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Autore: Padmini    27/01/2013    6 recensioni
Sherlock è un bambino timido che, nonostante la sua buona volontà, non riesce a farsi nessun amico. Forse per il suo carattere introverso, forse perché si annoia con i giochi dei suoi compagni di classe, forse perché è troppo intelligente e saccente, perfino con le maestre. Forse tutte queste cose insieme.
Eppure, da qualche parte, c'è un amico che aspetta solo lui.
AU Child!Sherlock; Teen!John; Child!Moriarty
Genere: Avventura, Fluff | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Jim Moriarty , John Watson , Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Chi ha letto l'avventura della Casa vuota ha già capito chi è il vecchio con i libri, ma non voglio rivelare troppi dettagli prima della fine, anche se questo capitolo non è l'ultimo, sia chiaro!

Per ora vi auguro buona lettura.

Kiss, Mini.

 

 

 

 

Il vecchio libraio

 

 

 

 

 

John si guardò attorno con aria smarrita. Possibile che quel vecchio avesse fatto cadere apposta il quaderno perché lui lo trovasse? Se sì, perché? Naturalmente tutti ormai lo conoscevano, sia per il blog che aveva scritto sulle sue avventure con Sherlock, sia per il processo in cui era stato coinvolto, ma non capiva il significato di quel gesto.

Tornò a casa quasi correndo e si mise in poltrona con una tazza di tè fumante, poi aprì nuovamente la prima pagina di quel testo.

Non c'erano dubbi, la scrittura era la sua. La data era antecedente di molti anni, precisamente a 28 anni prima. Mille ricordi cominciarono a turbinargli nella mente. Quel racconto era il suo, l'aveva inventato per un bambino solo e spaventato a cui faceva da babysitter e gli era piaciuto così tanto che aveva deciso di scriverlo a mano su un quaderno, lasciando al piccolo l'onore di illustrarne la copertina e i capitoli.

Sfogliò le pagine, soffermandosi più sui disegni che sulla sua scrittura. Erano i disegni di un bambino estremamente creativo, vivace e intelligente. Il bambino che gli era stato affidato tanti anni prima. Tutto ciò gli suonava estremamente dolce, ma c'era qualcosa di stonato.

Il nome. Perché quel nome?

Sherlock Edmund Talbot …

Sherlock …

La testa cominciò a dolergli in modo insopportabile, tanto che fu costretto a chiudere gli occhi. Cercò di rilassarsi, come quando il panico gli stringeva il cuore. Il suo petto si alzava e si abbassava convulsamente perché i suoi pensieri erano confusi e la sua mente non riusciva a reggerne la velocità. La memoria, tanto a lungo cercata, stava tornando prepotente come un fiume in piena. Voleva dormire, voleva rilassarsi, ma non ne fu capace.

All'improvviso tutto fu chiaro.

Aprì gli occhi e si rizzò a sedere. Una nuova consapevolezza si fece strada dentro di lui ma fu solo altro motivo di dolore.

Sherlock sapeva e aveva sempre taciuto. Sapeva che si erano già incontrati e probabilmente grazie all'intercessione di Mycroft era venuto a conoscenza della sua amnesia. Allora perché? Perché non gli aveva detto nulla? Perché aveva preferito restare in silenzio?

Sapere che l'uomo che amava più di chiunque altro al mondo altri non era che quel bambino ricciuto del quale aveva condiviso l'infanzia e l'adolescenza lo gettò nella disperazione più totale. Aveva sofferto terribilmente quando era stato costretto a separarsi da lui per andare a Netley, per terminare i suoi studi e non ci fu più occasione di vederlo prima di partire per l'Afghanistan e poi … la perdita della memoria.

Come aveva potuto dimenticarlo? No, non lo aveva fatto. La sua mente si era scordata di lui, ma il suo cuore no, aveva continuato a serbarne il ricordo e ora che non c'era più tutto il dolore per la sua perdita sembrò amplificarsi di dieci volte e gli sembrò di sentire nuovamente la sua voce, colma di lacrime trattenute, che gli diceva addio dal tetto del Barts.

Grosse e dolorose lacrime cominciarono a scendergli dagli occhi stanchi. Fu come dover affrontare la sua morte una seconda volta. Il dolore lo sfiancò e finì per addormentarsi.

 

 

 

 

 

Si risvegliò più stanco di prima. Controllò il cellulare, ma fortunatamente non c'erano né chiamate perse né messaggi. Cercò di rilassarsi. Non aveva impegni e sentiva di voler stare solo. Tutto attorno a lui si era fatto buio e freddo e nemmeno la coperta di pail lo aiutò a scaldarsi. Il freddo veniva da dentro. Freddo come il marciapiede dove Sherlock si era schiantato, come la sua lapide, nera e definitiva, freddo come il suo cuore.

Non sapeva cosa fare per placare quella sensazione sgradevole che lo paralizzava. Quella rivelazione lo aveva stroncato. Guardò fuori dalla finestra, quella città che aveva rifiutato il suo bimbo. Ormai non riusciva più a pensare a Sherlock se non come al 'suo bimbo'.

In effetti, anche da adulto, aveva dovuto fargli da babysitter. Ripensò a certe sue battute quando si prendeva cura di lui come una mamma con un bambino capriccioso. Faceva finta di prendersela, in realtà se la godeva e sperava che lui capisse, che ricordasse. Quei ricordi lo fecero piangere e ridere insieme. Per la prima volta, da quando lui era morto, pensarci non gli provocò dolore.

Sentì qualcosa di buono, di caldo, avvicinarsi e coccolarlo. Un'aria spessa e dolce, un vento benefico come quello che lo aveva accarezzato davanti al tribunale.

Aveva appena cominciato a bearsi di quella sensazione, quando suonò il campanello.

Nascose il viso con la mano aperta. Non aveva voglia di ricevere visite. Voleva stare solo. Cosa c'era di male in tutto ciò? Evidentemente l'uomo fuori dalla porta non era molto d'accordo perché continuava a suonare imperterrito. Cosa poteva fare? Ignorarlo? No, sarebbe stato più facile alzarsi, dirgli gentilmente di andare a quel paese e chiudere la porta a chiave.

Sì, ottimo programma.

Si alzò e andò svogliatamente ad aprire la porta e si stupì di trovarsi di fronte l'uomo scorbutico che aveva accidentalmente urtato poche ore prima. Cosa ci faceva lì? Cosa voleva da lui?

Non fece in tempo a porsi mentalmente quelle domande, che l'uomo entro prepotentemente in casa sua.

“Salve, dottore. Sono venuto qui per scusarmi per il mio comportamento”

L'uomo era gobbo, indossava gli stessi stracci lisi di prima. I capelli erano una massa di paglia bianca e il viso era segnato da profonde rughe. Gli occhi erano chiari, ma la voce era catarrosa e irritante. John avrebbe dovuto provare disgusto di fronte a quel relitto umano, ma non oppose resistenza. Lo lasciò entrare. L'uomo si sedette in poltrona e si mise comodo, come se si trovasse a casa sua. Portava a tracolla una borsa, che poggiò sul tavolino di fronte. Ne tirò fuori alcuni vecchi libri.

“Ho pensato di farmi perdonare per il mio atteggiamento così poco cortese. Deve sapere, dottore, che ho un piccolo negozietto di libri antichi poco lontano. La vedo sempre, quando va a lavorare, perciò sapevo benissimo dove trovarla. Le ho portato questi libri per scusarmi. Sono tutti pezzi rari, quasi introvabili, ma sono certo che lei sarà capace di apprezzarli come meritano, nevvero?”

John esibì un sorriso di circostanza. Non aveva voglia di leggere vecchi libri muffiti. Voleva solo che quell'uomo se ne andasse il prima possibile, ma non poteva cacciarlo dopo che lui era stato così gentile da andare di persona a scusarsi. Doveva velocizzare quella visita.

“Vuole del tè?” gli domandò, avviandosi verso la cucina senza aspettare risposta.

Cercò di restare in cucina più tempo possibile. Aspettò con pazienza che l'acqua si scaldasse nel bollitore, poi cercò le bustine. Allungò la mano sullo scaffale e scelse due tazze. Tra tutte quelle che poteva scegliere, scelse proprio quelle due. Quelle bianche a righe, blu per lui, nere per Sherlock.

Perché? Le osservò. Non le toccava da … troppo tempo.

Le riempì d'acqua bollente e ci mise in ammollo una bustina ciascuno. Earl Grey. Il suo preferito.

Tornò in salotto portando una tazza per mano e fu per miracolo che non le fece cadere entrambe. Tutto il suo corpo si irrigidì e le nocche si fecero bianche per quanto stringeva i manici delle tazze. Con un gesto meccanico le posò sulla mensola del caminetto, poi crollò.

Abbandonò le braccia sui fianchi e cadde in ginocchio, la vista gli si offuscò e svenne.

 

 

 

 

 

Si risvegliò sentendo l'odore pungente dell'alcool. Si ritrovò seduto in poltrona e la testa gli girava come un dopo sbronza con scazzottata. Sbatté le palpebre due o tre volte, cercando di mettere a fuoco le immagini. Non era possibile, eppure era lì. Era davvero lì! Credette di svenire di nuovo, ma riuscì a restare lucido. inginocchiato con in mano una bottiglia di brandy, c'era lui.

Sherlock Holmes.

Il suo Sherlock.

“Non … non è vero ...”

Lo afferrò per le braccia e sentì i suoi muscoli magri e nervosi. Era vero, concreto, non una di quelle fantasie che la notte gli regalava quando la nostalgia prendeva il sopravvento. Calde lacrime gli bagnarono le guance. Era ammutolito, senza parole. Emozioni contrastanti lo invasero come un fiume in piena. Si sentì travolto da tutto quello.

Rabbia, frustrazione, dolore … ma anche gioia, sollievo e dolcezza. Fu quest'ultima a prevalere su tutte le altre sensazioni. Cominciò a tremare come una foglia, ma quando Sherlock gli posò una mano rassicurante sulla spalla lo carezzò lentamente, gli sembrò che tutto andasse bene.

Non c'era nulla di sbagliato in tutto ciò. Era tutto quello di cui il suo cuore aveva bisogno, ma la sua mente aveva bisogno di risposte.

“Perché?”

Quella domanda riassumeva tutti i suoi dubbi.

Perché aveva finto di morire?

Perché non gli aveva detto niente?

Perché se n'era andato tutto quel tempo?

… ma soprattutto …

Perché era tornato?

“John …” lo guardò e sembrò che non riuscisse a trovare le parole, poi riprese il controllo di sé. Si alzò e parlò con calma, come se l'avesse lasciato solo da poche ore. Non sembrava che fosse sparito per anni. Era giusto un po' più magro di come se lo ricordava, ma per il resto non era cambiato di una virgola.

Il viso era perfettamente sbarbato e gli occhi erano limpidi e lucenti come quando stava per affrontare un nuovo caso. Sembrava inconsapevole dell'inferno in cui l'aveva gettato e ciò lo riempì di rabbia, ma subito gli venne alla memoria il faccino spaventato di quel bambino che si era perso a White Chapel. Anche quella volta era stato divorato dall'angoscia, ma era durata poche ore. La consapevolezza di aver passato tre anni nella disperazione più totale fece prendere il sopravvento alla rabbia.

Si ricordava benissimo il piacere che aveva provato picchiandolo nel vicolo in Belgravia, prima dell'incontro con Irene Adler. Quella volta si trattava di soddisfazione personale, ma in quel caso era pura vendetta. Si alzò in piedi e lo afferrò per il colletto della camicia. Lui non protestò. Si limitò a guardarlo negli occhi.

“Lascia almeno che ti spieghi ...”

Non fece in tempo a finire la frase, che John lo colpì in pieno volto con un pugno micidiale, nonostante lo avesse inferto con la mano sinistra. Sentì un crack e un rivolo di sangue cominciò a scendere dal naso del detective.

Sherlock rimase con la testa inclinata. Guardava un punto indistinto di fronte a sé, rassegnato a ricevere altre botte, che puntualmente arrivarono. Gli diede altri due pugni al viso e poi lo lasciò andare e lo colpì con un destro allo stomaco prima che potesse accasciarsi a terra.

John ansimava per la rabbia e lo sforzo perché aveva messo in quei pugni tutta la sua frustrazione, accumulata in tre anni di sofferenza. Sherlock cercò di rialzarsi ma John lo colpì nuovamente in viso con il dorso della mano.

“Maledetto bastardo! Maledetto bugiardo! Perché? Perché tutto questo silenzio?”

“Dovevo … pro – proteggerti ...”

“Al diavolo!” esclamò lui, riafferrandolo per il bavero e colpendolo nuovamente con un pugno ben assestato “Mi hai mentito! Non mi hai detto nulla, mai! Non parlo solo della tua morte, parlo anche di ...” si interruppe e lo lasciò andare.

Sherlock si inginocchiò ai suoi piedi, e si portò una mano al viso per pulirsi dal sangue.

“Posso parlare, ora?” domandò, puntellandosi con il braccio per mettersi in piedi.

John annuì e Sherlock raggiunse la poltrona, sulla quale si abbandonò respirando a bocca aperta perché il primo colpo gli aveva deviato il setto nasale. Chiuse gli occhi e con un colpo secco lo raddrizzò. Strinse gli occhi per il dolore, ma resistette senza lamentarsi. Di fronte a lui, John lo osservava e cercava di ritrovare la calma. Andò in cucina a passo di marcia per smaltire gli ultimi residui di collera e tornò con cotone e disinfettante, che posò sulle ginocchia dell'amico.

“Avanti! Ti ascolto!”

Si sedette di fronte a lui, con le gambe incrociate e le punte delle dita accostate sotto il mento. A Sherlock sfuggì una lieve risata, vedendo quella buffa imitazione di sé stesso. Si pulì come meglio poté il sangue dal naso e si tastò i punti in cui John lo aveva colpito. Facevano male, ma sapeva di meritarselo.

“James Moriarty, John” disse “Ti ricordi di lui, ora?”

John annuì.

“Mi ricordo di lui” rispose prendendo distrattamente il quaderno del racconto “Mi ricordo di lui, anche se non l'ho mai visto, se non una volta di sfuggita a White Chapel. Mi ricordo anche di quel bambino capriccioso che scappava di casa e non voleva mangiare. Prosegui”

Sherlock annuì e sorrise. Ora sarebbe stato tutto più semplice.

“Mi stava ricattando e sapevo che l'avrebbe fatto, perciò avevo predisposto una via di fuga”

“Cosa intendi dire?” domandò John “Come avrebbe potuto ricattarti? Ormai la tua reputazione era rovinata, non avrebbe potuto fare più danni di così!”

Sherlock lo guardò e il dolore di quel giorno riaffiorò nei suoi occhi.

“Avrebbe ucciso le persone a me più care” disse semplicemente, mentre una lacrima solitaria scendeva sulla sua guancia macchiata di sangue “Tre cecchini, tre pallottole e tre obiettivi. Il principale, il colonnello Sebastian Moran, era destinato all'unica persona che abbia mai amato. Mi teneva sotto controllo. Se non mi fossi buttato, avrebbe fatto fuoco e ordinato agli altri due di fare altrettanto con la signora Hudson e Lestrade. Fintanto che Moriarty fosse stato in vita, non avrei avuto problemi ma lui, nella sua follia, si sparò in bocca proprio di fronte a me. Non avevo via di scampo. Se Moran non mi avesse visto precipitare da quel palazzo, avrebbe sparato e io sarei morto di dolore”

John lo bloccò sollevando la mano.

“Hai detto che Moran ti teneva sotto controllo, ma che contemporaneamente aveva sotto tiro l'unica persona che tu abbia mai amato ...”

Abbassò lo sguardo e arrossì a quel pensiero. No, non poteva essere vero … o sì? Rialzò gli occhi lucidi verso di lui e si morse il labbro, indeciso se continuare. Decise di farlo.

“Tu ti trovavi sopra il tetto del Barts” disse, per richiamare uno schema mentale “Quindi Moran doveva trovarsi nella vicinanze”

Sherlock annuì ma non aggiunse altro. Voleva che fosse lui ad arrivarci.

“Io ero appena arrivato lì davanti” proseguì il dottore, agitando le mani per darsi coraggio “Quindi il bersaglio di Moran, l'unica persona che tu abbia mai amato ...”

Si interruppe e cercò di deglutire. Un grosso nodo aveva preso dimora nella sua gola. Lo sguardo carico d'amore che Sherlock gli lanciò lo libero da ogni dubbio e il nodo si sciolse come per magia.

Parlarono insieme. Quel momento perfetto, fu scandito dalle loro voci nello stesso istante.

“ … ero io”

“ ...sei tu”

   
 
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