18
Al
termine del bagno, gli studenti si prepararono per la cena.
Essendo una stazione a quattro stelle, l’albergo poteva vantare un
servizio di ristorazione non indifferente, in un trionfo di piatti tipici e
molto ricercati; buona parte dei ragazzi della Cross venivano da famiglie
agiate e aristocratiche, ma per alcuni di loro quella era la prima volta che
avevano l’occasione di provare qualcosa di così prelibato.
Tutti indossavano i kimono, che alle ragazze
in particolare donava non poco. Peccato che quasi tutti i maschi non fossero lì
a godersi quel momento, troppo occupati a rimettere insieme i propri pezzi dopo
quello che era successo in piscina.
Eric si stupì nel rendersi tuttavia conto che
non c’era neanche Izumi, e chiese lumi ad Emma.
«È scesa al villaggio con Carmy.» tagliò corto
la bionda «Diceva di voler comprare del tè, o qualcosa del genere.
Chi le capisce quelle come lei?».
Anche Nagisa era radunata assieme a tutti gli
altri studenti attorno al tavolo della sala da pranzo, proprio accanto al suo
signore, ma per quanto ci provasse non riusciva neanche ad alzare lo sguardo
per cercare di incontrare, quanto meno, il suo volto.
Una volta non aveva alcun problema a guardarlo
negli occhi, anzi cercava in essi quella forza e quella determinazione che
talvolta le venivano a mancare, ora invece aveva quasi paura di quello che
poteva vedervi riflesso, e di quelle emozioni che continuavano ad agitarsi
dentro di lei, pronte ad emergere alla prima occasione o al primo momento di
debolezza.
Non riusciva neanche a capire perché avesse
tanto insistito per sedersi accanto a lui, scacciando su due piedi Rima che
senza malizia né secondi fini era capitata proprio in quel posto, pur sapendo
intimamente quanto ciò l’avrebbe resa nervosa.
Non capiva nulla.
Alla fine, sforzandosi oltre ogni limite,
porse al suo signore una ciotola di riso che lui aveva richiesto ad Emma,
cogliendola in controtempo.
«Grazie.» le disse lui, gentile ma fermo come
sempre.
Per un attimo i loro occhi si incrociarono, ma
il rossore sulle guance di Nagisa, unito ad un senso come di paura e ad un
imbarazzo quasi incontenibile, spinsero la ragazzina a riabbassare subito lo
sguardo, desiderando di non aver mai dato retta per l’ennesima volta all’istinto
atavico di fare tutto ciò che il suo padrone comandava.
Si era accorto subito che Izumi era assente.
Ormai quella ragazza sembrava condizionare in
ogni cosa la sua esistenza.
Era sempre in cima ai suoi pensieri, e per lei
aveva fatto cose che Nagisa, fino a poco tempo prima, avrebbe reputato
impossibili.
Il suo maestro era sempre stato inflessibile,
calcolatore, razionale. Ora, invece, era diventato imprevedibile, quasi
avventato nella sua determinazione di proteggerla.
E poi il modo in cui stavano insieme.
Solo ricordare quello che aveva visto quella
sera, quando alla notizia del ritorno del suo padrone era corsa a cercarlo per
dargli il bentornato per poi trovarlo lì, insieme a lei, a fare ciò che non
avrebbe mai immaginato, era sufficiente per far montare dentro di lei quel
misto di rabbia e desolazione.
Era brutto anche solo pensarlo, ma in quel
momento quasi rimpiangeva che quella ragazza fosse entrata nella loro vita. Di
più, rimpiangeva la sua stessa esistenza.
Se il maestro avesse sospettato che la sua
adepta pensava una cosa del genere come minimo l’avrebbe disconosciuta come
servitrice, ma era proprio questo a farla maggiormente infuriare. Quando Eric
era cambiato fino a questo punto? Quando aveva smesso di essere il cacciatore
freddo e determinato che aveva sempre ammirato per guidare tutta la sua
esistenza in funzione di lei?
Per un po’ aveva visto in Izumi un’amica, una
confidente, come quelle che aveva sempre avuto accanto prima di smettere di
essere umana, ma ora la cosa stava andando troppo oltre, e l’amicizia stava
cedendo il posto a qualcos’altro.
Un pensiero la fece rabbrividire.
Che fosse… amore?
Nell’infermeria
dell’albergo, il direttore era occupato a medicare le ferite di Peter,
Kageyama, e di quel poveretto di Yagari, rimasto suo malgrado coinvolto in una
bravata di cui non c’entrava assolutamente nulla, ma picchiato nondimeno come
quei tre sciagurati che aveva tentato inutilmente di trattenere.
Per Aidou non c’erano problemi, visto che era
un vampiro, ma nel suo caso le vere ferite erano quelle nell’orgoglio.
Essere picchiato selvaggiamente e senza sosta
dalle stesse ragazze che solitamente svenivano ai suoi piedi era un’umiliazione
troppo grande per uno come lui, egocentrico per definizione, e ora se ne
restava raggomitolato in un angolo a piangersi addosso.
Kageyama e Yagari bene o male se l’erano
cavata con poco, mentre Peter al contrario sembrava una mummia uscita dal
sarcofago; lo avevano affettato, crivellato, pugnalato, bruciato, bastonato,
scalciato e scaraventato giù dal terrazzo, e tutti si meravigliavano del fatto
che in qualche modo fosse sopravvissuto.
«Ahia!» brontolò Toga quando il direttore gli
strinse con forza l’ultimo dei suoi molti bendaggi
«Smettila di lamentarti. Ringrazia piuttosto
che ti abbiano trattato con riguardo.»
«Ma fa un male cane comunque, per Dio.»
«E io allora che cosa dovrei dire?» mormorò
mestamente Peter sorreggendo la propria flebo
«Visto e considerato che tutto questo è
accaduto solo ed esclusivamente per causa tua, al tuo posto io starei zitto,
razza di tedesco maniaco.»
«È finita.» continuava a ripetere Kageyama,
raggomitolato in un angolo come Aidou «Ora Ruka-sama
non mi vorrà più vedere.»
«Se ti può consolare, non gliene fregava
niente di te neanche prima.» rispose lapidario Aidou «Sono io piuttosto che
dovrei essere triste. Chissà quanto mi ci vorrà per riacquistare la fiducia
delle ragazze.»
«Dovevi pensarci prima di fare il guardone.»
commentò Yagari.
Mentre il direttore finiva di mettere via gli
attrezzi da pronto soccorso, poi, l’anziana direttrice della pensione si
presentò in infermeria.
«Chiedo scusa direttore, c’è una telefonata
per lei. Pare sia importante».
Tutti si misero subito sul chi vive.
Il direttore aveva lasciato detto che per
quella settimana né lui né i suoi ragazzi avrebbero dovuto venire disturbati,
se non in casi di vera necessità, tanto più che per alcuni di loro i prossimi
giorni sarebbero stati davvero molto duri.
«La ringrazio».
Liquidato Kageyama con una scusa e allontanato
Aidou, troppo impegnato a rimettere insieme i cocci del suo ego per potersi
preoccupare di qualsiasi altra cosa, Kaien sollevò la cornetta del telefono
dell’infermeria e si fece passare la chiamata.
«Sono il direttore Cross. … Sì … Sì …
Davvero!? … Sì, capisco … D’accordo, faremo attenzione. … Grazie di avermi
avvisato.»
«Che è successo?» domandò Yagari
«Era Kogoro Negi, da
Tokyo. Un Livello E affetto dalla Rabbia è stato avvistato su queste montagne.»
«Che cosa, dalla Rabbia!?» ripeté Peter.
Anche i vampiri potevano contrarre la Rabbia,
e i Livello E in particolar modo.
Non era la stessa malattia riscontrabile negli
animali, anche se il nome era lo stesso, ma i sintomi si assomigliavano:
iperattività, aumento dell’aggressività, e una sete incontrollabile. Un vampiro
affetto dalla rabbia, peggio ancora se di Livello E, era capace di attaccare e
mordere chiunque, e quello che era peggio era in grado di trasmettere il
contagio anche solo con un semplice graffio.
Per fortuna, i vampiri affetti dalla rabbia
erano molto sensibili alla luce, anche quella artificiale, e temevano i grandi
assembramenti, il che permetteva di restare relativamente al sicuro da un loro
attacco a patto di rimanere in gruppo e al chiuso.
«Fino a domani sarà meglio che tutti restino
all’interno dell’albergo.» ordinò il direttore «Peter, controlla che ci siano
tutti.»
«Come fatto.» disse lui avviandosi subito
verso la porta
«Vado a parlare coi proprietari.» disse Yagari
«Dirò loro di tenere le luci accese lungo tutto il perimetro.» e anche lui se
ne andò
«Maledizione.» mugugnò Kaien rimasto solo «Ci
mancava solo questa».
Poco dopo, Eric incrociò Peter mentre stava
recandosi in veranda per fare una partita a ping-pong prima di andarsene a
letto.
«Allora, quante ossa ti sono rimaste dopo
quella bravata?» domandò divertito, salvo poi rendersi conto che Peter non
sembrava per nulla dell’umore adatto per scherzare «Che c’è?»
«C’è un Livello E rabbioso che vaga per questi
boschi. Ce lo ha appena comunicato il tuo amico Negi.»
«Rabbioso!?»
«Il direttore ha dato ordine di restare
nell’albergo e di non uscire fino a domani mattina, quando arriveranno le
squadre speciali.
Sto andando ora ad accertarmi che tutti i
ragazzi siano al sicuro. Puoi confermarlo?».
Eric si sentì sudare freddo.
No che non poteva confermarlo! Perché non era
così!
«Izumi!» esclamò, e senza dire altro spalancò
una porta-finestra lì accanto e corse via.
Mentre attraversava il cortile incrociò
Nagisa, seduta ai bordi di uno stagno con i piedi immersi nell’acqua, in preda
alle sue ansie e ai suoi dubbi. La comparsa del suo signore fu per lei quasi un
sollievo; voleva parlargli, se non altro per cercare di far luce sui suoi
sentimenti, ma era così confusa da non accorgersi dell’espressione sgomenta e
preoccupata di Eric, che in quel momento aveva ben altro per la testa.
«Mio signore…» cercò
di dire, ma lui le passò accanto senza fermarsi
«Non c’è tempo!» disse in modo anche un po’
brusco prima di saltare il muro di cinta con un solo balzo e scomparire alla
vista.
Nagisa restò senza parole, sgomenta e
spiazzata, con gli occhi lucidi sul punto di piangere, e solo dopo alcuni
minuti, per bocca del direttore, venne a conoscenza del motivo per cui Eric si
era comportato in quel modo; la cosa avrebbe dovuto sollevarla, e invece,
sapendo chi doveva esserci di mezzo, servì solo ad avvilirla ulteriormente.
Di nuovo: di nuovo lei aveva la priorità.
Izumi
e Carmy erano scese in paese per comprare dei dolci da spartire con le loro
compagne di stanza, nella speranza di “addolcire” il loro umore dopo quello che
era successo in piscina.
In realtà, almeno nel caso di Izumi, c’era
anche dell’altro.
Aveva bisogno di stare per un po’ lontana da
Eric. Di capire meglio i suoi sentimenti e le sue sensazioni, senza di pericolo
di trovarsi faccia a faccia con lui in ogni momento.
Così, quando la sua amica le aveva proposto
quella gita, non ci aveva pensato due volte ad accettare. Finite le compere si
erano anche concesse di cenare in un piccolo ristorantino tipico a base di okonomiyaki, un piatto che Carmy non aveva mai assaggiato e
che Izumi fu ben felice di farle provare.
«Non avrei mai pensato di dirlo.» commentò
l’inglese mentre percorrevano la strada, stretta e non troppo illuminata, che
attraversando i boschi saliva fin sulla collina dove erano arroccate le terme
«Ma la cucina giapponese inizia a piacermi.»
«Mi fa piacere.»
«Dopo questa mangiata, quando rientreremo al
collegio mi toccherà restare a digiuno.»
«I daifuku di qui
forse non saranno al livello di quelli di Tokyo.» disse Izumi guardando il
contenuto del sacchetto che aveva con sé «Ma se non altro aiuteranno Emma-senpai e le altre a calmarsi.»
«Ne dubito. Dopo quello che è successo temo
gli ci vorrà ben più di un dolcetto per smaltire l’arrabbiatura».
Carmy però si accorse, quasi subito, che la
sua migliore amica aveva decisamente qualcosa per la testa, e non faticò ad
immaginare di che cosa dovesse trattarsi.
Tuttavia, per rispetto a quello che sapeva
stesse passando, non volle girare il dito nella piaga, come la sua malizia
solitamente le suggeriva di fare; anzi, volle darle una sorta di suggerimento,
così, giusto per smorzare la tensione.
«Lo sai.» le disse mentre passeggiavano
avvolte dal silenzio della sera «Mi è capitato di leggere una cosa un po’ di
tempo fa.»
«Che cosa?»
«Dicono che, in questa zona del Giappone,
cresca un particolare tipo di camelia, dai colori molto insoliti. Non è né
bianca né rossa, ma di un colore leggermente rosato. Infatti, lo chiamano il
Fiore Confetto. Si dice che se cogli una di queste camelie in una notte di luna
piena, e pensando intensamente alla persona a cui tieni di più, riuscirai
finalmente ad esternargli i tuoi veri sentimenti.»
«Esternargli… i tuoi
veri sentimenti!?» disse incredula Izumi.
Carmy ammiccò; era certa che la cosa non
l’avrebbe lasciata indifferenze. Alzò il dito ad indicare il cielo.
«E guarda caso, stasera c’è la luna piena.
Potremmo andarne a cercare qualcuno, non sei d’accordo?».
Era un’idea assurda, per non dire
impraticabile, ma tutto quello che Carmy voleva era gettare l’esca; ormai si
era affezionata troppo ad Izumi, e non voleva che il suo rapporto con Eric
rischiasse di naufragare per timidezza o indecisione.
Izumi abbassò lo sguardo, rossa di imbarazzo
ma con il cuore che batteva più forte del solito, e per alcuni minuti continuò
a camminare senza proferire parola.
Poi, da un istante all’altro, si fermò,
bloccandosi in mezzo alla strada deserta.
«Che succede?» le chiese Carmy
«Che stupida, ho dimenticato il telefonino al
ristorante.»
«Il telefonino!?»
«Torno indietro a prenderlo.»
«Aspetta, vengo con te.»
«No, non sarà necessario. Tu ritorna pure in
albergo, e…».
Si bloccò un momento, come imbarazzata.
«E dì ad Eric che le ombre mi spaventano».
Carmy non capì il senso di quella frase, e
Izumi non le diede il tempo di chiedere spiegazione, perché girati tacchi tornò
in tutta fretta verso il villaggio.
«Aspetta!» tentò di dirle, ma era troppo
tardi.
Izumi continuò a procedere a passo spedito
lungo la strada per un centinaio di metri, rigida e statica come un soldato al
passo di marcia, e quando fu certa di essersi allontanata a sufficienza da
Carmy si fermò nuovamente, mentre una riga di sudore che segnava la tempia.
Ci aveva messo un po’ per rendersene conto, ma
poi ne aveva avuto la certezza.
Forse era merito di Izanagi,
che le aveva dato come un sesto senso, fatto sta che a differenza del passato
non le era stato difficile, infine, percepire quella presenza minacciosa che
per tutto il tempo aveva tenuto d’occhio lei e la sua amica.
Per questo aveva fatto allontanare Carmy;
sapeva che, dovendo scegliere, il nemico avrebbe senza dubbio preferito il suo
odore a quello dell’amica.
Si guardò attorno, cercando di intercettare
l’arrivo della minaccia cogliendola in controtempo, e ancora una volta quel
sesto senso le venne in aiuto; un istante prima che fosse troppo tardi,
infatti, dentro di lei si accese come una scintilla, e fulminea si buttò a
terra di lato, giusto in tempo per evitare una zampata che per fortuna si
limitò a sventrare il sacchetto dei dolci.
Rialzatasi, si trovò a tu per tu con un
vampiro non più giovanissimo, sicuramente un Livello E, ma come cercò di fare
qualche passo indietro si ritrovò con la schiena già appoggiata contro l’alta
muraglia che stava ai lati della strada e sorreggeva la montagna soprastante.
Il Livello E esitò, tenendo gli occhi fissi
sulla sua preda, ma prima che potesse pensare di partire all’attacco un’ombra a
sua volta piombò su di lui; riuscì ad evitare a sua volta una zampata
potenzialmente mortale, ma dovette indietreggiare per forza di cose.
«Eric!» disse Izumi vedendolo comparire
davanti a lei
«Stai attenta. Questo vampiro è pericoloso».
Ora la situazione era invertita, ma Eric
sapeva che un Livello E con la rabbia era capace di qualsiasi cosa, anche di
imbarcarsi in uno scontro perso in partenza con un avversario troppo superiore.
Era una battaglia vinta in partenza.
Non ci sarebbero stati problemi di sorta, se
all’improvviso l’attenzione del Livello E non fosse stata attratta da
qualcos’altro.
Da un istante all’altro, come manna dal cielo,
era comparsa una nuova preda.
Carmy aveva capito che qualcosa non andava, e
prima ancora di arrivare in albergo era voluta tornare indietro alla ricerca
dell’amica per capire il perché di quello strano comportamento.
Il Livello E la vide comparire lì, dietro una
curva, immobile per il terrore alla vista della pelle raggrinzita e degli
artigli ricurvi del mostro, che ora aveva puntato proprio lei.
«Carmy, vattene!» tentò di urlarle Izumi «È
pericoloso!».
Ma era troppo tardi; il miraggio di un pasto
facile aveva ormai deviato del tutto l’attenzione del nemico, che ora si preparava
a scattare.
Izumi non ci pensò due volte: doveva
proteggerla.
«Izumi, no!» tentò di dire Eric, ma prima che
potesse fare qualcosa lei era già scattata, e così anche il Livello E.
Eric non sapeva cosa fare, e fece ciò che
nella sua vita, ed in simili circostanze, aveva fatto solo in pochissime
occasioni; tacitata la fredda mentalità calcolatrice, si affidò unicamente
all’istinto, e l’istinto in quel momento gli ordinava di fare una cosa sola:
proteggere lei. A qualunque costo.
Lei aveva la priorità su tutto.
Se avesse voluto gli sarebbe servito un niente
per rallentare il tempo, eliminare il nemico e chiudere la questione, ma in
quel momento la sua mente era occupata da un unico pensiero, e quel pensiero
non gli lasciava né il tempo né il modo di pensare ad altro.
Izumi si avventò su Carmy, stringendola forte
come a voler arrecare un aiuto di cui lei stessa aveva bisogno, ma il Livello E
si era avventato su entrambe.
Di nuovo, Eric si mise in mezzo, comparendo
quasi dal nulla, proprio nell’istante in cui la zampata del nemico calava
impietosa sulle due ragazze, e protette entrambe da quell’unico assalto menò un
colpo d’artigli che non lasciò scampo al nemico, lasciandolo a terra esanime in
un lago di sangue.
Non divenne subito cenere, in quanto il virus
di cui era portatore rallentava la normale disgregazione cellulare, ma lo
sarebbe comunque diventato nel giro di un’ora.
Izumi, che aveva chiuso gli occhi per la
paura, restò di sasso nel vedere nuovamente Eric davanti a lei, e così anche
Carmy, gettata a forza per la prima volta nel sanguigno e spietato mondo delle
creature della notte.
Eric era immobile, come una statua, il braccio
ancora proteso verso il basso.
«E… Eric…» mormorò Izumi.
Lui a quel punto si sollevò, distendendo i
muscoli, e girò un momento gli occhi verso le due ragazze.
«State bene, vero?» disse abbozzando un
sorriso.
Ma i suoi occhi dicevano tutt’altro. In essi,
infatti, Izumi lesse il dolore, che nel giro di pochi istanti divenne per il
giovane impossibile da nascondere.
Digrignando i denti Eric cadde prima in
ginocchio e poi a terra, raggomitolandosi in posizione fetale con le mani
strette a forza sul torace.
«Eric!» disse Izumi cercando di aiutarlo.
Pochi secondi dopo, giunse sul posto anche
Nagisa, tutta trafelata e con un’espressione di sgomento e preoccupazione quasi
inconsueta per lei dipinta sul viso.
«Mio signore!» esclamò attonita
«Nagisa, Eric sta male!».
Quasi gettando via Izumi Nagisa si accostò al
suo padrone, facendolo voltare, e quello che apparve terrorizzò le due ragazze.
Al centro del petto, il kimono era lacerato ed insanguinato, e la pelle segnata
da tre profonde ferite che, nonostante il potere rigenerativo dei vampiri, non
volevano saperne di guarire; non solo, vi erano segni come di cancrena, e il
sangue che fuoriusciva era denso e nero.
Eric capì subito cosa gli era successo.
«Statemi… statemi lontane…» rantolò prima di perdere i sensi
«Mio signore!» disse Nagisa con gli occhi
inondati di lacrime.
Eric
aveva contratto la rabbia.
Nagisa, aiutata da Izumi e Carmy, lo portò in
tutta fretta all’albergo, dove fu lasciato nelle mani della dottoressa Himeka.
Sfortunatamente, non esistevano rimedi certi
contro la rabbia trasmessa dai vampiri. Tutto quello che si poteva fare, se
l’infezione non era grave e veniva presa per tempo, era trattare l’organismo
con farmaci lenitivi ed epurare eventuali ferite infette, poi stava alla
vittima trovare la forza per debellare da sé il decorso del virus.
Non c’era tempo di trasferire Eric in un
ospedale di Tokyo amministrato dall’Associazione, e comunque non sarebbe
servito a niente.
Tutti gli studenti o quasi furono mandati
nelle loro camere, con il divieto assoluto di uscire, ufficialmente perché uno
studente era sospettato di aver contratto una grave influenza, e la stanza dove
Eric fu portato venne interdetta a chiunque.
Solo i professori, Izumi e Nagisa furono
ammessi alla sua presenza; Izumi arrivò per ultima, dopo aver calmato Carmy
ancora scossa per l’accaduto, e ciò che vide la lasciò sgomenta: Eric era
disteso sul futon, coperto da capo a piedi, il volto e i capelli imperlati di
sudore e l’espressione sofferente, di qualcuno che trattiene a stento e urla di
dolore.
Nagisa sembrava anche più sopraffatta, e
restava inginocchiata accanto al suo signore cercando, senza trovarla, la forza
di stringergli la mano.
Un Sangue Puro non avrebbe mai avuto motivo
per dover temere la rabbia, ma Eric era mezzo umano, e questa, una volta tanto,
era stata la sua rovina, per non dire la sua condanna.
«Non sarebbe il caso di portarlo
all’ospedale?» chiese Peter
«Sarebbe inutile.» replicò Yagari «E comunque,
nelle sue condizioni
«Gli ho dato un sedativo.» disse la dottoressa
«Dovrebbe calmare il dolore. Ora è tutto nelle sue mani».
Ma purtroppo, neanche la dottoressa era
ottimista.
«Jun, dimmi seriamente.»
disse il direttore «Quante possibilità ha di cavarsela?»
«Tutto dipende da lui. Ha un fisico forte e
una grande volontà, e questo di sicuro ha un vantaggio. Ma anche così, le
probabilità che il suo organismo riesca ad assorbire e distruggere il virus
sono cinquanta su cento. Forse anche meno».
La notizia gelò tutti; Izumi non volle
crederci, Nagisa sembrava sul punto di piangere, Peter digrignava i denti per
l’impotenza e la collera.
«Dovete essere pronti a tutto.» sentenziò
ancora la dottoressa «Se dovesse raggiungere l’ultimo stadio della malattia, ci
sarebbe una sola alternativa».
L’alternativa peggiore.
Quella che nessuno voleva neanche prendere in
considerazione.
Un vampiro affetto dall’ultimo stadio della
rabbia era comunque destinato a morire entro poco tempo, ma era dovere degli
Hunter assicurarsi di eliminarlo comunque quanto prima, per non dare modo al
contagio di diffondersi ulteriormente.
«Per il momento deve restare isolato. Ho già
eretto una barriera attorno alla stanza che gli impedirà di uscire. In ogni
caso, non dovremo aspettare molto per sapere come andrà a finire.
Se il virus farà o meno effetto, lo sapremo al
massimo per domani mattina. In ogni caso, bisogna essere pronti a tutto».
Yagari aggrottò le sopracciglia, e cercando di
non farsi vedere gettò un’occhiata al fucile che aveva dietro la schiena,
intercettato comunque sia da Peter che dal direttore; una manifestazione più
che ovvia delle sue intenzioni.
Nessuno di loro voleva essere costretto ad
uccidere un amico ed un compagno Hunter, ma se la cosa fosse degenerata non ci
sarebbe stata altra scelta: e comunque, la morte sarebbe stata sicuramente
preferibile a quello in cui l’ultimo stadio della malattia lo avrebbe
trasformato.
Nagisa, ormai incapace di contenere le
lacrime, corse via coprendosi il volto; sapeva anche lei che quella, nella
peggiore delle ipotesi, sarebbe stata l’unica soluzione, ma nonostante ciò non
voleva accettarlo, e poco importava se la morte del suo maestro avrebbe significato,
inevitabilmente, anche la sua.
Corse, corse senza meta attraverso i corridoi
della pensione fino in cortile, fermandosi ai piedi del laghetto dove nuotavano
decine di pesci colorati.
Perché?
Perché doveva finire così?
Almeno le avesse detto cosa stava succedendo. Sarebbe
stata lì, al suo fianco, come sempre, pronta ad aiutarlo, ed anche a
sacrificarsi per lui se necessario.
E invece no, aveva voluto fare tutto da solo.
I suoi sentimenti per quella ragazza lo avevano reso cieco e avventato; non era
più la persona che aveva conosciuto, ma nonostante ciò non riusciva a non… non riusciva a non amarlo.
Ora poteva dirlo.
Ora se ne rendeva conto.
Lei amava il suo signore. Lei amava Eric.
Lo avrebbe voluto urlare, ma a che cosa
sarebbe servito? C’era una probabilità su due che non arrivasse a vedere la
prossima alba, e seguirlo nella morte era solo una ben magra consolazione.
Non era giusto!
Non lo accettava!
E l’ultima persona che avrebbe voluto
incontrare in quel momento non trovò niente di meglio da fare che venire a
cercarla.
Izumi era sinceramente preoccupata, sia per
Eric che per quella che considerava un’amica; sapeva di avere la sua parte di
responsabilità nell’accaduto, una grossissima parte, e poteva capire, o credeva
di capire, come Nagisa dovesse sentirsi.
Per questo le era corsa dietro. Anche lei
tratteneva a stento le lacrime, e per quanto ci provasse non riusciva a trovare
la forza per parlare.
«Nagisa.» disse dopo molte esitazioni «Io, ecco… lo so che non serve a niente dirlo ora, però… mi dispiace.
Mi dispiace sul serio di quello che è
successo. Quel mostro stava per aggredire Carmy. Ma forse, se non fossi stata
così avventata…».
Dovette fermarsi per calmare i singhiozzi, e
intanto Nagisa, distante alcuni passi, continuava a darle le spalle, senza
voltarsi a guardarla e seguitando a tenere gli occhi a terra.
«Però…» disse allora
Izumi sforzandosi di pensare positivo «Però Eric è forte. Lo sappiamo tutte e due.
Sono sicura che ce la farà. Non si lascerà sopraffare da una cosa così. Ha
affrontato e sconfitto prove molto più dure.
E quindi…»
«È colpa tua».
Izumi restò di sasso.
«È tutta colpa tua.» ripeté sommessamente Nagisa.
Nella sua voce c’era una tale cattiveria, ed
un tale odio, che Izumi se ne sentì atterrita.
«Che cosa ne sai tu di Eric?» disse ancora la
succube continuando a darle le spalle «Credi forse di conoscerlo come lo
conosco io?
Prima che arrivassi tu, era una persona
completamente diversa. Non avrebbe mai fatto una cosa così stupida.»
«Nagisa…».
Nagisa a quel punto si girò; i suoi occhi
erano iniettati di collera e odio.
«Sei solo una stupida bambina, tieni per te
una cosa che non ti dovrebbe riguardare, che diritti hai su di lui?
Dopotutto la fortuna ti arride sempre. Tanto Eric verrà a salvarmi. È questo
quello che pensi tutte le volte. Sai che lui ti tirerà sempre fuori dai guai. E
ora guarda cosa gli è successo».
Una simile verità era già difficile da
accettare, ma sbattuta in faccia in quel modo diventava insopportabile.
«Se tu non fossi entrata nella nostra vita
come hai fatto, niente di tutto questo sarebbe mai accaduto.
Sei tu l’unica responsabile di quello che è
successo.
Era una persona così diversa prima di
incontrarti. Ora, certe volte, quando lo guardo, mi sembra di avere di fronte
un estraneo.
Tu lo hai cambiato.»
«I… io…» disse la ragazza trattenendo a fatica le lacrime
«Quelle come te sono abituate ad avere tutto e
subito. Tu non hai la minima idea di quello che lui e io abbiamo passato.
Hai vissuto tutta la vita in una famiglia
felice, senza preoccupazioni né pensieri. Non sai che cosa voglia dire vivere
per davvero. Io ho perso tutto. La mia famiglia, i miei amici. La mia vita. Tutto
mi è stato portato via. Eric era tutto quello che mi restava. Lui e il mio odio
per i vampiri. Mi faceva stare bene il pensiero che lui la pensasse come me.
Ma tu, con le tue moine, i tuoi sogni
infantili, e il tuo ottuso ottimismo, gli hai riempito la testa di fantasie e
false certezze. Gli hai fatto credere che i vampiri possono essere buoni. Che
non dovessero essere considerati a priori una minaccia.
E invece, ora, potrebbe essere proprio per mano
di un vampiro che lui morirà.
E tutto per colpa tua. Non lo conosci nemmeno
per davvero e sostieni di amarlo, mi disgusti».
Izumi, pur nel dolore datole dalla crudeltà di
quelle parole, capì quali fossero i sentimenti che si agitavano nella giovane
succube.
«Tu… tu lo ami…»
«Qualsiasi ragazza che non lo ami è cieca. Ma lui
non potrà mai amarmi. Come potrebbe amare un mostro come me?»
«Ti sbagli Nagisa, tu non sei un mostro.»
«E anche se fosse, che importanza ha? Tanto potrebbe
comunque essere morto in poche ore. Ed è colpa tua. Sei un'egoista, lo sai? Sei
riuscita a sottrarmi la mia unica ragione di vita».
Era troppo.
Nagisa aveva ragione.
Tutto era accaduto per causa sua.
Troppe colpe. Troppe responsabilità aveva in
quanto stava succedendo. Non se ne rendeva conto, ma ora che le erano state
sbattute in faccia non poteva non vederle.
Non aveva idea che Nagisa soffrisse così
tanto, né che fosse proprio lei la ragione del suo soffrire. Chissà per quanto
tempo aveva soffocato e represso i suoi sentimenti, e tutto per poter
continuare a svolgere quell’ingrato ruolo di Cane da Guardia del suo signore,
condannata a stargli accanto senza poter mai confessare le sue vere emozioni.
Izumi non ce la fece più. I suoi occhi erano
inondati di pianto, la sua anima atterrita dal peso di quelle crudeli parole e
delle responsabilità che si rendeva conto di avere.
Schiacciata dal dolore, scappò via, seguita
con lo sguardo da Nagisa, che non fece nulla per fermarla.
Emma, intenta a fumare la sua pipa affacciata
al balcone della sua stanza, vide la piccola Izumi attraversare il cancello e
scappare come inseguita da un fantasma invisibile.
Provò a chiamarla, ma non rispose, e in breve
tempo la vide sparire nei boschi circostanti.
Nota
dell’Autore
Eccomi
qua!^_^
Stavolta
sono stato più veloce del previsto, e sono riuscito ad aggiornare in tempi
rapidi.
Come avevo
promesso, siamo tornati alle tematiche e alle atmosfere dei capitoli
precedenti.
Non male
come salto rispetto all’ultimo, non vi pare?
Col
prossimo capitolo chiuderemo la questione delle terme, e credo di poter dire
con una certa percentuale di sicurezza che siamo già al 40% della narrazione,
se non di più.
Con il
racconto della riunione che si svolgerà ad Hokkaido si entrerà davvero nel vivo
della storia.
Grazie a
tutti coloro che leggono e recensiscono.
A presto!^_^
Carlos Olivera