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Autore: Clira    06/02/2013    2 recensioni
Roxanne e Damon si amavano. Prima. Ma poi qualcosa di terribile era accaduto.
Una serata di terrore, una cicatrice. Roxanne viene portata via dai soccorsi e Damon non può fare nulla per salvarla.
Passano gli anni, sette anni e Roxanne torna a Mystic Falls in occasione delle nozze tra Elena e Stefan, ma un altro durissimo colpo la attende: Damon, il suo grande amore, si è sposato. Chi è questa donna? Roxanne è disperata, ma non può dimenticare Damon.
Che cosa accadrà ora che si sono ritrovati? Quali sono i reciproci sentimenti?
In questa storia TUTTI i personaggi sono UMANI!!
Genere: Commedia, Mistero, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Damon Salvatore, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 12  

CAPITOLO 12: IL GRANDE GIORNO

Ero rimasta paralizzata. Elijah era lì, davanti a me, con un cofanetto di velluto blu aperto nel quale era contenuto un anello che sicuramente valeva più della mia macchina. Il diamante era a forma di cuore ed era… beh, era magnifico, nonostante non fosse nel mio stile.

Io ero letteralmente a bocca aperta e non riuscivo davvero a proferir parola. Solo quando udii la voce bassa e rabbiosa di Damon mi riscossi.

«Cosa diavolo ci fai qui?».

Elijah si voltò verso di lui.

«Ma come? Mi vedi qui con un anello di fidanzamento davanti a questa bellissima donna e mi chiedi davvero cosa stia facendo?».

«Già, solo che ti è sfuggito un piccolo particolare. Questa bellissima donna, si dà il caso che sia la MIA donna. E tu te ne devi andare da casa nostra. Devi sparire dalla nostra vita e non farti rivedere mai più perché ho avuto abbastanza pazienza con te fino ad ora e è giunto il momento che ti prenda a pugni».

Gli posai una mano sul braccio per cercare di calmarlo.

«Damon… ».

«Non stavolta, Rox. Io ti amo, ma questo qui mi ha veramente stancato!» e a questo punto Damon, che in effetti aveva resistito molto a lungo, esplose e sferrò un potente pugno alla mascella di Elijah.

«Damon!», ma lui mi ignorò.

«Con quale coraggio ti sei presentato qui e le hai chiesto di sposarti, eh?», chiese poi. Ora la sua voce era alta e furente.

«Con quale coraggio ti sei presentato in casa nostra e le hai fatto una proposta di matrimonio?!».

Elijah, che si era appena rialzato e si teneva una mano premuta sul punto colpito da Damon, parve ignorarlo e si rivolse a me.

«È questo, dunque, il tuo posto, Roxanne? È questo il posto del tuo cuore? Al suo fianco?».

Il suo sguardo era serio e la sua voce profonda e suadente. Non lo avevo mai visto così prima d’ora.

Presi la mano di Damon.

«Sì, Elijah. Il mio posto è qui con lui».

L’uomo chinò il capo e sul suo volto si aprì un sorriso amaro.

«Molto bene, mia cara. Ti auguro ogni bene».

Detto questo, Elijah si chinò a baciarmi la fronte, ci diede le spalle e sparì, chiudendo la porta d’ingresso dietro di sé  e lasciandoci in un silenzio sepolcrale.

«Idiota. Almeno mi ha finalmente dato la possibilità di prenderlo a pugni. Era da troppo tempo che lo desideravo, ormai», disse Damon.

Per qualche istante aleggiò uno strano silenzio nell’atrio, poi il ragazzo mi guardò con aria stranita e disse: «Ma l’ha fatto davvero?».

Per un attimo ci fissammo, poi scoppiammo a ridere entrambi.

«È dunque questo il posto del tuo cuore?» gli fece il verso.

«Non essere odioso», replicai dandogli un colpetto sul braccio.

«Odioso io?! E che mi dici di lui allora!»

«Beh, era un bell’anello e una cosa del genere ad una signora fa sempre piacere, caro il mio Damon», lo presi in giro io.

La sua espressione fu impagabile in quel momento, era rimasto senza parole, ma si riprese poco dopo.

«Dunque è questo che desideri?» chiese prendendomi per i fianchi. «Un anello e una proposta?»

Cosa potevo dirgli? Mi aveva colta di sorpresa, non avevo una risposta. Io volevo lui e solo quello mi bastava; vivere serenamente come stavamo facendo in quel periodo; nient’altro, anche se certo, il matrimonio...

«Io voglio te. E adesso ti voglio nudo in camera nel nostro letto. Subito».

Una risposta del genere avrebbe sviato istantaneamente l’argomento; infatti i suoi occhi si accesero. Damon non era tipo da lasciarsi scappare quelle occasioni e, per l’appunto, non se lo fece  ripetere due volte.

Mi strinse a sé baciandomi intensamente, poi mi sollevò da terra ed io mi aggrappai con le gambe alla sua vita.

Era come se fossimo tornati ad essere due ragazzini alla prima cotta in preda agli ormoni tipici della pubertà; ormai ognuna delle nostre notti era così, quell’istinto di possedere l’uno il corpo dell’altra era quasi diventato un’esigenza, entrambi ne avevamo bisogno, ci cercavamo, era più forte di noi.

Damon, come sempre, era passionale e travolgente e anch’io, che ormai lo conoscevo bene, sapevo cosa fare per mandarlo su di giri. Alla fine, ci addormentavamo stanchi ma appagati, abbracciandoci stretti. Quella volta poi, il mio uomo diede proprio il massimo, forse grazie anche alla scenata di Elijah di qualche ora prima.

La mattina seguente, mentre guardavo Damon dormire placidamente, mi venne in mente che lui era davvero l’unico uomo al quale avevo donato tutta me stessa e al quale mi ero concessa e non riuscivo ad immaginarla diversamente, mai, neanche in un futuro molto molto lontano.

D’altra parte per me era quasi inconcepibile passare la mia intera vita al fianco di qualcuno che non fosse Damon,  ormai era entrato in me profondamente e l’idea di separarmi da lui era tragica e ridicola allo stesso tempo. La cosa che temevo di più al mondo era perderlo a causa del suo lavoro; se gli fosse successo qualcosa mentre era in servizio, se fosse mai andato storto qualcosa, io probabilmente ne sarei stata distrutta.

Scossi la testa per allontanare quei brutti pensieri e mi concentrai sulla sua figura immobile e scultorea. Era bellissimo.

Dopo qualche istante aprì gli occhi, piano, ancora assonnato.

«Ehi», disse a bassa voce con lo sguardo ancora confuso e posandomi una delle sue grandi mani  sul viso.

«Buongiorno», sorrisi. «Vuoi dormire ancora un po’?»

«No, voglio guardare la mia bellissima donna il più a lungo possibile»

«La tua bellissima donna deve andare a lavorare, ma tu puoi restare ancora a letto visto che oggi lavori soltanto il pomeriggio». Detto questo gli diedi un bacio a fior di labbra e cominciai a rivestirmi.

Dopo tre quarti d’ora ero a scuola.

Le lezioni trascorsero velocemente ed io mi rilassai insieme ai miei studenti. Ogni giorno scoprivo qualcosa di nuovo in loro e questo mi lasciava sempre meravigliata; era come se dentro avessero un intero mondo che ogni giorno, poco alla volta, mi si rivelava davanti agli occhi.

Quando le lezioni finirono, mi fermai un po’ con Rick. Prendemmo un caffè insieme e poi  mi invitò a casa da lui a Jenna. Accettai, anche perché non sapevo che altro fare dato che Damon non era a casa e poi avevo stretto una specie di strana amicizia con James, il loro primogenito. Era un ragazzino allegro e molto furbo e curioso e anche lui aveva sviluppato una forte simpatia nei miei confronti e aveva cominciato a chiamarmi “zia Roxy”.

Così, passai il pomeriggio ad aiutare la mia coppia di amici con i loro tre figli e a parlare un po’ con loro. Fu un pomeriggio molto piacevole, ma poi mi arrivò una telefonata da Caroline, che solo in quel momento sembrò essersi ricordata che il matrimonio di Elena e Stefan sarebbe avvenuto a giorni.

Farfugliò, anzi, strillò qualcosa riguardo alla musica e al catering e poi mi disse di raggiungerla.

«Tranquilla Roxy, abbiamo sentito anche noi ogni parola di Caroline e se vuoi puoi andare tranquillamente, grazie mille per la compagnia», disse Jenna sorridendo.

Così li abbracciai entrambi e andai al grill, dove la mia amica mi aspettava.

Lei era in fermento, io le dissi che doveva calmarsi e  che tanto ormai era troppo tardi per apportare le modifiche che aveva programmato perché mancavano soltanto tre giorni al matrimonio e tutti ormai fremevamo.

Soltanto a tarda sera Car mi lasciò tornare a casa. Non appena arrivai, vidi che l’auto di Damon non era ancora parcheggiata nel vialetto. Peccato, mi sarebbe piaciuto trovarlo a casa.

Mi preparai da mangiare molto velocemente, ero stanca, volevo andare a dormire. Fu allora che il telefono prese a squillare.

Guardai l’orologio, erano le undici e mezza. Chi poteva essere a quell’ora? Mi avvicinai all’apparecchio e alzai la cornetta.

«Pronto?»

Niente. Dall’altra parte nessuno parlò per diversi secondi, così alla fine riagganciai.

Mi avviai di  nuovo in cucina per lavare i piatti, quand’ecco che di nuovo, il telefono cominciò a suonare. Per qualche istante lo guardai interrogativa, poi di nuovo risposi, ma ancora una volta fu il silenzio.

La cosa si ripeté altre tre volte e io cominciavo ad alterarmi, ma anche un senso di inquietudine s’insinuò in me. Così, ad un tratto, presi il mio cellulare e composi a memoria il numero di Damon.

«Ehi, Rox», rispose lui.

«Dove sei?» chiesi senza neanche salutarlo.

«Esco adesso dalla stazione di polizia. Stai bene? È successo qualcosa?», il suo tono era allarmato.

«Arrivano delle chiamate strane al telefono di casa. Più che altro… continuano a telefonare, ma quando rispondo nessuno parla e, non per fare la paranoica, ma non riesco a stare molto tranquilla… ».

«Tra cinque minuti sono a casa, amore, cerca di non agitarti, io arrivo, preferisci stare al telefono con me intanto che sei da sola?»

«Sei sicuro che non sia un problema?»

«Ma certo, Rox, non ti preoccupare, io sono partito. Tu vai in camera e  non rispondere più se dovessero chiamare ancora».

«Va bene».

Feci come Damon aveva detto e nel frattempo il telefono squillò altre due volte.

Per fortuna lui non impiegò molto prima di arrivare ed entrò proprio mentre l’apparecchio suonava una volta ancora, così andò a rispondere.

Anche lui, proprio come me, provò a chiamare e chiedere se ci fosse nessuno dall’altra parte, poi si volse verso di me e disse: «Sai cosa facciamo noi due adesso?»

«Cosa?», chiesi incuriosita.

Damon si chinò e staccò la presa che collegava il cavo del telefono all’alimentatore di energia elettrica.

«Ora sfido chiunque a disturbarci».

Io mi misi a ridere, ma il senso di inquietudine che avevo dentro, non seppi per quale motivo, persisteva. Ad un tratto, il mio corpo fu scosso da un brivido che percorse tutta la mia spina dorsale.

«Rox, ehi, che cosa succede, tesoro?»

«Nulla, tranquillo, ero solo un po’ spaventata».

Damon mi strinse fra le sue braccia forti e calde.

«Non ti preoccupare, ci sono qui io. Andiamo a letto adesso, ti faccio un bel massaggio e tu cerchi di rilassarti. Va bene?»

Annuii. Dopotutto… come si poteva rinunciare ad una proposta del genere, specialmente se fatta da parte di Damon?

Mi preparai con calma e, una volta a letto, il moro cominciò a prendersi cura della mia schiena. Tempo dieci minuti ed ero già nel mondo dei sogni; non mi resi conto di nient’altro.

Gli ultimi tre giorni prima delle nozze tra Elena e Stefan volarono e la mattina del 21 marzo era carica di eccitazione e tensione.

L’unica cosa che in quei giorni aveva continuato a disturbarmi erano sempre le telefonate a cui nessuno rispondeva dall’altra parte del telefono. Ciò che più mi infastidiva era che avvenivano sempre quando Damon non c’era.

Ad ogni modo… erano le dieci di mattina, la cerimonia a Fell’s Church sarebbe cominciata alle undici ed io avevo ancora mezz’ora prima che Damon tornasse dal vecchio pensionato dei Salvatore, era andato da Stefan prima; poi sarebbe tornato a prendermi e ci saremmo recati in chiesa insieme.

Ero in camera da letto e mi stavo pettinando; avevo già indossato il lungo abito rosso da damigella e le scarpe con i tacchi, avevo appena finito di truccarmi, quand’ecco di nuovo squillare il telefono. Così, scesi al piano di sotto a grandi passi, ormai davvero stanca di quella situazione, dunque alzai la cornetta e ad alta voce esclamai: «Non so chi tu sia; ma sono veramente stanca delle tue continue chiamate anonime, quindi vedi di smetterla!».

Ciò che sentii all’altro capo del telefono però, non era quello che mi aspettavo. Infatti, una voce da uomo, strascicata e vagamente familiare, rispose.

«Comincia a scappare, Roxanne»; ma non ebbi neanche il tempo di collegare quella voce ad un volto, che il mio cervello aveva già capito tutto. Era lui.

Non ebbi il tempo di pensare perché la porta dell’ufficio di mio padre venne sfondata con un calcio e il mio aggressore, per la terza volta, tornò all’attacco brandendo uno dei suoi letali pugnali di ghiaccio.

Corsi velocemente nella stanza più vicina: la cucina e lì estrassi un grosso coltello  da uno dei cassetti.

L’uomo intanto mi aveva raggiunta e cercò di colpirmi con la sua arma, ma mi mancò e, in quella frazione di secondo, io riuscii a conficcargli il coltello nella spalla, talmente in profondità, che quando cercai di estrarlo, quello non venne fuori. Non avevo tempo da perdere, corsi all’ingresso, ma non appena cercai di aprire la porta, la maniglia mi rimase in mano.

Maledetto… l’aveva svitata di proposito e quello non era certo il momento più indicato per rimettersi ad avvitarla. Ero chiusa dentro.

Pensai velocemente. Usare il telefono di casa per chiamare i soccorsi era fuori discussione, era troppo vicino alla cucina e quell’uomo, dopo avermi imprecato contro un bel po’ di volte, stava già puntando nuovamente nella mia direzione, il coltello ancora piantato nella spalla.

Il mio cellulare era al piano di sopra, lo avevo lasciato in bagno e quella era l’unica possibilità che mi era venuta in mente.

 Allora mi tolsi i dodici centimetri di tacco e li lanciai all’ingresso, poi scappai il più velocemente possibile lungo le scale, ma ad un tratto mi sentii afferrare per la caviglia e fui scaraventata dolorosamente indietro, di nuovo per terra.

Mi divincolai in tutti i modi, ma il mio aggressore mi colpì alla testa con un vaso da fiori, aprendomi una ferita sulla fronte, che iniziò a sanguinare.

Proprio con uno dei cocci del vaso riuscii a tagliarlo e quel secondo fu sufficiente per permettermi di scappare.

La testa pulsava dolorosamente e non riuscivo a stare in piedi da sola, così mi aggrappai al corrimano delle scale e, il più velocemente possibile, tornai al piano di sopra.

Mio Dio, ma com’era possibile che quell’uomo fosse scappato dalla custodia dei militari? La situazione stava diventando sempre più assurda e, in quel momento, realizzai che quell’incubo non sarebbe finito finché uno dei due non fosse morto e, date le circostanze, sarei stata io ad avere la peggio.

Una volta arrivata in cima, mi trovai di fronte ad una scelta: il bagno o la stanza da letto.

I soccorsi o la difesa.

Il telefono o la pistola.

La salvezza o l’omicidio.

Fu per la seconda che optai.

Invece che girare a sinistra per il bagno, voltai a destra in direzione della camera da letto. Avevo preso la mia decisione e ogni istante era prezioso adesso, perché i soccorsi a quel punto non sarebbero mai arrivati. Non sapevo che ora fosse, il tempo passava e Damon, alle dieci e mezza, quando sarebbe rientrato a casa, avrebbe trovato un campo di battaglia.

La pistola era nel doppiofondo del cassetto dei calzini di Damon, ed era carica, anche se bloccata.

Sentivo dei passi veloci affrettarsi sulle scale, quel maniaco psicopatico stava tornando.

Stavo per togliere la sicura alla mia arma quando, per la seconda volta nella mia vita, dopo quella terribile notte, percepii un dolore lancinante al fianco.

Era un dolore acuto e penetrante. Un dolore intenso e indescrivibile.

Abbassai lo sguardo verso il mio addome e vidi che era trapassato da parte a parte da un pugnale di ghiaccio.

Mi mancò il respiro, non riuscivo ad espirare e in un momento mi si appannò la vista.

Caddi a terra sul fianco destro; il rosso del vestito era diventato più scuro e cupo a causa del sangue che si spandeva sempre più velocemente.

Riuscivo solo a distinguere la sagoma dell’uomo che mi si avvicinava  a passi pesanti. Un rivolo di sangue corse fuori da un angolo della mia bocca, sporcandomi il viso.

Stavo scivolando via lentamente, ma ad un tratto, non so come e non so con quale forza, riuscii a rimettermi in piedi.

Il mio aggressore mi fissava; io ricambiai il suo sguardo e capii che se non lo avessi fatto adesso non lo avrei fatto mai più.

Puntai la pistola, che non so come stringevo ancora in mano, contro quel mostro che mi aveva distrutto la vita.

BANG!

Un colpo assordante e un grido di quel maniaco psicopatico. Lo avevo colpito alla gamba. Ma lui si rialzò, preda di una rabbia inaudita e con una luce folle negli occhi.

BANG!

Altro colpo, altro grido, altro sangue, che stavolta fuoriusciva dalla spalla, non quella già ferita dal coltello.

Non si arrese, doveva finire il lavoro cominciato sette anni prima e doveva finirlo per sempre.

Mi era addosso, brandiva la sua letale arma, evidentemente aveva sempre un pugnale di scorta perché l’altro era ancora piantato nel mio fianco. Lo calò su di me, che per mezzo secondo riuscii a schivare la punta affilatissima.

BANG!

Stavolta avevo mirato alla testa.

Silenzio.

Niente più grida.

Niente più dolore.

Solo un corpo inerme crollato ai miei piedi e che mai più si sarebbe rialzato.

Una vita spenta per mano mia.

Una vita che aveva strappato al mondo tante altre vite.

Una vita che aveva strappato Kelly al mondo.

La mia tragedia si era conclusa con un’altra tragedia, ma stavolta era finita.

Per sempre.

Ora… era finita.

Fu a quel punto che scivolai nel buio.

 

[…]

 

Mi risvegliai a causa di uno strano rumore, ero confusa, stordita e provavo dolore a tutto il corpo.

Ci volle qualche minuto per capire che mi trovavo in ospedale e quegli strani suoni che mi avevano svegliata, erano dovuti ai macchinari.

Sul comodino  al mio fianco c’era un campanello, così lo suonai. Dando una veloce occhiata alla stanza, constatai soltanto che l’arredamento era un po’ spoglio, per il resto era completamente vuota, il letto accanto al mio era intatto e immacolato.

Poco dopo, dalla porta entrò un medico.

«Buongiorno», mi salutò cordialmente.

Ricambiai con un mezzo sorriso, avevo poca forza anche per parlare, così lasciai che fosse lui a farlo.

Mi spiegò che ero arrivata in ospedale in gravi condizioni, ma che un intervento era riuscito a sistemare tutto.

«Abbiamo però incontrato un imprevisto durante l’operazione, signorina Stevenson…», disse a un certo punto con un tono che non riuscii ad identificare.

Cominciai a prendere in considerazione ogni terribile e assurda ipotesi: il pancreas era stato lesionato irreversibilmente ed ora ero diabetica; il fegato era stato lacerato e avrei avuto bisogno di un trapianto.

Le mie congetture mentali furono improvvisamente bloccate dal medico, che con un sorriso mi disse: «Lei è incinta».

NOTE:

Ooook, finale col botto! Dovevo farmi perdonare almeno un pochino per la TROPPO prolungata assenza.

Lo so che sono stata imperdonabile, ma davvero, mi ero impallata completamente. Non sapevo come diavolo andare avanti dopo la scazzottata tra Damon e Elijah e… nulla. Ho provato a riprendere in mano il capitolo più volte, ma sempre, rimanevo davanti alla tastiera a scrivere solo “Faccio schifo” perché ero proprio bloccata.

Poi, due giorni fa, ho riletto tutta la storia ed ora ecco qui sfornato il dodicesimo, sudatissimo capitolo.

Bene, abbiamo visto che sono successe tante tante cose. Il pazzo è morto e la nostra Rox è in dolce attesa! Chi lo avrebbe mai detto?

In effetti non ci avevo pensato neanch’io, mi è venuto così di getto.

Vi dirò, la scena della morte dello psicopatico era già scritta da un bel po’ di tempo,  non pensavo proprio che l’avrei inserita in questo capitolo, ma… una cosa tira l’altra ed infine eccoci qui.

Che ne dite? Come vi è sembrato come ritorno?

Lascio a voi le impressioni e anche l’immagine dell’anello con cui Elijah ha fatto la proposta a Rox, ma dubito che vi interessi qualcosa dell’anello dopo aver letto l’ultima parte del capitolo XD

Bene. Tolgo il disturbo e buona serata a tutti!

Anello di Elijah


  
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