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Autore: Hazel_Grace    06/02/2013    1 recensioni
"Papà", sussurrò ad un certo punto, mentre Carlo si chiedeva se l'avesse sentito. "Quando scrivi come fai a capire così bene il dolore?" aveva domandato a bruciapelo, la faccia ora rivolta verso di lui. "Cosa intendi, piccola?" "Quando leggo quello che scrivi sembra che tu provi realmente quello che i tuoi personaggi sentono. Come se anche tu stessi piangendo, ridendo, soffrendo. Come fai? Io non pensavo nemmeno potesse esistere un dolore del genere, nemmeno con tutta l'immaginazione del mondo pensavo potesse fare così male".
Genere: Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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INGIUSTO

Torno a scrivere da 0. Molti di voi probabilmente non mi hanno mai letta e di questo, sotto certi aspetti, sono addirittura grata; non ho molto da dire, alla fine sono le parole di questo libro a parlare per me. Voglio solo dirvi che ho deciso di tornare a scrivere a causa delle considerazioni di alcune persone che ho incontrato che mi hanno spinta a tirar fuori quello che avevo dentro.

Certe volte abbiamo così tanto da dare, da ricevere e da conquistare che diventa addirittura difficile contenerlo in un solo testo, parola o canzone. Così tutto appare incompleto, come se mancasse sempre qualcosa. Così continuiamo a chiederci se forse quella virgola andava messa realmente in quel punto, o se in una certa canzone ci voleva quella precisa nota. Ora, e non so per quanto durerà la mia convinzione, sono giunta alla conclusione che già per il fatto di averci messo del nostro, quel “qualcosa” è assolutamente speciale.

Dunque buona lettura, nella speranza che “Ingiusto” sia quel “qualcosa” che vi possa regalare anche solo una riflessione. Per quanto mi riguarda, essendo un misto di fatti reali e non, mi ha già regalato moltissimo.

 

Dedicata a John Green, al suo genio e a quel suo modo particolare di capire le persone che soffrono.

 

Disclaimer: “I personaggi di “Ingiusto” appartengono al detentore di questo nikname; chiunque dovesse utilizzarli senza il mio permesso starà infrangendo la legge”.

 

 

 

 

INGIUSTO

 

Capitolo I

 

Era confusa. Si sentiva sola e abbandonata, come se non esistesse motivo alcuno per fare ancora un passo avanti. Fissava con occhi vacui di fronte a sé, le palpebre socchiuse, il venticello di settembre che agitava i capelli. Non riusciva più nemmeno a piangere. All’improvviso si alzò in piedi, dirigendosi verso un auto là di fronte al parchetto dove aveva deciso di consumare le proprie sofferenze.

Vaffanculo!” strillava, calciando con le sue Converse viola la FIAT punto rossa di chissà quale povero guidatore. “Fanculo, fanculo, fanculo!” continuava, mentre dagli occhi scendevano lacrime capricciose. Non aveva voluto nessuno con lei al funerale. Solo gli amici di Marco, quelli più stretti, quelli delle serate in birreria, quelli delle partite a calcetto e dei compiti in classe scopiazzati alla bene meglio, anche all’università. Lei non aveva detto niente alle sue amiche: voleva vivere da sola il proprio dolore e consumarsi nel senso di colpa perché lei, il suo Marco, non era riuscita a strapparlo via dalla morte. Si inginocchiò per terra, la cascata dei capelli rossi scivolata sul viso, alcune ciocche appiccicate alla faccia a causa delle lacrime che, copiose, disegnavano piccoli percorsi sulla pelle. Si passò una mano sugli occhi e prese un lungo sorso d’aria. Quanto avrebbe voluto morire anche lei. “Te ne sei andato da solo” sussurrava tra i singhiozzi, ricordando il terribile incidente che le aveva portato via Marco. Sentì dei passi dietro di lei poi qualcuno che strillava.

“La mia auto!” si alzò in fretta in piedi, poi corse via senza ben capire dove stesse andando, perché gli occhi erano appannati e bruciavano. Arrivò davanti al portone del proprio palazzo, il fiato corto, i singhiozzi che ancora uscivano dalla bocca. Quando entrò in casa vide suo padre esattamente al centro del corridoio, una teglia in mano e l’aria distratta.

“Piccola,” disse lasciando cadere l’oggetto a terra e prendendo tra le braccia la figlia “Era oggi” constatò l’uomo, mentre Mary annuiva, trattenendo l’ennesima ondata di lacrime. “Perché non mi hai detto nulla?” le chiese premuroso, carezzandole i folti capelli rossi. “Vieni” disse ancora, accompagnandola in camera sua e tenendola ancora tra le braccia. La ascoltò piangere per un po’, sussurrare preghiere sconnesse, parole d’odio verso quella vita che l’aveva resa così triste a soli diciotto anni. Avrebbe di gran lunga preferito provare lui tutto quel dolore, assorbirne un po’ per lo meno, ma sapeva essere tutto impossibile. “Tesoro”, le disse ad un certo punto quando i suoi sospiri gli parvero troppo deboli per essere veri. Il viso della sua bambina era contratto dal dolore, una smorfia di stanchezza rendeva il tutto ancora più tremendo. Era un po’ come se fosse morta anche lei e, sensibile com’era, non sarebbe riuscita a nascondere bene quel dolore che probabilmente l’avrebbe accompagnata per il resto della vita. “Perché non vieni con me alla Rai per l’intervista? Così esci un po’, guardi tutti quegli attori che si credono chissà chi e poi ci andiamo a mangiare una pizza… eh?” la fissò un istante in più dandosi dell’idiota perché non riusciva a capire cosa frullasse per la testa di sua figlia. Ora giaceva sul letto, la faccia immersa nel cuscino e le labbra tremanti di pianto.

“Papà,” sussurrò ad un certo punto, mentre Carlo si domandava se per caso l’avesse sentito. “Quando scrivi come fai a capire così bene il dolore?” aveva domandato a bruciapelo, la faccia ora rivolta verso di lui.

Cosa intendi, Piccola?”

“Quando leggo quello che scrivi sembra che tu provi realmente quello che i tuoi personaggi sentono. Come se anche tu stessi piangendo, ridendo, soffrendo. Come fai? Io non pensavo nemmeno potesse esistere un dolore del genere. Nemmeno con tutta l’immaginazione del mondo pensavo potesse fare così male”. E scoppiò in altri singhiozzi, come se non ne potesse avere mai abbastanza. Carlo la strinse ancora a sé e comprese che nessun diversivo, almeno in quel momento, avrebbe potuto distrarre sua figlia dal dolore.

“Ci vorrà del tempo” quelle parole suonarono come una promessa, quella fatta da un padre che, nonostante fosse uno scrittore di indubbio successo, spesso non sapeva realmente quale fosse la cosa giusta da dire o da fare. In quel momento riuscì solo a serrare le labbra e a stare vicino al suo mondo, la sua bambina.       

*

Quando si pensa ad una catastrofe la mente rimanda quasi sempre ad avvenimenti di grandezza infinita: un attentato, uno tsunami o, magari, a qualche incidente mortale. In verità nonostante la gravità di tali avvenimenti, per sconvolgere la vita di una persona, che di per sé è un piccolo mondo, basta realmente poco. Una telefonata che arriva improvvisa mentre sta pranzando; una lettera giunta nella buca o, come nel suo caso, la diagnosi sbagliata di un medico. Daphne era nata sana. La classica bimbetta dalle gambe paffutelle, un paio di occhi grandi e vispi e la parlantina sempre attivata, per smorzare le situazioni più imbarazzanti tra grandi e piccini. Ma una febbre troppo alta, una corsa in ospedale e un medico che quella sera non aveva tanta voglia di svolgere il proprio lavoro l’avevano catapultata in un mondo fatto più di ombre che di luci. Dopo un’infanzia passata tra un ospedale e l’altro aveva dovuto cedere e la malattia aveva fatto il proprio corso, strappandola alla luce. Era diventata cieca; i suoi occhi, insomma, non funzionavano più e da quattro anni a quella parte conviveva con quella condizione alle volte stressante, altre semplicemente tragica.

“Insomma, vuoi abbassare quella tv?” strillava Daphne mentre il getto dell’acqua s’infrangeva contro le pareti del lavandino della cucina. Ivan di tutta risposta continuò a fissare il fondo schiena dell’ennesima modella di cui si stava raccontando la storia in quel servizio su Italia 1. La musica di sottofondo non gli dava minimamente fastidio, anzi, non faceva che esaltare le immagini provocanti che passavano davanti ai suoi occhi. Ma la sua amica non era dello stesso avviso: chiuse l’acqua del rubinetto, s’asciugò le mani con un panno poi afferrò il telecomando, spegnendo così la tv. Un grugnito d’assenso uscì dalla bocca del povero ragazzo che si stava perdendo la fine di quel servizio così interessante. “Te lo chiedo per l’ennesima volta: le hai fatte le versioni di latino?” si era voltata verso Ivan, le mani sui fianchi e un’espressione accusatoria in viso.

“Ti ho mai detto che con quella tuta larghissima e i capelli raccolti in maniera improponibile stai proprio bene?” domandò con il solo intento di farla arrabbiare ancora di più. La giovane di tutta risposta strinse le labbra e tornò al lavandino, dove stava armeggiando con una pentola sporca: ogni volta che il suo più grande amico andava a pranzo da lei doveva cucinare per otto e la metà delle pentole della cucina venivano utilizzate per tale intento.

“Sappi una cosa Ivan Boia: io non ti passo le versioni!” e riaprì il getto dell’acqua, dichiarando come conclusa la discussione. Ivan si alzò in piedi, iniziando a camminare per la cucina: non era sicuramente una buona prospettiva. Durante l’estate non aveva aperto un libro perché tanto sapeva di poter contare su quella secchiona della sua amica; e il giorno dopo sarebbe ricominciata la scuola!   

“Perché?” chiese girandole intorno, il cappellino di marca che gli sfiorava la fronte: ogni volta che entrava in casa di Daphne lei gli chiedeva di toglierselo e il giovane si rifiutava domandandosi, fra sé e sé, perché diavolo le desse fastidio dato che non lo riusciva a vedere in faccia. Per questo si tolse il cappellino, mettendolo sulla sua nuca bionda. “Visto? Ti regalo anche il mio preziosissimo cappello!” esclamò ancora con un sorriso larghissimo: sapeva che, nonostante tutto, Daphne coglieva ogni più piccola smorfia che passava sul suo viso meravigliosamente bello. La giovane alzò lo sguardo verde su di lui e con la mano sporca di schiuma afferrò il cappellino, lanciandolo sul petto dell’amico più volte, con una forza che sapeva di non possedere.

“Io lo dico per te: devi studiare quest’anno che c’è la maturità, o vuoi farti bocciare di nuovo?” era seria e Ivan non sapeva bene come reagire. Era consapevole che aveva ragione, ma la pigrizia superava qualsiasi tipo di buon proposito. Per questo decise di tirar fuori l’arma segreta. Infilò una mano nella tasca dei propri pantaloni troppo larghi e ne estrasse un CD, mettendolo poi tra le mani di Daphne. Quando le pupille della giovane si dilatarono comprese che aveva capito.

“Il demo?” chiese, le mancava il fiato.

“Yes!” la giovane corse verso lo stereo posto sotto la tv della cucina e in pochi attimi alcune note inondarono la stanza. “Volevo dartelo sabato, ma bhè…”

Shhh!” fece lei ascoltando le note del pianoforte, il suo pianoforte, che inondavano la stanza.

“Io non so com’è capitato. Ma è semplicemente tutto sbagliato. Io non so com’è capitato, ma è ingiusto così!” il loro pezzo. Musica, parole, note tutte loro. E con un paio di amici di Ivan, uno studio di registrazione un po’ malandato ed il lavoro di un’estate era saltato fuori, come se fosse il dono più prezioso della terra. Daphne era seduta per terra, lo sguardo cieco fisso davanti a sé a contemplazione della propria voce che cantava il ritornello e delle rime reppate dal suo amico, che di fantasia ne aveva davvero tanta. Sì, forse quel DO avrebbe dovuto farlo più pieno e meno spinto, ma a chi importava? Era assolutamente meraviglioso! Ringraziò il proprio carattere piuttosto duro perché non si mise a piangere, ma quando si alzò in piedi e strinse a sé il proprio migliore amico, Ivan tirò un sospiro di sollievo: le versioni glie le avrebbe passate, ne era quasi certo.

*

“Il massimo dei voti? Luca, sono orgoglioso di te!” Giacomo Mattei parlava al telefono con il figlio maggiore, il cordless in una mano e la caffettiera nell’altra: doveva correre in ospedale per il turno, ma la notizia lo faceva quasi saltare di gioia. “Sì, certo, immagino che sarai pieno di impegni. Ma te lo dico con il cuore: fare l’Erasmus è stata la scelta migliore che potessi fare! Salutami il Dottor Ledoux, mi raccomando. Ah, e mangia un paio di croassant al burro anche per me!” chiuse la chiamata e finalmente con la mano libera si potè versare il caffè nella tazzina. Annalisa, sua moglie, compilava gli inviti per un party di beneficenza.

“Che ne dici, meglio che nello stesso tavolo mettiamo i bontà con i Mirabella o i Bontà con i Giunti? Non ricordo chi aveva litigato con chi!” disse portandosi una ciocca bionda dietro l’orecchio. Giacomo si sedette al tavolo insieme a lei.

Ma non hai sentito la telefonata?” chiese l’uomo stupito dal disinteresse della moglie.

“Certo caro, ma il nostro Luca è talmente bravo che ero assolutamente certa che avrebbe preso il massimo”, dichiarò tranquilla, mentre dietro di sé sentiva la porta chiudersi.

“Filippo”, disse Giacomo alzando il capo. Il figlio percorse il corridoio con aria assonnata, in dosso una maglietta di D&G e un paio di jeans della stessa marca. I capelli rossicci un po’ arruffati, l’espressione un po’ assente. Solo l’odore di caffè parve ridestarlo.

Mmmh?” mugugnò semplicemente, trascinandosi verso la cucina dove si versò un po’ di quel nettare caldo che pareva l’unica soluzione al terribile sonno che gli inondava gli occhi.

“Ho appena sentito tuo fratello: ha preso la lode nel suo ultimo esame!” esclamò l’uomo orgoglioso.

“Bravo” rispose l’altro con voce un po’ roca, scottandosi come uno stupido con la caffettiera.

“Certo che potresti dimostrare un po’ più di entusiasmo”.

“Tesoro, non vedi che ha sonno? E’ il suo primo giorno di scuola, deve riabituarsi ai nuovi orari!” disse Annalisa, cercando di mettere la pace. Giacomo si alzò in piedi.

“Anche tu quando frequenterai medicina mi darai le stesse soddisfazioni” dichiarò perentorio, manco non fosse realmente un augurio che si faceva. “Ora vado, non so a che ora tornerò”.

“Come, non hai il turno fino alle 15?” chiese la moglie. Giacomo fece di “no” con il capo.

“Il Dottor Morgante è in mutua, è possibile che debba sostituirlo e che dunque arrivi dopo cena”, dichiarò prima di baciarla a fior di labbra e di lanciare un’occhiata al figlio che sorseggiava il proprio caffè, poggiato sulla cucina. “Buon primo giorno di scuola Filippo”. E si dileguò dietro la porta.

Per poco a Filippo non andò il caffè di traverso: il tempo stava trascorrendo troppo in fretta. I giorni si sarebbero susseguiti uno dopo l’altro, compiti in classe, gite scolastiche, desideri, voti e insoddisfazioni per giungere, in fine, alla tanto agognata maturità. Che poi chi l’aveva deciso che a 19 anni allora si era maturi? Lui certo non lo era. O almeno, non era abbastanza maturo per dire a suo padre che lui non voleva fare il medico come lui e suo fratello; che aveva altri tipi di sogni, di prospettive. Tornò in bagno dove si infilò le proprie NIKE poi tornò dalla madre. La cartella era mezza vuota, solo un quaderno con le versioni di latino e l’Ipod ad occuparla. Il diario doveva ancora comprarlo, ulteriore prova del fatto che non voleva vedere iniziare, poi finire, quell’anno scolastico.

   *

 

  
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