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Autore: TheMask    01/02/2013    0 recensioni
Bene, buon salve Efpiani sul fandom del death note!
Questa fan fiction, è collegata a Bakup: http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=828114&i=1
Ma anche se non l'avete letta, potete comodamente capire questa.
Si è a tre mesi dalla morte di Mina, una componente di un gruppo di amici formatosi in un orfanotrofio/gabbia-di-matti diretto da un satanicissimo Wammi. Il sudddetto orfanotrofio, è stato fatto chiudere per via di metodi non molto ortodossi usati la dentro sui ragazzi e bambini.
BB decide di tornare nella camera di Mina, sua grande amica, cercando qualcosa come un diario che gli sveli il misterioso passato di essa e trova molto molto di più...
Avverto che lo stile non è come quello di Bakup, ma forse un po' più... sviluppato. Spero ancora che vi piaccia! :D
Estratto:
Mina era morta da tre mesi precisi quel giorno. Il giorno in cui con un grande sforzo, declinando l’invito di L a venire con me, ero uscito di casa con una grande borsa nera sulla spalla, salito in macchina e guidato fino al grande edificio circondato da un prato ormai selvaggio con una grande targa dorata sul cancello: la casa di Wammy.
Genere: Dark, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai, Shoujo-ai | Personaggi: Beyond Birthday, L, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Tornai a casa per cena, quel giorno. Entrato in casa, mi accorsi che c’era qualcosa di strano: L non era, come suo solito, al pc a risolvere casi. Questo perché amando così tanto il suo lavoro spesso non si accorgeva del tempo che passava  e se non ci fossi stato io a ricordagli di mangiare non si sarebbe più staccato dalle sue elucubrazioni.
Vagamente preoccupato e incuriosito, mi diressi in sala, ma anche li, non lo trovai.
“L?” chiamai. Nessuno rispose.
Mi affacciai alla cucina e rimasi a bocca aperta.
La tavola di legno era stata coperta con una tovaglia a scacchi blu e bianchi, sopra la quale stavano portate di ogni ben di dio per due. Si passava da un leggero antipasto, al primo, a due secondi e infine alla frutta e i dolci. Improvvisamente mi accorsi di avere fame. All’improvviso L comparve, dalla porta della dispensa, con un grembiule un po’ sporco in mano e un timido sorriso.
“L? tu hai fatto tutto questo?” gli chiesi stupito.
“Certo, non te l’aspettavi?”
“Sinceramente… no.”
“Beh, buon compleanno Beyond.” Ribatté dolcemente, invitandomi a sedere.
“Compleanno? Oh, me lo ero totalmente dimenticato… ”
“Immaginavo. Comunque, si, oggi è il tuo compleanno. Prego, accomodati.”
Fu una serata splendida e il suo regalo fu squisito. Dove aveva imparato a cucinare, poi, era un mistero.
Fatto sta che il mattino dopo arrivò un regalo dai nostri amici per il mio compleanno. Non me lo aspettavo e invece si erano uniti e mi avevano regalato una ironica fornitura di marmellata di fragole per tre anni. naturalmente ero in estasi.
“Allora, pensi ancora che non siamo più come prima?” mi chiese L.
“Credo solo che siamo diversi, ma tutto ciò… ”
Non seppi concludere la frase che sentivo solo come concetto astratto, ma scommetto che L capì. La giornata successiva, L mi aveva garantito un giorno libero da impegni e per la mattinata, decidemmo di andare avanti a leggere il diario di Mina, curiosi di sapere come fosse stato il suo passato.

 

Mi svegliai alle prime luci del mattino e mi alzai in fretta. Poi mi ricordai dov’ero e andai a cercare un bagno con Nacho che mi seguiva, facendo ticchettare le unghie sul pavimento. Vidi molte altre porte, ma tutte chiuse. Finalmente trovai il bagno, e per poco non mi stupii della sua pulizia: mi aspettavo uno schifo. Solo guardandomi allo specchio mi resi conto di quanto ero sporca e mi infilai subito in doccia. Ne uscii appena dieci minuti dopo e me ne ci vollero appena altri cinque per vestirmi e andare a fare colazione sempre col cane al seguito, ormai è inutile dirlo. Trovai una mensa alla fine del corridoio, composta da un lungo tavolo verde e una serie di sedie. Ma niente cibo. All’improvviso ricordai di aver visto un foglio sulla scrivania, magari diceva quando servivano la colazione. Così mi fiondai in camera mia e andai a vedere: avevo ragione: sul foglio erano scritte a chiare lettere tutte le regole da rispettare la dentro, inclusa quella che diceva che la colazione era servita dalle nove e mezza, alle dieci e mezza. E in quel momento sospettavo che fossero appena le sette di mattina. Andai dunque a fare due passi con Nacho, per rendermi conto di quale zona circondasse la mia nuova casa. Mi chiedevo spesso chi fosse stato a darmi quell’indirizzo, visto che non l’avevo neanche guardato in volto per un istante, troppo concentrata a cantare. Che faccia avrà avuto?, pensavo fra me e me richiamando Nacho, allontanatosi troppo. Cosa l’avrà mai spinto a farmi questo favore?, continuavo, scusandomi con un signore per essere stato investito da qualcosa di nero e fulmineo. Conclusi in fretta che era inutile stare troppo a preoccuparsi e sgridando severamente Nacho per aver inseguito un gatto randagio, decisi di tornare a casa. Casa. Che strano per me utilizzare di nuovo quel termine. Anche solo nei pensieri, sentivo una sorta di estraneità con quel vocabolo.
Cosa vuol dire alla fine casa? Vuol dire protezione? Vuol dire stare a proprio agio? O vuol dire solo “posto fisso dove stare”? Non può essere la stessa cosa con questa casa e con la mia casa passata, mi dicevo.
Salendo le lerce scale, canticchiavo una canzone dei Sonata Artica: Shy. Mi era piaciuta dal primo istante quella canzone. Ricordo che me l’aveva fatta ascoltare la mia più grande amica, chiedendomi di cantargliela. E così l’avevo imparata ed era per me stata una canzone piena di significato dal punto di vista dell’evoluzione della mia voce. entrai nella mia camera e trovai ancora una volta conforto nelle parole di Shakespeare, le quali mi fecero davvero sentire a casa. Allora forse una casa altro non è che… familiarità assoluta con il luogo in cui sei. È forse per questo che molti ragazzi, conoscendo al meglio una zona di Londra dicono “Questa zona è casa mia”?
Per trovare ancora più conforto in quella camera che ad un tratto non sentivo mia in tutta se stessa (dal letto su cui ero seduta, alle crepe del muro, alla porta accostata, alla lampadina che penzolava sulla mia testa come una pena capitale), presi fra le braccia la mia chitarra e la accordai con movimenti che volevano essere calmi. Conoscevo quei tasti come le mie tasche ormai, pensai. Cominciai a fare qualche accordo, senza riuscire a decidere che canzone suonare. Infine scelsi per un cantautore che avevo sempre amato: Fabrizio de André.  Come conoscevo un artista italiano? Mia madre, alla quale ora con riluttanza pensavo, era italiana e mi aveva fatto crescere con questo sottofondo. Certo, non avevo molta familiarità con l’italiano, ma le parole di quelle canzone invece, mi sembravano poesia più che italiano, anche senza capire completamente il senso di queste.
http://www.youtube.com/watch?v=2kNwJX6E7pE
E naturalmente, appena potuto, per lei avevo imparato quella canzone di Faber che preferiva fra tutte. Non so se fosse per la musicalità, per le parole o per l’insieme. Ma che sorriso aveva, quando la cantavo!
Cantando, chiusi gli occhi istintivamente, per lasciarmi cullare dal suono che producevo e trovare in esso consolazione alla nostalgia che mi era sovvenuta come un pugno nello stomaco.
Erano tutti schierati davanti alle mie palpebre, neanche avessero aspettato quella canzone per comparire.
Mia madre, mio padre, le mie tre amiche, il mio amico con il suo basso…
Li vedevo dentro la testa come immagini nitide e chiare, piene di volontà.
Mi fermai di botto, decisa a continuare con la mia abnegazione alla nostalgia, così distruttiva per me, nella situazione in cui mi trovavo. Ma mi accorsi che era troppo tardi: avevo già cominciato a versare lacrime.
Mi misi la testa fra le mani tentando di non pensare ad altro che al posto in cui mi trovavo. Non al futuro, non al passato, ma al presente. Assolutamente i piedi a terra, mi dicevo. Ma non riuscivo a smettere di piangere, per qualche incantesimo dei miei purtroppo sdolcinati pensieri, che in quel momento non mi aiutavano affatto. Fu in quel momento che vidi i piedi di qualcuno davanti alla mia porta, attraverso i capelli verdi. Due anfibi graffiati e logori con il tacco ormai consumato per metà e dei pantaloni stracciati sistemati alla meglio.
Alzai la testa stupita e incontrai un paio di occhi scuri e un caschetto di capelli azzurri. Era una ragazza che avrà avuto la mia età, forse un po’ più piccola. Mi fissava con l’ombra di un sorriso sul volto.
“Chi sei?” le chiesi irritata con lei e con me. Ma questo non sembrò spaventarla, tutt’altro.
“Oh, ciao, io sono Amy!” esclamò infatti, avvicinandosi a passi pensanti e porgendomi la mano con un largo sorriso. Ma prima di stringergliela, le chiesi bruscamente cosa ci facesse in camera mia.
“Beh, avevo sentito qualcuno cantare in una lingua che non conoscevo, ma mi piaceva, così sono venuta a vedere. Scusami se ti ho disturbato! Vuoi venire a vedere la mia camera?”
“Emmm… certo.” Risposi: sembrava in buona fede.
La seguii per il corridoio, fino a una delle tante porte, che aprì come se fosse l’entrata di un palazzo. Sembrava felice di mostrarmela, quasi infantile. In effetti guardandola bene mi accorsi che non poteva avere che dodici anni massimo. Com’era finita li?, mi chiesi, con un po’ di tristezza. Con un larghissimo sorriso mi stava mostrando un letto a castello, una scrivania e una libreria.
“Guarda, questo è il mio preferito!” esclamò contenta, porgendomi una vecchia edizione di Jane Eyre.
“Davvero? L’hai trovato qua?”
“No… no, era di casa dello zio Tony.” Disse con un’ombra sul viso, al ricordo del passato.
Mi diedi della stupida almeno venti volte.
“Mi dispiace… come ti chiami?” le chiesi, tentando di sviare l’argomento.
“Amy, te l’ho già detto, tu?” rispose con un altro sorriso, apparentemente dimentica della figuraccia che avevo fatto poco prima.
“Io… io mi chiamo Mina” dissi, inventandomi un nome sul momento: non volevo avere niente a che fare con il passato. Eh già amici, non era il mio nome. Ma da quel momento lo è stato, allo stesso modo che me l’avessero dato alla nascita. Come se quel nome stesse aspettando solo di venire fuori.
“Che bel nome Mina, io il mio l’ho sempre odiato. Se invece avessi un nome interessante come il tuo… ”
“E come vorresti chiamarti?”
“Suzanne mi piace molto! O se no Joanna! Tu non hai mai voluto cambiare nome?”
“No, mai. Posso chiederti se sei in stanza con qualcuno? È che vedo il letto a castello.”
“Si, con me c’è mia sorella, Linda. Sai, lei tenta di mantenere tutte e due, e ora che siamo qui è possibile. Prima invece ogni tanto, dovevo lavorare anche io, sai? Non era per niente bello. Tu canti per vivere vero? Sei molto fortunata a poterlo fare! Noi… noi non possiamo.”
“Si, io canto.” Risposi, senza chiederle nulla sul lavoro che aveva dovuto fare, avendo notato il suo tono melanconico.
Mi sorrise.
“Vuoi diventare mia amica?”
“Emmm… ci conosciamo da poco… comunque va bene, se vuoi.”
“Che bello che ora siamo amiche! Suoni qualcosa per me?”
“Ma…. Come? Cioè, cosa vuoi che ti suoni?”
“La sai Across the universe? È dei Beatles!”
“Si, la conosco. Aspetta che accordo la chitarra.” Le dissi, chiedendomi cosa mi avesse spinto a dirle di si. Provavo un istintivo senso di protezione verso quella ragazza, non poi così bambina, ma così infantile.
Così cominciai gli accordi di quella canzone, spiandola. Lei si limitò a sedersi di fianco a me, sul letto e ad aspettare. I suoi grandi occhi non abbandonavano per un istante le mie dita, cosa che in effetti mi metteva un po’ a disagio. Non sorrideva ora, ma aveva un’espressione indecifrabile. Niente solcava quel volto se non un pizzico di curiosità. Cantando una delle canzoni che mi stavano più a cuore, sentii gli occhi asciugarsi definitivamente e addirittura accennai un sorriso fra le parole, cosa che fece sorridere anche Amy. Poi smisi di lanciarle quelle sporadiche occhiatine e ricordo distintamente che abbassai lo sguardo ai miei piedi, ovvero su Nacho, che mi guardava con occhi languidi e orecchie alzate. Tutte e due.

Passarono alcuni giorni, durante i quali il mio tenore di vita si alzò. Scoprii che volendo potevo donare alcuni dei miei pochi spiccioli alla casa, cosa che feci in simbolico risarcimento dei pasti che mi venivano offerti. Ogni mattino mi alzavo verso le nove, facevo una bella colazione a base di caffèlatte e bacon (eh, l’Inghilterra…), uscivo e andavo a cercarmi un posticino favorevole. Al che cominciavo a cantare. Cambiavo un bel po’ di posti al giorno e mettevo da parte tutti i soldi possibili mangiando tanto a colazione e a cena, così da poter saltare il pranzo e poter risparmiare qualche soldo. Non so cosa sperassi di fare con quei soldi. Amy mi parlò poco, dopo quella volta. Quel giorno, stavo ingurgitando una bella dose di pasta al pesto come cena, sempre più grata a quegli affettuosi volontari che dispensavano sorrisoni a tutti insieme a fumanti piatti di cibo. Davanti a me c’era un uomo sui vent’anni che mangiava con lo sguardo basso e delle occhiaie spaventose. Non parlava, come d’altra parte molti dei miei… “compagni”.
Ma quella sera avevo voglia di attaccare discorso.
“Hei, io sono Mina, tu?” gli chiesi allora, porgendogli la mano al di sopra del tavolo.
Mano che egli non guardò neanche.
Un po’ irritata finii di mangiare e feci per tornare in camera.
“Mina!” mi chiamò una voce femminile.
Mi voltai e vidi un caschetto di capelli azzurri e due occhioni neri che mi guardavano un po’ più in la.
“Ciao Amy!” la salutai, avvicinandomi.
Mi sedetti di fianco a lei, non so come desiderosa di contatto con una qualsiasi persona. Di affetto forse…
“Come stai? È da un po’ che non ti sento suonare!”
“Bene. Non sono spesso qua. Tu?”
“Oh, io sto molto bene! Cioè, abbastanza in realtà! Ma non importa.”
“Come sta tua sorella?”
“Bene, bene. Sta facendo grandi incassi in questi giorni.”
“Ah, bene, sono felice per te.”
“Dipende da che punto di vista la prendi. Comunque si, va bene. Almeno possiamo sopravvivere no?”
“Emm.. si.”
“Prima hai parlato a quel tipo, ho visto. Se vuoi ti dico chi è.”
“Se vuoi…”
“Sai, in realtà è qui da molto tempo, si dice. Era un grande avvocato, con tanti soldi, uno di quelli messi proprio bene, sai? Ma poi ha cominciato a comprare la neve e ha sperperato tutto. Ora sta qua, guadagnandosi in modi infidi dei soldi che poi spende sempre e solo per la neve. E pensare che potrebbe essere ricco…”
La neve, mi chiesi, che cavolo è? Poi capii a cosa alludeva Amy. La famosa polverina bianca, no?
“Cosa? Davvero? Che idiota.”
“Già. Quando è entrato qua dentro, in un momento di lucidità ha detto che vorrebbe smettere ma non ci riesce.”
“Lo faccio smettere io.”
“Cosa?”
“Mi fa arrabbiare. Quindi lo farò smettere. Che lo voglia o no.”
“Oh… ma sei sicura di farcela?”
“Tentar non nuoce, no?”
“Se la metti così…”
“La metto così.”
Aspettai che il tipo, che nella mia mente avevo chiamato Signor Y, finisse di mangiare e vidi in che camera si rintanava.
La mattina dopo
, piena di buoni propositi, uscii dalla mensa e andai subito in camera del Signor Y.
Bussai sommessamente. Niente. Bussai più forte. Niente. Aprii ed entrai. Lui era seduto sul letto, fissava il pavimento e non pareva vedermi. Rimasi ferma ad osservarlo. Era un bel ragazzo, alto, spalle larghe, magro, capelli bruni e corti. Gli occhi non li vedevo.
“Chi sei” disse infine al pavimento.
“Sono una persona che ti può aiutare a smettere.”
“Uh.”
“Vuoi?”
“Mh.”
“Cosa?”
“Vattene.”
“Quindi no?”
“Mh.”
“Beh non mi interessa. Da oggi non ti farai più. Mai più.”
“Vattene idiota”
“No.”
Non mi spaventava il fatto che fosse più grande e probabilmente più forte di me, forse per incoscienza, forse per stupidità, forse senza motivo. Ero una sciocca allora.
“Vattene idiota.”
“No.”
“VATTENE!” sbottò all’improvviso.
“No.”
“…”
“Dove tieni la roba?”
“…”
“Dove cazzo tieni la roba?”
“…”
“Ma mi senti?”
“Che cazzo vuoi?”
“La tua roba”
“Fottiti.”
“No grazie. Dov’è?”
“Ti fai?”
“No”
“E allora che te ne fotte?”
“Voglio che tu smetta.”
“Ma chi cazzo sei?”
“La tua coscienza.”
“Uau. Esci.”
“No.”
“Esci”
“No”
“Esci.”
“Dammi la tua roba.”
“ESCI CAZZO!”
“No.”
Sbuffò.  Si alzò e estrasse un sacchetto dal cassetto. Me lo porse.
“Tutta.”
Si girò prese altri due sacchetti dal cassetto e me li diede.

Così conobbi James, un uomo di 26 anni, un avvocato, una speranza, ma soprattutto una persona che aveva bisogno di aiuto. Per prima cosa ricordo che buttai la roba trovata nel cestino all’ingresso. Poi tornai da lui e li rimasi per i seguenti sette giorni senza mai uscire. Neanche una volta. Fu terribile. Aveva continue e profonde crisi, contrazioni dolori. Dormiva pochi minuti, poi si svegliava e vomitava. Era un incubo, ma avevo deciso una cosa, e quando decidevo una cosa nulla mi persuadeva dal farla, come tu, caro lettore dovresti sapere. Ricordo che Nacho si accucciò di fianco alla porta e rimase li quasi sempre. La porta chiusa a chiave per tutto il giorno, tranne quando Amy portava i pasti a tutti e tre.
Poi, il settimo giorno, finì. Fu un sollievo inimmaginabile per tutti e due. Non avevamo in mente altro che andarcene da quella stanza, possibilmente per sempre.
Così, insieme uscimmo. Non solo dalla stanza, ma dall’edificio a respirare aria che non fosse rarefatta e a riprenderci. Passarono i minuti. Io, con Nacho affianco, sedevo sul marciapiede e guardavo le nuvole simili alla schiuma dello spumante che mio padre apriva a capodanno. Sarebbe stato fiero di me? No, mi rispose subito. Non lo sarebbe stato per niente. E avevo ragione. Ero un’assassina, mai nessuno ne sarebbe stato felice. Sapevo che il fattaccio probabilmente aveva riscosso i giornali, ma io li avevo evitati. Sapevo che avrebbero potuto scoprire la mai identità, ma non l’avevano fatto. La mia vita era un tutt’uno precario e instabile che dipendeva solo dal fatto che era passato tanto tempo e che l’uomo dimentica in fretta ciò che non gli serve. Contavo sul fatto che ciò che era accaduto fosse rapidamente caduto nell’oblio, anche se faceva male pensare ai miei amici, ai miei parenti, alla mia vecchia vita. Mi dicevo che tutti loro erano andati avanti come me e che ormai, semplicemente, le nostre strade si erano divise. Evitavo di pensare che in ciò che vivevo non c’era nulla di semplice e scontato. Diciamo che evitavo di pensare alla mia vita in generale. Ero giunta a uno stato in cui mi adattavo semplicemente alle situazioni, senza chiedermi perché o percome. L’uomo davanti a me camminava in tondo, guardando ora il cielo, ora il marciapiede pieno di cicche di sigarette, spente da suole ignote in quella che sembrava un’altra dimensione del conscio.
Passò del tempo, non saprei dire quanto, finché egli si girò verso di me con uno sguardo strano.
“Grazie” mi disse con sincerità.
Mi stupì quel gesto, ma mi ci adattai. Come detto poc’anzi non mi risultava difficile farlo.
Comunque sia, rientrammo, ma poco prima di salire le luride scale, l’uomo mi guardò e mi disse:
“Grazie a te presto me ne andrò da qui. Grazie.”
“Figurati.”
Per tutti e due, era evidente, la gentilezza, l’amicizia erano cose insolite da trattare, non vi eravamo abituati.
Rientrai in camera mia, avvertendo un’atmosfera leggermente surreale. Mi sentivo malinconica, ma al contempo soddisfatta. Non sapevo cosa fare, ne come farlo. così presi la mia chitarra e decisi di dedicare una mezz’oretta a lei, per poi uscire in strada a cantare e riprendere la routine.

Interrompemmo la lettura.
“Che forza.”
“Il diario?”
“Mina.”
“Matt quando arriva a Londra?”
“Domani sarà in quella casa.”
Con queste parole mi alzai per andare a cucinare qualcosa per il pranzo, mentre L mi guardava riflettendo pandosamente.

  
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