Parte
IV – La piazza
È un
virus, la solitudine.
Non
c’è bisogno di dire che sono nuovamente sulla
ormai nota
strada asfaltata, dove convoglia ogni viaggiatore perduto e spaesato.
Il mio
animo è ancora in subbuglio a causa dell’incontro
con la tigre dagli occhi
tristi. Dove mi porterà il vento, ora?
Ci sono quelle
mattine in cui ci si alza, ci si lavano i
denti con la solita cura e precisione, si scelgono i pantaloni
più comodi per
poter affrontare la lunga e stressante giornata, ci si prepara
l’usuale
colazione con biscotti e latte macchiato, e poi, invece, la sorte ci
gioca uno
scherzo demenziale e ci porta a camminare senza meta per la
città, guidati da
un soffio fresco e puro. Pensavo che sarebbe stata una noiosa giornata
come
tutte le altre, sì. Le giornate migliori, in fondo, sono
quelle inaspettate,
quelle che, da apatiche, si trasformano in emozionanti e commoventi.
Questi
sono i giorni migliori. La svolta c’è stata quando
ho messo il piede fuori dal
palazzone in cui abito e mi sono reso conto che, al posto della solita
passeggiata, avrei aspettato il tram. Poi c’è
stata la donna budino, il
vagabondo, il fiume e il gufo, il vento che mi ha guidato, la tigre
dagli occhi
tristi e ora di nuovo questa strada asfaltata. Che cosa magnifica, il
caso!
Sussurra nel mio
orecchio, il vento. «Andiamo, andiamo.»
Sento l’eco della parola appena pronunciata espandersi
nell’aria, come se in
realtà quel soffio gelido non smettesse mai di bisbigliare,
ma continuasse
nelle sue particelle infinitesimali.
Mi faccio
condurre per la grande via dal mio accompagnatore,
che si porta dietro una piccola nube di polvere, quasi a non voler
rimanere
solo. Avrà una moglie, il vento? Mi dico che forse non
è il caso di
domandarglielo, sono domande personali, dopotutto.
Io e il mio
amico camminiamo fianco a fianco, lui
consapevole, io ignaro. Lui inconsistente, io materia. Lui reale, io
anche. Zigzaghiamo
come due corridori tra i corsi della città, percorrendo
viottoli dimenticati
dalla società che, in fondo, dimentica un po’
troppo.
Abbandoniamo le
vie desolate e ci inoltriamo nel centro
città, dove il traffico inizia a prendere possesso della
scena, urlando con i
suoi clacson, scalpitando con i suoi mezzi di trasporto, impazzendo con
i suoi
pedoni distratti. Mi chiedo perché la mia guida mi abbia
portato nel fulcro
della vita mondana, dove teatro e confusione sono protagonisti. Non ho
mai
amato la folla, il delirio; ho sempre prediletto la calma e la pace.
Sono un
uomo solitario. Lo sono sempre stato.
Adesso sono
proprio nel bel mezzo della ressa, tra Barbie e
i suoi sacchetti di Gucci, l’uomo d’affari e il suo
auricolare all’orecchio, i
bambini accompagnati dalle maestre con gli occhi di falco.
Perché, vento?
Perché?
Lo sento ridere,
il bastardo. «Ancora un piccolo sforzo,
suvvia» farfuglia. Continua a spingermi, adesso con
più insistenza, mentre mi
faccio spazio tra la moltitudine di corpi sudati, profumati,
puzzolenti,
freschi. Odori, sensazioni. Tutto insieme.
Mi rendo conto
che l’emblema della falsità è proprio
il
centro città e le sue vetrine ne sono la dimostrazione, con
i manichini
agghindati alla perfezione, i trucchi a nascondere il vero viso delle
persone,
i vestiti firmati a confondere, i tacchi alti per sembrare meno bassi.
Questo è
il teatro, è il travestimento e il vento lo sa, me lo sta
urlando.
Finalmente
arrivo a destinazione: la grande piazza centrale,
decorata da una magnifica fontana rinascimentale, un palazzo degno di
Versailles e un marasma di persone.
Sono al centro
della calca. La giacca di un’anziana signora
mi ha appena sfiorato il braccio. Ora, quello zingaro si sta
avvicinando per
fare l’elemosina, ma io non ho soldi, così alzo la
mano in segno di scuse e mi
sposto sulla sinistra, perché non voglio rogne. Un gruppetto
di adolescenti
ride esageratamente, mentre la maggior parte di loro fumano avidamente
dalle
sigarette che, molto probabilmente, neanche apprezzano troppo, ma
comprano per
poter sentirsi più grandi, più partecipi della
finzione del centro città.
Vicino a me, una coppia di innamorati si bacia teneramente sulla bocca,
baci
lievi e casti, non vogliono dare fastidio alla gente: li invidio, si
amano.
E io?
Io, in tutto
questo, mi rendo conto di essere circondato da
persone, di poter sentire voci, discorsi, profumi, sensazioni, gesti.
Sono al
centro della vita. Sono in compagnia.
Sono solo. Solo
come non mai.
«Perché,
vento?» urlo disperato, questa volta ad alta voce,
così che il diretto interessato possa sentirmi e
rispondermi, darmi una
spiegazione. Me la merito.
«Questa
è solitudine. Non vedi?» soffia «Queste
persone
credono di potersi sentire meno sole fingendo. Ma è
solitudine, questa. È la
solitudine peggiore. La vedi?»
Scuoto la testa.
«Non la vedo, vento. Io la sento.» Ed è
vero. Non è un osservazione, ma è una sensazione
che entra nella pelle,
nell’anima e nel cuore, penetra i miei organi interni e
prolifica
nell’intestino, come un verme, e sta lì, vive a
mio discapito. È un virus, la
solitudine. Un epidemia, in questo caso. E io non posso fermarla.
Come si
può credere di combatterla con la finzione? Recitare
una parte di teatro, uscendo con gli amici e ridendo, non
aiuterà a sentirsi
meno solo, anzi, amplificherà in maniera acuta questa
condizione. Diventerai la solitudine.
Mi sento come la
tigre dagli occhi tristi: sola al mondo,
chiusa in una gabbia. Come posso fare per fuggire da questa
società? Tutta
questa gente sola mi mette un senso di disperazione addosso, come un
vestito,
la sento su di me.
«Vento,
vento, amico mio...» chiamo angosciato «...basta,
ti
prego...portami via.» Il vento non ride, questa volta, ma
sento che piange in
silenzio, senza che nessuno oltre a me lo possa sentire.
È
triste di questa solitudine, il vento. Lui è abituato a
viaggiare solo, nonostante sia in compagnia, perché le
persone lo percepiscono
ma non lo considerano: deve soffiare forte e fare disastri,
perché la gente si
accorga della sua presenza. Il vento è solo e ha voluto
farmi provare tutta la
sua depressione.
«Capisci
ora?» Un goccia mi sfiora la guancia e mi rendo
conto che il cielo sta piangendo per il suo caro amico, condannato ad
un’eternità di invisibilità.
«Ho
sempre capito.»
Mi prende la
mano, il soffio, e mi porta via, cercando di
allontanarmi da tutta quell’ emarginazione. Senza successo,
però.
Perché
la solitudine è in me.
*
Note
Non ho
intenzione di aggiungere parole
superflue: credo che il testo parli da sé.
Questo era
l’ultimo capitolo, il prossimo e
conclusivo sarà solamente il prologo, per chiudere in
bellezza – si spera –
questa piccola follia.
Grazie a chi mi
segue,
un abbraccio,
Eryca.