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(PRIMA PARTE)
Izumi
continuò a correre a correre senza mai fermarsi, perdendosi nel silenzio
spettrale ed angosciante della foresta che circondava le terme, ed i cui
alberi, come un esercito di fantasmi, la sovrastavano, la soffocavano,
sembravano volerla avvinghiare.
Era colpa sua.
Era tutta colpa sua.
Nagisa aveva ragione.
Niente sarebbe mai accaduto, se lei non fosse
mai entrata nella vita di Eric.
Ogni volta che lei si era trovata in pericolo,
lui era accorso per proteggerla mettendo a rischio la sua vita; era stato così
anche quella notte, solo che questa volta rischiava di essere l’ultima.
Era vero quando Nagisa diceva che, dentro di
lei, Izumi in qualche modo aveva sempre saputo che, qualunque fosse stato il
pericolo in cui si fosse venuta a trovare, Eric in qualche modo sarebbe sempre
intervenuto ad aiutarla.
Talmente a lungo si era adagiata su questa
convinzione che aveva finito per darla inconsciamente per scontata, e ora Eric
rischiava di pagare il prezzo della sua impulsività.
Non meritava di stagli vicino.
Di più, non doveva.
Standogli accanto lo avrebbe solo messo in
pericolo.
Dopotutto, era anche colpa sua se erano
successe molte di quelle cose; colpa del suo sangue speciale, del suo potere di
attirare i vampiri.
“Eric. Mi dispiace!” continuava a pensare
addentrandosi sempre più nel bosco.
Le parole di Nagisa le risuonavano nella mente
come le unghie sulla lavagna, riempiendole il cuore di amarezza e dolore.
Perché?
Perché tutto quello che sapeva fare era
mettere in pericolo la persona che diceva di amare?
E ancora di più le faceva male pensare a
quanto Nagisa dovesse avere sofferto per tutto quel tempo, costretta a
mascherare i suoi sentimenti e ad osservare nel frattempo il suo signore che si
scioglieva per un’altra.
Con che coraggio avrebbe potuto guardarla
ancora negl’occhi?
Fu così che, nel momento in cui una malevola
radice interruppe la sua corsa, vedendo un breve ma ripido pendio aprirsi da un
istante all’altro sotto di sé, per un attimo arrivò quasi a sperare che quella
fosse la fine; almeno, così, non avrebbe più arrecato danno a nessuno.
All’albergo,
almeno tra quelli che sapevano, regnava l’attesa.
Eric era stato chiuso in camera sua, guardato
a vista, e almeno per il momento non c’erano segni di miglioramento.
Tutto era nelle sue mani. Stava solo a lui
trovare la forza necessaria per non soccombere al virus. Di tanto in tanto
Kaien, appostato fuori dalla sua porta, lo sentiva mugolare e lamentarsi, segno
che, pur nel delirio del dolore, stava sforzandosi di combattere.
«Come procede?» chiese Peter passando per
l’ennesima volta davanti agli occhi del direttore, ricevendo per l’ennesima
volta lo stesso cenno del capo
Peter gettò quindi uno sguardo a Yagari,
seduto ad un tavolino del salotto accanto; anche se cercava di far credere di
stare ingannando il tempo giocando a shoji contro sé
stesso, i continui sguardi di sottecchi verso la porta erano più che eloquenti,
e non lasciavano alcun dubbio su quali fossero le sue reali intenzioni.
Anche per quello Kaien aveva voluto sostare
tutto il tempo a guardia di Eric; non che non si fidasse del suo vecchio amico
Yagari, ma non se l’era sentita di rischiare a scoprire fino a che punto
potesse arrivare la sua cieca determinazione.
Ma non c’erano solo i tre insegnanti a girare
attorno a quella porta.
Nagisa, subito dopo quel violento diverbio con
Izumi, era tornata indietro per rivedere il suo maestro, ma anche a lei come a
chiunque altro era stato proibito di avvicinarsi per motivi di sicurezza. Così
era uscita di nuovo in giardino, mettendosi in un punto da cui aveva una
visuale chiara di quello che accadeva là attorno e nascondendosi nell’ombra, in
modo da poter vedere e sentire qualunque cosa senza che nessuno si accorgesse
di lei.
Se davvero era un cane da guardia, allora era
suo compito vegliare il suo padrone soprattutto ora che stava soffrendo.
Tuttavia, per qualche motivo, non le riusciva
di svolgere il suo incarico di guardia fedele con la stessa efficienza di
sempre.
La sua mente era troppo annebbiata, troppo
confusa. Ripensava a quanto successo, a tutte le cose che aveva detto, e a come,
per la prima volta dopo chissà quanto tempo, avesse esternato i propri
sentimenti e le proprie emozioni così, senza freni.
Ripensava al volto di Izumi, alla sua
espressione affranta ed incredula, e senza sapere perché iniziò ad essere presa
da un insopportabile ed inspiegabile senso di colpa.
Perché doveva sentirsi così se si era limitata
a dire la verità?
Il suo maestro stava morendo, e se non fosse
stato per lei non sarebbe accaduto. Ma se era così, e se continuava a pensare
che quello che aveva detto fosse giusto, allora perché se si sentiva così male?
Nel mentre il direttore, giusto per tenersi
impegnato, aveva deciso di chiamare Tokyo per informarli dell’abbattimento del
Livello E infetto, e recuperato il suo i-phone chiamò
Negi a casa sua.
«Che vuoi?» domandò bruscamente Kogoro
rispondendo al telefono dopo essere sceso di malavoglia dal letto
«Volevo informarti che il Livello E affetto da
rabbia è stato abbattuto.»
«E non potevi aspettare domattina per
dirmelo?»
«Volevo tenermi impegnato. Ti mando le
specifiche, così puoi stilare il rapporto».
Kaien a quel punto spedì tutto quello che
aveva: foto del corpo, informazioni varie e la sua testimonianza firmata
dell’avvenuta uccisione.
Le informazioni arrivarono per e-mail quasi
subito, e Kogoro staccò qualche secondo per esaminarle; il direttore credeva
che fosse tutto apposto, ma la faccia del suo vecchio amico quando ricomparve
sul monitor lasciava intendere che invece non era così.
«A che gioco stiamo giocando? Non è lui.»
«Come!?» disse Kaien incredulo «Che vuoi
dire?»
«Non si è capito? Non è lui il vampiro che
stavamo cercando.»
«Che cos’hai detto!?».
L’esclamazione del direttore fu udita anche da
Peter e Yagari, e anche da Nagisa, che nonostante la distanza e le porte chiuse
aveva dalla sua l’udito eccezionale di un vampiro.
«Ma sei proprio sicuro? Sei sicuro che non sia
lui?»
«Non vedo come non potrei non esserlo, visto
che il nostro vampiro è una donna.»
«Una donna!? E perché non lo hai detto subito,
razza di professore alcolizzato!»
«Beh, il lato positivo c’è.» commentò
mestamente Peter quando il direttore ebbe riattaccato «Questo aumenta
sensibilmente le speranza di Eric. Contrarre l’infezione in modo indiretto è
sicuramente meglio che contrarla dal paziente zero.»
«Ormai non manca molto al sorgere del sole.»
ordinò Kaien «Teniamo alta la guardia e facciamo attenzione. Con un po’ di
fortuna si risolverà tutto entro l’alba.
Gli studenti sono tutti al sicuro?»
«Li ho contati poco fa.» disse Yagari «Ci sono
tutti».
E invece no.
Loro non potevano saperlo, ma qualcuno non
c’era.
Izumi, istintivamente, guardò alle proprie
spalle, verso la montagna.
Non sapeva perché, ma di colpo la prese un
senso di ansia.
Perché si sentiva così? Perché doveva
preoccuparsi di quello che poteva succederle? Non le aveva appena detto che
sarebbe stato molto meglio se fosse scomparsa.
Così, Eric sarebbe stato tutto suo. Ci sarebbe
voluto del tempo, ma sicuramente l’avrebbe dimenticata.
Ma poi, con che coraggio avrebbe continuato a
stargli vicino? Come si sarebbe giustificata?
Per un attimo ebbe la sensazione di stare
diventando proprio come quegli stessi vampiri che sia lei che il suo maestro
odiavano tanto.
Il suo cuore era una tempesta senza fine.
Non riusciva a pensare. Non riusciva a
decidere.
Che cosa doveva fare?
Le
prime due cose che Izumi sentì riprendendo i sensi furono un rumore di acqua
che scorreva e un dolore tremendo alla gamba destra.
Il pendio da cui era caduta era davvero molto
lungo e ripido, e l’aveva fatta finire sulle sponde di uno dei tanti ruscelli
che scorrevano sul fondo delle vallate circostanti.
Per qualche motivo, forse grazie all’erba, era
sopravvissuta, ma quando provò ad alzarsi il dolore alla gamba fu tale da farle
stringere i denti.
La guardò per capire l’entità del danno; non
si erano aperte ferite, per fortuna, ma la caviglia era rossa e gonfia, segno
che doveva essersela slogata.
Sperò che il potere di Izanami
tornasse ad aiutarla, ma se ci aveva messo quasi un’ora per riparare un
taglietto chissà quanto avrebbe impiegato a risanare una slogatura.
Il pensiero per un attimo la fece quasi
vergognare: ancora una volta contava su qualcosa non suo per uscire dai guai,
non sulle sue sole forze, come avrebbero fatto Eric o Nagisa.
Ma in quel caso, non che ci fosse molto da
fare; non aveva la benché minima idea di dove si trovasse, e non era sicura che
quella luce arroccata in cima ad un pendio fosse la pensione: se non fosse
stato per la notte particolarmente illuminata, si sarebbe addirittura ritrovata
completamente al buio.
Faticosamente, strisciando sulle rocce, si
trascinò fino ad un grosso masso che emergeva dall’acqua, e una volta che vi si
fu appoggiata immerse nell’acqua il fazzoletto che portava sempre con sé,
tirando un paio di respiri profondi prima di appoggiarlo sulla caviglia.
Riuscì a trattenere le urla per un vero
miracolo, ma proprio mentre iniziava a sentire un po’ di sollievo ebbe di nuovo
quella solita, orribile sensazione.
C’era qualcuno che la osservava.
Un brivido le corse lungo la schiena, mentre
si guardava attorno forsennatamente sperando di scorgere la minaccia.
Come avrebbe fatto a cavarsela in quelle
condizioni, sola e impossibilitata a muoversi?
Cercando una soluzione che potesse salvarla,
la mano le passò casualmente nel risvolto dei calzoncini da escursione che
indossava, saggiando qualcosa di duro e levigato che le risultò subito
famigliare.
Lo guardò. Era il pugnale. Il pugnale che Emma-senpai le aveva regalato perché imparasse a
difendersi.
Da quel giorno aveva cercato di non pensarci
più, volendo dimenticare ciò che era accaduto e quello che aveva fatto, ma per
qualche motivo che non le riusciva di scoprire, quasi ogni volta che si era
ritrovata a dover stare da sola aveva sempre finito, quasi inconsciamente, per
portarlo con sé.
Forse era stato l’istinto.
La volontà sottile e segreta di potersi sempre
difendere anche nelle situazioni più difficili, come se dentro di lei ci fosse
sempre stata una parte che, nonostante tutto, voleva crescere e farsi
indipendente.
Si guardò ancora attorno, quindi guardò il
pugnale.
Dentro di lei sentì montare il coraggio.
Aveva sempre deprecato la violenza e
l’omicidio, e sempre lo avrebbe fatto, ma ora si trattava di sopravvivenza.
«Non fuggirò.» disse tra sé e sé «Non questa
volta.» e portatasi con la schiena contro il masso, per avere le spalle
coperte, sfoderò l’arma.
Chiunque l’avesse voluta, l’avrebbe assalita a
suo rischio e pericolo.
Le
condizioni di Eric diventavano sempre più critiche.
Sembrava che tutto stesse andando abbastanza
bene, e l’aver scoperto che le sue ferite erano state provocate da un infetto
di secondo livello aveva accresciuto leggermente le speranze dei suoi compagni
di vederlo guarire, poi all’improvviso, tutto ad un tratto, il giovane aveva
iniziato a lanciare urla strazianti dimenandosi furiosamente nel letto, urla
tali da essere udite in tutto l’albergo terrorizzando gli studenti.
Era la resa dei conti.
La malattia era entrata in fase acuta: Eric
poteva o soccombere o vincere.
Il dolore che provava era immenso, e a questo
si aggiungevano angoscianti visioni ed allucinazioni, che contribuivano ad
accrescere il suo senso di smarrimento ed estraniamento dalla realtà.
In quelle immagini dettate dal dolore il
giovane vampiro rivedeva tante cose; la sua infanzia, la sua famiglia, la sua
vita tormentata, fino all’incontro con Valopingius.
E vedeva lei.
O meglio. Vedeva loro.
Le due persone più importanti per la sua vita,
una piccola ma fedelissima amazzone e una rosa dai petali neri, delicata come
niente altro ma dotata di affilatissime spine grondanti dolcissimo sangue.
Le urla andarono avanti per molti minuti, e
non era un bene: se Eric urlava era perché il virus stava cercando di
raggiungere le sinapsi e i centri umorali del cervello, lì dove si sarebbe
annidato generando il nucleo infettivo.
Kaien si mordeva nervosamente l’unghia del
pollice, Peter sembrava volersi prendere a pugni, e Yagari restava in silenzio,
apparentemente impassibile a quell’urlo disumano.
Poi, d’improvviso, Toga si alzò dalla
poltroncina, dirigendosi a passo spedito verso la porta della stanza.
«Aspetta, che vuoi fare?» domandò Kaien
conoscendo già la risposta
«Ormai non c’è più tempo.» rispose lui
mettendo mano al fucile che aveva dietro la schiena
«Non vorrai ucciderlo!?» ringhiò furente Peter
alzandosi in piedi e mettendosi di traverso davanti alla porta
«Sicuramente anche lui preferirebbe morire che
diventare un mostro impazzito. E tu lo sai.»
«Lui sta ancora lottando! Non lo senti? Sta
combattendo!»
«E sta perdendo. Se non lo facciamo ora, dopo
sarà più difficile. E potrebbero andarci di mezzo degli innocenti.»
«Dovrai passare sul mio cadavere!».
A quel punto accadde ciò che il direttore non
avrebbe mai voluto vedere; due Hunter, due cacciatori, con le rispettive armi
rivolte l’uno verso l’altro, il primo che bramava di entrare in quella stanza
per fare il suo sporco lavoro, ed il secondo che avrebbe fatto di tutto per
impedirglielo.
«Fammi strada, ragazzo.» disse Toga
impassibile «Lo dico per il tuo bene.»
«Dovrai spararmi per riuscire a passare.» replicò
Peter con lo stesso tono «Non ti lascerò ammazzare un mio amico».
Poi, d’un tratto, le urla cessarono così, di
colpo, lasciando dietro di sé solo un preoccupante silenzio che poteva voler
dire tante cose.
Tutti e tre i professori restarono sgomenti,
guardando verso la porta senza sapere cosa pensare.
Eric poteva avercela fatta come aver ceduto
definitivamente, entrando nella breve fase di stasi che precedeva il completo
affermarsi della malattia.
Bisognava entrare, fu il pensiero di tutti e
tre, che si guardarono un momento negli occhi scambiandosi un cenno di assenso.
Ma per farlo, bisognava anche abbattere la
barriera che circondava la stanza.
Non c’era niente da fare; era necessario
essere preparati anche al peggio.
Armi in pugno, e con le mani che tremavano, si
avvicinarono cautamente alla porta, il direttore fece scattare la serratura ed
i tre, timidamente ma fermamente, entrarono.
La stanza era a soqquadro, ma ciò che li colpì
di più fu vedere Eric inginocchiato sul futon, le mani sopra la testa e le
zanne scoperte; tremava e respirava a fatica.
«Eric…» disse Peter
facendo un passo avanti.
Il ragazzo li guardò: i suoi occhi, nonostante
tutto, brillavano del loro solito bagliore oceanico.
Ce l’aveva fatta.
La sua volontà era stata più forte del virus,
e lo aveva debellato.
«Sei davvero tu?» domandò incredulo il
direttore
«Credo… credo di
sì.» rispose il ragazzo, affaticato dalla lunga battaglia e dai postumi della
malattia.
Sembrava che fosse davvero finito tutto.
Peter, dopo aver lanciato un’occhiataccia a
Yagari, aiutò Eric a rimettersi in piedi, e gli fu portato un pasto frugale per
aiutarlo a smaltire la debolezza.
Invece, le brutte notizie non erano ancora
finite.
«Direttore.» disse Zero comparendo da un
istante all’altro «Non riesco a trovare Izumi.»
«Che cos’hai detto!?»
«È così. L’ho aspettata sveglio per tutto
questo tempo, ma non è rientrata in stanza. L’ho anche cercata dappertutto.
Temo che non sia qui in albergo».
I tre professori si guardarono tra loro, e dai
loro sguardi Eric intuì che stava succedendo qualcosa di grave.
«Che è successo?» domandò «Perché siete così
preoccupati?».
Nota
dell’Autore
Eccomi
qua!^_^
Credevate
che fossi sparito, vero?
Purtroppo,
dopo l’ultimo aggiornamento, sono sopraggiunte una serie di complicazioni che
hanno ridimensionato di molto il mio tempo libero, inoltre una notizia inattesa
mi ha spinto a rimettere mano ad un mio vecchio progetto e a pubblicare una
nuova storia fantasy che ora vorrei cercare di portare avanti.
Ma alla
fine, sono tornato.
Come avete
potuto notare questo capitolo è molto più corto della mia media abituale.
Infatti,
ho deciso di variare la mia politica. Da ora in poi, se mi accorgerò che un
capitolo sta diventando troppo lungo, lo spezzerò in due capitoli distinti, ma
piuttosto che numerarli diversamente mi limiterò ad enunciarli, come ho fatto
in questo caso, come Prima e Seconda parte.
Questo dovrebbe
rendere la lettura un po’ più fluida, spero.
Scusate ancora
per questa lunga assenza.
A
presto!^_^
Carlos Olivera