di rumori vorticosi di pale a segnalare la fine della sua attesa. E non c’era più nessun vicolo da ripulire: niente soldati, niente segugi, niente mostri. I topi se ne rimanevano rinchiusi nelle loro cantine a tremare, e a leccarsi le ferite.

Era rimasto solo lui [e la pioggia, e i ricordi nella pioggia]

In quella solitudine che combatteva uccidendo e cercando avversari sempre più forti. Gli aveva dato dell’autolesionista una volta, ricordò ridendo. E gli aveva detto anche altre cose, mentre piangeva nella pioggia. Cose che lui stentava a ricordare, perso com’era perennemente nella furia della battaglia.

Tranne il fatto che quel giorno, la pioggia brillava [e anche le sue lacrime, e forse anche lei]

Lui rimaneva dritto. E subiva [godeva non visto di]tutta quella luce.

 

Avrebbe riconosciuto il suo modo di guidare anche solo ascoltando i motori, senza vedere il movimento preciso con cui il piccolo mezzo atterrava nella piazzetta, il rombo della macchina che andava scemando con una grazia inconcepibile. Con una calma [che lei aveva perso solo per lui] decisamente fuori luogo.

Vincent scese dalla cassa e si mosse verso l’elicottero: aveva lasciato le pale in funzione, chiaramente con la volontà di ripartire subito.

Vincent non la fece attendere.

Il portellone si aprì, e lui era ancora distante qualche passo quando la vide emergere dal buio psichedelico dell’abitacolo. Sempre lei, sempre la solita. Sempre bellissima nei suoi abiti neri come la notte, nei suoi capelli color pece che si muovevano nel vento, con la sua pelle non bianca, ma luminosa, accecante come le stelle.

Le pupille di Vincent si restrinsero per un attimo, come per l’essersi trovate davanti ad una sorgente di luce accecante.

Era solo lei, sempre lei, sempre la solita.

Tifa Lockhart si avvicinò a lui con gli occhi ben piantati nei suoi e quando la distanza tra di loro si annullò, o meglio, si ridusse ad un solo misero passo, estrasse la sua pistola e la puntò verso di lui [quando arrivava lei, anche la pioggia brillava].

<< Vincent. >>

La canna della pistola che sfiorava la sua fronte.

<< Stai invecchiando >>

Le labbra curvate in un ghigno, e la pistola che scivolava in mezzo ai suoi occhi rossi.

Mosse velocemente il polso e guardò oltre la spalla di lui, verso un vecchio ponte su cui si notava un brillio bluastro quasi invisibile, impostò in una frazione di secondo mira, obiettivo, poi grilletto. E fece fuoco.

Il cecchino superstite crollò su se stesso, con pochi movimenti stanchi. Semplicemente cadde a terra, e non si mosse più. Il fucile precipitò nel vuoto, per poi rompersi nell’impatto.

<< Lo avevo visto mentre atterravo >> disse abbassando l’arma e rimettendola nel fodero. << Aveva ridotto l’afflusso di mako al minimo per rimanere non visto, ma sai, la massa più grossa di materia l’hanno nel casco, quindi è davvero facile vederli dall’alto, e poi…>>

Davvero, sempre la solita.

Aveva cominciato a parlare a ruota libera, e a vanvera per giunta. Con gli occhi bassi, sotto la pioggia. Solo loro, in quella città deserta. E lui faceva fatica a vederla, davvero. Troppo luminosa per i suoi occhi confusi, e la pioggia poi, quella pioggia che sembrava brillare.

<< Tifa >>

<< …e quindi hanno mandato me e…ah? >> [Se lei avesse alzato lo sguardo avrebbe visto i suoi occhi rossi, e poi la pioggia e avrebbe ricordato tutte quelle lacrime, e tutta quella luce]

<< Grazie per essere venuta >> fece Vincent, con la voce rotta dalla stanchezza, poi svenne.

Tifa, sorpresa, lo sostenne al volo.

Loro due, in ginocchio [sotto la pioggia, ancora una volta], a terra. Si portò il viso di lui sulla sua spalla, e piano, quasi con paura, gli accarezzo i lunghi capelli. La mano prima titubante, poi delicata sul fiume di capelli scuri [in cui rimanere avvinghiati, e affogare e morire].

Poi alzò gli occhi, e [finalmente] Tifa guardò la pioggia.

 

 

Vincent si risvegliò nel buio dell’elicottero.

Erano in movimento. Decine di luci lampeggianti si muovevano discrete sui vari pannelli e poteva vedere le braccia di lei apparire dalla sedia dallo schienale alto in cui era seduta. Immaginava i suoi occhi mentre pilotava: attenti, seri, concentrati. Lei non ammetteva mai sbagli da se stessa, e il fatto di essere ancora vivo, e di averle parlato ancora, accendeva una piccola speranza in lui [che forse non era stato solo uno sbaglio per lei, quel giorno].

Si mosse piano, ancora frastornato, con la testa pesante cercava di abituare gli occhi a quell’oscurità.

Doveva essere svenuto, e Tifa aveva dovuto trascinarlo dentro, probabilmente. Aveva ripiegato il mantello, formando un cuscino improvvisato [peccato non aver sentito quelle mani su di lui, ancora], e l’aveva sdraiato dietro di lei [giusto per sentirlo respirare].

Il buio attorno a loro, e oltre ancora, fuori, la notte.

Vincent si alzò, e con un gesto svagato si tolse la polvere e la sabbia dai vestiti, poi, con qualche passo la raggiunse e poggiò le mani dietro lo schienale. Poteva sentirlo quasi, il suo profumo salire e ottenebrargli la mente.

<< Ben svegliato >> le mani sicure nel comandare il veicolo e gli occhi fermi davanti a se.

<< Dove siamo ?>> [e il profumo saliva e la pioggia non brillava più se lei non la guardava] chiese con tono incolore [se lei non piangeva].

<< Lontani ancora, ma non troppo. Altre tre ore, o forse anche meno se il tempo migliora >>

<< Non ci spererei >> fece eco Vincent, mentre scrutava le nubi oltre i vetri e andava a riprendere il suo mantello.

Tifa tacque, al suono dei fulmini che si scaricavano a terra, sotto di loro. Si morse le labbra e poi parlò.

<< Ma tu, nell’arrivo del sole ci speri mai? Si si, proprio il sole, sai, quella sfera gialla che dicono ci mantenga vivi >>

Scrutava il suo volto riflesso nel vetro che la guardava. Lei guardava lui, e lui guardava lei nel vetro [e nella pioggia, che improvvisamente ricominciava a brillare] .

<< Cosa vuoi dire? >>

Le labbra di lui, [rosse, dannatamente rosse] si muovevano [trasparenti e rosse] sul vetro. Lei le guardava e moriva [di nuovo, lei moriva nel saperlo morto in vita].

<< Niente, niente. Lascia perdere >> disse maledicendosi per l’ennesima volta. Forse lui nemmeno sapeva cos’era il sole. O forse non sapeva cosa significare attendere. O entrambi, e quindi le sue erano parole vuote.

Era solo lui, sempre lui, sempre il solito.

Tifa sbuffò, portandosi dietro le orecchie un ciuffo di capelli: Vincent Valentine catturò quel gesto con la coda degli occhi.

Il sole non arrivò, però in compenso, continuò a piovere.

 

 

Arrivarono al quartiere generale che era l’alba. C’erano pochi soldati assonnati fuori ad accoglierli e segnalare le manovre d’atterraggio, ma quando Vincent scese dall’elicottero quell’aria di svogliatezza e di sonnolenza, sembrò volatilizzarsi come nebbia al sole.

Tifa atterrò, perfetta come sempre [l’idea perfetta di una libellula perfetta], esattamente dove le era stato segnalato. Si liberò delle cinture di sicurezza, e si concesse un respiro più lungo degli altri: si passò una mano tra i capelli e chiuse gli occhi. Vincent aspettò, in silenzio. Forse non aveva il diritto di vederla così. [debole, per un attimo, come in quel giorno]. Si alzò dalla sedia e si sgranchì le gambe: scese prima di lui, con un piccolo salto.

Ad accoglierli c’era Shalua Rui, che sorrideva, una volta tanto. Andò incontro a Tifa salutandola con cortesia.

Cadeva una pioggia leggera, notò Vincent. Niente a che vedere con quel giorno.

<< Ci incontriamo di nuovo, Valentine >>

Tifa guardò Shalua che guardava Vincent che guardava il cielo [la pioggia].

<< Dov’è Reeve? >> tagliò corto lui. Lei lo guardò.

<< Seguitemi >> disse ad entrambi, dirigendosi verso l’entrata del quartier generale WRO.

Tifa dietro Shalua lanciava occhiate a Vincent, non vista. E lui l’aveva guardata, per un solo attimo.

Poi, il suo sguardo era tornato vuoto [e spento, al riparo dalla pioggia], mentre entravano nell’enorme palazzo azzurrognolo. Troppa luce artificiale, per i suoi occhi.

E per la sua memoria che rimaneva ancora fuori a bagnarsi [nella pioggia che brillava, quel giorno].

Tifa lo guardava [e anche le lacrime sembravano brillare].

Reeve Tuesti veniva verso di loro con lo sguardo accigliato: delle rughe si disegnavano sulla sua fronte, e gli occhi scuri sembravano gli occhi di pece dei corvi. La sua lunga veste blu frusciava ad ogni movimento.

Tutt’intorno, un chiacchiericcio continuo di soldati ed impiegati della WRO che guardavano incuriositi i nuovi venuti.

<< Vincent. >> disse con un’intonazione che lasciava chiaramente trasparire il suo sollievo nel rivederlo più o meno incolume. Si voltò verso Tifa.

<< Grazie per avermelo riportato qui, sei stata veloce >>

Tifa fece spallucce, e sorrise tra se e se.

<< Possiamo parlare? >> fece Vincent a Reeve. << Da soli. >>

Reeve guardò Tifa, e lei sorrise.

<< Esco fuori, tanto ha quasi finito di piovere >> e accennando un piccolo inchino con il cenno del capo si incamminò verso i giardini.

Davvero, aveva quasi finito di piovere ormai.

Vincent non lo vedeva, ma forse il sole stava davvero sorgendo all’orizzonte [però in ogni caso lui non lo vedeva].

Lui, quel bagliore, lo percepiva solo nella pioggia [che brillava solo quando lei piangeva].

Seguì in silenzio Reeve all’interno del Quartier Generale, sempre più in profondità.

 

Tifa aveva seguito la strada per i giardini, evitando accuratamente di sbagliare strada e andare a finire nei campi di addestramento reclute, o di esercitazione. Li sentiva ancora dentro, tutti quegli spari [tutti dentro di lei]

Aveva bisogno di un po’ di pace [aveva bisogno di stare lontano da lui]

Rivederlo dopo tre anni, e mantenere quella calma.

Si complimentò mentalmente con se stessa, mentre varcava una grande porta di vetro, ed entrava nello spazio verde della struttura.

La luce [abbagliante] le ferì [e] gli occhi [finta], e con una mano, prontamente se li schermò.

C’erano alberi e fontane, in piccole piazzette circolari, e qualche panchina.

Chissà se ci sono anche gli uccellini, pensò ridendo.

Camminò sotto la luce e guardò in alto, il cielo si colorava di ambra lontano da loro, ma il sole, quello non si vedeva. Cercò una panchina vicino alla fontana e vi si sedette, abbandonandosi allo schienale e chiudendo gli occhi.

Solo l’acqua che gorgogliava nella fontana e il suo respiro a riempire l’ambiente, poi il nulla. Il fruscio del vento, quando si alzava e soffiava. Ma l’aria era ferma attorno a lei. Immobile in maniera quasi innaturale.

Però c’era qualcos’altro che si muoveva in lei, qualcosa come un vecchio ricordo, come una cicatrice ancora vistosa nonostante il tempo trascorso.

Qualcosa che aveva voluto dimenticare.

E che invece era dentro di lei [e dentro lui]: così profonda, così radicata.

Shalua Rui entrò nel giardino, con lo sguardo assorto, per poi sobbalzare quasi, sorpresa nel trovare qualcun altro.

<< Credevo fosse con gli altri >> disse la dottoressa.

<< Pensavo lo stesso di lei >> stava mordendo una mela [rossa come], notò Tifa. Con il braccio buono però: l’altro giaceva sempre seminascosto dal camice [i suoi occhi].

Rimasero a guardarsi per qualche attimo, poi Tifa le fece segno di sedersi accanto a lei e Shalua si avvicinò, accompagnata dal rumore dei tacchi sul vialetto bianco.

<< Di cosa staranno parlando mai quei due? >>

Shalua rise, e la guardò quasi complice.

<< Di morte e distruzione, tanto per cambiare >>

Tifa tacque, Shalua perse il proprio sguardo nelle iridescenze morbide dell’acqua.

<< Non c’è altro di cui parlare di questi tempi, in effetti. >> aggiunse silenziosa, con fare stanco.

Rimasero in silenzio, a guardare dritto davanti a loro.

Fuori intanto il sole veniva coperto di nuovo.

Solo che questa volta, non erano nuvole, e l’allarme cominciò a suonare, suonare e quasi a strillare, squarciando tutto quel silenzio che avevano miracolosamente creato.

 

Reeve vacillò, perdendo quasi l’equilibrio al primo attacco che si schiantò contro il palazzo.

Da aria, da terra: gli allarmi trillavano e le luci diventavano rosse.

Vincent era già corso via quando lui si era voltato.

Fuori si sentivano gli spari e vetri e porte che venivano schiantate, ma tutto, anche le urla, giungevano attutite.

Si chiuse dentro, vigliaccamente. Dietro di se i rumori scomparivano, bloccati dalle porte a tenuta stagna.

A lui piaceva combattere al riparo.

 

Shalua Rua e Tifa Lockhart si alzarono di malavoglia dalla loro panchina, abbandonando alberi e fontane.

La dottoressa camminò spedita davanti a se, Tifa invece si fermo, e bloccò le porte del giardino.

<< Mi dispiacerebbe vederlo distrutto >> disse Tifa, parlando quasi a se stessa.

[Come quel giorno, con tutto quel sangue e tutta quella pioggia]

Poi prese la sua pistola: non legò nemmeno i capelli.

Si ricordava quello che le aveva detto Vincent, tre anni fa, prima di quel giorno [in cui lei aveva pianto].

 

Era davvero bellissima quando combatteva.

Con quei capelli che si aprivano a ventaglio e l’avvolgevano in un turbinio di notte, gli occhi fermi e imperscrutabili sui nemici, i movimenti perfetti e mai, davvero mai, imprecisi.

Le pallottole volavano nell’aria, accompagnate anche da materia che andava a ricercare carne in cui affondare, in maniera quasi vorace. I membri WRO cadevano a terra con troppa facilità [come fai a pensare che sono umani come lei?], ma alcuni gruppi riuscivano a tenere testa ai membri Deepground.

Forse se la sarebbero cavata, lui però, avrebbe dovuto badare agli altri.

Si avvicinavano in gruppi e poi si spargevano per i piani, portando supporto ai vari soldati. Il passo pesante, le armi pesanti.

Molto fastidiosi, davvero.

Come delle zanzare, pensò Vincent. E come loro andavano schiacciati.

Si avventò sui primi che trovò, intenti a cercare di bloccargli la strada. Li schiantò velocemente al muro, per poi sorpassarli e raggiungere quelle dannate macchine: li fece fuori usando la materia esplosiva, quella più indicata per i combattimenti ravvicinati, conservando la Blizzard per quando se ne sarebbe presentata l’occasione. E se cominciava a capire la tecnica che quei bastardi usavano, il momento non sarebbe tardato poi così tanto ad arrivare. Avanzava a passi sicuri, esplodendo i proiettili tenendo il braccio ben dritto davanti a se: soldati e macchine cadevano quasi in ginocchio davanti a lui, che li scostava con movimenti veloci dei piedi. Piano dopo piano, sembrava che la situazione migliorasse. Eppure c’era ancora qualcuno che mancava, o forse più di uno…

Gettò uno sguardo sotto di lui: anche Shalua sembrava cavarsela. Era proprio vero che le donne riescono a combattere quasi senza subire il proprio abbigliamento, che nel caso della ricercatrice era quanto di più scomodo Vincent avesse visto.

Tifa invece, poteva apparire strano, ma combatteva meravigliosamente quando pioveva [quando il sole che cerca continuamente è lontano, terribilmente lontano], quando le gocce accompagnavano i suoi movimenti, come assecondandola. L’aveva vista uscire, accompagnando altri membri per liberare la zona antistante alla struttura.

Lei aveva alzato un attimo lo sguardo per cercarlo [come il sole], ma non era riuscita a vederlo [davvero, troppa luce].

Vincent pensò che in fin dei conti era nella pioggia che vivevano [che si cercavano e si trovavano] e che nella pioggia sarebbero morti.

Poi, finalmente, chi cercava arrivò.

E anche quella cosa dentro di lui.

 

I membri che erano riusciti ad arrivare sani e salvi alle mitragliatrici avevano cominciato a sparare senza controllo, quasi isterici. Cosa alquanto comprensibile, considerando che non avevano nessuno che li supportasse, così Tifa, la pistola ben pronta in mano, condusse parte dei soldati che erano con lei verso le mitragliatrici a ruota, facendo cenno ai ragazzi che le comandavano di cercare di calmarsi per permettere così loro di supportarli.

Fu quando sentì un rumore di molte, molte pale che capì che se non avesse preso in mano lei stessa la situazione, avrebbero finito i loro giorni in quel prato.

Spostò velocemente il ragazzo che era seduto sulla postazione, ed impostò ben presto la macchina su lei stessa: i rumori si facevano sempre più vicini e anche il calcolo approssimativo che cercava di farsi aumentava. Cinque, dieci, quindici…e poi, anche qualcos’altro si avvicinava.

I membri WRO si guardavano attorno cercando di farsi coraggio: una brunetta dagli occhi limpidi stringeva la sua arma con una determinazione che fece sorridere Tifa.

La ragazza in questione, pensò, doveva per forza aver perso qualcuno in questa guerra così insensata, altrimenti quella rabbia, non si poteva spiegare.

Tifa riprese in mano la guida della macchina, i muscoli tesi e pronti ad agire all’avvistamento del primo nemico e quando finalmente una macchia bruna si manifestò in cielo, mirò decisa verso di lei e cominciò a sparare all’impazzata.

Fu in quell’attimo che gli altri arrivarono alle spalle, e, persa com’era nel far andare ogni singolo colpo a segno, non li sentì.

 

Risplendeva d’azzurro [come le scintille di mako, quel giorno], e anche il sangue attorno a lui sembrava risplendere della stessa luce azzurrognola. Aveva negli occhi l’amore feroce per la guerra, e nelle mani quella specie di cannone che si portava sempre dietro, annerito dai frequenti spari. Quando lo vide, sembrò che Azul non vedesse nient’altro.

Ma in realtà non guardava Vincent, quanto la luce che lo avvolgeva.

Era il caos.

Era Chaos.

Vincent si sentì mozzare il fiato, e una fitta al petto lo costrinse violentemente a piegarsi in due per il dolore: vedeva tutto in maniera così nitida che per un attimo gli sembrò [di essere tornato a quel giorno]che gli occhi potessero andare a fuoco, ed esplodere e lui con loro.

Poi, come la marea, la sua coscienza sembrò ritirarsi [davvero, proprio come quel giorno]

Azul il Ceruleo si beò di quella visione. Il potere fluiva nell’artefatto che aveva davanti. Artefatto, perché forse di umano c’era davvero poco e per un attimo, il mostro si compiacque del mostro.

Quando Chaos prese il pieno possesso di Vincent, Azul si fece avanti, leccandosi le labbra, quasi lussurioso.

E poi la terra cominciò a tremare.

 

Fuori Tifa aveva abbattuto 12 aeronavi, e da quanto riusciva a capire forse non ne mancavano poi tante.

Il dolore alle braccia, alle gambe, al corpo intero sembrava non riguardarla. Erano distanti: come i rumori, come il suo stesso corpo, come le persone che cadevano attorno a lei e che abbandonavano una casa, un posto, un amico, un amante. Un sogno.

Lei volava.

Era un angelo terribile con le ali di fuoco, pronto a sterminare per salvare ciò a cui più teneva.

Divorava il male con gli occhi e fondeva nel sangue e nel ferro, la carne e le coscienze: le sue unghie perforavano il metallo e la mitra, succhiavano vita con il pensiero.

Lei volava, e viveva.

Solo in quel mare di sangue, e proiettili [e di mako, che brillava pulsante ]poteva davvero scatenarsi, perdere per un attimo quella grazia che gli altri le attribuivano. Era solo e semplice furia, soltanto disperazione.

Soltanto una tremenda disperazione.

Come quel giorno, con tutti quei proiettili, e tutte quelle urla.

Quando lei aveva pianto, e la pioggia aveva cominciato a brillare.

Quel giorno, si.

 

***

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