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Autore: IoNarrante    03/02/2013    14 recensioni
Ven, aspirante avvocato, ragazza determinata, ligia al dovere, trasferitasi a Londra con un unico obiettivo: diventare socia di uno dei più grandi studi legali della capitale.
Il sogno per cui ha lasciato la sua famiglia a Tivoli, salutato tutti i suoi amici, riducendosi a vivere in un piccolo monolocale vicino a Regent Park.
La fortuna però gira dalla parte di Ven, perché le verrà affidato un caso importante e allo stesso tempo spinoso, che la costringerà a collaborare con un avvocato brillante e terribilmente sexy ma che allo stesso tempo rispolvererà alcune sue vecchie conoscenze.
Non è necessario aver letto Come in un Sogno
Genere: Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Se il Sogno chiama...'
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CAPITOLO 15
betato da quella santa donna di nes_sie
 
L’ultimo giorno di lavoro prima delle vacanze natalizie fu un caos. C’erano pratiche da archiviare ovunque, la fotocopiatrice era impazzita e noi stagisti venivamo mandati a destra e a manca neanche fossimo stati ad una maratona.
Yuki era sudata e appiccicosa, infatti di tanto in tanto cercava di tamponarsi le chiazze di sudore sulla camicetta con dei fazzolettini profumati. Gli altri soci dello studio avevano passato troppo tempo a bighellonare, ed ora ci ritrovavamo in ritardo con alcune archiviazioni da fare entro la fine dell’anno corrente. Il Tribunale le aveva richieste e così eravamo stati avvertiti che quel giorno sarebbe stato l’ultimo per la scadenza di quei contratti.
«Clarck contro Van Bier va fotocopiato e inserito nella banca dati,» mi disse Geoffrey, l’avvocato penalista che alle volte prendeva anche le veci di Mr. Abbott.
«Faccio subito,» dissi, aggiungendo il plico alla pila che mi portavo dietro da quella mattina.
Per fortuna ero riuscita a prepararmi in tempo, sfiorando il record, e mi ero diretta in ufficio quasi correndo. Appena entrata era scoppiato il putiferio.
Avevo avuto pochissimo tempo per respirare, visto che le scadenze andavano rispettate obbligatoriamente, così non ero nemmeno passata nell’ufficio di James per salutarlo. Più volte avevo posato la mano sul pomello della porta, ma ero stata sempre bloccata da qualcuno che necessitava il mio aiuto.
L’intera mattinata passò in questo modo e anche gran parte del pomeriggio. Verso l’ora del the, noi assistenti ci ritrovammo nel salottino relax con le gambe gonfie e il fiatone, completamente distrutti.
«Dovrebbero pagarci di più,» si lamentò uno.
«Non ho sudato tanto nemmeno alla finale di Badminton al circolo,» borbottò un altro.
«Per me dovreste ringraziare di essere stati almeno presi,» intervenne Yuki, tirando fuori l’ultima salviettina rinfrescante del pacchetto. «Questo è uno degli uffici più importanti di Londra e c’è chi farebbe carte false pur di entrare.»
Roteai gli occhi verso l’alto, sventolandomi con un volantino. L’idea di tornare a casa era allettante, soprattutto visto che l’indomani sarebbe stata la Vigilia di Natale, ma quando ricordai che casa di Simone era diventata il ritrovo della famiglia Sogno allargata, mi passò la voglia.
Ero felice di riavere la mia migliore amica con me, su questo non discutevo, ma avevo bisogno dei miei spazi e quelle feste si stavano trasformando in una specie di incubo.
Niente più privacy, niente più segreti.
E niente più risvegli come quello di questa mattina.
La gola mi si seccò tutta insieme e annaspai in cerca d’aria. La stanza divenne improvvisamente più calda, così aumentai la forza con cui muovevo il volantino. Lo sguardo scuro di Simone era come se fosse tatuato per sempre nella mia memoria, perfetto.
Sentivo ancora la sua lingua sulla mia pelle, i suoi baci delicati e quel suo respiro caldo che mi aveva solleticato l’orecchio. Non avrei dovuto farmi distrarre da certe fantasie, soprattutto in quel periodo stressante; eppure da quando avevo lasciato perdere la storia con James, Simone era subentrato come uno tsunami.
«Ven, stai bene? Sei tremendamente rossa in viso. Forse dovresti prenderti il pomeriggio libero,» mi suggerì Matt, ed io tentai di nascondere quell’evidente imbarazzo.
«Sì certo, sono solo accaldata!» mi affrettai a scusarmi.
Avrei dovuto essere più accorta, soprattutto quando si trattava di mettere a nudo la mia vita privata. Dovevo tenere a mente che sia per colpa di Simone che di Jamie, il mio praticantato era sospeso su un filo sottilissimo che rischiava di spezzarsi da un momento all’altro.
Se soltanto uno di questi individui avesse sospettato qualcosa, avrei finito per tornarmene a Roma con il primo volo disponibile.
D’improvviso la porta della sala ricreazione si aprì e James fece il suo ingresso senza indossare la giacca, con le maniche della camicia arrotolate sugli avambracci.
«Lì fuori è una giungla!» sorrise, rivolgendomi uno sguardo sincero.
Il resto degli stagisti annuì convinto, mentre all’interno della saletta calò un silenzio imbarazzante intervallato unicamente dallo sventolio del mio volantino.
Feci di tutto per evitare di incrociare lo sguardo di James, soprattutto quella mattina che ero ancora piuttosto vulnerabile. Da quando ci eravamo ufficialmente lasciati, dopo essere stati insieme di nascosto, non avevo perso tempo e quel tira e molla con Simone era andato sempre più peggiorando.
Il pensiero che Celeste potesse scoprire ogni cosa mi terrorizzava.
Non tanto perché mi avrebbe potuta giudicare, in fondo si trattava della mia migliore amica, avrebbe capito. Piuttosto ero spaventata da come avrebbe potuto reagire, soprattutto dopo questa lontananza. Noi che eravamo abituate a sentirci ogni giorno, per raccontarci anche le più autentiche cazzate. Ora io le avevo nascosto tre delle cose più importanti da quando mi ero trasferita lì.
Avevo paura che ciò avrebbe incrinato per sempre il nostro rapporto.
Dopo qualche minuto si sentì la voce infuriata di uno dei soci dello studio, che richiamava all’ordine gli stagisti che avevano esaurito la pausa.
Feci per alzarmi, visto che facevo parte della “troupe” che in quel venerdì nero – se così si poteva chiamare – avrebbe svolto altri milioni di fotocopie, quando fui trattenuta da James.
L’avvocato richiuse la porta dopo che gli altri se ne furono andati e mi sorrise, genuino. Fu una stilettata dritta al cuore, proprio perché non mi sarei mai aspettata che James potesse ancora avere tutto questo effetto su di me.
Ora che hai Simo dalla tua parte.
No! Quella storia era solo uno sbaglio, iniziata nel peggiore dei modi e avrei dovuto troncarla immediatamente, appena tornata a casa.
«Oggi è l’ultimo giorno,» sorrise James, lievemente imbarazzato. «Cosa fai durante queste vacanze? Tornerai a casa?» mi chiese.
Scossi la testa, guardano fuori dalla finestra. Tutto per non incontrare quelle iridi azzurre che mi avrebbero fatta capitolare. «Non penso. Ho troppo da fare qui a Londra, poi sono arrivati degli amici che non vedo da tanto tempo.»
«Capisco.»
Il silenzio tornò a governare quelle quattro pareti tinteggiate di giallo pallido, ed io non feci nulla per interromperlo. Cosa avrei potuto aggiungere? Davvero voleva che gli chiedessi di passare il giorno di Natale con me?
«Io credo che tornerò a Liverpool,» smozzicò lui. «Zio August e papà organizzano la solita rimpatriata con tutti gli Abbott sparsi per l’Inghilterra. Spero di sentirti il giorno di Natale, o la vigilia…» e lasciò appositamente la frase in sospeso.
Per quale motivo, dopo tutto questo tempo, James riusciva ancora a condizionare le mie emozioni utilizzando frasi così semplici e innocenti?
Niente “Ti voglio”, nessun morso o incontro violento di labbra.
Con lui era tutto fatto di sguardi e di frasi a modo, come un vecchio corteggiatore d’altri tempi.
«Certo, ci sentiremo,» gli dissi sicura.
Una telefonata non significava certo una promessa di matrimonio.
James si avvicinò di qualche passo ed il mio cuore cominciò a battere molto più velocemente di quanto mi sarei aspettata. Forse i sentimenti che provavo per lui non si erano del tutto sopiti, forse quella pausa che ci eravamo presi non sarebbe servita poi a tanto.
Per quanto potessi ignorarlo, buttarmi tra le braccia di Simone soltanto per lenire quella sua assenza, era del tutto inutile. Prima avrei finito il caso, prima saremmo potuti tornare insieme.
James si fermò quando fu davanti a me e frugò qualcosa nella tasca del suo completo elegante. Aveva ancora quello sguardo semi-imbarazzato di poco prima, che lo faceva somigliare ad un bambino troppo cresciuto.
Ne tirò fuori una scatolina di velluto rosso, con un grande fiocco argentato sopra. Me la porse sorridendo e augurandomi un timido “Buon Natale, spaghetti-girl”.
Afferrai il regalo con mani tremanti, realizzando forse troppo tardi che io non avevo nulla per ricambiare.
«N-Non dovevi…» soffiai imbarazzata.
Lui si portò una mano dietro la nuca e sorrise nervoso. «Ma dai, è una sciocchezza! Aprilo,» mi invitò.
Feci come mi aveva suggerito e aprii il cofanetto, rivelando un piccolo braccialetto d’oro bianco con un singolo ciondolo. Lo tolsi dalla scatola per osservarlo meglio e notai che il gioiello rivelava la forma di un piccolo martelletto da giudice.
«Così mi penserai anche quando saremo lontani,» mi disse lui, posandomi una mano sulla spalla.
«È bellissimo…» sospirai senza parole e lo indossai subito.
James allora ne approfittò e mi prese il mento tra le mani, abbassandosi quel tanto da sfiorare le mie labbra con le sue. Fu un bacio veloce, quasi impercettibile. Eravamo ancora in ufficio e chiunque sarebbe potuto entrare e scoprirci.
Però fu abbastanza.
Ritrovai quel suo calore, l’odore pungente del dopobarba e la morbidezza di quelle labbra che non aveva nulla a che vedere con quelle di Simone.
Stai facendo dei paragoni?
No, non ce n’era alcun bisogno. Ci sarebbe stato sempre prima James, prima di tutto ed io lo avrei aspettato. In qualche modo glielo avevo promesso.
«Buon Natale, Venera,» soffiò a pochi centimetri dalle mie labbra.
Gli carezzai la nuca con la punta delle dita. «Buon Natale, James.»
 
La Abbott&Abbott chiuse esattamente alle dodici spaccate, e tutti gli avvocati dello studio si salutarono e si augurarono buone vacanze sul porticciolo dell’edificio. Quella mattina erano caduti altri cinque centimetri di neve, facendo arrivare quel manto bianco fino a bagnarmi l’orlo dei pantaloni, infilati sapientemente dentro un comodo paio di doposci.
«Allora ci rivediamo il 28,» disse Carl.
«Buon Natale a tutti!»
Ognuno prese strade diverse. Io imboccai come mio solito Regent Street, diretta all’incrocio con Oxford Circus. Non vedevo l’ora di tornare a casa, di avvolgermi in una comoda coperta di pile e di sbracarmi sul divano pronta per una maratona di The Deep End.
Poi ricordai che a casa di Simone era arrivato l’uragano “Sogno”, con tanto di nonna Annunziata impicciona e paladina delle storie d’amore celate.
Sbuffai sonoramente e m’incamminai a passo svelto. Nonostante la neve, era una bella giornata e le temperature rasentavano i -5°C. Del resto, Londra imbiancata dalla neve era uno spettacolo inimmaginabile e per quanto adorassi la mia città natale, la capitale inglese era al secondo posto, se non addirittura a pari-merito.
Svoltai su Piccadilly Circus, stando attenta a non capitombolare su un grosso lastrone di ghiaccio e mi incamminai verso la palazzina. Frugai all’interno della borsa per cercare le chiavi, quando sentii il braccialetto di James tintinnare.
Mi fermai per un attimo ad osservarlo.
Era bello e molto di classe. James mi aveva fatto dono di quel pensiero incondizionatamente, senza che ce ne fosse motivo. Lo aveva fatto per lasciarmi un ricordo di sé, un segno del suo passaggio per quando sarebbe partito per Liverpool.
Ed io invece di aspettarlo lo avevo tradito.
Ehi, svegliati. Mica state insieme!
Nonostante gli avvertimenti del mio Cervello, mi sentii comunque in colpa e sempre più determinata a troncare di netto qualsiasi cosa potesse nascere con Simone.
D’altronde era pur sempre un Sogno, quindi sinonimo di inaffidabilità. Io ero il suo avvocato e lui aveva una causa di dubbia paternità in corso.
Realizzai che nemmeno Beautiful sarebbe stato in grado di eguagliare la mia vita.
Scorsi il portone della palazzina dietro l’angolo, così mi apprestai ad accelerare il passo, quando vidi una figura incappucciata fino alla punta dei capelli che usciva di gran corsa.
Quello strano cappello con le orecchie lo avevo già visto da qualche parte…
«Simone!» gridai, andandogli in contro e fermandolo.
Il ragazzo imbacuccato si bloccò di colpo, mi fissò attraverso gli spessi occhiali da sole, poi come se nulla fosse proseguì di gran lena. Mi ritrovai ben presto a scapicollarmi pur di stargli alle costole, con quelle gambe magre e chilometriche faceva dei passi talmente lunghi che cominciai a sudare.
«Fermati deficiente! Dove cavolo stai andando?» gli urlai dietro, col fiato corto.
Dio, ero troppo vecchia per star dietro a quel moccioso.
Simone non accennava a rallentare il passo, nonostante di tanto in tanto si voltasse a vedere se fossi ancora viva. Grazie tante!
«Smettila di seguirmi!» mi intimò, da dietro lo spesso strato di lana della sciarpa.
«Voglio sapere dove… stai andando!» ansimai.
Dopo tre secondi netti lo mandai a quel paese e mi bloccai nel bel mezzo del marciapiede, decisa a riprendere fiato. Sentivo l’aria gelida di quel Venerdì pomeriggio che mi graffiava fortemente la gola. Quel cretino non si meritava affatto la mia considerazione.
«Vatti a schiantare!» gli urlai dietro col fiatone.
Fu allora che Simone si bloccò e tornò indietro, sincerandosi se fossi morta o meno. «Hai resistito parecchio,» constatò divertito. «Considerata l’angolatura misera delle tue gambe.»
«Fottiti, spilungone,» ringhiai offesa.
Oltre ad avermi fatto fare la sudata più epica di tutta la mia intera esistenza, aveva davvero il coraggio di infierire?
Simone rovesciò la testa all’indietro e scoppiò a ridere fragorosamente. Lo fissai di traverso e per poco non gli diedi una spinta solo per farlo cadere.
Se lo sarebbe meritato, quel deficiente.
«Si può sapere dove cavolo te ne stavi andando? Lo sai che non puoi uscire a fare i tuoi porci comodi, sei sotto la mia supervisione!» gli ricordai.
Simone fece spallucce e continuò a sghignazzare. «Non sopportavo più di stare lì dentro. Odio il Natale,» bofonchiò.
«Ma come! È la festa preferita dai marmocchi!» ridacchiai, rispolverando una tenera allusione.
Il calciatore mi fulminò con uno sguardo. «Ciao,» disse e fece per andarsene ma io mi aggrappai al suo braccio neanche fossi un koala.
«Eh no! Ora ce ne torniamo su a casa, che sono esausta,» gli dissi.
Lui scosse la testa e tentò di liberarsi dalla mia stretta. «Non ci torno lì  dentro, con mia nonna che fa la comare con la tua amica e con mia sorella. Hanno costretto Leonardo ad addobbare l’albero e Ruben sta facendo i biscotti allo zenzero.» Fece una pausa. «Okay, forse Ruben è l’unico che si sta divertendo,» constatò.
Sgranai gli occhi immaginandomi perfettamente il mio ingresso nell’appartamento, con Celeste che mi piombava addosso pregandomi di aiutarla a scegliere quale punta sarebbe stata più adatta in cima a quello splendido abete di plastica.
Orrore.
«Okay, battiamocela,» dissi, incamminandomi al fianco di Simone lungo la strada innevata.
Riuscimmo a raggiungere Westminster Bridge a piedi piuttosto in fretta e non sentii nemmeno troppa stanchezza. Magari mi ero abituata a camminare con tutta quella neve sotto gli scarponi. Ci affacciammo sul ponte proprio quando il Big Ben segnalò che erano le dodici e mezza.
«Ho fame,» sentenziò Simone.
«E cosa ti posso fare io?» borbottai.
Simone si guardò in giro, poi vide una specie di chiosco aperto vicino al London Eye. «Vieni!» disse. Mi afferrò la mano e attraversammo la strada incurante delle poche macchine che attraversavano il famoso ponte.
«Ehi!» protestai, ma era del tutto inutile cercare di far cambiare idea a Simone.
Lui era come un uragano che ti travolgeva e ti strappava via dal tuo stesso corpo. Era impeto, istinto, sentimento allo stato puro.
Era un qualcosa che non si poteva imprigionare.
Me ne sarei resa conto soltanto col tempo. Ecco perché non era facile che si legasse profondamente a qualcuno. Lui sfuggiva ai legami perché non era fatto per essere intrappolato, costretto in qualche spazio angusto.
Le donne lo volevano tutto per loro, un trofeo da tenere nascosto e custodito. Invece lui aveva bisogno d’aria, aveva bisogno di volare, e quella situazione che lo vedeva costretto a casa lo faceva sentire come un canarino in gabbia che guardava il cielo attraverso le sbarre dorate.
Nessuno era capace di rinchiudere un’anima nata libera.
«Tieni!» mi disse eccitato, porgendomi una specie di wurstel infilzato in un bastoncino e cosparso di senape.
Lo fissai inorridita. «Che diavolo è?»
Simone fece spallucce. «Carne. È buono,» insistette, spingendolo sempre di più verso la mia bocca. Non sapevo se fidarmi di lui o meno. Lo annusai e dall’odore che emanava il mio stomaco reagì con un brontolio ben poco sommesso.
Lo addentai e tutto sommato era commestibile. Simone mi guardò e sorrise compiaciuto, continuando a mangiare il suo.
Mi ritrovai a pensare che tutto sommato la sua compagnia non era così spiacevole. Anche se il più delle volte lo trovavo davvero irritante, ero arrivata ad un punto in cui non riuscivo più a razionalizzare le mie emozioni.
Se mi trovavo in compagnia di James, Simone mi sembrava così inadatto, sbagliato, fortemente ingiusto e pendevo dalla parte dell’avvocato.
Se, invece, avevo Simone al mio fianco… a James non pensavo affatto.
«Ti va di andare lì sopra?» mi chiese d’improvviso lui, indicando con uno sguardo l’enorme ruota panoramica.
Deglutii a fatica un pezzo di quel gigantesco wurstel e le parole mi morirono in gola. «No?» chiesi dubbiosa.
Non è che soffrivo di vertigini, anzi, di solito l’altezza non mi faceva alcun effetto. Sentire però il cigolio sinistro di quella struttura mi metteva leggermente un po’ d’ansia addosso e Simone sembrò non tenerne per nulla conto.
«Dai, fifona!» sorrise, afferrandomi di nuovo la mano e trascinandomi su quel trabiccolo.
Comprò i biglietti e l’addetto ci aprì la cabina, invitandoci a sedere senza sporgerci troppo dal finestrino.
Non che ne avessi la minima intenzione, ovviamente.
«Pronta?» mi domandò il calciatore, eccitato.
Annuii con un enorme groppo in gola, poi la giostra partì cominciando lentamente a salire e permettendoci di ammirare l’intera panoramica della città.
Dovevo ammettere che era stupenda.
«Vieni Ven, guarda si vede casa nostra!» disse Simone, tirandomi forte verso il finestrino e facendomi spiaccicare la faccia sul vetro.
Era vero, si vedeva il balcone dove solitamente mi affacciavo per vedere la gente in strada.
Casa nostra.
Come una reminiscenza lontana, il mio Cervello mi ripropose quel particolare che evidentemente mi era sfuggito. Aveva davvero detto “Casa nostra”? Nostra, non sua… non casa, generico.
Nostra. Mia e sua.
Lo fissai con gli occhi sgranati e un enorme peso sul cuore. Quella situazione andava chiarita, doveva essere chiarita.
«Che hai?» mi chiese lui stupito. «Ho detto qualcosa di sbagliato?»
Abbassai lo sguardo e tornai a sedere. «Dobbiamo parlare,» gli dissi chiara.
Fu allora che Simone si tolse tutto il bardamento, compreso di cappello con le orecchie del cugino. Se lo rigirò tra le mani nervosamente, poi annuì.
«Tanto lo so cosa stai per dire, perciò è inutile che ne parliamo,» sospirò fissandomi truce.
«Ah sì? E cosa dovrei dire, di grazia?» lo rimbeccai.
Pensava davvero di poter risolvere tutto così? Prima urlandoci addosso, poi rischiando quasi di fare l’amore, poi litigando furiosamente di nuovo.
Simone spostò lo sguardo verso il soffitto della cabina, poi sbuffò. «“Quello che è successo stamattina è stato un errore”,» citò, imitando il mio tono di voce. «“Io sono un avvocato, tu sei il mio cliente, dobbiamo mantenere le distanze, limitarci ad un rapporto professionale”»
Assottigliai lo sguardo. «Io non parlo così,» bofonchiai.
Gli occhi di Simone però mi inchiodarono al mio posto, così scuri come mai avrei potuto dimenticare. «Dimmi se ho torto, allora.»
Mi lasciai andare contro lo schienale della cabina. «Cosa vuoi che dica, allora? È la verità!» dissi a mia difesa.
«Non puoi venire in camera mia e poi fare finta che non ti interesso!»
Rimasi spiazzata da quella reazione. Sembrava quasi che gli importasse qualcosa e che non si trattasse unicamente di un gioco.
«Vuoi dire che per te è una cosa seria? Davvero?» risi sarcastica.
Simone s’indispettì quasi subito, tornando sulla difensiva. «No che non lo è!» si giustificò. «Solo che non sopporto che tu mi usi.»
«Anche tu lo fai,» gli dissi in mia difesa.
Rimanemmo a fissarci di traverso per un bel po’, mentre il paesaggio della City scorreva davanti ai nostri occhi infuriati. Ecco cos’era Simone: fuoco.
Non avrei saputo trovare paragone migliore. Una fiamma che ardeva perpetua, che s’incendiava per qualsiasi cosa, che fosse rabbia, passione, sentimento.
Era impossibile imprigionare una fiamma senza spegnerla. Se la si fosse messa sotto una campana di vetro, senza ossigeno, si sarebbe spenta.
E così era lui, incapace di smettere di ardere fino a quando qualcuno non lo avesse privato dell’aria.
«Per me è diverso,» aggiunse poi lui, interrompendo il silenzio.
«Sì, certo,» bofonchiai, come se per quel marmocchio la vita fosse piena di giustificazioni.
«No, davvero,» mi disse sicuro, incrociando il mio sguardo. «Io gioco da una vita coi sentimenti degli altri, ormai so distinguere l’amore dal sesso. Tu no. Tu credi di sapere le regole, ma è come se giocassi ad occhi bendati.»
Non sapevo cosa intendesse dire con quel paragone, se fosse un’accusa o una critica al mio modo di comportarmi, fatto sta che non gli diedi peso.
«Ciò non toglie che tu sei libero di fare quello che ti pare, mentre non la smetti mai di sparare giudizi su James e me,» gli feci presente.
Simone rimase interdetto da quella mia risposta e si zittì. Rimanemmo a fissare fuori dal vetro per tutto il tempo necessario alla ruota per compiere un giro completo, poi scendemmo. Finalmente a terra, finalmente libera da quello spazio troppo stretto e troppo saturo di risentimento.
Era evidente che ci fosse qualcosa che non andava, che inevitabilmente avevo contribuito a gettare benzina sul fuoco. Quello che c’era stato tra me e Simone doveva finire lì, in quell’istante. Subito. Prima che gettassimo tutto allo sfacelo.
Attraversammo di nuovo il Westminster Bridge ed io mi appigliai al bordo del ponte come fosse un ancora ed io stessi per crollare a terra. Sentivo la presenza di Simone al mio fianco ma ancora le sue parole non mi erano chiare.
A quale gioco aveva fatto riferimento? Per quale motivo aveva insinuato che non conoscessi le regole? Che andassi avanti senza curarmi delle conseguenze?
«Senti, per quello che è successo lì sopra…» iniziai, sperando non cambiasse discorso.
Dovevamo affrontare quella situazione al più presto, prima di rientrare in casa e ritrovare tutti quei parenti che non ci avrebbero tolto gli occhi di dosso.
Simone mi zittì subito con un cenno della mano. «Non serve che aggiungi altro, ho capito. Come prima,» sentenziò guardandomi.
Infilai le tasche nel giubbotto invernale e sospirai calciando via un ciottolo ricoperto di neve. In fondo chi mai avrebbe potuto credere ad una coppia come la nostra? Nemmeno un miliardario arabo che buttava i propri soldi in mediocri squadre di calcio di serie C avrebbe scommesso su di noi.
No. Simone doveva stare con una modella, magari un po’ meno debosciata ed io avrei puntato tutto sul lavoro e poi mi sarei trovata un bravo ragazzo.
È così che sarebbero dovute andare le cose.
«Ehi voi due, ehi!» trillò una voce alle nostre spalle.
Ci voltammo quasi all’unisono – io presa da una sconfortante sensazione di aver riconosciuto quella voce come quella di Sofia. E infatti si trattava di lei. Solo che stavolta c’era sommata anche la mia cara amica Celeste, il suo bel fidanzato Leonardo e quel poveraccio di Ruben completamente surgelato.
«Hai finito i biscottini, Barrichello?» ridacchiò Simone, appoggiato con un gomito al bordo del ponte.
Il povero fidanzato di Sofia tentò di aggiustarsi meglio la scoppola sui capelli color giallo spento. «S-So-Sono v-ve-venuti b-bene!» protestò e la bionda cantante si premurò di lanciare un’occhiataccia al fratello maggiore.
«Vuoi lasciarlo in pace?» Leonardo andò in difesa dell’amico.
«Oh! Volete mettere in piedi una scenata qui? Davvero?» intervenni, inframmezzandomi tra quei due colossi. «Devo ricordarvi che siete due personaggi pubblici?» Anche se stento a crederlo – avrei voluto aggiungere, ma lo tenni per me stessa.
I due si lanciarono un ultimo sguardo di sfida, poi grugnirono e si allontanarono.
«Che ne dite se ce ne andiamo a mangiare da qualche parte?» propose Celeste, scaldandosi le mani l’una contro l’altra. Evidentemente non si era ancora temprata al clima rigido londinese.
Leonardo le si avvicinò, le prese le mani e se le infilò in tasca, trovando la scusa perfetta per abbracciarla. Fu un gesto spontaneo, quasi fossero abituati a farlo. Ne rimasi totalmente folgorata, mentre una punta d’invidia si diramava lentamente dal mio cuore, a macchia d’olio.
Dovevo piantarla. Non c’era motivo di essere gelosa della mia migliore amica.
«Piuttosto, cosa ci fate tutti qui?» chiese stizzito Simone.
«Vuoi dire perché ti abbiamo seguito dopo che hai sapientemente tagliato la corda?» lo corresse la sorella.
Simone bofonchiò qualcosa sotto voce.
«Diciamo che nonna Annunziata non vuole essere disturbata mentre prepara il cenone,» si aggiunse Celeste, stretta in un abbraccio caldo da Leotordo.
«Ma la vigilia è domani sera!» sbottai incredula.
Sofia, Simone e Leonardo scossero la testa all’unisono. «T-Tu-Tu-T-Tu…» tentò di dire Ruben.
«Vuole dire che tu non conosci di cosa è capace la nonna,» tagliò corto Leonardo, altrimenti ci avremmo fatto notte.
Quella notizia non mi rese particolarmente tranquilla.
«Bene, dove vogliamo andare?» trillò Sofia.
 
Il lauto pranzo nel più vicino pub disponibile mi rese la camminata difficile per il resto del giorno. Diciamo che “rotolare” sarebbe stato di gran lunga più semplice.
«Sto scoppiando!» esalai, sentendo il bottone della gonna che stava per cedere.
«Ti credo, hai mangiato come se non ci fosse un domani,» osservò Simone.
Lo linciai. «Ma se ti sei finito anche la mia roba!»
Sghignazzò divertito. «Metabolismo lampo. Appena il cibo tocca la mia bocca, viene disintegrato in men che non si dica. Ergo, niente ciccia.»
Maledetto stronzo.
«È una battaglia persa, Ven,» mi disse Celeste, prendendomi sotto braccio.
Passeggiavamo per le vie di Londra col chiaro intento di raggiungere Trafalgar Square e a dire dal traffico cittadino ci stavamo avvicinando.
«Perché?» le chiesi con ovvietà.
La mia migliore amica mi sorrise e si scostò dal viso una ciocca di capelli sfuggita al cappellino rosa col ponpon. «Anche Leonardo mangia come se fosse digiuno da settimane. Sarà lo sport,» sospirò, facendo qualche altro passo avanti per distanziare il resto del gruppo.
Mi sentii improvvisamente “rapita” dalla mia migliore amica. Mi accorsi troppo tardi che il suo piano era stato quello sin dall’inizio.
Era una chiara mossa perché aveva intenzione di parlare.
«Cel, mi stai facendo male,» le dissi, riferendomi alla presa d’acciaio che aveva sul mio braccio.
Lei si scusò subito, ridacchiando, ma quegli occhi vispi ed azzurri non abbandonarono i miei.
«Ho saputo una cosa oggi,» se ne uscì, prendendo la cosiddetta curva larga. «Diciamo che qualcuno ha chiamato quando tu eri fuori con Simone,» sorrise malandrina, fissandomi insistentemente il polso.
D’istinto tirai giù la manica del cappotto, per nascondere il regalo di James. «A-Ah sì?» dissi ingenuamente.
«C’è qualcosa che devi dirmi, Venera?» disse perentoria, scandendo bene le parole.
C’era forse qualcosa che avrei nascosto alla mia migliore amica? Ovviamente avrei dovuto cominciare dal principio, da quando ero giunta lì a Londra e avevo incontrato James sulla Tube, oppure attaccare dal giorno in cui capii che Simone sarebbe stato mio cliente, o da quando mi ero trasferita a casa sua.
Da dove avrei dovuto cominciare?
Inspirai forte l’aria pungente di quel primo pomeriggio innevato. «Senti, Cel, davvero. Ci sono un mucchio di cose che vorrei dirti, ma forse dovresti aspettare un po’ perché devo fare chiarezza prima,» le smozzicai, sperando capisse.
Lei annuì comprensiva. «Lo so, questo. Sei sempre stata la più forte tra noi due, quella che si teneva tutto dentro, senza mai esporsi,» sorrise, poi si avvicino e mi picchiettò piano sul petto con il pugno chiuso. «Anche se tenti di essere forte, prima o poi tutti hanno bisogno di qualcuno a cui appoggiarsi.»
Soppesai le sue parole per tutto il resto della giornata, cedendo qualche volta alla tentazione di confidarle tutto. Il problema era che non sapevo da dove cominciare, come spiegarmi, come giustificare il mio comportamento.
E se lei mi avesse chiesto chi fosse più importante tra James e il mio lavoro? E se mi avesse domandato chi avrei dovuto scegliere tra Jamie e Simo?
Ovviamente James.
Ovviamente.
Perché Simone era un caso chiuso.
Archiviato.
Fotocopiato e riposto accuratamente in una cartelletta sepolta in fondo al mio cuore, con polvere annessa.
 
«Non hai parlato per tutto il pomeriggio,» osservò Simone, prendendomi di sorpresa e sedendosi accanto a me sul divano.
Nonna Annunziata era andata con Ruben e Sofia a dormire nel loro appartamento, mentre Cel e Leonardo si erano già rintanati in casa. E così il salotto era di nuovo vuoto, tranne che per il rumore della radiocronaca su SkySport.
«E ciò non ti fa piacere?» gli chiesi, rannicchiandomi su me stessa e sperando che quel noioso programma finisse al più presto.
Simone fece spallucce. «È strano,» si limitò a commentare.
Rimanemmo a guardare la TV per quasi tutta la notte, senza mai sentire il peso della stanchezza. Potevo avvertire il calore che emanava il corpo di Simone, quel tepore che mi aveva attratta la notte prima come una falena.
Spostai lo sguardo su di lui, senza farmi scorgere e seppellendo dentro di me quella vocina che mi ricordava di dimenticarlo. Caso chiuso.
Se Simone era davvero la fiamma, io ero soltanto una farfalla pronta a bruciarmi.
«Senti, stanotte il divano lo prendo io. Tu vai in camera. Ho cambiato le lenzuola, così non rompi e dici che puzzo,» borbottò, stendendosi sul sofà.
Rimasi annichilita. «Come mai tutta questa galanteria?» chiesi scettica.
Simone sbadigliò e si stiracchiò come un gatto. «Considerala un anticipo sul regalo di Natale. Io ne approfitterei Lil’Elf.»
Mi alzai e mi diressi verso la sua stanza, fermandomi appena sull’uscio del salotto. Sapevo di essere una persona incoerente e che avevo senza dubbio bisogno di uno specialista, e di corsa, però non riuscii a fare a meno di guardarlo.
«Si?» mi chiese, pensando volessi qualcosa.
«’Notte,» dissi solamente, sparendo poi nel corridoio.
Non aspettai una sua risposta, né una sua qualsiasi reazione. Non c’era niente da dire, né da fare. Decisi che avrei vissuto le cose giorno per giorno e quando avessi fatto più chiarezza nella mia testa, mi sarei decisa anche a parlarne con Celeste.
Non si meritava questo silenzio, ma ancora non ero pronta.
Pronta a cosa, poi?
Ad ammettere, finalmente, che anche la Regina dei Ghiacci aveva un cuore.
 
***
 
La Vigilia di Natale arrivò così velocemente che non riuscii nemmeno a rendermi conto del tempo che passò tra la colazione e la cena.
Mi ritrovai seduta al grande tavolo da pranzo di Gabriele, vestita di un abito di lana rosso e circondata da una miriade di parenti chiacchieroni. La tavola era imbandita e colma di tutte le più svariate leccornie, mentre il vociare degli invitati finì per sovrastare anche i miei stessi pensieri.
«Mi passi quel vassoio di scampi?»
«Allunga un po’ di vino!»
«Ehi! Lasciamene un po’ anche a me!»
Quelle erano le liti che più o meno si accendevano da più di un quarto d’ora tra i cugini più piccoli dei Sogno. Si litigavano il cibo come due cani randagi.
«Quando apriamo i regali, mamma?» chiese Susy, in direzione della signora Sogno.
La donna, quella sera vestita con estrema eleganza, le sorrise e le sussurrò di aspettare almeno la fine della cena.
«A mezzanotte, Susy» si aggiunse Mr. Marco, facendo brillare gli occhi della bambina.
Dopo poco però la piccola s’imbronciò. «Ma io vado a letto alle nove e mezza!» protestò sveglia.
Tutti scoppiarono in una fragorosa risata, compresi quei due testoni di Simone e Leotordo. Nonna Annunziata faceva un andirivieni tra il salotto e la cucina, portando ogni volta un vassoio di cibo che avrebbe fatto invidia alla FAO.
«Ancora un po’ di purè, tesoro?» mi chiese Miss Sogno, con quei capelli biondi così soffici e cotonati.
Declinai educatamente. «Non ho più posto, davvero,» sorrisi.
«Se continua a mangiare così, dovrò allargare le porte di casa,» sghignazzò Simone, con il tatto di un sasso.
Gli rifilai una dolorosa gomitata nel costato, mentre Susanna rideva come una pazza assistendo a tutte le nostre scaramucce. Agli occhi degli altri sembravamo una vecchia coppia di fidanzati che si stuzzicava.
Di male in peggio.
Dopo una quindicina di dolci, tra panettoni, pandori, torroni e quant’altro, cominciammo a sparecchiare la tavola e a sistemare i regali sotto l’albero del salotto.
Susanna ci seguiva come un falco. Quella bambina riusciva a mettermi un’ansia addosso che davvero sfiorava l’incredibile.
«Posso?» chiese, leggendo il bigliettino del primo regalo.
Rose cercò lo sguardo del marito, sorridendo e chiedendo silenziosamente il permesso. Gabriele guardò la figlia con un amore negli occhi che di rado si poteva leggere nello sguardo di un uomo. Soprattutto di un tipo così bello.
«Dai Susy, aprili pure,» disse.
La piccola cominciò a leggere i bigliettini applicati sui pacchi, mentre tutti noi sorridevamo vedendola schizzare da una parte all’altra del salotto distribuendo i doni ai legittimi proprietari. Ruben regalò a Sofia un plettro in avorio, autografato da un famosissimo cantante country a me del tutto sconosciuto, mentre lei gli donò un vecchio libro. Una prima edizione di Hemingway.
Rose e Gabriele si regalarono a vicenda dei bracciali con i loro nomi incisi sopra, identici e di una finezza unica, mentre Susanna quasi urlò quando scartò la sua Barbie nuova di zecca.
Vedere come la magia del Natale rendeva tutti un po’ più felici, mi fece improvvisamente sentire una forte nostalgia di casa.
Mi alzai un attimo, con la scusa del bagno, e mi rintanai in camera della piccola. C’era una finestra, così mi affacciai fuori e spiai le strade deserte in quella notte magica per quasi tutto il mondo. Tirai fuori il cellulare dalla tasca e lo esaminai per qualche tempo.
Forse avrei dovuto telefonare, almeno lasciare un messaggio.
Il ricordo di tutti quei Natali passati a Tivoli, nell’immenso salotto della tenuta di mio padre, con i nonni e tutto il parentato. Dovevo ammettere che in fondo mi mancava la mia famiglia.
«Si può?» chiese una voce, facendomi sobbalzare.
Mi voltai e incrociai gli occhi verdi di Leonardo. Rimasi di sasso perché mai mi sarei aspettata di trovarmelo di fronte.
«Certo, entra pure. È la camera di tua nipote,» gli dissi con ovvietà.
Lui si infilò le mani nelle tasche dei jeans e mi raggiunse vicino alla finestra. Guardò fuori, senza dire nulla. Anche perché non c’era nulla da dire.
«Ti ha mandato Cel?» gli chiesi allora io, rompendo il silenzio.
Leonardo scosse la testa, sorridendo. «Ho notato che hai il mio stesso sguardo, quando penso a casa,» smozzicò, stavolta puntando quelle iridi verdi nelle mie.
«Ah…» ammisi, senza contraddirlo.
Lui mi osservò dietro quelle folte ciglia brune. «Sarà che Simone è troppo preso da sé stesso, ma è evidente che ti senti sola in quella casa enorme. Non ci vuole un genio per capirlo.»
La discussione stava prendendo una brutta piega.
Mi spostai a sedere sul letto della bambina, tutto per allontanarmi da quella finestra. «Non è come pensi. Alla fine ho scelto io di trasferirmi qui. È solo che durante le feste è normale sentire la mancanza della propria famiglia,» mi giustificai.
«Soprattutto se ne hai una così numerosa davanti agli occhi,» ridacchiò lui.
Da una parte Simone e Leonardo si somigliavano, ma avevano qualcosa di profondamente diverso che li divideva. Oltre che gli anni.
Leonardo adesso sapeva condividere e non pensava più solo a sé stesso.
Di questo doveva ringraziare soprattutto Celeste.
«Sai, quand’ero piccolo odiavo venire qui per Natale. Non sopportavo Simone e l’idea di passare le vacanze con lui,» mi confessò imbarazzato.
«E cos’è cambiato da allora?» ridacchiai io, alludendo alle attuali litigate tra lui e il cugino.
Anche il calciatore sorrise. «Hai ragione, ma adesso sento che non è più come prima. Sarà che da quando sto con Celeste, il mondo mi sembra sempre un posto migliore. Nemmeno Simone riesce a rovinarmi le giornate.»
«Già, dev’essere bello,» commentai malinconica.
«Comunque devo ammettere una cosa,» disse lui, guardandomi. «Ho trovato mio cugino meno irritante del solito. Magari è perché ha te come valvola di sfogo?» ridacchiò.
Quel suo commento mi fece arrossire, soprattutto perché nonostante avessi tentato più volte di ignorare il calciatore dell’Arsenal, lui tornava e ritornava indietro verso di me, come un boomerang.
Abbassai lo sguardo e mi fissai insistentemente le Chanel color vernice che Sofia mi aveva prestato per quell’occasione, senza sapere cosa dire.
«Forse,» bofonchiai, a corto di parole.
Strano.
Già.
Leonardo non sembrò troppo convinto da quella mia mezza risposta, però non ebbe tempo di approfondire perché la figura di Simone apparve sulla soglia.
«Bene, bene, bene, l’Altro Sogno fa conoscenza con l’avvocato tascabile. Cugino, prendi nota, potrebbe servirti un giorno, quando divorzierai.»
In quel momento avrei volentieri spiattellato tutto il caso, soltanto per fargliela pagare alla lingua lunga di Simone e a tutta la sua arroganza, ma mi zittii.
«Taci, deficiente. Dovresti soltanto ringraziare che c’è zio di là, sennò ti avrei già gonfiato.»
«Provaci.»
«Mi stai provocando?»
Roteai gli occhi verso l’alto, stufa di tutta quella dimostrazione di testosterone. Stavo per alzarmi e andarmene, lasciandoli a loro stessi, quando la piccola Susanna entrò nella stanzetta come un treno in corsa.
Saltellò euforica tra le lunghissime gambe di Simone, urlandogli «Zietto! Zietto! Zietto!» e porgendogli un pacchetto che avrei riconosciuto anche senza le lenti a contatto.
Quand’è che ti sei data allo shopping?
Simone fissò l’involucro di carta rossa con un’espressione stralunata. «È petté! È petté!» gridò la bambina, col fiatone a causa della corsa.
Il calciatore allora si abbassò e afferrò il pacchetto tra le mani, mentre Susanna gli si avvicinò all’orecchio. Riuscii a recepire solo un “È da parte di…” e poi più niente, ma gli occhi scuri e sgranati di Simone fecero tutto il resto.
Era stata Sofia a costringermi ad accompagnarla per gli ultimi regali di Natale ed io avevo acconsentito, di mala voglia. Quella ragazza era capace di farmi fare di tutto, soltanto con uno sguardo. Ed era stato in quella bottega, lì su Portobello Road che la ragazza mi aveva dato un colpetto sul gomito e mi aveva indicato una vetrinetta nascosta.
Su di un piedistallo di plastica spiccava la copertina, un po’ sbiadita, di un vecchio album dei Queen, forse uno dei più rari in commercio.
Lo sguardo di Sofia era totalmente rapito da quell’oggetto e pensai lo volesse acquistare, ma lei mi sorrise e disse solamente «A Simo piacerebbe molto.»
Dopo cinque minuti ero uscita dal negozio con centoventi sterline in meno e un regalo per quel brontolone che non si meritava un bel niente dalla sottoscritta.
Ed ora i suoi occhi mi scrutavano guardinghi, quasi come se non si fidassero del pacco sottile che teneva tra le mani.
Leonardo prese Susy tra le braccia e, con una scusa qualsiasi, si allontanarono quando la tensione si riuscì a tagliare anche con un coltello.
«Perché.» disse solamente, ma senza punto di domanda. Era un’affermazione più che altro.
Era logico che volesse sapere il motivo per cui avevo speso tanti soldi per lui, per una persona che avrei dovuto ignorare.
Feci spallucce e mi avvicinai di nuovo alla finestra, come se quello spicchio di cielo fosse una qualche specie di rifugio, di via d’uscita per fuggire.
«Mi hai dato una casa senza che ti dessi nulla in cambio, era il minimo,» mi giustificai.
Beh, avevo avuto tempo per studiarmela bene.
A Simone ovviamente quella risposta non piacque.
«Bugiarda. Perché mi hai fatto questo regalo, proprio questo, quando soltanto ieri hai detto che tra noi non ci sarà mai un cazzo di niente?»
Aveva cominciato ad alzare la voce. Nessuno doveva accorgersi di questa discussione, tanto meno suo padre. C’erano troppe cose in ballo, troppi segreti e bugie.
«Smettila di urlare,» lo redarguii.
«Non sto urlando,» insistette lui.
Ci fissammo per quelli che parvero interi minuti, senza dire una parola.
«Sofia mi ha dato la dritta, altrimenti ti avrei regalato la solita cazzata. Non leggerci nulla tra le righe perché non c’è niente,» tagliai corto, spicciola.
Simone indietreggiò, ferito. «Allora non c’era bisogno mi regalassi nulla. Hai solo buttato i soldi.» Gettò il vinile sul letto della nipote.
«Ehi! Quel coso vale mezzo stipendio!» gridai arrabbiata.
Dopo tutto quello che avevo fatto per lui, questo era il ringraziamento?
Simone colmò in pochi passi la distanza che ci separava, afferrandomi il viso con forza e schiacciandomi sul vetro della finestra. Lo sentii incrinarsi e gracchiare. Temetti che si potesse rompere.
I suoi occhi erano come due tizzoni di brace, infuocati. Tutto il suo corpo ardeva di rabbia a contatto col mio ed io pensai davvero di ardere.
La fiamma e la falena.
«Solo una cosa volevo da te, e tu me l’hai negata. Sono stufo dei tuoi giochetti, dei tuoi subdoli tentativi. Simone Sogno non si fa abbindolare da una cosina come te!» minacciò.
Cosina?
«Ha parlato Mr. LeFrancesiCeL’hannoProfumata,» lo stuzzicai, anche se ero nella posizione meno adatta per sfidarlo.
«Ehi,» ci interruppe Sofia, mentre Simone si allontanava velocemente da me e spariva nel corridoio. La biondina mi corse in contro, pretendendo delle spiegazioni.
«È solo nervoso,» lo giustificai, afferrando il vinile abbandonato sul letto.
Sofia allora lo prese e mi sorrise. «Vedrai che capirà, gli ci vuole soltanto tempo.»
Le avrei voluto chiedere cosa ci fosse da capire, ma la famiglia Sogno richiedeva la mia presenza per un mega-torneo al Mercante in fiera, così dovetti rimandare.
 
La chiave girò nella toppa di casa Sogno alle due del mattino, con il resto della truppa che a mala pena si reggeva in piedi.
Quando entrammo in salotto, fummo accolti dalle lucette intermittenti e fastidiose dell’albero di Natale che nonna Annunziata ci aveva costretto a montare per forza, dicendo è la tradizione!.
«Beh, ragazzi, Buon Natale,» sbadigliò Leonardo, puntando la camera da letto.
Celeste mi sorrise e lo seguì, lasciando me e Simone nella penombra della stanza.
In quel silenzio c’erano una miriade di parole non dette e di frasi smozzicate a metà, così tagliai la testa al toro.
«’Notte,» e mi diressi verso il divano.
Simone allora mi bloccò, senza muoversi. «Non dovevi.»
Sbuffai infastidita, pensando volesse ricominciare l’ambaradan di prima. «Ho detto che è una sciocchezza, e poi non ti pago nemmeno l’affitto…»
«No,» mi fermò lui. «Dico che non dovevi, perché io non ti ho fatto nulla,» ammise imbarazzato.
Alla fine Sofia era riuscita a fargli accettare il disco dei Queen, così mi ero sentita più leggera, così come il mio povero portafogli.
«L’ho fatto perché mi andava, non per ricevere qualcosa in cambio,» gli spiegai, manco avesse quattro anni.
Di punto in bianco parve proprio imbronciarsi. «Ma io volevo regalarti qualcosa… solo non sapevo cosa…» incespicò.
Vedere Simone così imbarazzato mi fece tremare il cuore. Lo sentii caldo contro il mio petto e pensai che ormai il suo muro si era quasi del tutto abbassato, lasciandomelo vedere per davvero.
Persa nei miei pensieri, non mi accorsi nemmeno che si era pericolosamente avvicinato, sfiorando le mie labbra appena appena.
Fu un tocco leggero, quasi impercettibile, come quando la neve tocca il terreno. Nessun rumore.
Eppure mi sembrò che l’orchestra sinfonica stesse suonando la nona di Beethoven.
«Un bacio,» soffiò a pochi centimetri dalle mie labbra.
Chiusi gli occhi e assaporai quel momento. «Non avresti dovuto darmelo?» gli domandai, aprendo la mano e facendo un chiaro riferimento al ditale di Peter e Wendy.
Simo afferrò l’occasione al volo, perché non era stupido. «Questo è un bacio vero, Peter,» disse, ridacchiando.
Non riuscii a nascondere un sorriso imbarazzato, mentre lui mi dava la buonanotte e spariva nella sua stanza. Poco dopo udii le note di “Princess of the Universe” che risuonavano per tutta la casa.
 
Il venticinque e il ventisei di Dicembre si susseguirono più o meno uguali alla Vigilia, con l’unica differenza dei chili in più che stavo mettendo. Ero più che sicura che l’ago della bilancia mi stesse prendendo in giro, perché ero più larga che lunga.
«Hai finito lì dentro?» urlò Simone infastidito.
«Un attimo!» ringhiai, salendo di nuovo sulla bilancia.
Niente, segnava sempre un miliardo di chili in più di quando ero partita dall’Italia. Maledetto stress del lavoro e maledette vacanze!
«Guarda che per quante volte tu salga e scenda da lì, sarai sempre una balena,» ridacchiò divertito.
Brutto deficiente.
Il Natale, passando, si era portato via quel po’ di zucchero che io e il calciatore avevamo condiviso quel ventiquattro a sera, lasciandoci letteralmente con l’amaro in bocca. Ci ignoravamo a vicenda, come doveva essere e come sarebbe sempre stato.
Prima che ritornassi a lavoro, l’argomento centrale di ogni nostra giornata era diventato il famigerato Capodanno.
C’era chi – come Leonardo – lo avrebbe voluto passare in strada, vedendo i fuochi artificiali da Westminster Bridge e il Big Ben che segnava la mezzanotte, chi – come Sofia – che avrebbe voluto partecipare a qualche bella festa oppure chi – come la sottoscritta – sarebbe rimasta volentieri in casa ad urlare contro le cazzate che sparavano in televisione.
«Insomma? Avete trovato qualcosa?» chiese Celeste, sorseggiando del caffè.
Sofia continuò a digitare sul suo tablet. «Conosco un paio di persone che potrebbero farci entrare, ma è in abito lungo e non so quanto siate disposti a mettervi in tiro…» rispose mogia.
«Ah no! Io da pinguino non me ce vesto!» protestò immediatamente Leonardo.
In fondo alla sala si udì la lunga sghignazzata di Simone.
Erano un continuo battibeccare quei due, peggio di me e il calciatore poco tempo prima…
…prima di cosa?
Rabbrividii e mi concentrai sul discorso delle ragazze.
«Non c’è una via di mezzo?» domandò Celeste dispiaciuta.
Lei e Leonardo sarebbero ripartiti il primo Gennaio, perciò le sarebbe dispiaciuto non passare il Capodanno più indimenticabile di sempre.
«Stasera potremmo provare questo locale qui, se è carino prenotiamo anche per il 31. Che ne dici?» propose la biondina. «Tu e Simo ci state?»
Visto e considerato che il giorno successivo avrei ricominciato il tirocinio, non sarebbe stata una saggia idea frequentare un disco-pub fino a tarda notte.
«Io passo, mi fido di voi,» tagliai corto.
Simone aveva sentito tutto, così si aggregò perché era lampante come la luce del giorno che non aveva alcuna voglia di passare la serata con Leonardo e Ruben.
Li definiva “La mummia e lo sfigato”.
Quella sera nessuno, nemmeno i meteorologi, si sarebbero mai aspettati una nevicata di quella portata. Alle nove di sera cominciò ad alzarsi il vento, così Celeste e gli altri si bardarono nel vero senso della parola, preparandosi ad uscire.
L’idea di rimanere sola in casa con Simone non mi allettava, ma il calciatore si era chiuso in camera da un po’, perciò mi preparai con cura le repliche di Law&Order con una bella cofana di pop-corn.
«Sicura che non vuoi venire?» mi domandò per la centesima volta la mia migliore amica.
Sapevo che era sempre un’occasione per stare insieme, prima che lei partisse. Purtroppo non avevo proprio voglia di uscire.
«Giuro che a Capodanno sarò l’anima della festa!» le sorrisi.
Li vidi uscire dal portico e prendere un taxi, mentre fuori il vento faceva fischiare i vetri delle finestre. Non sapevo spiegarne il motivo, ma un brivido di freddo mi attraversò la schiena.
Mi avvolsi nelle coperte, accoccolandomi sul divano, e spingendo “play” sul lettore DVD. Finalmente una serata made in Venera, era da tanto che volevo dedicare un po’ di tempo a me stessa.
«Ma non l’hai già visto?»
Ovviamente avevo parlato troppo presto.
Mi voltai per vedere Simone che sbocconcellava un pacchetto di patatine. Non gli era bastato mangiare come uno sfondato per tutte le vacanze di Natale?
«E anche se fosse?» sibilai.
Law&Order era una serie che seguivo da tutta una vita, ed era grazie a lei che avevo coltivato il sogno di diventare avvocato. Sapevo ogni episodio a memoria e non mancavo di fare una maratona fino a notte fonda pur di ricordare gli episodi salienti.
Il calciatore sgranocchiò una patatina e si sedette vicino a me. «Stasera c’è la bufera,» disse, guardando fuori dalla finestra.
«Non credo…» sospirai, sperando che davvero non si mettesse a nevicare di brutto.
Celeste, Sofia e gli altri erano ancora a quel disco-pub. Non so davvero come sarebbe potuta finire se le previsioni di Simone si fossero avverate.
Passò un’ora, poi altre due. Le puntate della serie tv si susseguivano l’una dopo l’altra e così finirono ben presto tutti i pop-corn, soprattutto a causa dell’Ingordo.
Proprio quando la notte sembrava troppo oltre per dar luogo alla famosa nevicata, il vento s’alzo all’improvviso e la bufera arrivò. Fu un cambiamento repentino, del tutto inaspettato.
Le luci cominciarono a tremolare, mentre dalle fessure delle finestre si udiva chiaramente il fischio del vento che ululava come infuriato. Guardai fuori e fiocchi di neve grandi come noccioline che picchiavano forte sul vetro, così mi spaventai e raggiunsi il cellulare.
«Cazzo, come faranno a tornare a casa?» imprecai, riferendomi a Celeste e gli altri.
Simone andò a sigillare meglio i vetri e spense subito il televisore. «Non puoi fare molto da qui,» rispose risoluto.
Digitai il numero della mia migliore amica, ma un sms mi bloccò dal premere il tasto “chiama”.
 
Ven fuori c’è l’ira divina.
Rimaniamo al pub finché non migliora. Tranquilla.
‘Notte.
 
Era un messaggio scritto in tutta fretta, l’evidenza non lo negava, ma mi sentii più sollevata. Almeno erano al chiuso.
Simone mi fu subito alle spalle. «Ti pare che quella genia della tua amica rimaneva in mezzo alla strada?» Contribuì, forse senza saperlo, a farmi sentire bene.
Purtroppo durò poco, perché passati tre minuti esatti la corrente saltò lasciandoci completamente al buio.
«Ma che cazzo…?» imprecò subito Simone, muovendosi a tastoni lungo tutto il suo appartamento. «Uno paga trecento sterline al mese di elettricità e questo è il risultato! Siamo a Londra non in Burundi, porco cazzo!»
Sorrisi. In fondo era divertente sentirlo smadonnare in questo modo.
Era come se lo rendesse più… umano.
Ci dirigemmo verso la stanza meno usata della casa, ovvero la sala hobby o “studio” – l’unico problema è che lì non ci aveva mai studiato nessuno. Dopo aver recuperato una torcia elettrica, Simone mandò al diavolo cinque o sei volte gli alari che non volevano saperne di disporsi parallelamente e si adoperò per accendere il fuoco.
Anche perché si stava gelando.
I termosifoni funzionavano ad elettricità, un po’ come gli scaldini a presa, e non essendoci più corrente da un’ora, la casa era diventata un blocco di ghiaccio.
«Sicuro di esserne in grado?» gli chiesi, dopo che il quindicesimo cerino si ruppe per il troppo entusiasmo – per non dire ira – che ci stava mettendo per accenderlo.
«Cosa credi?»
Alzai le mani in segno di scuse, sorridendo. «Non ti facevo molto stile Evervood[1]» ridacchiai.
Simone sbuffò e finalmente riuscì a dar fuoco ad un pezzo di diavolina che usò per appiccare la legna.
«Tu e le tue stupide serie TV,» bofonchiò poco dopo, soddisfatto dal risultato.
Ci sedemmo comodamente sul tappeto persiano che si trovava sotto il divano. Posai la schiena proprio su quest’ultimo, per avvicinarmi meglio al tepore del camino. Avevamo entrambi una trapunta addosso, trafugata dai letti ormai vuoti e ce ne stavamo in silenzio a vedere le fiamme che lentamente crescevano d’intensità.
Quelle fiamme che mi ricordavano troppo Simone.
Senza quasi accorgermene, sentii il peso del regalo di Jamie che mi pesava enormemente al polso. Era come avere una catena, un’incudine che era sempre lì presente a ricordarmi quanto fossi stata meschina nei suoi confronti.
Così penserai a me anche quando non ci sono.
Oppure mi sarei dimenticata di lui.
«Guarda che l’ho visto, non c’è bisogno che lo nascondi,» commentò Simone, fissando il fuoco.
Lo guardai e le sue iridi si erano tinte di arancione, quasi come se inghiottissero le fiamme quasi a nutrirsene. Lui era il fuoco e da esso traeva la forza.
«Non lo stavo nascondendo,» mi giustificai, fissando le trame del tappeto.
Sospirò. «Te l’ha regalato l’avvocato, vero?» mi domandò, anche se sapeva quale fosse la risposta. Infatti, non mi lasciò nemmeno il tempo di parlare. «È sempre un passo avanti a me.»
«Non è mica una gara!» sbottai, stufa di quei continui paragoni con James. «Nessuno di voi due è in competizione per qualcosa, e avete rotto di farvi la guerra!»
Il calciatore mi rivolse uno sguardo stupito. «Quindi anche Mr. Scopa-nel-culo si mette in guardia, eh? Sa che Simonator è in azione!»
Lo fissai allibita. «Simonator?» chiesi, quasi avendo paura della risposta.
Simone annuì sempre più convinto. «È forte… tipo terminator.»
«È ridicolo,» commentai, avvolgendomi meglio nella trapunta.
«Mh, meglio di TermoSifone è…» borbottò, guardandomi. «Hai freddo?» mi chiese poi.
«Sto gelando.»
La maledetta elettricità non voleva saperne di tornare, mentre fuori si continuavano ad udire i sibili della tempesta di neve che aveva afflitto Londra quella notte. Il fuoco non bastava a riscaldarmi.
«Vieni qui,» mi disse all’improvviso, aprendo la trapunta e invitandomi a rannicchiarmi contro il suo corpo.
Sta scherzando, spero!
Lo guardai come se fosse un marziano che abitava su Venere.
Lui s’indispettì. «Ehi! Non ho secondi fini, se è questo che pensi…» si lagnò, come un bambino di cinque anni.
Cercai di fidarmi, o per lo meno ci provai. Il suo corpo era caldo, bollente a contatto col mio e nella mia testa c’era sempre quella piccola voce che mi raccontava ancora la storia della falena e della fiamma. Forse mi sarei bruciata, ma era così caldo.
«Okay forse magari potrei avere dei secondi fini…» sghignazzò ed io gli rifilai un pizzicotto sulla pancia. «Ahi!»
«Te lo meriti!» sorrisi, inspirando il suo odore attraverso la lana del maglione rosso.
Rimanemmo in silenzio per qualche tempo, guardando il fuoco che danzava davanti ai nostri occhi. Era bello sentirsi al sicuro dentro quella stanza, con solo la luce del camino ad illuminare il volto cesellato di Simone.
Un volto giovane, da ragazzo, ma estremamente affascinante.
Sentii la gola farsi secca e il respiro diventare pesante. Mi alzai la manica del maglioncino per toccare il braccialetto di James, come monito per non commettere stupidaggini.
«Lo ami?» mi chiese Simone di punto in bianco.
Sgranai gli occhi e lo fissai. «Come ti viene in mente?»
Lui scrollò le spalle.
Lo guardai di sbieco, mentre ravvivava il fuoco con un altro legnetto. C’era qualcosa in lui di diverso, come se stesse smettendo quella maschera da spocchione ormai indossata da sempre.
«Per te è così?» gli chiesi.
I suoi occhi scuri m’inchiodarono. «Non è fatto per stare con te,» disse sicuro.
Risi ad alta voce, credendo mi stesse prendendo in giro. «Ah, davvero? E allora chi sarebbe adatto a stare con me, sentiamo,» lo provocai.
Ero più che sicura che avrebbe detto una frase del tipo “Il sottoscritto, ovviamente” oppure “Qualcuno con cotesta gnoccaggine” e si sarebbe indicato senza pudore.
Invece tornò a guardare il fuoco. «Qualcuno a cui non serva comprarti,» soffiò.
Fu in quell’istante che sentii qualcosa dentro di me fare crack, rompersi, disintegrarsi in mille pezzi. Il peso del braccialetto era diventato insostenibile, perciò lo tolsi e lo posai su un tavolinetto lì accanto. Simone non aveva indicato sé stesso, non era stato egoista, ma aveva detto solo la pura verità.
Non ero fatta per essere comprata da regali, viaggi, ville megagalattiche. Cose che entrambi potevano darmi senza difficoltà.
No, lui aveva centrato il punto. Al mio fianco ci sarebbe stato soltanto colui che non aveva alcun bisogno di spendere fior fior di soldi per avermi. Sapeva bene che non una poco di buono, una a cui bastava la notorietà per concedersi.
Ero diversa. Una donna con la testa sulle spalle.
Allora mi avvicinai e cercai le sue labbra. La prima volta in assoluto che prendevo l’iniziativa, perché ne sentivo il bisogno e non potevo più resistere. Era da tempo che andava avanti tutta quella storia e per quanto lo negassi a me stessa, mi ero bruciata.
Ora le mie ali stavano prendendo fuoco, mentre le braccia di Simone si avvolsero attorno alla mia vita, mentre le sue mani esplorarono la mia carne, toccandola e marchiandola come se avesse paura di perdermi.
I baci si rincorrevano l’uno dopo l’altro, le lingue si lambivano e così i sospiri.
«Toglila…» soffiò contro la mia pelle, strattonando la maglietta con disegnata sopra una renna buffissima.
Mi scostai quel tanto da liberarmi subito dell’indumento, poi andai a reclamare la sua. L’odore di Simone era così forte da farmi girare la testa, impedirmi quasi di respirare.
Stai bruciando, non c’è più ossigeno attorno a te.
Non me ne importava. Fuori c’era la tempesta, il mondo intero avrebbe anche potuto essere spazzato via in quell’istante.
Le sue labbra erano così morbide, così gonfie e tumide di baci. Gli afferrai i capelli e li scostai dal viso, guardandolo. Era così bello da far male.
«Sei bellissimo,» mi sfuggì, quasi senza riflettere.
Lui sorrise e parve arrossire. «Lo so,» rispose però strafottente.
Per dispetto gli morsi il labbro inferiore ma subito dopo lo vezzeggiai con una carezza di lingua, per scusarmi. Simone ne approfittò per assalire il mio collo e annusarmi.
«Anche tu lo sei, Ven,» sussurrò dolcemente.
«Non è vero,» lo contraddetti, rovesciando la testa all’indietro e sospirando in balia delle sue carezze esperte.
Fu allora che il gancio del reggiseno fu slacciato, che le sue mani si mossero così bene e così veloci che non capii più niente. La sua bocca era ancora sul mio orecchio.
Una cascata di brividi mai provata prima.
Era fuoco che lentamente mi avvolgeva.
«Oh, credimi, non puoi capire l’effetto che mi fai,» sussurrò ancora, facendomi sentire in qualche modo speciale.
Fu il momento per me di sfoderare le mie, quasi inesistenti, tecniche di seduzione, così cominciai a baciarlo ovunque. Iniziai dalla clavicola, da quella pelle bianchissima e da quei muscoli così definiti. Pensai a quante donne avevano amato quel corpo, a quante prima di me lui aveva sussurrato quelle parole.
Mi sentii male.
Lo sentii sospirare, ma una sua carezza mi riportò alla realtà. Incrociai quegli occhi così scuri da inghiottire qualsiasi fonte di luce presente in quella stanza. Sapeva bene come attirare l’attenzione.
«Continua…» smozzicò lui, guardandomi. Mi diede un bacio d’incoraggiamento, accarezzandomi il viso. «Lasciati andare.»
Sarei davvero riuscita a farlo? Che fine aveva fatto la Ven fredda e razionale?
Gli afferrai la mano, ferma sulla mia guancia. Avrei potuto scostarla, alzarmi e tornarmene in salotto. Sarei potuta sopravvivere a tutto quello, sfuggirgli.
Ma era troppo tardi.
Così i vestiti sparirono e fummo nudi, circondati dal buio e dal rumore del vento.
Gli fui immediatamente sopra, quasi a volerlo travolgere, soffocare, come se volessi impormi prima che lui mi spezzasse. Voleva prendersi tutto da me, anche il respiro.
«Vuoi condurre i giochi?» ridacchiò malizioso, afferrandomi il labbro tra i denti.
Lo zitti tirandogli i capelli dietro la nuca e baciandolo a modo mio.
Violento.
Stare con lui mi trasformava in una persona diversa, mi privava del controllo. Cercai di tenere le redini, ma sapevo di stare cadendo, di star precipitando in un baratro sempre più profondo.
Per quanto fossi convinta che Simone fosse lungi dai miei interessi, non riuscivo a stargli lontano. Non solo fisicamente.
Ne ero dipendente.
Il sesso era sempre stato al secondo piano nella mia vita, quasi una sfumatura di contorno. Ora ne sentivo l’assenza, ora che quel vuoto era stato colmato.
«Muoviti… così…» Mi artigliò i fianchi e mi incitò ad aumentare il ritmo.
Rovesciai la testa all’indietro mentre sentivo il calore del fuoco che mi bruciava la schiena. Le fiamme reali e quelle di Simone che mi stavano lentamente consumando, annientando, che mi stavano portando via anche l’ultimo briciolo d’aria.
«Simo... ah... ne...» gemetti, artigliandomi alle sue spalle e stringendo il suo viso al mio petto.
Aveva rannicchiato il volto contro di esso, lo aveva avvicinato al viso, e continuava a sussurrarmi all’orecchio parole dolci, frasi di canzoni ormai senza tempo.
Continuai ad aumentare d’intensità, rincorrendo un piacere che da troppo tempo mi era mancato mentre anche il suo corpo vibrava.
Sentii le sue labbra lambire la mia pelle e incendiarla centimetro dopo centimetro, semplicemente da quel contatto. Avvertii dei brividi sconvolgermi le membra. Ormai mancava poco tempo e il piacere stava diventando del tutto insostenibile.
«N-No.. non ce la fac-cio…» gridai, quasi, sconvolta da quelle meravigliose sensazioni.
Non ebbi tempo di pensare, razionalizzare o riflettere su cosa dire. Riuscivo soltanto ad essere guidata da qualcosa che rischiava di esplodermi dentro.
«Non fermarti… mh…» soffiò lui, e per la prima volta lo percepii al di fuori del muro.
Posai la testa sulla sua spalla mentre sentii un grido raschiarmi la gola e Simone accompagnò quel piacere con delle spinte lente e delicate.
Nemmeno due secondi dopo cercai le sue labbra disperatamente, e muovendomi involontariamente gli mandai una scarica di piacere.
Lui sibilò e strizzò gli occhi.
«Scusa.» sorrisi, imbarazzata.
Distolsi lo sguardo immediatamente, per non farmi scorgere da lui. Era davvero troppo farsi vedere così debole, così vulnerabile.
I suoi occhi erano lì, pronti ad essere accarezzati. Non riuscii a resistere lontano dal loro tocco, perché erano parte di quel fascino che ormai mi aveva assoggettata. Mi davano dipendenza.
Così mi scostai quel tanto da scendere dalle sue gambe.
Ora era davvero nelle mie mani, ora le parti si erano invertite ed io avrei fatto di lui ciò che volevo. Lo accompagnai verso l’orgasmo senza mai smettere di fissare il suo viso, ogni sfumatura delle sue espressioni.
La verità era che entrambi odiavamo i legami, ognuno di noi rincorreva la libertà, l’indipendenza, quasi servisse per respirare.
Ed ora ci eravamo trovati. Due persone libere, insieme.
Simone allora mi spostò i capelli dietro un orecchio, sorridendo. Lo baciai perché non potevo davvero farne a meno.
Non in quel momento. Non più.
Stai lì e guardami bruciare, ma va bene perché mi piace il modo in cui fa male.


Trullallero, trullallà, il capitolo l'ho aggiornato più di un mese fa...
Tralasciando la filastrocca mongola, mi nascondo per aver scritto questa specie di pornazzo natalizio, tra l'altro partorito a Ottobre/Novembre mi pare XD Solo io riesco a scrivere pornazzi di Natale.
Comunque, le feste sono passate #sigh e al loro posto sono arrivati gli esami #sob, ma io e Nessa ce l'abbiamo fatta ad aggiornare questa storiella con un capitolo piccantO **
Detto ciò mi aspetto come minimo delle fanghérlate o qui o sul gruppo - me lo dovete perché non mi farò più vedere dalla veGGogna - per dirmi come vi aspettate stia andando in porto questa storia.
Bene? Male? Ci vorrei esse io al posto di quella scema di Ven? (sì)

Baciotti esamosi (?) Marty :3

 
   
 
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