CAPITOLO
12: IL GRANDE GIORNO
Ero rimasta
paralizzata. Elijah era lì, davanti a me, con un cofanetto di velluto blu
aperto nel quale era contenuto un anello che sicuramente valeva più della mia
macchina. Il diamante era a forma di cuore ed era… beh, era magnifico,
nonostante non fosse nel mio stile.
Io ero letteralmente a
bocca aperta e non riuscivo davvero a proferir parola. Solo quando udii la voce
bassa e rabbiosa di Damon mi riscossi.
«Cosa diavolo ci fai
qui?».
Elijah si voltò verso
di lui.
«Ma come? Mi vedi qui
con un anello di fidanzamento davanti a questa bellissima donna e mi chiedi
davvero cosa stia facendo?».
«Già, solo che ti è
sfuggito un piccolo particolare.
Questa bellissima donna, si dà il caso che sia la MIA donna. E tu te ne devi andare da casa nostra. Devi sparire dalla nostra
vita e non farti rivedere mai più perché ho avuto abbastanza pazienza con
te fino ad ora e è giunto il momento che ti prenda a pugni».
Gli posai una mano sul
braccio per cercare di calmarlo.
«Damon… ».
«Non stavolta, Rox. Io
ti amo, ma questo qui mi ha veramente stancato!» e a questo punto Damon, che in
effetti aveva resistito molto a lungo, esplose e sferrò un potente pugno alla
mascella di Elijah.
«Damon!», ma lui mi
ignorò.
«Con quale coraggio ti
sei presentato qui e le hai chiesto di sposarti, eh?», chiese poi. Ora la sua
voce era alta e furente.
«Con quale coraggio ti
sei presentato in casa nostra e le hai fatto una proposta di matrimonio?!».
Elijah, che si era
appena rialzato e si teneva una mano premuta sul punto colpito da Damon, parve
ignorarlo e si rivolse a me.
«È questo, dunque, il
tuo posto, Roxanne? È questo il posto del tuo cuore? Al suo fianco?».
Il suo sguardo era
serio e la sua voce profonda e suadente. Non lo avevo mai visto così prima
d’ora.
Presi la mano di Damon.
«Sì, Elijah. Il mio
posto è qui con lui».
L’uomo chinò il capo e
sul suo volto si aprì un sorriso amaro.
«Molto bene, mia cara.
Ti auguro ogni bene».
Detto questo, Elijah si
chinò a baciarmi la fronte, ci diede le spalle e sparì, chiudendo la porta
d’ingresso dietro di sé e lasciandoci in
un silenzio sepolcrale.
«Idiota. Almeno mi ha
finalmente dato la possibilità di prenderlo a pugni. Era da troppo tempo che lo
desideravo, ormai», disse Damon.
Per qualche istante
aleggiò uno strano silenzio nell’atrio, poi il ragazzo mi guardò con aria
stranita e disse: «Ma l’ha fatto davvero?».
Per un attimo ci
fissammo, poi scoppiammo a ridere entrambi.
«È dunque questo il
posto del tuo cuore?» gli fece il verso.
«Non essere odioso»,
replicai dandogli un colpetto sul braccio.
«Odioso io?! E che mi
dici di lui allora!»
«Beh, era un
bell’anello e una cosa del genere ad una signora fa sempre piacere, caro il mio
Damon», lo presi in giro io.
La sua espressione fu
impagabile in quel momento, era rimasto senza parole, ma si riprese poco dopo.
«Dunque è questo che
desideri?» chiese prendendomi per i fianchi. «Un anello e una proposta?»
Cosa potevo dirgli? Mi
aveva colta di sorpresa, non avevo una risposta. Io volevo lui e solo quello mi
bastava; vivere serenamente come stavamo facendo in quel periodo; nient’altro,
anche se certo, il matrimonio...
«Io voglio te. E adesso
ti voglio nudo in camera nel nostro letto. Subito».
Una risposta del genere
avrebbe sviato istantaneamente l’argomento; infatti i suoi occhi si accesero.
Damon non era tipo da lasciarsi scappare quelle occasioni e, per l’appunto, non
se lo fece ripetere due volte.
Mi strinse a sé
baciandomi intensamente, poi mi sollevò da terra ed io mi aggrappai con le
gambe alla sua vita.
Era come se fossimo
tornati ad essere due ragazzini alla prima cotta in preda agli ormoni tipici
della pubertà; ormai ognuna delle nostre notti era così, quell’istinto di
possedere l’uno il corpo dell’altra era quasi diventato un’esigenza, entrambi
ne avevamo bisogno, ci cercavamo, era più forte di noi.
Damon, come sempre, era
passionale e travolgente e anch’io, che ormai lo conoscevo bene, sapevo cosa
fare per mandarlo su di giri. Alla fine, ci addormentavamo stanchi ma appagati,
abbracciandoci stretti. Quella volta poi, il mio uomo diede proprio il massimo,
forse grazie anche alla scenata di Elijah di qualche ora prima.
La mattina seguente,
mentre guardavo Damon dormire placidamente, mi venne in mente che lui era
davvero l’unico uomo al quale avevo donato tutta me stessa e al quale mi ero
concessa e non riuscivo ad immaginarla diversamente, mai, neanche in un futuro
molto molto lontano.
D’altra parte per me
era quasi inconcepibile passare la mia intera vita al fianco di qualcuno che
non fosse Damon, ormai era entrato in me
profondamente e l’idea di separarmi da lui era tragica e ridicola allo stesso
tempo. La cosa che temevo di più al mondo era perderlo a causa del suo lavoro;
se gli fosse successo qualcosa mentre era in servizio, se fosse mai andato
storto qualcosa, io probabilmente ne sarei stata distrutta.
Scossi la testa per
allontanare quei brutti pensieri e mi concentrai sulla sua figura immobile e
scultorea. Era bellissimo.
Dopo qualche istante
aprì gli occhi, piano, ancora assonnato.
«Ehi», disse a bassa
voce con lo sguardo ancora confuso e posandomi una delle sue grandi mani sul viso.
«Buongiorno», sorrisi.
«Vuoi dormire ancora un po’?»
«No, voglio guardare la
mia bellissima donna il più a lungo possibile»
«La tua bellissima
donna deve andare a lavorare, ma tu puoi restare ancora a letto visto che oggi
lavori soltanto il pomeriggio». Detto questo gli diedi un bacio a fior di
labbra e cominciai a rivestirmi.
Dopo tre quarti d’ora
ero a scuola.
Le lezioni trascorsero
velocemente ed io mi rilassai insieme ai miei studenti. Ogni giorno scoprivo
qualcosa di nuovo in loro e questo mi lasciava sempre meravigliata; era come se
dentro avessero un intero mondo che ogni giorno, poco alla volta, mi si
rivelava davanti agli occhi.
Quando le lezioni
finirono, mi fermai un po’ con Rick. Prendemmo un caffè insieme e poi mi invitò a casa da lui a Jenna. Accettai,
anche perché non sapevo che altro fare dato che Damon non era a casa e poi
avevo stretto una specie di strana amicizia con James, il loro primogenito. Era
un ragazzino allegro e molto furbo e curioso e anche lui aveva sviluppato una
forte simpatia nei miei confronti e aveva cominciato a chiamarmi “zia Roxy”.
Così, passai il
pomeriggio ad aiutare la mia coppia di amici con i loro tre figli e a parlare
un po’ con loro. Fu un pomeriggio molto piacevole, ma poi mi arrivò una
telefonata da Caroline, che solo in quel momento sembrò essersi ricordata che
il matrimonio di Elena e Stefan sarebbe avvenuto a giorni.
Farfugliò, anzi,
strillò qualcosa riguardo alla musica e al catering e poi mi disse di
raggiungerla.
«Tranquilla Roxy,
abbiamo sentito anche noi ogni parola di Caroline e se vuoi puoi andare
tranquillamente, grazie mille per la compagnia», disse Jenna sorridendo.
Così li abbracciai
entrambi e andai al grill, dove la mia amica mi aspettava.
Lei era in fermento, io
le dissi che doveva calmarsi e che tanto
ormai era troppo tardi per apportare le modifiche che aveva programmato perché
mancavano soltanto tre giorni al matrimonio e tutti ormai fremevamo.
Soltanto a tarda sera Car
mi lasciò tornare a casa. Non appena arrivai, vidi che l’auto di Damon non era
ancora parcheggiata nel vialetto. Peccato, mi sarebbe piaciuto trovarlo a casa.
Mi preparai da mangiare
molto velocemente, ero stanca, volevo andare a dormire. Fu allora che il telefono
prese a squillare.
Guardai l’orologio,
erano le undici e mezza. Chi poteva essere a quell’ora? Mi avvicinai
all’apparecchio e alzai la cornetta.
«Pronto?»
Niente. Dall’altra
parte nessuno parlò per diversi secondi, così alla fine riagganciai.
Mi avviai di nuovo in cucina per lavare i piatti,
quand’ecco che di nuovo, il telefono cominciò a suonare. Per qualche istante lo
guardai interrogativa, poi di nuovo risposi, ma ancora una volta fu il
silenzio.
La cosa si ripeté altre
tre volte e io cominciavo ad alterarmi, ma anche un senso di inquietudine
s’insinuò in me. Così, ad un tratto, presi il mio cellulare e composi a memoria
il numero di Damon.
«Ehi, Rox», rispose
lui.
«Dove sei?» chiesi
senza neanche salutarlo.
«Esco adesso dalla
stazione di polizia. Stai bene? È successo qualcosa?», il suo tono era
allarmato.
«Arrivano delle
chiamate strane al telefono di casa. Più che altro… continuano a telefonare, ma
quando rispondo nessuno parla e, non per fare la paranoica, ma non riesco a
stare molto tranquilla… ».
«Tra cinque minuti sono
a casa, amore, cerca di non agitarti, io arrivo, preferisci stare al telefono
con me intanto che sei da sola?»
«Sei sicuro che non sia
un problema?»
«Ma certo, Rox, non ti
preoccupare, io sono partito. Tu vai in camera e non rispondere più se dovessero chiamare
ancora».
«Va bene».
Feci come Damon aveva
detto e nel frattempo il telefono squillò altre due volte.
Per fortuna lui non
impiegò molto prima di arrivare ed entrò proprio mentre l’apparecchio suonava
una volta ancora, così andò a rispondere.
Anche lui, proprio come
me, provò a chiamare e chiedere se ci fosse nessuno dall’altra parte, poi si
volse verso di me e disse: «Sai cosa facciamo noi due adesso?»
«Cosa?», chiesi
incuriosita.
Damon si chinò e staccò
la presa che collegava il cavo del telefono all’alimentatore di energia
elettrica.
«Ora sfido chiunque a
disturbarci».
Io mi misi a ridere, ma
il senso di inquietudine che avevo dentro, non seppi per quale motivo,
persisteva. Ad un tratto, il mio corpo fu scosso da un brivido che percorse
tutta la mia spina dorsale.
«Rox, ehi, che cosa
succede, tesoro?»
«Nulla, tranquillo, ero
solo un po’ spaventata».
Damon mi strinse fra le
sue braccia forti e calde.
«Non ti preoccupare, ci
sono qui io. Andiamo a letto adesso, ti faccio un bel massaggio e tu cerchi di
rilassarti. Va bene?»
Annuii. Dopotutto… come
si poteva rinunciare ad una proposta del genere, specialmente se fatta da parte
di Damon?
Mi preparai con calma
e, una volta a letto, il moro cominciò a prendersi cura della mia schiena.
Tempo dieci minuti ed ero già nel mondo dei sogni; non mi resi conto di
nient’altro.
Gli ultimi tre giorni
prima delle nozze tra Elena e Stefan volarono e la mattina del 21 marzo era
carica di eccitazione e tensione.
L’unica cosa che in
quei giorni aveva continuato a disturbarmi erano sempre le telefonate a cui
nessuno rispondeva dall’altra parte del telefono. Ciò che più mi infastidiva
era che avvenivano sempre quando Damon non c’era.
Ad ogni modo… erano le
dieci di mattina, la cerimonia a Fell’s Church sarebbe cominciata alle undici
ed io avevo ancora mezz’ora prima che Damon tornasse dal vecchio pensionato dei
Salvatore, era andato da Stefan prima; poi sarebbe tornato a prendermi e ci
saremmo recati in chiesa insieme.
Ero in camera da letto
e mi stavo pettinando; avevo già indossato il lungo abito rosso da damigella e
le scarpe con i tacchi, avevo appena finito di truccarmi, quand’ecco di nuovo
squillare il telefono. Così, scesi al piano di sotto a grandi passi, ormai davvero
stanca di quella situazione, dunque alzai la cornetta e ad alta voce esclamai:
«Non so chi tu sia; ma sono veramente stanca delle tue continue chiamate
anonime, quindi vedi di smetterla!».
Ciò che sentii
all’altro capo del telefono però, non era quello che mi aspettavo. Infatti, una
voce da uomo, strascicata e vagamente familiare, rispose.
«Comincia a scappare,
Roxanne»; ma non ebbi neanche il tempo di collegare quella voce ad un volto,
che il mio cervello aveva già capito tutto. Era lui.
Non ebbi il tempo di
pensare perché la porta dell’ufficio di mio padre venne sfondata con un calcio
e il mio aggressore, per la terza volta, tornò all’attacco brandendo uno dei
suoi letali pugnali di ghiaccio.
Corsi velocemente nella
stanza più vicina: la cucina e lì estrassi un grosso coltello da uno dei cassetti.
L’uomo intanto mi aveva
raggiunta e cercò di colpirmi con la sua arma, ma mi mancò e, in quella
frazione di secondo, io riuscii a conficcargli il coltello nella spalla,
talmente in profondità, che quando cercai di estrarlo, quello non venne fuori.
Non avevo tempo da perdere, corsi all’ingresso, ma non appena cercai di aprire
la porta, la maniglia mi rimase in mano.
Maledetto… l’aveva
svitata di proposito e quello non era certo il momento più indicato per
rimettersi ad avvitarla. Ero chiusa dentro.
Pensai velocemente.
Usare il telefono di casa per chiamare i soccorsi era fuori discussione, era
troppo vicino alla cucina e quell’uomo, dopo avermi imprecato contro un bel po’
di volte, stava già puntando nuovamente nella mia direzione, il coltello ancora
piantato nella spalla.
Il mio cellulare era al
piano di sopra, lo avevo lasciato in bagno e quella era l’unica possibilità che
mi era venuta in mente.
Allora mi tolsi i dodici centimetri di tacco e
li lanciai all’ingresso, poi scappai il più velocemente possibile lungo le
scale, ma ad un tratto mi sentii afferrare per la caviglia e fui scaraventata
dolorosamente indietro, di nuovo per terra.
Mi divincolai in tutti
i modi, ma il mio aggressore mi colpì alla testa con un vaso da fiori,
aprendomi una ferita sulla fronte, che iniziò a sanguinare.
Proprio con uno dei
cocci del vaso riuscii a tagliarlo e quel secondo fu sufficiente per
permettermi di scappare.
La testa pulsava
dolorosamente e non riuscivo a stare in piedi da sola, così mi aggrappai al
corrimano delle scale e, il più velocemente possibile, tornai al piano di
sopra.
Mio Dio, ma com’era
possibile che quell’uomo fosse scappato dalla custodia dei militari? La
situazione stava diventando sempre più assurda e, in quel momento, realizzai
che quell’incubo non sarebbe finito finché uno dei due non fosse morto e, date
le circostanze, sarei stata io ad avere la peggio.
Una volta arrivata in
cima, mi trovai di fronte ad una scelta: il bagno o la stanza da letto.
I soccorsi o la difesa.
Il telefono o la
pistola.
La salvezza o
l’omicidio.
Fu per la seconda che
optai.
Invece che girare a
sinistra per il bagno, voltai a destra in direzione della camera da letto.
Avevo preso la mia decisione e ogni istante era prezioso adesso, perché i
soccorsi a quel punto non sarebbero mai arrivati. Non sapevo che ora fosse, il
tempo passava e Damon, alle dieci e mezza, quando sarebbe rientrato a casa,
avrebbe trovato un campo di battaglia.
La pistola era nel
doppiofondo del cassetto dei calzini di Damon, ed era carica, anche se
bloccata.
Sentivo dei passi
veloci affrettarsi sulle scale, quel maniaco psicopatico stava tornando.
Stavo per togliere la
sicura alla mia arma quando, per la seconda volta nella mia vita, dopo quella
terribile notte, percepii un dolore lancinante al fianco.
Era un dolore acuto e
penetrante. Un dolore intenso e indescrivibile.
Abbassai lo sguardo
verso il mio addome e vidi che era trapassato da parte a parte da un pugnale di
ghiaccio.
Mi mancò il respiro,
non riuscivo ad espirare e in un momento mi si appannò la vista.
Caddi a terra sul
fianco destro; il rosso del vestito era diventato più scuro e cupo a causa del
sangue che si spandeva sempre più velocemente.
Riuscivo solo a
distinguere la sagoma dell’uomo che mi si avvicinava a passi pesanti. Un rivolo di sangue corse
fuori da un angolo della mia bocca, sporcandomi il viso.
Stavo scivolando via
lentamente, ma ad un tratto, non so come e non so con quale forza, riuscii a
rimettermi in piedi.
Il mio aggressore mi
fissava; io ricambiai il suo sguardo e capii che se non lo avessi fatto adesso
non lo avrei fatto mai più.
Puntai la pistola, che
non so come stringevo ancora in mano, contro quel mostro che mi aveva distrutto
la vita.
BANG!
Un colpo assordante e
un grido di quel maniaco psicopatico. Lo avevo colpito alla gamba. Ma lui si
rialzò, preda di una rabbia inaudita e con una luce folle negli occhi.
BANG!
Altro colpo, altro
grido, altro sangue, che stavolta fuoriusciva dalla spalla, non quella già
ferita dal coltello.
Non si arrese, doveva
finire il lavoro cominciato sette anni prima e doveva finirlo per sempre.
Mi era addosso,
brandiva la sua letale arma, evidentemente aveva sempre un pugnale di scorta
perché l’altro era ancora piantato nel mio fianco. Lo calò su di me, che per
mezzo secondo riuscii a schivare la punta affilatissima.
BANG!
Stavolta avevo mirato
alla testa.
Silenzio.
Niente più grida.
Niente più dolore.
Solo un corpo inerme
crollato ai miei piedi e che mai più si sarebbe rialzato.
Una vita spenta per
mano mia.
Una vita che aveva
strappato al mondo tante altre vite.
Una vita che aveva
strappato Kelly al mondo.
La mia tragedia si era
conclusa con un’altra tragedia, ma stavolta era finita.
Per sempre.
Ora… era finita.
Fu a quel punto che
scivolai nel buio.
[…]
Mi risvegliai a causa
di uno strano rumore, ero confusa, stordita e provavo dolore a tutto il corpo.
Ci volle qualche minuto
per capire che mi trovavo in ospedale e quegli strani suoni che mi avevano
svegliata, erano dovuti ai macchinari.
Sul comodino al mio fianco c’era un campanello, così lo
suonai. Dando una veloce occhiata alla stanza, constatai soltanto che l’arredamento
era un po’ spoglio, per il resto era completamente vuota, il letto accanto al
mio era intatto e immacolato.
Poco dopo, dalla porta
entrò un medico.
«Buongiorno», mi salutò
cordialmente.
Ricambiai con un mezzo
sorriso, avevo poca forza anche per parlare, così lasciai che fosse lui a
farlo.
Mi spiegò che ero
arrivata in ospedale in gravi condizioni, ma che un intervento era riuscito a
sistemare tutto.
«Abbiamo però
incontrato un imprevisto durante l’operazione, signorina Stevenson…», disse a
un certo punto con un tono che non riuscii ad identificare.
Cominciai a prendere in
considerazione ogni terribile e assurda ipotesi: il pancreas era stato
lesionato irreversibilmente ed ora ero diabetica; il fegato era stato lacerato
e avrei avuto bisogno di un trapianto.
Le mie congetture
mentali furono improvvisamente bloccate dal medico, che con un sorriso mi
disse: «Lei è incinta».
NOTE:
Ooook, finale col
botto! Dovevo farmi perdonare almeno un pochino per la TROPPO prolungata
assenza.
Lo so che sono stata
imperdonabile, ma davvero, mi ero impallata completamente. Non sapevo come
diavolo andare avanti dopo la scazzottata tra Damon e Elijah e… nulla. Ho
provato a riprendere in mano il capitolo più volte, ma sempre, rimanevo davanti
alla tastiera a scrivere solo “Faccio schifo” perché ero proprio bloccata.
Poi, due giorni fa, ho
riletto tutta la storia ed ora ecco qui sfornato il dodicesimo, sudatissimo
capitolo.
Bene, abbiamo visto che
sono successe tante tante cose. Il pazzo è morto e la nostra Rox è in dolce
attesa! Chi lo avrebbe mai detto?
In effetti non ci avevo
pensato neanch’io, mi è venuto così di getto.
Vi dirò, la scena della
morte dello psicopatico era già scritta da un bel po’ di tempo, non pensavo proprio che l’avrei inserita in
questo capitolo, ma… una cosa tira l’altra ed infine eccoci qui.
Che ne dite? Come vi è
sembrato come ritorno?
Lascio a voi le
impressioni e anche l’immagine dell’anello con cui Elijah ha fatto la proposta
a Rox, ma dubito che vi interessi qualcosa dell’anello dopo aver letto l’ultima
parte del capitolo XD
Bene. Tolgo il disturbo e buona serata a tutti!