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Autore: warmmyheart    03/02/2013    1 recensioni
"Isole di bellezza in un mare di squallore"
La storia di due ragazzi; le loro vite si intrecciano, impareranno a volersi bene, e insieme affronteranno questo mondo, che spesso è pieno di pericoli che da soli non si vedono e allora il sostegno di un amico vale più di tutto l'oro della terra.
-Precisazione: ogni capitolo è fatto da due parti, la prima è raccontata da lei, la seconda da lui.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Elettra.
Solo mia madre mi aveva mai abbracciato con così tanto amore.”

 

Scendo veloce le scale del mio condominio con gli Slayer che mi urlano nelle orecchie. Mandando avanti una canzone degli Slipknot che ora non ho voglia di ascoltare mi accorgo di essere in ritardo, sono le 21:10 e avevo detto a Scar che arrivavo per le 21. Che palle, mi tocca correre. Quando arrivo in strada mi rendo conto di non sapere dove abita Scar. Cerco di chiamarlo ma non ho soldi nel telefono. Sto già per rientrare in casa per usare il fisso, ma sento il cellulare vibrare in tasca. È Scar, per fortuna.
- Pronto, Ele, ciao, mi sono ricordato di non averti mai detto dove abito.
- Ciao Scar, sì, me ne sono ricordata anche io.
- Vengo a prenderti a casa tua? Almeno non perdo tempo nel cercare di spiegartelo.
- Sono già sulla soglia.
- Corro.
Il mio iPod, che è sempre impostato su “casuale”, decide di farmi ascoltare una meravigliosa canzone dei Pantera, This Love. Mi perdo nei suoi arpeggi distorti sussurrando appena le parole, Scar arriva e io neanche me ne accorgo. È venuto in bici, “per non farti aspettare troppo”, mi dice.
Si ferma di fianco a me, le guance rosse per il freddo e il fiatone per la pedalata veloce. Butta la bicicletta contro il muro e si avvicina velocemente a me. Mi abbraccia forte, fortissimo, come se non mi vedesse da due mesi. Sono sorpresa, mi aveva già abbracciato in passato, ma mai così. A dire il vero, solo mia madre mi aveva mai abbracciato con così tanto amore. E stare tra le braccia possenti di Scar, mi trasmette uno strano senso di protezione, di calore. Mi godo quegli attimi di dolcezza, affondando la testa nel petto muscoloso di Scar.
- Ciao, Ele. - dice dopo qualche minuto, sciogliendo l’abbraccio.
- Ciao, Scar. - ribatto. Non avevo ancora avuto il tempo di spegnere l’iPod.
- Dai, salta su, ti porto da me.
Batte la mano sul sellino della bici.
- E stai attenta a non mettere i piedi in mezzo ai raggi!
Un po’ a fatica mi isso sul sellino troppo alto per me e mi aggrappo alla felpa di Scar. Pedala veloce, quasi non si accorgesse di avere un’altra persona con lui. Cerco di memorizzare la strada per casa sua, ma dopo la seconda volta che svolta mi sono già persa. Mi sa che per molto tempo dovrà venire a prendermi sotto casa.
- Siamo arrivati. - esclama, mostrandomi con un cenno della mano l’entrata di un condominio. Faccio i salti mortali per scendere dalla bicicletta e lo seguo. Mi duole il sedere per colpa dei dieci minuti seduta su uno scomodissimo sellino senza potermi muovere. Credo di camminare peggio di un clown.
Scar porta la bici in un garage e prendiamo l’ascensore, ci porta al settimo piano, l’ultimo.
Il suo appartamento è una specie di attico. Tutte le pareti del salotto sono delle grandi vetrate.
- Ma dal fuori non si vede dentro? - chiedo preoccupata. Proprio di fianco al condominio di Scar ce n’è un altro molto più alto e chiunque potrebbe sbirciare nella sala.
- No, macché, esternamente è opaco. E comunque abbiamo delle veneziane, per quando c’è troppo sole.
Mi do un’occhiata in giro. Il salotto è abbastanza grande, elegante. In un angolo un tavolo di vetro sta davanti a una libreria pienissima, e in un altro una specie di materasso appoggiato per terra fa da divano. La televisione è vecchiotta, appoggiata su un mobile nero, ricco di ripiani, pieni di animaletti di vetro colorato. Incuriosita, prendo in mano un gufo di una strana roccia nera lucida.
- Mia sorella Giorgia li colleziona. - sussurra Scar indicando gli animaletti.
- Il gufo è il mio animale preferito.
- Ne ha tanti di gufi. Solo che li tiene in uno scatolone, tiene esposti solo i più belli.
- Tu non collezioni niente? - chiedo, rimettendo a posto il gufo.
- No. Non credo sia una cosa utile, senza offesa per i collezionisti.
- Io invece colleziono modellini di chitarre. Di tutti i tipi, classiche, elettriche, di legno, di plastica, di metallo, colorate..
- Wow, le chitarre piacciono anche a me. Suoni?
- No, ma mi piacerebbe molto.. Forse però è tardi per iniziare.
- Non credo sia mai troppo tardi per imparare. Se vuoi ti posso insegnare qualcosa. Non sono un professionista, ma almeno le basi le conosco.
- Non sapevo suonassi.
- Te l’avrò detto venti volte!
Soffoco una risatina imbarazzata e insisto per vedere la camera di Scar.
- Non è proprio camera mia. Cioè, ufficialmente sì, ma in realtà dormo in camera con i miei fratelli.
Fa per aprire la porta della stanza ma si blocca.
- Prometti di non ridere. - dice con tono serio.
- Perché dovrei ridere?
Finalmente apre la porta, accende la luce. Mi ritrovo davanti a uno zoo in miniatura. Ci sono un sacco di gabbiette e teche, e in ognuna c’è un animale diverso.
Affascinata accarezzo il vetro di una teca. Inizialmente vedo solo foglie e rami, ma poi qualcosa si muove. Un piccolo animaletto blu. Faccio un salto all’indietro, finisco addosso a Scar, che si mette a ridere.
- Tranquilla, è solo una rana. Quella si chiama Zeta. E se guardi bene dietro a quel sasso c’è Oz. Sono due Dendrobates.
- Dendrobates?
- È una specie di rane. Per l’esattezza sono Dendrobates Azureus.
- Perché sono azzurre.
- Esattamente.
- Oddio, non sapevo ti interessassi di rane.
- Non solo. In quella teca, quella più grande, c’è un Boa Arcobaleno.
Mi avvicino piano. Intravedo una striscia viola con dei pallini gialli tra il fogliame.
- E si chiamano così perché sono colorati?
- Proprio così, lei si chiama Baby. Quando l’ho presa era piccolissima.
Scar si lascia cadere su un letto appoggiato alla parete, di fianco a un enorme scaffale pieno di mangime e roba per prendersi cura degli animali.
Mi siedo di fianco a lui, e gli chiedo di tutti i suoi animali. Mi parla di un altro serpente, qualche altra specie di rana e persino di un geco.
- Ma un animale.. “normale”, non ce l’hai?
- Beh, ho tre furetti.
Chiude bene la porta della stanza e controlla le finestre, poi apre una gabbietta dalla quale escono tre animaletti bianchi che iniziano subito a correre da tutte le parti.
Torna a sedere di fianco a me e uno dei tre furetti gli si accoccola sulla spalla.
- Si chiama Fulmine, ma in realtà è un gran pigrone.
Allungo prudentemente una mano per accarezzarlo, e Fulmine mi annusa le dita.
- Mi sento inferiore, ho solo tre gatti e un coniglio!
Scar ride.
Le ore passano senza che me ne accorga. Quando mia mamma chiama è l’una. Dice che papà era preoccupatissimo, non si fida a farmi venire a casa da sola, a piedi, per quasi tre chilometri, a quest’ora.
- Il tuo amico non può accompagnarti in macchina?
- Non ce l’ha.
- Dio santo, Elettra. Né io né tuo padre abbiamo le forze per venire a prenderti. Come facciamo? - urla mia mamma nella cornetta.
- Eh, boh..
- Ele.. - interviene Scar, - se è un problema tornare a casa puoi restare qui.. Effettivamente è tardi.
- Mamma hai sentito? - chiedo.
- Sì, ma domani come fai, ad andare a scuola e tutto?
- Mamma! Ma domani non c’è scuola, inizia il ponte di Halloween!
- Già domani? Che giorno è?
- Il 28, stiamo a casa fino al tre.
- Oh, ma che fortuna! Va bene allora, stai pure lì, se non disturbi.
- Disturbo? - chiedo sottovoce a Scar.
- Figurati. - risponde lui, guardandomi dolcemente con i suoi occhioni neri.
Scar mi offre una sua vecchia tuta da usare come pigiama e stende una coperta sul divano in salotto. Neanche il tempo di infilarmici sotto che cado in un sonno profondo.
 

 

- Oscar.
L’unica ragazza che mi sia mai piaciuta davvero.”


 

Continuo nervosamente a guardare l’orologio, conto ogni minuto che passa, sono già le 9.11. Poi guardo il telefono, controllo se Elettra mi ha inviato un messaggio per dirmi che è in ritardo e arriva tra un po’, per avvisarmi che non viene più, per.. chiedermi l’indirizzo! Non ho mai detto dove abito ad Elettra! Che stupido. È ovvio che non arriverà mai. La chiamo, dice di essere sotto casa e mi offro di andare a prenderla.
Salto sulla mia bicicletta e percorro i due chilometri, ok forse quasi tre, che separano casa mia dalla sua.
Eccola, finalmente. Bellissima, nella sua felpa rossa, coi capelli deliziosamente raccolti in una cipolla scompigliata, con quei jeans così stretti che lasciano quasi intravedere il bordo delle mutande.
Mi accorgo di non essere l’unico a osservare le gambe di Elettra. C’è un signore sulla cinquantina seduto su una panchina a pochi metri da lei, che se la mangia con gli occhi. Ha il tipico sguardo che dice “ehi guarda che sono uno schifoso pervertito appena c’è meno gente ti prendo e ti porto su a casa mia, mia moglie non è in casa e posso divertirmi molto con te”.
Dentro di me cresce un sentimento di rabbia infinita verso quell’uomo. Non solo perché ho la netta impressione che voglia commettere una violenza contro una ragazza, ma soprattutto perché la ragazza in questione è l’unica ragazza che mi sia mai piaciuta davvero. E nessuno, men che meno un vecchio arrapato, si può permettere di toccarla.
Senza pensarci due volte butto la bicicletta contro il muro e mi dirigo quasi correndo verso di lui. Sto già per tirarmi su le maniche della felpa per tirargli un pugno quando una vocina dentro di me grida di lasciar perdere, piuttosto di correre subito da Elettra e portarla via da lì. Così, con la stessa decisione con cui mi dirigevo da quello schifoso cambio direzione e abbraccio Elettra. Ho la sensazione di poterla proteggere anche solo con quel gesto. L’abbraccio sempre più forte, e lascio che lei ricambi la stretta, lascio che appoggi il viso al mio petto. Con la coda dell’occhio vedo l’uomo con un’espressione amareggiata che sbuffa.
- Ciao, Ele. - dico, quando il vecchio si perde in mezzo alla folla.
- Ciao, Scar. - ricambia, aprendosi in un sorriso meraviglioso che fa comparire la fossetta sulla guancia destra.
Armeggia con l’iPod e cerca di salire sul sellino della bici.
Corro veloce per i marciapiedi, evitando le centinaia di persone che incontro, mi gusto la sensazione delle mani di Elettra che stringono i miei fianchi. Sento il loro calore persino attraverso i vestiti.
Finito il viaggio, che a me è sembrato troppo breve, le mostro casa mia.
Un grande appartamento all’ultimo piano, ereditato da uno zio di mio padre morto qualche mese fa.
La porto in salotto, e rimane affascinata dalla grande vetrata che percorre due delle quattro pareti della stanza. Nota ogni dettaglio, proprio come faceva con i dipinti al museo. Rimane però colpita dalla collezione di animaletti in vetro di mia sorella, che teniamo esposta sul mobiletto in legno nero della tv. Tra i tanti tipi di animali, Elettra nota proprio il più bruttino, un gufo in pietra nera.
- Il gufo è il mio animale preferito. - si giustifica.
Mi chiede se colleziono qualcosa di particolare, ma in effetti non ho mai avuto una passione nel conservare oggetti simili tra loro. Ho sempre pensato fosse una cosa completamente inutile. Lo dico anche a Elettra, ma lei ribatte dicendomi che colleziona modellini di chitarre. Che figura di  merda. Cerco di rimediare dicendole anche a me piacciono le chitarre, le chiedo se suona.
- No, ma mi piacerebbe molto.. Forse però è tardi per iniziare.
- Non credo sia mai troppo tardi per imparare. Se vuoi ti posso insegnare qualcosa. Non sono un professionista, ma almeno le basi le conosco.
- Non sapevo suonassi.
- Te l’avrò detto venti volte! - ok, venti forse no, ma di sicuro gliel’avevo accennato un paio di volte.
Elettra ride, portandosi la mano davanti alla bocca. Non credo di aver detto niente di particolarmente divertente, ma la sua risata è contagiosa.
- Mi fai vedere camera tua?
- Come?
- Mi fai vedere la tua stanza? Dai, per favore..
- Ci tieni davvero?
- Sì, davvero davvero! Daai.
- Stai insistendo per caso?
- Mh, forse si. Dai dai dai per favore!
La lascio insistere ancora un poco e alla fine acconsento.
- Non è proprio camera mia. Cioè, ufficialmente sì, ma in realtà dormo in camera con i miei fratelli.
Ci incamminiamo verso la fine del corridoio, dove si trova la mia stanza.
- Prometti di non ridere. - dico con tono serio, prima di farla entrare.
- Perché dovrei ridere?
Mi stringo tra le spalle. Forse i miei numerosi animali potrebbero spaventarla. Accendo la luce e osservo la reazione di Elettra davanti a tutte le teche con dentro serpenti, rane, rane, rane, e serpenti.
Tengo il fiato sospeso, impaziente di vedere come Elettra reagirà agli strani animali non propriamente domestici che alloggiano in camera mia. Si avvicina alla teca di due delle mie rane, e appena ne vede una fa un salto all’indietro, finendomi addosso. Non riesco a trattenere una risata nel vedere la faccia spaventata di Elettra. Da spaventata, la sua espressione si trasforma subito in divertita, fa la finta offesa.
Dopo averle descritto il mio serpente preferito, il Boa Arcobaleno, mi butto sul letto, facendole cenno di sedersi in parte a me.
Inizia a tempestarmi di domande sugli animali. Le faccio conoscere i miei tre furetti bianchi, e Elettra stringe subito amicizia con Fulmine, il più tranquillo dei tre.
Tra una chiacchiera e l’altra si fa tardi, l’una passata, e i genitori di Elettra chiamano.
Non capisco molto della telefonata, ma colgo qualche parolina, che mi fa intuire che non sa come tornare a casa. Io non posso accompagnarla, non ho la macchina, non mi fido troppo a girare né in moto né bici di notte, figuriamoci a piedi.
Così le propongo di dormire qui. Tanto domani non c’è scuola, non so perché ma quest’anno facciamo un ponte lunghissimo per i morti, e già da domani siamo in vacanza. In più il divano è particolarmente comodo.
Mi sembra di sentire la madre di Elettra sollevata, e acconsente a lasciarla stare qui per stanotte.
Le assicuro che non disturba, le offro una mia vecchia tuta da usare come pigiama e le preparo il “letto”.
Aspetto che esca dal bagno e l’accompagno in salotto per darle la buona notte, ma Elettra si addormenta non appena tocca il cuscino, ancora fuori dalle coperte.
Mi fa così tenerezza. Le rimbocco le lenzuola e dolcemente le accarezzo il viso. Sto un poco a guardarla dormire, finché arriva mio padre.
Quando mi vede sveglio, seduto di fianco alla bella addormentata, inizia a urlare.
- Cazzo fai, papà? - sibilo. È completamente ubriaco.
- Vai in bagno a darti una pulita, e se sei troppo ingranato per farlo vai direttamente in camera.
Cerco di tenere il tono della mia voce basso, per non svegliare Elettra, ma allo stesso tempo imponente, per fare in modo che mio padre faccia ciò che gli dico.
Restiamo un paio di minuti immobili, io che indico il corridoio, e mio padre che mi guarda intontito. Questa situazione un po’ al contrario succede spesso, da quando i miei si sono separati.
Credo che mio padre abbia un po’ paura di me. Lui è un uomo di bassa statura, abbastanza magrolino, non troppo forte, nonostante sia operaio. Invece io sono minimo quindici centimetri più di lui in altezza e ho il triplo dei suoi muscoli. Se poi faccio il vocione, sfido chiunque a non essere intimorito da me.
Non che mi faccia piacere, spaventare la gente, anzi. Cerco sempre di essere gentile con le persone, di stringermi tra le spalle per sembrare un po’ più piccolo di quello che sono. In fondo credo di essere un gigante buono, anche se ogni tanto sono impulsivo e, lo ammetto, qualche volta sono anche violento.
Ma di sicuro non ho la minima intenzione di essere violento con mio padre, con mia sorella, con mio fratello, con Elettra, Olimpia, o qualsiasi altra persona a cui tengo.
Mio padre finalmente sembra capire ciò che gli ho detto e lentamente s’incammina in camera sua. Lo seguo con lo sguardo, lasciando cadere il braccio lungo il fianco.
Mi giro un’ultima volta verso Elettra, che dorme ancora serenamente, non sembra essersi minimamente accorta del casino che ho fatto. Cercando di fare meno rumore possibile, vado a dormire anche io.

  
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