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Autore: Eryca    29/01/2013    6 recensioni
Ce ne sono a milioni, di storie.
Ma questa non può essere classificata in nessuna di esse.
Forse, questa, non è nemmeno classificabile come storia.
Eppure deve essere narrata.

*
La realtà può trasformarsi in qualcosa di magico, se solo ci si ferma ad ascoltare, osservare.
Ed è proprio quello che accadrà al protagonista, che intraprenderà un vero e proprio viaggio attraverso la natura, sé stesso, i sentimenti e il mondo che lo circonda.
Una storia fatta di sensazioni, di odori e di personaggi alquanto bizzarri.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Parte IV – La piazza

È un virus, la solitudine.

 

Non c’è bisogno di dire che sono nuovamente sulla ormai nota strada asfaltata, dove convoglia ogni viaggiatore perduto e spaesato. Il mio animo è ancora in subbuglio a causa dell’incontro con la tigre dagli occhi tristi. Dove mi porterà il vento, ora?

Ci sono quelle mattine in cui ci si alza, ci si lavano i denti con la solita cura e precisione, si scelgono i pantaloni più comodi per poter affrontare la lunga e stressante giornata, ci si prepara l’usuale colazione con biscotti e latte macchiato, e poi, invece, la sorte ci gioca uno scherzo demenziale e ci porta a camminare senza meta per la città, guidati da un soffio fresco e puro. Pensavo che sarebbe stata una noiosa giornata come tutte le altre, sì. Le giornate migliori, in fondo, sono quelle inaspettate, quelle che, da apatiche, si trasformano in emozionanti e commoventi. Questi sono i giorni migliori. La svolta c’è stata quando ho messo il piede fuori dal palazzone in cui abito e mi sono reso conto che, al posto della solita passeggiata, avrei aspettato il tram. Poi c’è stata la donna budino, il vagabondo, il fiume e il gufo, il vento che mi ha guidato, la tigre dagli occhi tristi e ora di nuovo questa strada asfaltata. Che cosa magnifica, il caso!

Sussurra nel mio orecchio, il vento. «Andiamo, andiamo.» Sento l’eco della parola appena pronunciata espandersi nell’aria, come se in realtà quel soffio gelido non smettesse mai di bisbigliare, ma continuasse nelle sue particelle infinitesimali.

Mi faccio condurre per la grande via dal mio accompagnatore, che si porta dietro una piccola nube di polvere, quasi a non voler rimanere solo. Avrà una moglie, il vento? Mi dico che forse non è il caso di domandarglielo, sono domande personali, dopotutto.

Io e il mio amico camminiamo fianco a fianco, lui consapevole, io ignaro. Lui inconsistente, io materia. Lui reale, io anche. Zigzaghiamo come due corridori tra i corsi della città, percorrendo viottoli dimenticati dalla società che, in fondo, dimentica un po’ troppo.

Abbandoniamo le vie desolate e ci inoltriamo nel centro città, dove il traffico inizia a prendere possesso della scena, urlando con i suoi clacson, scalpitando con i suoi mezzi di trasporto, impazzendo con i suoi pedoni distratti. Mi chiedo perché la mia guida mi abbia portato nel fulcro della vita mondana, dove teatro e confusione sono protagonisti. Non ho mai amato la folla, il delirio; ho sempre prediletto la calma e la pace. Sono un uomo solitario. Lo sono sempre stato.

Adesso sono proprio nel bel mezzo della ressa, tra Barbie e i suoi sacchetti di Gucci, l’uomo d’affari e il suo auricolare all’orecchio, i bambini accompagnati dalle maestre con gli occhi di falco. Perché, vento? Perché?

Lo sento ridere, il bastardo. «Ancora un piccolo sforzo, suvvia» farfuglia. Continua a spingermi, adesso con più insistenza, mentre mi faccio spazio tra la moltitudine di corpi sudati, profumati, puzzolenti, freschi. Odori, sensazioni. Tutto insieme.

Mi rendo conto che l’emblema della falsità è proprio il centro città e le sue vetrine ne sono la dimostrazione, con i manichini agghindati alla perfezione, i trucchi a nascondere il vero viso delle persone, i vestiti firmati a confondere, i tacchi alti per sembrare meno bassi. Questo è il teatro, è il travestimento e il vento lo sa, me lo sta urlando.

Finalmente arrivo a destinazione: la grande piazza centrale, decorata da una magnifica fontana rinascimentale, un palazzo degno di Versailles e un marasma di persone.

Sono al centro della calca. La giacca di un’anziana signora mi ha appena sfiorato il braccio. Ora, quello zingaro si sta avvicinando per fare l’elemosina, ma io non ho soldi, così alzo la mano in segno di scuse e mi sposto sulla sinistra, perché non voglio rogne. Un gruppetto di adolescenti ride esageratamente, mentre la maggior parte di loro fumano avidamente dalle sigarette che, molto probabilmente, neanche apprezzano troppo, ma comprano per poter sentirsi più grandi, più partecipi della finzione del centro città. Vicino a me, una coppia di innamorati si bacia teneramente sulla bocca, baci lievi e casti, non vogliono dare fastidio alla gente: li invidio, si amano.

E io?

Io, in tutto questo, mi rendo conto di essere circondato da persone, di poter sentire voci, discorsi, profumi, sensazioni, gesti. Sono al centro della vita. Sono in compagnia.

Sono solo. Solo come non mai.

«Perché, vento?» urlo disperato, questa volta ad alta voce, così che il diretto interessato possa sentirmi e rispondermi, darmi una spiegazione. Me la merito.

«Questa è solitudine. Non vedi?» soffia «Queste persone credono di potersi sentire meno sole fingendo. Ma è solitudine, questa. È la solitudine peggiore. La vedi?»

Scuoto la testa. «Non la vedo, vento. Io la sento.» Ed è vero. Non è un osservazione, ma è una sensazione che entra nella pelle, nell’anima e nel cuore, penetra i miei organi interni e prolifica nell’intestino, come un verme, e sta lì, vive a mio discapito. È un virus, la solitudine. Un epidemia, in questo caso. E io non posso fermarla.

Come si può credere di combatterla con la finzione? Recitare una parte di teatro, uscendo con gli amici e ridendo, non aiuterà a sentirsi meno solo, anzi, amplificherà in maniera acuta questa condizione. Diventerai la solitudine.

Mi sento come la tigre dagli occhi tristi: sola al mondo, chiusa in una gabbia. Come posso fare per fuggire da questa società? Tutta questa gente sola mi mette un senso di disperazione addosso, come un vestito, la sento su di me.

«Vento, vento, amico mio...» chiamo angosciato «...basta, ti prego...portami via.» Il vento non ride, questa volta, ma sento che piange in silenzio, senza che nessuno oltre a me lo possa sentire.

È triste di questa solitudine, il vento. Lui è abituato a viaggiare solo, nonostante sia in compagnia, perché le persone lo percepiscono ma non lo considerano: deve soffiare forte e fare disastri, perché la gente si accorga della sua presenza. Il vento è solo e ha voluto farmi provare tutta la sua depressione.

«Capisci ora?» Un goccia mi sfiora la guancia e mi rendo conto che il cielo sta piangendo per il suo caro amico, condannato ad un’eternità di invisibilità.

«Ho sempre capito.»

Mi prende la mano, il soffio, e mi porta via, cercando di allontanarmi da tutta quell’ emarginazione. Senza successo, però.

Perché la solitudine è in me.

 

*

Note

Non ho intenzione di aggiungere parole superflue: credo che il testo parli da sé.

Questo era l’ultimo capitolo, il prossimo e conclusivo sarà solamente il prologo, per chiudere in bellezza – si spera – questa piccola follia.

Grazie a chi mi segue,

un abbraccio,

Eryca.

   
 
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