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Autore: EliCF    29/01/2013    6 recensioni
"Il mio nome è Blaine Anderson, ma questo lo sai già.
Sono stato insultato, preso a calci e picchiato. Sono scappato da demoni, ho dovuto accettare compromessi e sono stato messo in gabbia. Ho accettato di affrontare incubi per un uomo che avrei conosciuto solo un giorno… l'uomo di cui mi sono innamorato. Ho cantato canzoni d'amore. Sono stato in piedi di fronte a folle, forte e senza paura. Ho vissuto, ho amato, sto ancora combattendo la mia guerra. Il mio nome è Blaine Anderson. E sono l'eroe di qualcuno."
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Blaine Anderson, Cooper Anderson, Kurt Hummel, Nuovo personaggio | Coppie: Blaine/Kurt
Note: AU, Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Daddy, I’m just-

Un uomo sulla quarantina si stringeva nervosamente le mani nelle mani. I capelli scuri iniziavano a diventare brizzolati, gli occhi erano scuri e profondi ed esibiva una statura piuttosto modesta.

Se ne stava in piedi davanti a una porta chiusa. Era semplice nella sua laccatura bianca e aveva delle scanalature lungo i bordi. La maniglia di ottone era rotonda, dalla serratura si intravedeva la luce che doveva invadere la stanza dall’interno. Sospirò un’ultima volta asciugandosi  le mani sudaticce sui pantaloni grigi e, senza bussare, aprì la porta.

---

Il ragazzo che si pizzicava nervosamente i palmi delle mani sembrava sul punto di avere una crisi di nervi.

Aveva i capelli scuri ma senza l’accenno dei colori del tempo, gli occhi altrettanto scuri ma macchiati di verde. Era piuttosto basso ma, alla luce dei suoi quindici anni, si dichiarava ancora speranzoso.
Se non fosse cresciuto, si sarebbe accontentato di essere definito un hobbit carino.

Aveva seriamente bisogno di far spazio nell’armadio. Stava approfittando di quella domenica mattina per scartare jeans, t-shirt, camicie e bretelle che non avrebbe più indossato.
Purtroppo fino a quel momento aveva avuto il cuore di mettere via solo una t-shirt verde mela e paio di pantaloni che una volta dovevano essere stati bianchi, ma che in quel momento sfoggiavano un rosa tenue. Colpa dei lavaggi in lavatrice e che diamine.

Sospirò di fronte al mare di indumenti che aveva riversato sul letto e si passò una mano tra i capelli, sentendosi a disagio per la mancanza di gel. Dopotutto erano solo le nove di mattina, era ancora in pigiama e non aveva fatto colazione. Davvero non era quello il momento di occuparsi delle vertigini che aveva in testa.

Mise via a malincuore un paio di pantaloni grigi un po’ larghi alle caviglie e si stropicciò gli occhi, ancora assonnato. A malapena riusciva a distinguere i poster che tappezzavano la porta dall’interno. Era buffo pensare a come quella stessa porta dall’altro lato apparisse così semplice e anonima, mentre nel volto che rivolgeva nella sua stanza mostrava tutta la sua eccentricità.

C’era la locandina di Cats che lo fissava con grandi occhi gialli proprio di fianco ad una manciata di stelle filanti raccolte dal pavimento dopo la prima visione di The Beauty and The Beast e attaccate con il nastro adesivo. C’era quel calendario fermo da un anno e più sul mese di febbraio solo perché c’era la foto di Ramin Karimloo a petto scoperto, che era riuscito a farsi autografare quella volta che lo aveva incontrato dopo un suo concerto.

Non aveva potuto assistere allo spettacolo. Era a Londra , lui era lì con la scuola ed era già stato abbastanza difficile evadere dall’albergo per quei venti minuti.
Era stato difficile, ma non come fu difficile convincere i suoi genitori a lasciarlo andare in gita con gli altri ragazzi.

“Che necessità c’è di andare a visitare Londra se ci andiamo ogni volta in cui tuo fratello ha una rappresentazione lì?”

“C’è la necessità di andarci da solo, mamma! Quando ti arrenderai al fatto che io stia crescendo e abbia bisogno del mio spazio? Abbiamo abbastanza soldi per mandarmi a fare il giro dell’Europa e di tutto il mondo!”

La sua povera madre non poteva mica sapere che il suo piano era quello di sopportare dieci giorni in compagnia con i suoi orribili compagni di corso in cambio di quei quattro secondi che Ramin avrebbe impiegato a firmare un foglio?
Semplicemente, l’aveva avuta vinta. Impossibile fermare un fanboy, specie se gli hanno tolto il concerto del secolo.

Calendari a parte, quella camera era un disastro. Tutti i suoi papillon conservati segretamente in una scatola sotto il letto ora erano sparsi tra la scrivania e la prima mensola dell’armadio, le bretelle – avrebbe potuto costruire tredici molle per  bungee jumping considerate tutte le bretelle che aveva – erano allineate sul pavimento, le magliette, le camicie e i pantaloni lo guardavano dal letto e gli chiedevano pietà, aria, respiro.

Ma fu a lui che mancò il respirò quando suo padre fece capolino in camera senza alcun preavviso.

Da quando non si usava più bussare? Non che in casa sua ce ne fosse mai stato il bisogno, ognuno si è sempre fatto i fatti suoi. Nessuno piombava in camera sua perché a nessuno interessava farlo, insomma.

“Papà.” Sarebbe dovuto suonare come un saluto ma, in realtà, parve come un lamento alle orecchie di entrambi.

Era un “Papà, non avresti dovuto vedere questo” quello che risuonò nella mente di Blaine. Al contrario, il padre si aspettava una… cosa del genere, così sentì solo una voce lontana e vagamente somigliante a quella del figlio mentre farfugliava “Papà, arrenditi. Sarò sempre troppo diverso dal figlio che ti eri immaginato.”

Blaine lesse lo sgomento e la pacata delusione nel viso del padre: nelle labbra increspate e tremanti, nelle braccia inermi lungo i fianchi, nello sguardo che guizzava da un indumento strano all’altro.
Si sentì come un ladro che è appena stato scoperto, un traditore, un assassino. Fu come se suo padre avesse scoperto del suo progetto di mettere in scena la versione ridotta di Spring Awakening o - PEGGIO – lo avesse beccato nel bel mezzo di una delle sue maratone di Queer As Folk.

Eppure no, insomma, cosa c’era da vergognarsi? Perché arrossire fino alla punta delle orecchie? Erano solo vestiti – i più erano colorati in modo improbabile, certo – e centinaia di paia di bretelle, diamine.
Era davvero così necessario strizzare gli occhi in quel modo?

“Ecco che fine fanno i tuoi cinquanta dollari di paghetta…”

Quella storia non avrebbe avuto mai fine. La storia di come Blaine arraffava la sua somma mensile e la sperperava tutta in tre sessioni di shopping in solitaria e la storia di come sua madre facesse finta di non accorgersene e la storia di come suo padre non se ne accorgesse sul serio. Ma faceva dei sacrifici: niente schifezze al distributore della scuola, niente uscite al pub il venerdì sera, solo shopping. Ed ecco a cosa lo avevano portato le ultime ventiquattro visite fatte a quel negozio di GAP in centro.  Se qualcuno avesse detto che era solo per quel commesso biondino Blaine avrebbe negato fino alla morte, per inciso. Era troppo vecchio! Avrà avuto diciotto anni.

“Ha- Hai bisogno di qualcosa?” farfugliò abbracciando una manciata di sciarpe e buttandole sotto il letto. Il padre sembrò svegliarsi da uno stato di trance quando rispose. “Sì, sì. Di te.”

A Blaine cadde la giacca di pelle dalle mani. “Il motore è a pezzi e Cooper è fuori per quello stage sulla dizione inglese”.

Gli aveva detto di non andarci. Adesso, oltre ad essere completamente inutile, quello stage si stava rivelando anche distruttivo, seminatore di discordia. Tra l’altro, il solo pensiero di ritrovarsi un Cooper dall’accento britannico gli diede la nausea.

Suo padre aveva detto motore. Oh, auto. Si era di nuovo rotta l’auto. E suo padre gli aveva appena detto che Cooper non c’era. Oh certo, Cooper. Il figlio speciale, quello che studiava per diventare attore. O forse era solo una sua impressione? Che quello diverso fosse Cooper, insomma. Magari Coop era quello normale. Magari era Blaine quello diverso. Quello malato. Quello da aggiustare a suon di motori da riparare.

Quello doveva essere solo il primo motore rotto di una serie di motori che avrebbero continuato a rompersi nella speranza di farlo diventare, ritornare normale, e Cooper non ci sarebbe mai stato perché, davvero, quegli stage su come parlare, muoversi, puntare il dito, non sarebbero finiti mai. Come se non si compiessero gli stessi gesti che si compiono nella vita normale, davanti ad una telecamera.

“Beh sì certo. Sì, certo. Però lo sai che non so niente di motori-“

“Non preoccuparti. Voglio dire… preoccupati solo di metterti qualcosa di comodo perché ci sarà da sporcarsi parecchio!” e se ne andò così, senza aggiungere altro, come era arrivato.

Fantastico.

Blaine non seppe se essere più sollevato dal fatto di essere di nuovo solo o da quello di aver trovato un nuovo impiego per quella t-shirt e quei pantaloni scambiati che stava per buttare via.

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Avrebbe dovuto dire di no.

Avrebbe dovuto dire di essere assolutamente troppo impegnato con tutta quella stoffa da sistemare e suo padre si sarebbe messo il cuore in pace senza dover passare per tutti quei “Allora, ragazze?” e “La figlia della signora Swan è diventata una ragazza davvero carina”.

Papà, sono solo… gay. Ma sono sempre tuo figlio.

“Papà, sono gay. Ne abbiamo parlato tempo fa e non capisco perché continui a far finta di non aver capito.”

Lo aveva costretto. Si era sentito come un uccello messo in una gabbia senz’acqua. Non avrebbe resistito un attimo di più.

“Ma hai quindici anni, Blaine. Come puoi sapere cosa-“

“Lo so e basta” tagliò corto lui, “come tu hai sempre saputo che io non sarei mai stato perfetto come Cooper. Beh, non lo sono. Non sono Cooper e mi dispiace infinitamente deludervi, ma-“

“Nessuno ha mai parlato di tuo fratello-“

E avevano continuato ad interrompersi fino a che sua nonna, il motivo fondamentale per cui suo padre aveva bisogno di rimettere in moto l’auto, arrivò a piedi direttamente da casa sua.  Aveva giustificato il suo atto eroico con un: “Venite a mangiare ogni domenica a casa mia e mi costringete ai lavoracci. Mi sarei scocciata di lavare i piatti per tutti e quattro per la quinta settimana di fila”.
 
Le nuore servono a questo, dopotutto.

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Quell’ultimo tentativo di degayzzare Blaine si era trasformato in una totale sconfitta.
Sia per lui, che si era arreso all’idea di un’accettazione solo passiva da parte dei genitori, sia del padre, che si era arreso all’idea di avere un figlio a cui proprio non andava di fare cose normali.

Avrebbe potuto fare quello che voleva. L’avrebbe protetto, l’avrebbe sostenuto se ce ne fosse stata ragione. L’avrebbe lasciato scegliere dove trascorrere il suo compleanno e le vacanze di Natale. Avrebbe fatto tutto quello che un padre responsabile farebbe per il figlio, niente di meno ma niente di più. Avrebbe fatto quello che gli avrebbe permesso di vivere senza rimorsi.

Avrebbe affrontato una vita in solitaria, il giovane Blaine. E avrebbe sempre ripianto il rapporto che avrebbe potuto coltivare, se solo avesse avuto un altro padre.

Burt Hummel aveva una testa enorme. Davvero grande e senza capelli. Doveva essere per quello che era così intelligente ed aperto. E doveva avere anche un grande cuore, perché sembrava davvero imbarazzato dal discorso che stavano avendo.

Forse Blaine si era gettato una zappa sui piedi ogni volta in cui aveva insistito con quella storia del rapporto padre-figlio che avrebbe potuto salvare Kurt dalla disinformazione. Era stato davvero brutto e deprimente doversi andare a cercare quelle informazioni su internet, specie se non si sa cancellare la cronologia del pc, per non parlare di quanto si sarebbe sentito sporco nei giorni successivi. Non avrebbe mai augurato a Kurt una sensazione del genere, senza contare che nemmeno stesse correndo il rischio, perché Kurt non avrebbe cercato un bel niente.

Ma in questo modo correva un rischio ancora più grande.

“Non immagina quanto invidi il rapporto che avete voi due. Mio padre non ha sistemato quell’auto con me perché gli piaceva… lo ha fatto solo perché credeva che sporcandomi le mani sarei diventato etero.”

E pronunciare quella frase lo rese incredibilmente triste. No, Kurt non avrebbe mai vissuto una situazione del genere e Blaine lo sapeva.

Burt Hummel non lo avrebbe permesso.




nda: Questa shot l’ho scritta tre ore fa e mi chiedo ancora perché non ne ho pubblicata una delle due già pronte invece di scapizzarmi a scrivere all’ultimo minuto. Ah, già: perché ieri ho passato la serata a sclerare.
Comunque! Ecco a voi (sono puntuale, eh?) la quinta shot. In serbo per voi ne ho altre due, salvo imprevisti. L’idea iniziale era quella di arrivare a sette (dal titolo della fic che richiama il tema portante della settima puntata della quarta serie… lo so, sto male) ma se dovesse venirmi qualche altra idea sarò felice di scrivere ancora e ancora! Tra l’altro, siccome sono una fissatona di raccolte, è possibile che ne parta un’altra incentrata su un altro personaggio… just saying.
Come al solito ringrazio chi continua a recensire, seguire, ricordare, preferire e, più semplicemente, leggere. E’ l’appuntamento della settimana più bello, quello del martedì.

La mia compagna di classe bravissima e adorata mi ha partorito un’altra (la prima la pubblicherò in allegato all’ultimo capitolo… tanta roba!) fanart, ispirata alla shot precedente. Ma è un po’ per tutti voi. Peccato non avere lo scanner. Fanart semplice ma figa!

Buon martedì sera! E buona 4x12 in anticipo!
   
 
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