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Autore: _Lalli    10/02/2013    4 recensioni
Arya Dröttningu, ambasciatrice degli elfi, protegge l'unico uovo di drago in possesso alla resistenza; Durza lo Spettro attende da anni l'occasione di impossessarsene e finalmente pare esserci riuscito, ma l'elfa riesce a rovinare miseramente i suoi piani. Allo Spettro non rimane che un'unica soluzione: torturare la sua prigioniera senza pietà, fino a che non confessi il luogo in cui l'uovo è stato trasportato.
Ma se, durante la prigionia, qualcosa di inaspettato fosse accaduto ad Arya? Qualcosa di cui nessuno, a parte lei e Durza, è a conoscenza?
Costretta ad un viaggio avventato e ad un'improbabile alleanza, Arya scoprirà lati insospettabili del suo nemico e si lancerà in una ricerca che getterà i semi del suo destino. Coinvolta in segreti incredibili, finirà per svelare alcuni dei molti misteri che ancora oscurano la bellissima terra di Alagaësia.
Genere: Azione, Fantasy, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Crack Pairing | Personaggi: Altri, Arya, Durza
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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2. Durza

Mi sembrava di galleggiare, tutto intorno a me era privo di consistenza e pensieri confusi facevano a pugni nella mia testa, tanto da darmi l’emicrania.
Dove diamine sono finita?
D’un tratto la sensazione di qualcosa di duro, umido e freddo sotto la mia schiena mi catapultò nella realtà.
Aprii gli occhi, lentamente, per poi tornarli a chiudere subito dopo, feriti da una luce alla quale non ero pronta. Quando finalmente il bagliore non mi diede più fastidio, cominciai a prendere coscienza di me.
Ero distesa sul terreno nudo e semi ghiacciato di un bosco, sopra di me un cielo che prometteva neve si stagliava oscuro e opprimente, come solo una notte invernale poteva renderlo. Voltai appena la testa a sinistra, per individuare il fuoco che qualche istante prima mi aveva accecata.
Nonostante il tepore che emanava, avevo freddo. E continuavo a sentirmi confusa, come se una nebbia densa e vischiosa avesse avvolto la mia coscienza.
Piano, piano presi consapevolezza del mio corpo, ma quando feci per tirarmi a sedere mi bloccai. Non potevo aiutarmi con le mani, legate dietro la schiena da una corda grossa e ruvida.
E questo spiega il male a spalle e braccia. Pensai.
Rotolai su un fianco e riuscii ad alzarmi. Ero tutta indolenzita.
Ero in una minuscola radura, circondata da un bosco che non era nemmeno lontanamente simile alla mia foresta.
Annaspai alla disperata ricerca delle mie facoltà mentali, ma venni interrotta dalla vista di un uomo che sedeva di fronte a me sul tronco di un albero caduto, dall’altra parte del fuoco.
«Finalmente ti sei svegliata», mormorò con voce vellutata.
Strinsi gli occhi, mettendo a fuoco la sua figura, senza riuscire a capire chi fosse e perché fosse lì.
Io ero in viaggio con Fäolin e Glenwing. Perché in quel momento mi trovavo in compagnia di un perfetto sconosciuto, legata e con la sensazione che qualcosa non andasse?
Mi gettai un’occhiata addosso: la bisaccia di cuoio in cui custodivo la pietra era scomparsa, insieme alle mie armi. Un attacco di panico mi si riversò addosso.
«Ti ho trovata a terra nel bosco». La voce melliflua dell’uomo mi riscosse nuovamente. «Sei un’Elfa» specificò, come se quello potesse spiegare perché mi avesse legata.
Analizzai con attenzione lo sconosciuto davanti a me. Non doveva avere più di venticinque primavere, secondo il tempo degli uomini e il suo viso non recava la minima traccia di barba, doveva essersi rasato al più tardi qualche ora prima.
I suoi piccoli occhi avevano un taglio leggermente allungato ed erano dello stesso colore marrone scuro delle castagne nella stagione dei venti. Mi scrutavano senza la minima vergogna, registrando ogni singola variazione della mia espressione, quasi scavandomi dentro, mettendomi a disagio e scatenandomi allo stesso tempo un brivido di inquietudine sul cuoio capelluto.
Le sopracciglia folte e arcuate gli davano un’aria ancora più inquisitoria, di un rosso appena più scuro dei capelli corti che gli ricadevano sulla fronte, resi brillanti dalle fiamme del fuoco, ma sporchi di terriccio, ad indicare che sicuramente non era la prima notte che dormiva all’addiaccio.
Le labbra pallide e troppo sottili erano sollevate leggermente da un lato in un sorrisetto che di rassicurante non aveva nulla e si sposavano alla perfezione con il viso ovale, con un naso aquilino ad evidenziare ulteriormente il suo taglio da rapace.
La pelle resa giallastra dal riflesso del fuoco aveva qualcosa di profondamente inquietante, quasi si trattasse di un morto ritornato dalle ombre.
Nel complesso aveva un’aria pericolosa e sfuggente, tanto che non ero ancora riuscita a decidere se fosse un semplice umano o no, nonostante parlasse la loro lingua senza inflessioni e le orecchie che i capelli lasciavano scoperte fossero inequivocabilmente rotonde.
«Non voglio farti alcun male, voglio solo che tu te ne vada senza uccidermi» disse ancora.
Tirai un impercettibile sospiro di sollievo. Era un umano, senza dubbio, solo loro avevano la stupidità di credere gli elfi creature malvagie che traevano piacere nell’uccidere intere popolazioni avvelenando le fonti, spalmando unguenti infetti sulle porte delle loro case e rapendo i bambini in fasce per sostituirli con sosia che non erano altro che incarnazioni dei demoni. Sciocche superstizioni.
«Che cosa mi è successo?» mi informai cautamente.
Le labbra sottili si schiusero in un sorriso, scoprendo denti dritti e bianchi, segno che il loro proprietario se ne prendeva cura almeno una volta al giorno con impasti di erbe e foglie di salvia.
«Eri stesa a terra in un bosco poco distante da qui, intorno a te c’erano delle impronte di zoccoli di cavalli e di Urgali. Devi essere stata attaccata da loro».
Come se le mie memorie venissero da un sogno, ricordai l’improvviso fetore di carne rancida che mi era giunto alle narici e il nugolo di frecce nere che aveva riempito l’aria.
«Non c’era nessuno con me?» Dov’erano finiti i miei compagni?
Scosse la testa lentamente. «Eri sola. E stringevi questa tra le dita». Sollevò da accanto a sé la mia bisaccia di cuoio, visibilmente vuota.
Il mio cuore fece una capriola, mentre una corazza di lucida logica prendeva il posto del panico che mi aveva stretta fino a quel momento.
Probabilmente una banda di Urgali aveva attaccato me e la mia scorta, costringendo Fäolin e Glenwing ad abbandonarmi nel bosco dopo essere stata disarcionata. E i miei compari dovevano aver preso la pietra con loro.
C’erano solo un paio di cose che non tornavano.
Perché gli Urgali si trovavano così in profondità nel territorio dell’impero? Perché erano riusciti a coglierci alla sprovvista e addirittura batterci? Perché non mi avevano uccisa per conquistare gloria presso la loro tribù? Perché Fäolin non era tornato indietro a cercarmi, come mi aspettavo avrebbe fatto? Perché se cercavo di fare chiarezza nella mia mente vedevo solo.. fiamme? Una foresta in fiamme.
E rosso, un colore che mi avvolgeva fino a soffocarmi.
Cielo rosso. Alberi rossi. Occhi rossi. Capelli rossi.
Annusai con discrezione i miei vestiti, constatando che erano impregnati dell’odore acre del fumo. L’uomo non mi stava dicendo tutta la verità.
Feci per usare i miei poteri e liberarmi della corda, ma mi accorsi con un certo orrore che non ricordavo la mia lingua madre. Più cercavo di arraffare una semplice parola che potesse formare un incantesimo, più quella pareva fuggire.
«Perché non mi liberi?» domandai candidamente, accennando un sorriso melenso. Avevo bisogno di guadagnarmi la fiducia di quello sconosciuto, prima che capisse quale fosse lo stato di confusione che albergava nella mia mente e ne approfittasse per vendermi a qualcuno degli uomini imperiali.
Abbassò la mano che stringeva la bisaccia. «Avevi una pietra con te o sbaglio?»
Mi irrigidii immediatamente.
«Vedi, mi basta sapere dove hai mandato quella pietra e ti lascerò andare per la tua strada, non ho alcun interesse a trattenerti qui».
«Non so di cosa tu stia parlando» replicai tranquillamente, sopprimendo la mia ansia sotto una fredda maschera di indifferenza.
«Oh io credo di sì invece» rispose senza esitazione.
Tormentai le corde che mi legavano i polsi, ma mi resi conto di essere troppo debole per poter anche solo sperare di scioglierle. E che l’uomo di fronte a me non era certamente uno sprovveduto, e tanto meno un amico. Doveva avermi drogata.
«Non ci riuscirai» mi informò, notando i miei movimenti. «La pietra, Elfa. Voglio solo quella stramaledettissima pietra e poi potrai tornartene nella tua foresta».
Gli occhi castani furono oscurati da un lampo di impazienza e seppi con assoluta certezza che si trattava di un fedele all’impero.
Di fronte al mio mutismo, parve perdere l’atteggiamento rilassato che lo aveva accompagnato fino a quel momento. Si alzò agilmente in piedi e girò intorno al fuoco, estraendo un pugnale lungo quanto il mio avambraccio dal mantello nero e avvicinandosi a me.
Dovetti fare uno sforzo per rimanere immobile e impassibile mentre si inginocchiava di fronte a me, portando il viso a una spanna dal mio, puntandomi nuovamente addosso i suoi occhi penetranti. La parte del viso che non era illuminata dalle fiamme pareva così pallida da essere trasparente. Sentii che c’era qualcosa di sbagliato in lui, di oscuro.
«Parla».
Un forte odore, acuto e pungente mi soffiò addosso. Sembrava menta selvatica.
Quell’odore ebbe il potere di spazzare via la nebbia che mi oscurava il cervello e i ricordi dell’imboscata tornarono, con vivida e dolorosa chiarezza.
Lui era uno Spettro. Gli Urgali avevano attaccato perché lui lo aveva ordinato. Ero a terra perché lui mi aveva colpita non appena avevo tentato di mettere in salvo la pietra di zaffiro. Fäolin e Glenwing non erano con me perché lui aveva stregato le frecce nere affinché potessero superare con tranquillità le nostre protezioni. E li aveva uccisi. I miei compagni di viaggio non esistevano più.
Una bestia feroce si scatenò dentro di me, donandomi una scarica di energia incredibile. Con un movimento brusco, mi sporsi in avanti per dargli una testata nello stomaco, ma lo Spettro mi afferrò prontamente per le spalle.
«Peccato» disse, ghignando, «temo che l’armistizio finisca qui».
Sotto i miei occhi, vidi le sue iridi diventare dello stesso colore rosso e denso del sangue, le pupille si fecero leggermente verticali, come quelle di un felino, ed erano da felino i denti appuntiti che fecero capolino dalle labbra sottili e crudeli.
Uno Spettro. Ero nelle mani di uno Spettro.
Un lieve tremore tradì l’orrore che si era impossessato di me.
Ero stata ampiamente istruita sulle creature malefiche -sia quelle estinte, sia quelle esistenti- dalle quali avrei dovuto starmene ben lontana se tenevo alla mia vita. E sapevo con esattezza che, in tutta la storia di Alagaësia, solo Laetri l’elfo e Irnstad il cavaliere erano riusciti a sconfiggere uno Spettro, accompagnati ovviamente da una buona dose di fortuna, oltre che di indiscussa abilità. Erano creature malefiche e potenti, abili maghi e combattenti capaci. Fino a che uno Spettro calpestava il suolo di quel regno, non poteva esservi pace, dato che era risaputo che praticassero le forme più sacrileghe e oscure della magia, aiutati dagli Spiriti che abitavano nei loro corpi.
Una risatina fredda e secca riempì la radura deserta. Mi si accapponò la pelle.
«Non devi avere paura di me» sillabò lo Spettro con il suo ghigno raccapricciante. «Non ti farò nulla, se sarai disposta a collaborare».
Il mio pensiero scivolò a Glenwing e Fäolin e per un attimo mi parve di poter precipitare nel vuoto di dolore che riempiva la loro memoria. Non dovevo pensarci. Non ancora. Non fino a che avrei dovuto tentare di tenere testa a quel mostro. Dopo ci sarebbe stato il tempo di strapparsi i capelli e rigarsi il viso di lacrime, forse.
«Non mi fai paura» ringhiai orgogliosa.
Sbuffò. «L’arroganza non ti sarà amica. Voglio solo sapere dove hai mandato quella pietra». Accennò un sorrisetto di chi la sa lunga. «E tu vuoi solo tornartene a casa. Dimmi quello che voglio sapere e io ti lascerò andare. Ora. Senza altri indugi. Potrai tornare in pace nel tuo regno. Hai la mia parola che non ti ostacolerò in nessun modo».
Detta così sembrava tutto così semplice. Forse credeva che fossi una stupida sprovveduta.
Beh, non lo ero.
Sapevo perfettamente fino a quanto potesse valere la parola di una creatura del male. E per essere precisi era zero. Non ero così folle da credergli, non così smarrita da mettergli tra le mani tutto ciò per cui avevo sempre combattuto. Dirgli ciò che voleva sapere significava condannare a morte il mio popolo e tutta l’organizzazione ribelle dei Varden, significava sputare in faccia al sacrificio di Fäolin e Glenwing. Loro avevano dato la vita per prolungare la mia, per permettermi di portare a termine la missione.
E se lo Spettro chiedeva con tale insistenza dove avessi mandato la pietra significava che non aveva la minima idea di dove potessi averla materializzata e che il mio incantesimo era riuscito alla perfezione, nonostante la foga del momento. Probabilmente in quel momento l’uovo era al sicuro nelle mani di Brom e l’unica cosa che mi rimaneva da fare era tenere il silenzio fino a che lo Spettro non mi avesse uccisa.
E a giudicare dall’espressione furente che gli deformò i lineamenti non appena alzai il mento, non mi avrebbe fatta attendere a lungo.
Sussultai quando la parte piatta della lama gelida del pugnale mi sfiorò il collo.
«Rilassati» sussurrò lo Spettro con voce suadente e pericolosa, che ebbe l’effetto di inquietarmi ancora di più. «Ti sei appena guadagnata un soggiorno a Gil’ead. Sarai mia ospite per..» interruppe la frase, schioccando la lingua contro i denti «..diciamo a tempo indeterminato» concluse maligno.
Mi fissò ancora, osservando ogni mia mossa, ogni mia espressione, probabilmente alla ricerca di una crepa nella maschera di granito che sapevo di poter impostare al mio volto. Nonostante tutto fui colta da un’incalzante inquietudine e mi affrettai a controllare che le mie barriere mentali fossero ben salde al loro posto.
«Qual è il tuo nome?» c’era una sorta di velata minaccia nella sua domanda.
Serrai le labbra, sfuggendo al suo sguardo cremisi.
Il suo fiato caldo sulla fronte mi annunciò che si era ulteriormente chinato su di me. La sua vicinanza mi mise a disagio in maniera indicibile, ma rimasi impassibile.
Accennò un sorriso. «Avremo modo di fare lunghe chiacchierate una volta giunti nella mia città. E ti assicuro che parlerai, Elfa. Oh se parlerai».
Tese una mano verso di me e io dovetti fare uno sforzo immane per non ritrarmi e rimanere immobile come una statua di sale. Le sue dita bianche mi sfiorarono una guancia, lasciando una scia fredda lungo la mia pelle già gelata, scivolando poi sul collo e accarezzando lievi il profilo del petto.
Fremetti violentemente, incapace di controllarmi.
«Io sono Durza» disse carezzevole.
Il suo tocco mi stava gelando le ossa, e non per la temperatura della sua pelle.
«Ricorda questo nome, avrai paura sentendolo pronunciare».
A quel punto mi ritrassi. Lo Spettro sorrise. «Slytha» mormorò.
Ed io caddi in un sonno profondo.

Una sensazione di gelo al viso mi costrinse ad aprire gli occhi. Vidi una figura indistinta china su di me.
«Fäolin» sussurrai.
Impiegai meno di un istante prima di comprendere il mio errore.
I lineamenti affilati dello Spettro presero contorno, ricordandomi in quale terribile guaio mi fossi cacciata.
Mi fissò annoiato. «Uno dei tuoi compari? Sono morti entrambi, Elfa» mi informò seccamente. «E le mie fiamme avranno bruciato i loro corpi».
Mi sedetti, lanciandogli un’occhiata di puro odio.
Stava nevicando, e i fiocchi ghiacciati lambivano la mia pelle, facendomi rabbrividire dal freddo.
«Alzati» ordinò, «voglio raggiungere Gil’ead prima che la neve ci blocchi il passo».
Raccolsi rapidamente le mie idee, ricordando in un lampo i fatti dell’imboscata e cacciando conseguentemente il dolore che mi legava a quei ricordi, per passare poi alla conversazione della sera precedente. Sbirciai lo Spettro da sotto le ciglia.
Sapevo chi era. Chi, tra ribelli non era a conoscenza dell’identità di Durza lo Spettro, luogotenente del re Galbatorix in persona, fautore di incredibili massacri e sofferenze, spietato ai limiti del possibile. E anche se per caso non lo si avesse mai sentito nominare era impossibile stare per più di un quarto di clessidra in compagnia di Ajihad senza che nominasse il suo famoso duello con Durza, dal quale era uscito non propriamente incolume, ma vivo. E già quello era un evento straordinario.
Con un’altra occhiata constatai che il fodero nero di una spada lunga e sottile pendeva dal fianco dello Spettro, seminascosto dal mantello nero, sotto il quale si intravedevano pantaloni neri, una giubba nera e stivali neri.
Durza aveva detto che mi avrebbe portata con sé a Gil’ead. Voleva forse consegnarmi al suo re? Se quello era il mio destino tanto valeva ammazzarmi subito ed evitare almeno che Galbatorix riuscisse a carpire da me informazioni che sarebbero state disastrose nelle mani sbagliate.
Ma forse lo Spettro aveva solo intenzione di torturarmi per qualche giorno, fino ad arrendersi all’evidenza che non avrei parlato e mi avrebbe poi spedita nelle ombre.
«Sappi che non amo ripetermi». Una voce ben più gelida della neve che cadeva mi riscosse.
Il mio rapitore era in piedi a pochi passi da me, e teneva per le redini un cavallo grigio nebbia, striato di nero.
Mi alzai, nonostante le mani legate, con una certa agilità.
«Sali» comandò con un ghigno.
Guardai l’immenso cavallo. Mi sarei dovuta letteralmente arrampicare su quell’animale gigantesco, e ovviamente non potevo neppure pensare lontanamente di farlo con le mani impegnate. E lui lo sapeva. Quella messa in scena aveva il solo scopo di umiliarmi.
«Dovrò aiutarti».
Le sue mani si strinsero sicure sulla mia vita, le sentii fredde attraverso i vestiti. Mi issò in sella con una facilità incredibile, quasi non fossi altro che una bambola di pezza.
Montò rapido dietro di me e strinse le redini, passando le braccia intorno al mio corpo.
La sua vicinanza e il fatto di non poterlo vedere in viso mi provocavano una certa inquietudine. Non si danno le spalle al nemico, mai. Ero rigida come un manico di scopa, e lui parve notarlo.
«Come avrai intuito, mi servi viva, Elfa» disse ridacchiando in maniera snervante. «Quindi non ti ucciderò nell’immediato futuro, e di questo puoi esserne certa».
Spronò il cavallo e l’animale partì al trotto, la mia spada e il mio arco che penzolavano dalle bisacce legate alla sella. Mi dispiacqui nuovamente di non riuscire ad usare la mia magia.
Mentre il paesaggio scorreva rapido di fianco a me, mi permisi di dedicare i miei pensieri a un modo alternativo per sfuggire a quella situazione, conscia che sarebbe stato difficile, ai limiti del possibile.
Ma non dovevo farmi prendere dal panico. Dovevo rimanere il più lucida e fredda possibile.
Ad Ellesméra ero stata per anni allieva di Oromis e Glaedr. Non che avessi ricevuto una vera e propria formazione da cavaliere -dato che il mio compito mi imponeva di viaggiare spesso e i cavalieri avevano segreti che nessuno al di fuori dell’ordine sapeva, la cosa non era possibile- ma i due si erano impegnati ad insegnarmi qualche trucchetto dietro insistenza di mia madre. Del resto ero la prima Elfa che si sarebbe avventurata fuori dalla foresta da anni. E con il re in circolazione non si era mai troppo sicuri. Se avevo imparato una cosa da loro, era che ogni situazione andava analizzata da ogni punto di vista per poter trovare una soluzione.
Sapevo che ad Osilon si aspettavano di vedere arrivare me e i miei compagni la sera stessa in cui eravamo caduti nell’imboscata. Quanto era passato da allora? Non lo sapevo, potevo essere rimasta incosciente per ore, come per giorni.
C’era una sottile, lontana possibilità che la guarnigione fissa della città decidesse di mandare qualcuno a cercarci, magari preoccupati per il nostro eccessivo ritardo. Se avessero trovato i resti dell’incendio e.. Deglutii. E i corpi di Fäolin e Glenwing, avrebbero capito che c’era qualcosa che non andava e, notando la mia assenza e quella della pietra, mi avrebbero cercata in lungo e in largo.
Dovevo trovare un modo per rallentare Durza.
La mano destra dello Spettro in questione si staccò dalle briglie, per insinuarsi tra i mie capelli e afferrare la punta del mio orecchio. Le sue dita erano gelate, avrei voluto suggerirgli dei guanti contro il freddo.
«Mi sembra corretto offrirti un’ultima possibilità» disse con voce alta e chiara, che sentii distintamente sopra lo scalpiccio degli zoccoli e il fruscio dell’aria che stavamo tagliando. «Decidi ora se ti senti più disposta a collaborare. La pietra per la tua vita, mi pare uno scambio equo».
Scrollai rabbiosamente il capo, togliendo la presa delle sue dita.
«No, non lo è» replicai ostentando calma.
Con un movimento brusco, lo Spettro mi artigliò la spalla. «Non prenderti gioco di me, piccola Elfa. Perché io non sto affatto scherzando».
Rimasi immobile e impassibile come una statua di granito. Ma in cuor mio pensai che Durza aveva l’aria di uno che non parla a vanvera.
«Sai a Gil’ead c’è una magnifica prigione, ti piacerà» sibilò lo Spettro. «E questa pelle di velluto..» sfiorò appena il mio collo con l’indice «..ha mai sentito che sensazione da un ferro rovente addosso?»
Serrai le labbra e mi scostai di lato, sfuggendo al fastidio del suo tocco. Mi sembrava che se mi avesse sfiorata per un altro istante, una parte di me sarebbe inesorabilmente marcita.
«Sei proprio una stupida» decretò, tornando a posare la mano sulle briglie.
Lo ignorai, cercando nuovamente di richiamare alla mente le parole nell’antica lingua, invano.
Bene. La magia era fuori gioco.
Rimanevo solo io.
Agii senza nemmeno riflettere troppo su dove mi avrebbero portato le mie azioni.
Sciolsi le membra e mi afflosciai sulla sella, cogliendo Durza di sorpresa, tanto che non poté impedirmi di scivolare sotto le sue braccia e cadere dal cavallo. Rotolai sul terreno reso fangoso dagli acquosi fiocchi di neve che ancora cadevano, rannicchiandomi su me stessa per evitare danni.
Gli zoccoli dell’animale rasparono nel terreno e il tonfo di un paio di stivali mi annunciò che lo Spettro mi avrebbe raggiunta in pochi istanti.
Chiusi gli occhi e mi concentrai, rilassando il respiro e le membra, fingendomi svenuta.
«Come sei ingenua, piccola Elfa» sussurrò Durza nel silenzio ovattato. «Con me ogni finzione è inutile. Non ti hanno mai insegnato le regole di un bravo guerriero? Quando la situazione è inesorabilmente fuori controllo, bisogna arrendersi».
I suoi passi frusciarono lenti e decisi nella mia direzione. Rimanere immobile mi costò uno sforzo che non credevo possibile.
«Anche adesso» continuò lui con la sua voce melliflua, «sento che hai paura».
Controllai le mie barriere mentali. Salde e intaccate al loro posto. Come riusciva a capire che la mia fosse solo finzione e addirittura ad intuire i miei sentimenti?
Il suono del suo respiro mi fece capire che era praticamente accanto a me.
Aprii gli occhi e mi alzai di scatto, assestandogli una gomitata alla tempia e rendendomi conto solo in quel momento di quanto incredibilmente alto fosse, anche per i canoni elfici.
Lo Spettro ringhiò qualcosa, ma non volevo restare lì ad informarmi se si fosse offeso o meno. Schizzai immediatamente in direzione del cavallo che Durza aveva abbandonato poco più avanti sul sentiero, scapolando con le braccia e portandomi le mani legate davanti a me.
Avevo appena allungato le mani verso la spada che pendeva dalla bisaccia legata alla sella, quando un braccio forte mi cinse la vita, spingendomi a terra.
Rotolai nel fango avvinghiata allo Spettro, dando e ricevendo pugni e calci in egual misura. Uno scricchiolio agghiacciante e un dolore sordo al viso mi annunciarono che probabilmente mi aveva slogato la mascella. Un istante dopo offrii la schiena al suolo gelido, le mani di Durza premute con forza sulle mie spalle, a tenermi ferma. Notai con una certa soddisfazione che gli sanguinava il naso. Era abbastanza umano da avere sangue nelle vene, almeno.
In un impeto di coraggio gli sputai in faccia.
Lo Spettro sollevò un sopracciglio. «Non provarci mai più». La sua voce risuonava di un sottile sibilo.
Alzai gli occhi sul suo viso e la sua espressione irata mi fece tremare. Ma più di tutto furono i suoi occhi a sconvolgermi. Così rossi, così profondamente intrisi di odio. Mi fecero desiderare di non essere mai nata, di poter morire. Subito. Di non dover passare un solo istante in più a fissarli.
Mi divincolai nell’inutile tentativo di liberarmi dalla sua presa.
Ero debole.
Ero impotente come una formica nelle mani di un bambino.
«Mi troveranno» ringhiai. «Ti taglieranno la strada Spettro. Portami pure a Gil’ead. Non ci arriveremo mai, altre guardie elfiche ti attendono su quella strada e non potrai coglierle con l’inganno come hai già fatto. Dovrai combattere. E sarai sconfitto».
Mentivo, mentivo spudoratamente. Speravo solo che mi avrebbe creduta e che per prudenza avrebbe deciso di aspettare nel bosco un altro giorno o due, giusto il tempo necessario alla vera guarnigione per arrivare.
Se la cosa lo impressionò o lo spaventò come avrei voluto facesse, non lo diede a vedere.
«Credo che sia la frase più lunga che un elfo abbia mai detto dalla nascita di Alagaësia» si limitò a dire, con palese sarcasmo.
Furiosa, tornai a divincolarmi con tutte le mie forze.
«Buona» sussurrò minacciosamente. «Stai buona».
Mi addormentò nuovamente.
            La testa mi pulsava dolorosamente e, quando aprii gli occhi, vidi per un attimo tutto nero.
La mascella scricchiolò sinistramente quando aprii la bocca, ma non sembrava rotta. Si era trattato di un innocuo pestaggio.
«Vi facevo più temprati voi Elfi, e più intelligenti».
La voce dello Spettro vibrava d’ira. Mi alzai a sedere e lo vidi seduto a poche iarde di distanza da me, un fuocherello brillava alla sua sinistra.
Solo allora mi accorsi che non ci eravamo mossi. Non sapevo quanto tempo fosse passato da quando mi aveva addormentata, ma doveva trattarsi di ore dato che la luce stava rapidamente scemando nel tramonto.
Mi concessi un istante per lanciare un interiore grido di vittoria.
C’ero riuscita! Ero riuscita a rallentare la marcia. Dovevo solo sperare che i soccorsi in cui avevo riposto tutte le mie speranze arrivassero il prima possibile.
Lo Spettro corrugò la fronte, scrutandomi con intensità, al punto di farmi rabbrividire. Sembrava che mi stesse leggendo dentro. Istintivamente, rafforzai le barriere della mia mente.
«Come mai tanto trionfo Elfa?»
Rimasi sconvolta alla sua domanda, posta con aria quasi noncurante, quasi avesse domandato perché avevo messo un abito giallo invece di uno verde.
Ero convinta di essere rimasta impassibile, a quanto pare mi era sfuggita un’espressione.
Non può riuscire a leggermi la mente nonostante le mie difese, o a questo punto avrebbe già tra le mani tutte le informazioni che gli servono.
Rassicurata dal pensiero sciolsi la tensione dei muscoli.
Un sordo brontolio ruppe il silenzio della notte.
Era il mio stomaco. Non ricordavo quale fosse stata l’ultima volta che avevo mangiato.
Durza scoppiò in una risata stridula che mi fece quasi sobbalzare.
«Se non mi avessi rallentato a quest’ora saremmo già arrivati a Gil’ead» mi informò beffardo, «e tu avresti potuto mangiare qualcosa».
Non reagii in alcun modo.
«Comincio a chiedermi se tu non sia diventata muta».
Ancora non risposi.
«Vedrai che presto parlerai». Suonò molto come una minaccia.
Lo Spettro sussurrò alcune parole nell'antica lingua, che faticai a capire ma non riuscii a memorizzare, e subito dopo un evanescente cerchio di nebbia nera si avvolse intorno a noi.
«Prova a superarlo Elfa» mi lanciò uno sguardo di sfida, «e spererai di non essere mai nata».
Detto quello si avvolse in una coperta, me ne lanciò un’altra e si stese accanto al fuoco. Pochi minuti dopo il suo respiro era regolare. Dormiva.
Imprudente, molto imprudente. Con un ghigno che avrebbe fatto strappare i capelli ad ogni elfo ben educato che c’era alla corte di mia madre, strisciai lentamente verso di lui.
Mi aveva sottovalutata. Peccato, non si sarebbe più svegliato.
Mi acquattai a terra a una spanna di distanza dallo Spettro e osservai con attenzione il suo viso. Ingannevolmente giovane e liscio come quello di un elfo, solcato da occhiaie scure sotto gli occhi, chiaro segno di quanto a lungo si fosse negato il riposo. I lineamenti da falco erano contratti in un’espressione seria, che gli conferiva un’aria malvagia anche mentre dormiva.
E a proposito di dormire. Restai una buona mezzora immobile accanto a lui, per accertarmi che non stesse fingendo e non ebbi motivo di pensare il contrario.
Non pensavo che avesse un lato così umano da ridursi ad addormentarsi. Avevo sempre visto gli Spettri come creature demoniache nate per la morte e la distruzione, sostenute dalla sola forza degli spiriti che li comandavano; non mi era mai venuto in mente che anche loro avessero delle esigenze così banali quali il dormire e il mangiare.
Gettai un ultimo sguardo all’inquietante barriera nera che circondava il piccolo bivacco e sospirai piano. Ero convinta che Durza non mi avesse minacciata a vuoto, e quindi cercare di scappare attraverso la cupola nerastra era da escludere.
Cercai nuovamente di usare i miei poteri, ma mi rispose il nulla. Probabilmente mi aveva drogata ancora, dopo avermi addormentata.
Le mie armi erano assicurate alle bisacce del cavallo, che sfortunatamente era placidamente legato ad un albero fuori dal cerchio magico.
Per l’ennesima volta, mi dissi che sarei bastata io.
Con movimenti estremamente lenti e misurati, mi spostai dietro la testa dello Spettro. Quando allungai le mani davanti a me notai con una smorfia che la grossa corda ruvida, strettamente serrata sui polsi, mi aveva procurato delle piaghe sulla pelle. Ma per il freddo o per altro, non sentivo dolore.
Tornai a concentrarmi sul mio nemico.
Poteva morire solo se colpito al cuore, ma io non avevo nulla che potesse aiutarmi in una simile impresa.
Lo avrei soffocato a mani nude. Non sarebbe morto definitivamente, ma sarebbe scomparso per qualche tempo e almeno io sarei stata libera, confidavo che la barriera nera sarebbe scomparsa con lui.
Senza ulteriori esitazioni calai sulla sua gola scoperta..
..e mi sentii afferrare la mani da delle lunghe e forti dita gelide.
«Non dormi Elfa?» domandò schiudendo gli occhi cremisi con un sorriso di scherno.
Mi dibattei dalla sua presa, scalciando nel tentativo di colpirlo alla testa.
Si alzò in piedi con rapidità inumana, tirandomi su con lui e girandomi di spalle. Mi incrociò le mani sul petto, continuando a stringermi contro di sé, con una forza tale che faticai a riempire i polmoni d’aria.
Sentii il suo fiato all’orecchio. «Non sono nato ieri» mormorò.
Mi lasciò andare di scatto. Impreparata, scivolai a terra.
Durza si chinò lievemente su di me con un’espressione affabile. «Credevo di essermi divertito abbastanza a giocare con te, per oggi. Ma mi pare che tu non sia dello stesso avviso».
Farfugliò qualche parola nell'antica lingua e i capelli mi si rizzarono sulla nuca.
Un’improvvisa scarica elettrica mi attraversò il corpo. Era come se qualcosa mi stesse strappando la carne a morsi, distorcendo i legamenti, maciullando le ossa. Era un dolore indicibile, che mai in vita mia avevo provato. Serrai con forza le palpebre cercando di ritrovare un minimo di lucidità in quella marea di sofferenza.
Il male sparì, rapido così com’era venuto.
Sentii in bocca uno strano sapore ferroso. Mi toccai il labbro e ritrassi le dita sporche di un liquido caldo. Mi ero morsa le labbra a sangue, per non urlare.
«Questo era solo un ennesimo avvertimento» ringhiò lo Spettro. Aprì la bocca per aggiungere qualcos’altro ma poi la sigillò un istante dopo.
Socchiuse gli occhi e inclinò appena il capo.
Stava ascoltando qualcosa.
Mi concentrai a mia volta sui suoni che mi circondavano e non potei non trarre un respiro di sollievo. Il rumore di zoccoli sul terreno schioccava in lontananza, mischiato a voci argentine di indubbia provenienza. Elfi.
Stavano venendo a prendermi. Ero salva.
Mi resi conto che lo Spettro mi aveva sollevata da terra solo quando mi ritrovai adagiata sulla sua spalla come un sacco di patate.
Strillai come un’ossessa, contorcendomi per liberarmi dalla presa.
«Bastarda di un’Elfa!» imprecò il mio rapitore. «Sei stata furba, ma non ti salveranno stanne certa».
Mosse la mano di fronte al mio viso e la voce mi si serrò in gola, secondo l’effetto della sua magia. Non aveva pronunciato alcuna parola di potere, ma forse era più facile usare direttamente le proprie abilità magiche senza doverle legare a delle frasi quando si aveva uno, o forse più di uno, spirito dentro di sé. Quelle creature erano fatte di pura magia.
Una sensazione di disgusto mi serrò lo stomaco, che unita a quella di panico, non mi aiutò certamente a riprendere il controllo della situazione.
Durza correva rapidamente tra gli alberi spogli, tirandosi dietro il cavallo e tenendomi saldamente stretta sulla sua spalla. Nel buio totale e avvolgente della notte, io vedevo a malapena i contorni degli alberi e del terreno, mentre lui avanzava con sicurezza. Mi chiesi se gli occhi da gatto non avessero un altro scopo altre a quello di rendere uno Spettro spaventoso.
Durza si allontanò dal sentiero, inoltrandosi sempre di più nel sottobosco, fino a giungere ad una piccola grotta, spingerci dentro il cavallo e sbattermi con violenza contro la parete.
Per un attimo vidi tutto rosso.
Poi avvertii la pressione di qualcosa di duro e gelido contro la mia gola. Lo Spettro mi cingeva la vita con un braccio e con una mano reggeva un pugnale, che mi teneva puntato contro. Notai una strana incisione lungo la guardia, ma non riuscii a decifrare la lingua in cui era scritta e non potevo chiedere delucidazioni. Che in ogni caso sarebbero state fuori luogo.
«Stai tranquilla Elfa» disse lo Spettro con voce bassa, «o giuro che non me ne importa nulla delle informazioni che potrei spremerti e ti ammazzo. E non provare ad aprire la mente ai tuoi amici» mi prevenne, «perché allora dovrai abbassare le tue difese e io riuscirò a penetrare i tuoi segreti».
Deglutii faticosamente, dato il nodo che si era serrato alla mia gola. Purtroppo la situazione era tutta a suo favore e se anche avessi avuto la mia voce, non avrei mai potuto usarla.
Ma ero speranzosa. Lo Spettro non sarebbe riuscito a farla franca, c’era un dettaglio di cui non era a conoscenza.
Io ero pur sempre Arya Dröttningu, la figlia della regina.
Il mio popolo non avrebbe condotto la ricerca tanto superficialmente, avrebbero battuto ogni centimetro di Alagaësia, guardato sotto ogni albero, vicino ad ogni ruscello, in ogni singola casa o catapecchia.
In quel momento gli elfi erano esattamente davanti a noi, riuscivo a vedere le figure candide dei loro destrieri attraverso gli alberi scheletrici.
Fui tentata di divincolarmi e scappare. Ma la lama dello Spettro premette più forte, al punto da provocarmi un lieve taglio sul collo. Un minimo movimento e mi sarei uccisa da sola.
I cavalli si fermarono e gli elfi si chiusero in cerchio, confabulando tra di loro.
«Dividiamoci» propose uno di loro. «Il suo corpo non era con gli altri, forse è stata rapita dagli uomini del re».
«Abbiamo trovato i cadaveri di dodici Urgali, ma di uomini nessuna traccia. Sono stati attaccati dai mostri, non dai servi del re».
Dodici? Ruotai gli occhi in direzione dello Spettro, che ostentava un sorrisetto lieve sulle labbra sottili. Io avevo ucciso tre Urgali, non mi ero mai chiesta che fine avessero fatto gli altri.
«Ormai erano inutili» bisbigliò al mio orecchio, allentando lievemente la pressione della lama.
Il battito del mio cuore accelerò per la tensione.
Tornai a concentrarmi sugli elfi, che stavano ancora discutendo. «I custodi se la sarebbero cavata benissimo contro una banda di Urgali. No, probabilmente si trattava di un’imboscata ad opera di un gruppo di stregoni del re. Solo un fuoco magico poteva provocare tutti quei danni alla foresta». Una sfumatura di dolore incrinò la voce dell’elfo. «Devono essersi presi la pietra e anche la nostra ambasciatrice».
«Ambasciatrice eh?» sottolineò Durza, facendo scivolare la parte piatta della lama sul mio collo e mantenendo salda la stretta del suo braccio intorno alla mia vita.
Ci mancava solo che quei soldati dicessero che ero la figlia della regina e per me era la fine..
Gli elfi pattugliarono con attenzione la zona, pronunciando un incantesimo luminoso dopo l’altro; uno di loro si affacciò addirittura nella grotta, ma non vi si inoltrò e non ci vide. Probabilmente perché lo Spettro continuava a bisbigliare complicati incantesimi per riflettere la luce e renderci invisibili e per creare una barriera che insonorizzasse l’area intorno a noi alle orecchie degli elfi, così che non sentissero i nostri respiri.
Le parole nell’antica lingua che pronunciava mi entravano da un orecchio e uscivano letteralmente dall’altro. Le capivo, ma erano inafferrabili.
Continuai a sperare fino all’ultimo secondo che qualcuno decidesse di sondare la grotta, ma era ormai ovvio che non lo avrebbero fatto.
Più di mezzora dopo ero tutta irrigidita per il freddo e la posizione scomoda, con la schiena premuta contro il petto dello Spettro, le mani ancora legate dalla corda e la lama del suo pugnale che continuava a scivolare minacciosa sulla mia pelle, pronta ad affondare nella mia carne al mio minimo tentativo di fuga.
Gli elfi si riunirono nuovamente in cerchio.
Quello che pareva il capitano parlò. «Qui non c’è nulla. È inutile inoltrarci ulteriormente nel territorio dell’impero, sarebbe rischioso. Recuperiamo i cadaveri di Fäolin e Glendwing, meritano una vera cerimonia funebre e una tumulazione decorosa».
«Dovremo riferire alla regina che lei è morta?»
«Sì, in effetti probabilmente è così».
«Ne soffrirà».
«Non ne sono così sicuro». Tirò le briglie del cavallo e lo voltò. «Torniamo a casa soldati!»
Poi se ne andarono nella direzione da dov’erano venuti, spronando gli animali a tutta velocità.
Un macigno mi scese sul petto. Ero perduta, abbandonata, sola.
Lo Spettro, alle mie spalle, rise sommessamente.
Lo odiai con tutta me stessa. Gli lanciai silenziosamente contro tutte le maledizioni che mi venivano in mente, a raffica, e se avessero funzionato, sarebbe morto sul colpo, senza bisogno di nessun coltello piantato nel cuore.
E subito dopo la rabbia, seguì la stanchezza, e poi l’impotenza.
Il pugnale si allontanò dalla mia pelle, lo Spettro sciolse la presa d’intorno a me.
Era la mia ultima possibilità.
Gli sferrai un calcio agli stinchi, ma lo schivò con assurda rapidità. Allora tentai di colpirlo in viso con entrambe le mani ancora legate, ma me le bloccò a mezz’aria. Provai a colpirlo con la testa, ma piegò fluidamente il collo di lato e si scansò.
Ero debole. Non mangiavo da giorni, il suo colpo nella radura e la scarica di energia di pochi minuti prima contribuivano alla mia stanchezza.
«Arrenditi» proferì trionfale.
Non ero fisicamente in grado di oppormi a lui, e non potei impedirgli di caricarmi sul suo cavallo e riprendere la corsa a Gil’ead.
Persistetti nel mio mutismo anche per tutto il viaggio fino alla città, nonostante la pressione della magia sulla mia gola fosse sciolta da un pezzo.
Avevo più vivida che mai l’immagine del corpo di Fäolin steso a terra, una freccia piantata nella carne, il petto immobile privo di respiro e le parole del capitano del manipolo mi rimbalzavano in testa.
«Dovremo riferire alla regina che lei è morta?»
«Sì, in effetti probabilmente è così».
«Ne soffrirà».
«Non ne sono così sicuro».

Era risaputo che io e mia madre non fossimo in buoni rapporti, anzi. Lei si aspettava che io mi dedicassi anima e corpo alla mia educazione e mi preparassi per diventare un’impeccabile regina. Io volevo agire.
Forse Islanzadi si sarebbe dispiaciuta di aver perso l’ultima esponente della sua famiglia. O forse no. Forse si sarebbe accontentata di adottare un successore a lei gradito e mi avrebbe dimenticata in fretta, sorseggiando infusi di erbe con il perfetto sovrano di cui tanto aveva bisogno come garanzia per il futuro.
A quel punto cosa mi rimaneva da fare? E cosa mi aspettava? L’espressione imperturbabile dello Spettro non tradì nulla delle sue precise future intenzioni.
Vittima degli eventi, lasciai che mi trascinasse a Gil’ead, senza tentare altre fughe disperate.


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Piccola parentesi..
So che tutti, nessuno escluso, immaginate Durza come lo hanno rappresentato nel film. Purtroppo io ho avuto la sfortuna di averlo visto solo dopo diversi anni dalla lettura di “Eragon” e ormai mi ero creata un’immagine dello Spettro tutta mia, che sono molto restia ad abbandonare a favore di quella del film.
Nel caso potesse aiutarvi, Durza l’ho immaginato molto simile al principe Nuada nel film “Hellboy II- the golden army”, Film che peraltro prende qualche spunto dall’originale leggenda irlandese in cui il Principe Nuada perse una mano in battaglia e se ne fece fare una nuova, d’argento. Da qui poi il nome di Airgetlám, cioè braccio o mano d’argento (Gli Spunti di Paolini vengono fuori).
Dunque Durza sarebbe fisicamente identico al principe Nuada (alto, muscoloso, pallidissimo, viso affilato) tranne per gli occhi e il colore e la lunghezza dei capelli.
C’è un disegno magnifico su Deviantart, chiamato “Faces of Alagaesia” di Trouble Train. Ha disegnato i principali personaggi del ciclo dell’eredità e il mio Durza è identico a come l’ha fatto lei.
Lo trovate qui -----> Faces of Alagaesia
Saluti a tutti! :)
  
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