Mi
sembrava di galleggiare, tutto intorno a me era privo di consistenza
e pensieri confusi facevano a pugni nella mia testa, tanto da darmi
l’emicrania.
Dove diamine sono finita?
D’un tratto
la sensazione di qualcosa di duro, umido e freddo sotto la mia
schiena mi catapultò nella realtà.
Aprii gli occhi, lentamente,
per poi tornarli a chiudere subito dopo, feriti da una luce alla
quale non ero pronta. Quando finalmente il bagliore non mi diede
più
fastidio, cominciai a prendere coscienza di me.
Ero distesa sul
terreno nudo e semi ghiacciato di un bosco, sopra di me un cielo che
prometteva neve si stagliava oscuro e opprimente, come solo una notte
invernale poteva renderlo. Voltai appena la testa a sinistra, per
individuare il fuoco che qualche istante prima mi aveva
accecata.
Nonostante il tepore che emanava, avevo freddo. E
continuavo a sentirmi confusa, come se una nebbia densa e vischiosa
avesse avvolto la mia coscienza.
Piano, piano presi consapevolezza
del mio corpo, ma quando feci per tirarmi a sedere mi bloccai. Non
potevo aiutarmi con le mani, legate dietro la schiena da una corda
grossa e ruvida.
E questo spiega il male a spalle e braccia.
Pensai.
Rotolai su un fianco e riuscii ad alzarmi. Ero tutta
indolenzita.
Ero in una minuscola radura, circondata da un bosco
che non era nemmeno lontanamente simile alla mia foresta.
Annaspai
alla disperata ricerca delle mie facoltà mentali, ma venni
interrotta dalla vista di un uomo che sedeva di fronte a me sul
tronco di un albero caduto, dall’altra parte del fuoco.
«Finalmente
ti sei svegliata», mormorò con voce vellutata.
Strinsi gli
occhi, mettendo a fuoco la sua figura, senza riuscire a capire chi
fosse e perché fosse lì.
Io ero in viaggio con Fäolin e
Glenwing. Perché in quel momento mi trovavo in compagnia di
un
perfetto sconosciuto, legata e con la sensazione che qualcosa non
andasse?
Mi gettai un’occhiata addosso: la bisaccia di cuoio in
cui custodivo la pietra era scomparsa, insieme alle mie armi. Un
attacco di panico mi si riversò addosso.
«Ti ho trovata a terra
nel bosco». La voce melliflua dell’uomo mi riscosse
nuovamente.
«Sei un’Elfa» specificò, come
se quello potesse spiegare perché
mi avesse legata.
Analizzai con attenzione lo sconosciuto davanti
a me. Non doveva avere più di venticinque primavere, secondo
il
tempo degli uomini e il suo viso non recava la minima traccia di
barba, doveva essersi rasato al più tardi qualche ora prima.
I
suoi piccoli occhi avevano un taglio leggermente allungato ed erano
dello stesso colore marrone scuro delle castagne nella stagione dei
venti. Mi scrutavano senza la minima vergogna, registrando ogni
singola variazione della mia espressione, quasi scavandomi dentro,
mettendomi a disagio e scatenandomi allo stesso tempo un brivido di
inquietudine sul cuoio capelluto.
Le sopracciglia folte e arcuate
gli davano un’aria ancora più inquisitoria, di un
rosso appena più
scuro dei capelli corti che gli ricadevano sulla fronte, resi
brillanti dalle fiamme del fuoco, ma sporchi di terriccio, ad
indicare che sicuramente non era la prima notte che dormiva
all’addiaccio.
Le labbra pallide e troppo sottili erano
sollevate leggermente da un lato in un sorrisetto che di rassicurante
non aveva nulla e si sposavano alla perfezione con il viso ovale, con
un naso aquilino ad evidenziare ulteriormente il suo taglio da
rapace.
La pelle resa giallastra dal riflesso del fuoco aveva
qualcosa di profondamente inquietante, quasi si trattasse di un morto
ritornato dalle ombre.
Nel complesso aveva un’aria pericolosa e
sfuggente, tanto che non ero ancora riuscita a decidere se fosse un
semplice umano o no, nonostante parlasse la loro lingua senza
inflessioni e le orecchie che i capelli lasciavano scoperte fossero
inequivocabilmente rotonde.
«Non voglio farti alcun male, voglio
solo che tu te ne vada senza uccidermi» disse ancora.
Tirai un
impercettibile sospiro di sollievo. Era un umano, senza dubbio, solo
loro avevano la stupidità di credere gli elfi creature
malvagie che
traevano piacere nell’uccidere intere popolazioni avvelenando
le
fonti, spalmando unguenti infetti sulle porte delle loro case e
rapendo i bambini in fasce per sostituirli con sosia che non erano
altro che incarnazioni dei demoni. Sciocche superstizioni.
«Che
cosa mi è successo?» mi informai cautamente.
Le labbra sottili
si schiusero in un sorriso, scoprendo denti dritti e bianchi, segno
che il loro proprietario se ne prendeva cura almeno una volta al
giorno con impasti di erbe e foglie di salvia.
«Eri stesa a terra
in un bosco poco distante da qui, intorno a te c’erano delle
impronte di zoccoli di cavalli e di Urgali. Devi essere stata
attaccata da loro».
Come se le mie memorie venissero da un sogno,
ricordai l’improvviso fetore di carne rancida che mi era
giunto
alle narici e il nugolo di frecce nere che aveva riempito
l’aria.
«Non c’era nessuno con me?»
Dov’erano finiti i
miei compagni?
Scosse la testa lentamente. «Eri sola. E stringevi
questa tra le dita». Sollevò da accanto a
sé la mia bisaccia di
cuoio, visibilmente vuota.
Il mio cuore fece una capriola, mentre
una corazza di lucida logica prendeva il posto del panico che mi
aveva stretta fino a quel momento.
Probabilmente una banda di
Urgali aveva attaccato me e la mia scorta, costringendo Fäolin
e
Glenwing ad abbandonarmi nel bosco dopo essere stata disarcionata. E
i miei compari dovevano aver preso la pietra con loro.
C’erano
solo un paio di cose che non tornavano.
Perché gli Urgali si
trovavano così in profondità nel territorio
dell’impero? Perché
erano riusciti a coglierci alla sprovvista e addirittura batterci?
Perché non mi avevano uccisa per conquistare gloria presso
la loro
tribù? Perché Fäolin non era tornato
indietro a cercarmi, come mi
aspettavo avrebbe fatto? Perché se cercavo di fare chiarezza
nella
mia mente vedevo solo.. fiamme? Una foresta in fiamme.
E rosso,
un colore che mi avvolgeva fino a soffocarmi.
Cielo rosso. Alberi
rossi. Occhi rossi. Capelli rossi.
Annusai con discrezione i miei
vestiti, constatando che erano impregnati dell’odore acre del
fumo.
L’uomo non mi stava dicendo tutta la verità.
Feci per usare i
miei poteri e liberarmi della corda, ma mi accorsi con un certo
orrore che non ricordavo la mia lingua madre. Più cercavo di
arraffare una semplice parola che potesse formare un incantesimo,
più
quella pareva fuggire.
«Perché non mi liberi?» domandai
candidamente, accennando un sorriso melenso. Avevo bisogno di
guadagnarmi la fiducia di quello sconosciuto, prima che capisse quale
fosse lo stato di confusione che albergava nella mia mente e ne
approfittasse per vendermi a qualcuno degli uomini imperiali.
Abbassò
la mano che stringeva la bisaccia. «Avevi una pietra con te o
sbaglio?»
Mi irrigidii immediatamente.
«Vedi, mi basta sapere
dove hai mandato quella pietra e ti lascerò andare per la
tua
strada, non ho alcun interesse a trattenerti qui».
«Non so di
cosa tu stia parlando» replicai tranquillamente, sopprimendo
la mia
ansia sotto una fredda maschera di indifferenza.
«Oh io credo di
sì invece» rispose senza esitazione.
Tormentai le corde che mi
legavano i polsi, ma mi resi conto di essere troppo debole per poter
anche solo sperare di scioglierle. E che l’uomo di fronte a
me non
era certamente uno sprovveduto, e tanto meno un amico. Doveva avermi
drogata.
«Non ci riuscirai» mi informò, notando i
miei
movimenti. «La pietra, Elfa. Voglio solo quella
stramaledettissima
pietra e poi potrai tornartene nella tua foresta».
Gli occhi
castani furono oscurati da un lampo di impazienza e seppi con
assoluta certezza che si trattava di un fedele all’impero.
Di
fronte al mio mutismo, parve perdere l’atteggiamento
rilassato che
lo aveva accompagnato fino a quel momento. Si alzò agilmente
in
piedi e girò intorno al fuoco, estraendo un pugnale lungo
quanto il
mio avambraccio dal mantello nero e avvicinandosi a me.
Dovetti
fare uno sforzo per rimanere immobile e impassibile mentre si
inginocchiava di fronte a me, portando il viso a una spanna dal mio,
puntandomi nuovamente addosso i suoi occhi penetranti. La parte del
viso che non era illuminata dalle fiamme pareva così pallida
da
essere trasparente. Sentii che c’era qualcosa di sbagliato in
lui,
di oscuro.
«Parla».
Un forte odore, acuto e pungente mi
soffiò addosso. Sembrava menta selvatica.
Quell’odore ebbe il
potere di spazzare via la nebbia che mi oscurava il cervello e i
ricordi dell’imboscata tornarono, con vivida e dolorosa
chiarezza.
Lui era uno Spettro. Gli Urgali avevano
attaccato perché lui lo aveva ordinato.
Ero a terra perché
lui mi aveva colpita non appena avevo tentato di
mettere in
salvo la pietra di zaffiro. Fäolin e Glenwing non erano con me
perché lui aveva stregato le frecce nere
affinché potessero
superare con tranquillità le nostre protezioni. E li aveva
uccisi. I
miei compagni di viaggio non esistevano più.
Una bestia feroce si
scatenò dentro di me, donandomi una scarica di energia
incredibile.
Con un movimento brusco, mi sporsi in avanti per dargli una testata
nello stomaco, ma lo Spettro mi afferrò prontamente per le
spalle.
«Peccato» disse, ghignando, «temo che
l’armistizio
finisca qui».
Sotto i miei occhi, vidi le sue iridi diventare
dello stesso colore rosso e denso del sangue, le pupille si fecero
leggermente verticali, come quelle di un felino, ed erano da felino i
denti appuntiti che fecero capolino dalle labbra sottili e
crudeli.
Uno Spettro. Ero nelle mani di uno Spettro.
Un lieve
tremore tradì l’orrore che si era impossessato di
me.
Ero stata
ampiamente istruita sulle creature malefiche -sia quelle estinte, sia
quelle esistenti- dalle quali avrei dovuto starmene ben lontana se
tenevo alla mia vita. E sapevo con esattezza che, in tutta la storia
di Alagaësia, solo
Laetri
l’elfo e Irnstad il cavaliere erano riusciti a
sconfiggere
uno Spettro, accompagnati ovviamente da una buona dose di fortuna,
oltre che di indiscussa abilità. Erano creature malefiche e
potenti,
abili maghi e combattenti capaci. Fino a che uno Spettro calpestava
il suolo di quel regno, non poteva esservi pace, dato che era
risaputo che praticassero le forme più sacrileghe e oscure
della
magia, aiutati dagli Spiriti che abitavano nei loro corpi.
Una
risatina fredda e secca riempì la radura deserta. Mi si
accapponò
la pelle.
«Non devi avere paura di me» sillabò lo
Spettro con
il suo ghigno raccapricciante. «Non ti farò nulla,
se sarai
disposta a collaborare».
Il mio pensiero scivolò a Glenwing e
Fäolin e per un attimo mi parve di poter precipitare nel vuoto
di
dolore che riempiva la loro memoria. Non dovevo pensarci. Non ancora.
Non fino a che avrei dovuto tentare di tenere testa a quel mostro.
Dopo ci sarebbe stato il tempo di strapparsi i capelli e rigarsi il
viso di lacrime, forse.
«Non mi fai paura» ringhiai
orgogliosa.
Sbuffò. «L’arroganza non ti
sarà amica. Voglio
solo sapere dove hai mandato quella pietra».
Accennò un sorrisetto
di chi la sa lunga. «E tu vuoi solo tornartene a casa. Dimmi
quello
che voglio sapere e io ti lascerò andare. Ora. Senza altri
indugi.
Potrai tornare in pace nel tuo regno. Hai la mia parola che non ti
ostacolerò in nessun modo».
Detta così sembrava tutto così
semplice. Forse credeva che fossi una stupida sprovveduta.
Beh,
non lo ero.
Sapevo perfettamente fino a quanto potesse valere la
parola di una creatura del male. E per essere precisi era zero. Non
ero così folle da credergli, non così smarrita da
mettergli tra le
mani tutto ciò per cui avevo sempre combattuto. Dirgli
ciò che
voleva sapere significava condannare a morte il mio popolo e tutta
l’organizzazione ribelle dei Varden, significava sputare in
faccia
al sacrificio di Fäolin e Glenwing. Loro avevano dato la vita
per
prolungare la mia, per permettermi di portare a termine la missione.
E se lo Spettro chiedeva con tale insistenza dove avessi mandato
la pietra significava che non aveva la minima idea di dove potessi
averla materializzata e che il mio incantesimo era riuscito alla
perfezione, nonostante la foga del momento. Probabilmente in quel
momento l’uovo era al sicuro nelle mani di Brom e
l’unica cosa
che mi rimaneva da fare era tenere il silenzio fino a che lo Spettro
non mi avesse uccisa.
E a giudicare dall’espressione furente che
gli deformò i lineamenti non appena alzai il mento, non mi
avrebbe
fatta attendere a lungo.
Sussultai quando la parte piatta della
lama gelida del pugnale mi sfiorò il collo.
«Rilassati»
sussurrò lo Spettro con voce suadente e pericolosa, che ebbe
l’effetto di inquietarmi ancora di più.
«Ti sei appena guadagnata
un soggiorno a Gil’ead. Sarai mia ospite per..»
interruppe la
frase, schioccando la lingua contro i denti «..diciamo a
tempo
indeterminato» concluse maligno.
Mi fissò ancora, osservando
ogni mia mossa, ogni mia espressione, probabilmente alla ricerca di
una crepa nella maschera di granito che sapevo di poter impostare al
mio volto. Nonostante tutto fui colta da un’incalzante
inquietudine
e mi affrettai a controllare che le mie barriere mentali fossero ben
salde al loro posto.
«Qual è il tuo nome?» c’era
una sorta di
velata minaccia nella sua domanda.
Serrai le labbra, sfuggendo al
suo sguardo cremisi.
Il suo fiato caldo sulla fronte mi annunciò
che si era ulteriormente chinato su di me. La sua vicinanza mi mise a
disagio in maniera indicibile, ma rimasi impassibile.
Accennò un
sorriso. «Avremo modo di fare lunghe chiacchierate una volta
giunti
nella mia città. E ti assicuro che parlerai, Elfa. Oh se
parlerai».
Tese una mano verso di me e io dovetti fare uno sforzo
immane per non ritrarmi e rimanere immobile come una statua di sale.
Le sue dita bianche mi sfiorarono una guancia, lasciando una scia
fredda lungo la mia pelle già gelata, scivolando poi sul
collo e
accarezzando lievi il profilo del petto.
Fremetti violentemente,
incapace di controllarmi.
«Io sono Durza» disse carezzevole.
Il
suo tocco mi stava gelando le ossa, e non per la temperatura della
sua pelle.
«Ricorda questo nome, avrai paura sentendolo
pronunciare».
A quel punto mi ritrassi. Lo Spettro sorrise.
«Slytha» mormorò.
Ed io caddi in un sonno profondo.
Una
sensazione di gelo al viso mi costrinse ad aprire gli occhi. Vidi una
figura indistinta china su di me.
«Fäolin» sussurrai.
Impiegai
meno di un istante prima di comprendere il mio errore.
I
lineamenti affilati dello Spettro presero contorno, ricordandomi in
quale terribile guaio mi fossi cacciata.
Mi fissò annoiato. «Uno
dei tuoi compari? Sono morti entrambi, Elfa» mi
informò seccamente.
«E le mie fiamme avranno bruciato i loro corpi».
Mi sedetti,
lanciandogli un’occhiata di puro odio.
Stava nevicando, e i
fiocchi ghiacciati lambivano la mia pelle, facendomi rabbrividire dal
freddo.
«Alzati» ordinò, «voglio
raggiungere Gil’ead prima
che la neve ci blocchi il passo».
Raccolsi rapidamente le mie
idee, ricordando in un lampo i fatti dell’imboscata e
cacciando
conseguentemente il dolore che mi legava a quei ricordi, per passare
poi alla conversazione della sera precedente. Sbirciai lo Spettro da
sotto le ciglia.
Sapevo chi era. Chi, tra ribelli non era a
conoscenza dell’identità di Durza lo Spettro,
luogotenente del re
Galbatorix in persona, fautore di incredibili massacri e sofferenze,
spietato ai limiti del possibile. E anche se per caso non lo si
avesse mai sentito nominare era impossibile stare per più di
un
quarto di clessidra in compagnia di Ajihad senza che nominasse il suo
famoso duello con Durza, dal quale era uscito non propriamente
incolume, ma vivo. E già quello era un evento straordinario.
Con
un’altra occhiata constatai che il fodero nero di una spada
lunga e
sottile pendeva dal fianco dello Spettro, seminascosto dal mantello
nero, sotto il quale si intravedevano pantaloni neri, una giubba nera
e stivali neri.
Durza aveva detto che mi avrebbe portata con sé a
Gil’ead. Voleva forse consegnarmi al suo re? Se quello era il
mio
destino tanto valeva ammazzarmi subito ed evitare almeno che
Galbatorix riuscisse a carpire da me informazioni che sarebbero state
disastrose nelle mani sbagliate.
Ma forse lo Spettro aveva solo
intenzione di torturarmi per qualche giorno, fino ad arrendersi
all’evidenza che non avrei parlato e mi avrebbe poi spedita
nelle
ombre.
«Sappi che non amo ripetermi». Una voce ben
più gelida
della neve che cadeva mi riscosse.
Il mio rapitore era in piedi a
pochi passi da me, e teneva per le redini un cavallo grigio nebbia,
striato di nero.
Mi alzai, nonostante le mani legate, con una
certa agilità.
«Sali» comandò con un ghigno.
Guardai
l’immenso cavallo. Mi sarei dovuta letteralmente arrampicare
su
quell’animale gigantesco, e ovviamente non potevo neppure
pensare
lontanamente di farlo con le mani impegnate. E lui lo sapeva. Quella
messa in scena aveva il solo scopo di umiliarmi.
«Dovrò
aiutarti».
Le sue mani si strinsero sicure sulla mia vita, le
sentii fredde attraverso i vestiti. Mi issò in sella con una
facilità incredibile, quasi non fossi altro che una bambola
di
pezza.
Montò rapido dietro di me e strinse le redini, passando le
braccia intorno al mio corpo.
La sua vicinanza e il fatto di non
poterlo vedere in viso mi provocavano una certa inquietudine. Non si
danno le spalle al nemico, mai. Ero rigida come un manico di scopa, e
lui parve notarlo.
«Come avrai intuito, mi servi viva, Elfa»
disse ridacchiando in maniera snervante. «Quindi non ti
ucciderò
nell’immediato futuro, e di questo puoi esserne
certa».
Spronò
il cavallo e l’animale partì al trotto, la mia
spada e il mio arco
che penzolavano dalle bisacce legate alla sella. Mi dispiacqui
nuovamente di non riuscire ad usare la mia magia.
Mentre il
paesaggio scorreva rapido di fianco a me, mi permisi di dedicare i
miei pensieri a un modo alternativo per sfuggire a quella situazione,
conscia che sarebbe stato difficile, ai limiti del possibile.
Ma
non dovevo farmi prendere dal panico. Dovevo rimanere il più
lucida
e fredda possibile.
Ad Ellesméra ero stata per anni allieva di
Oromis e Glaedr. Non che avessi ricevuto una vera e propria
formazione da cavaliere -dato che il mio compito mi imponeva di
viaggiare spesso e i cavalieri avevano segreti che nessuno al di
fuori dell’ordine sapeva, la cosa non era possibile- ma i due
si
erano impegnati ad insegnarmi qualche trucchetto dietro insistenza di
mia madre. Del resto ero la prima Elfa che si sarebbe avventurata
fuori dalla foresta da anni. E con il re in circolazione non si era
mai troppo sicuri. Se avevo imparato una cosa da loro, era che ogni
situazione andava analizzata da ogni punto di vista per poter trovare
una soluzione.
Sapevo che ad Osilon si aspettavano di
vedere arrivare me e i miei compagni la sera stessa in cui eravamo
caduti nell’imboscata. Quanto era passato da allora? Non lo
sapevo,
potevo essere rimasta incosciente per ore, come per giorni.
C’era
una sottile, lontana possibilità che la guarnigione fissa
della
città decidesse di mandare qualcuno a cercarci, magari
preoccupati
per il nostro eccessivo ritardo. Se avessero trovato i resti
dell’incendio e.. Deglutii. E i corpi di Fäolin e
Glenwing,
avrebbero capito che c’era qualcosa che non andava e, notando
la
mia assenza e quella della pietra, mi avrebbero cercata in lungo e in
largo.
Dovevo trovare un modo per rallentare Durza.
La mano
destra dello Spettro in questione si staccò dalle briglie,
per
insinuarsi tra i mie capelli e afferrare la punta del mio orecchio.
Le sue dita erano gelate, avrei voluto suggerirgli dei guanti contro
il freddo.
«Mi sembra corretto offrirti un’ultima
possibilità»
disse con voce alta e chiara, che sentii distintamente sopra lo
scalpiccio degli zoccoli e il fruscio dell’aria che stavamo
tagliando. «Decidi ora se ti senti più disposta a
collaborare. La
pietra per la tua vita, mi pare uno scambio equo».
Scrollai
rabbiosamente il capo, togliendo la presa delle sue dita.
«No,
non lo è» replicai ostentando calma.
Con un movimento brusco, lo
Spettro mi artigliò la spalla. «Non prenderti
gioco di me, piccola
Elfa. Perché io non sto affatto scherzando».
Rimasi immobile e
impassibile come una statua di granito. Ma in cuor mio pensai che
Durza aveva l’aria di uno che non parla a vanvera.
«Sai a
Gil’ead c’è una magnifica prigione, ti
piacerà» sibilò lo
Spettro. «E questa pelle di velluto..»
sfiorò appena il mio collo
con l’indice «..ha mai sentito che sensazione da un
ferro rovente
addosso?»
Serrai le labbra e mi scostai di lato, sfuggendo al
fastidio del suo tocco. Mi sembrava che se mi avesse sfiorata per un
altro istante, una parte di me sarebbe inesorabilmente marcita.
«Sei
proprio una stupida» decretò, tornando a posare la
mano sulle
briglie.
Lo ignorai, cercando nuovamente di richiamare alla mente
le parole nell’antica lingua, invano.
Bene. La magia era fuori
gioco.
Rimanevo solo io.
Agii senza nemmeno riflettere troppo
su dove mi avrebbero portato le mie azioni.
Sciolsi le membra e mi
afflosciai sulla sella, cogliendo Durza di sorpresa, tanto che non
poté impedirmi di scivolare sotto le sue braccia e cadere
dal
cavallo. Rotolai sul terreno reso fangoso dagli acquosi fiocchi di
neve che ancora cadevano, rannicchiandomi su me stessa per evitare
danni.
Gli zoccoli dell’animale rasparono nel terreno e il tonfo
di un paio di stivali mi annunciò che lo Spettro mi avrebbe
raggiunta in pochi istanti.
Chiusi gli occhi e mi concentrai,
rilassando il respiro e le membra, fingendomi svenuta.
«Come sei
ingenua, piccola Elfa» sussurrò Durza nel silenzio
ovattato. «Con
me ogni finzione è inutile. Non ti hanno mai insegnato le
regole di
un bravo guerriero? Quando la situazione è inesorabilmente
fuori
controllo, bisogna arrendersi».
I suoi passi frusciarono
lenti e decisi nella mia direzione. Rimanere immobile mi
costò uno
sforzo che non credevo possibile.
«Anche adesso» continuò lui
con la sua voce melliflua, «sento che hai paura».
Controllai le
mie barriere mentali. Salde e intaccate al loro posto. Come riusciva
a capire che la mia fosse solo finzione e addirittura ad intuire i
miei sentimenti?
Il suono del suo respiro mi fece capire che era
praticamente accanto a me.
Aprii gli occhi e mi alzai di scatto,
assestandogli una gomitata alla tempia e rendendomi conto solo in
quel momento di quanto incredibilmente alto fosse, anche per i canoni
elfici.
Lo Spettro ringhiò qualcosa, ma non volevo restare
lì ad
informarmi se si fosse offeso o meno. Schizzai immediatamente in
direzione del cavallo che Durza aveva abbandonato poco più
avanti
sul sentiero, scapolando con le braccia e portandomi le mani legate
davanti a me.
Avevo appena allungato le mani verso la spada che
pendeva dalla bisaccia legata alla sella, quando un braccio forte mi
cinse la vita, spingendomi a terra.
Rotolai nel fango avvinghiata
allo Spettro, dando e ricevendo pugni e calci in egual misura. Uno
scricchiolio agghiacciante e un dolore sordo al viso mi annunciarono
che probabilmente mi aveva slogato la mascella. Un istante dopo
offrii la schiena al suolo gelido, le mani di Durza premute con forza
sulle mie spalle, a tenermi ferma. Notai con una certa soddisfazione
che gli sanguinava il naso. Era abbastanza umano da avere sangue
nelle vene, almeno.
In un impeto di coraggio gli sputai in
faccia.
Lo Spettro sollevò un sopracciglio. «Non provarci
mai
più». La sua voce risuonava di un sottile sibilo.
Alzai gli
occhi sul suo viso e la sua espressione irata mi fece tremare. Ma
più
di tutto furono i suoi occhi a sconvolgermi. Così rossi,
così
profondamente intrisi di odio. Mi fecero desiderare di non essere mai
nata, di poter morire. Subito. Di non dover passare un solo istante
in più a fissarli.
Mi divincolai nell’inutile tentativo di
liberarmi dalla sua presa.
Ero debole.
Ero impotente come una
formica nelle mani di un bambino.
«Mi troveranno» ringhiai. «Ti
taglieranno la strada Spettro. Portami pure a Gil’ead. Non ci
arriveremo mai, altre guardie elfiche ti attendono su quella strada e
non potrai coglierle con l’inganno come hai già
fatto. Dovrai
combattere. E sarai sconfitto».
Mentivo, mentivo spudoratamente.
Speravo solo che mi avrebbe creduta e che per prudenza avrebbe deciso
di aspettare nel bosco un altro giorno o due, giusto il tempo
necessario alla vera guarnigione per arrivare.
Se la cosa lo
impressionò o lo spaventò come avrei voluto
facesse, non lo diede a
vedere.
«Credo che sia la frase più lunga che un elfo
abbia mai
detto dalla nascita di Alagaësia» si
limitò a dire, con palese
sarcasmo.
Furiosa, tornai a divincolarmi con tutte le mie
forze.
«Buona» sussurrò minacciosamente.
«Stai buona».
Mi
addormentò nuovamente.
La testa mi pulsava dolorosamente e,
quando aprii gli occhi, vidi per un attimo tutto nero.
La mascella
scricchiolò sinistramente quando aprii la bocca, ma non
sembrava
rotta. Si era trattato di un innocuo pestaggio.
«Vi facevo più
temprati voi Elfi, e più intelligenti».
La voce dello Spettro
vibrava d’ira. Mi alzai a sedere e lo vidi seduto a poche
iarde di
distanza da me, un fuocherello brillava alla sua sinistra.
Solo
allora mi accorsi che non ci eravamo mossi. Non sapevo quanto tempo
fosse passato da quando mi aveva addormentata, ma doveva trattarsi di
ore dato che la luce stava rapidamente scemando nel tramonto.
Mi
concessi un istante per lanciare un interiore grido di
vittoria.
C’ero riuscita! Ero riuscita a rallentare la marcia.
Dovevo solo sperare che i soccorsi in cui avevo riposto tutte le mie
speranze arrivassero il prima possibile.
Lo Spettro corrugò la
fronte, scrutandomi con intensità, al punto di farmi
rabbrividire.
Sembrava che mi stesse leggendo dentro. Istintivamente, rafforzai le
barriere della mia mente.
«Come mai tanto trionfo Elfa?»
Rimasi
sconvolta alla sua domanda, posta con aria quasi noncurante, quasi
avesse domandato perché avevo messo un abito giallo invece
di uno
verde.
Ero convinta di essere rimasta impassibile, a quanto pare
mi era sfuggita un’espressione.
Non può riuscire a leggermi
la mente nonostante le mie difese, o a questo punto avrebbe
già tra
le mani tutte le informazioni che gli servono.
Rassicurata dal
pensiero sciolsi la tensione dei muscoli.
Un sordo brontolio ruppe
il silenzio della notte.
Era il mio stomaco. Non ricordavo quale
fosse stata l’ultima volta che avevo mangiato.
Durza scoppiò in
una risata stridula che mi fece quasi sobbalzare.
«Se non mi
avessi rallentato a quest’ora saremmo già arrivati
a Gil’ead»
mi informò beffardo, «e tu avresti potuto mangiare
qualcosa».
Non
reagii in alcun modo.
«Comincio a chiedermi se tu non sia
diventata muta».
Ancora non risposi.
«Vedrai che presto
parlerai». Suonò molto come una minaccia.
Lo Spettro sussurrò
alcune parole nell'antica lingua, che faticai a capire ma non riuscii
a memorizzare, e subito dopo un evanescente cerchio di nebbia nera si
avvolse intorno a noi.
«Prova a superarlo Elfa» mi lanciò uno
sguardo di sfida, «e spererai di non essere mai
nata».
Detto
quello si avvolse in una coperta, me ne lanciò
un’altra e si stese
accanto al fuoco. Pochi minuti dopo il suo respiro era regolare.
Dormiva.
Imprudente, molto imprudente. Con un ghigno che avrebbe
fatto strappare i capelli ad ogni elfo ben educato che c’era
alla
corte di mia madre, strisciai lentamente verso di lui.
Mi aveva
sottovalutata. Peccato, non si sarebbe più svegliato.
Mi
acquattai a terra a una spanna di distanza dallo Spettro e osservai
con attenzione il suo viso. Ingannevolmente giovane e liscio come
quello di un elfo, solcato da occhiaie scure sotto gli occhi, chiaro
segno di quanto a lungo si fosse negato il riposo. I lineamenti da
falco erano contratti in un’espressione seria, che gli
conferiva
un’aria malvagia anche mentre dormiva.
E a proposito di dormire.
Restai una buona mezzora immobile accanto a lui, per accertarmi che
non stesse fingendo e non ebbi motivo di pensare il contrario.
Non
pensavo che avesse un lato così umano da
ridursi ad
addormentarsi. Avevo sempre visto gli Spettri come creature
demoniache nate per la morte e la distruzione, sostenute dalla sola
forza degli spiriti che li comandavano; non mi era mai venuto in
mente che anche loro avessero delle esigenze così banali
quali il
dormire e il mangiare.
Gettai un ultimo sguardo all’inquietante
barriera nera che circondava il piccolo bivacco e sospirai piano. Ero
convinta che Durza non mi avesse minacciata a vuoto, e quindi cercare
di scappare attraverso la cupola nerastra era da escludere.
Cercai
nuovamente di usare i miei poteri, ma mi rispose il nulla.
Probabilmente mi aveva drogata ancora, dopo avermi addormentata.
Le
mie armi erano assicurate alle bisacce del cavallo, che
sfortunatamente era placidamente legato ad un albero fuori dal
cerchio magico.
Per l’ennesima volta, mi dissi che sarei bastata
io.
Con movimenti estremamente lenti e misurati, mi spostai dietro
la testa dello Spettro. Quando allungai le mani davanti a me notai
con una smorfia che la grossa corda ruvida, strettamente serrata sui
polsi, mi aveva procurato delle piaghe sulla pelle. Ma per il freddo
o per altro, non sentivo dolore.
Tornai a concentrarmi sul mio
nemico.
Poteva morire solo se colpito al cuore, ma io non avevo
nulla che potesse aiutarmi in una simile impresa.
Lo avrei
soffocato a mani nude. Non sarebbe morto definitivamente, ma sarebbe
scomparso per qualche tempo e almeno io sarei stata libera, confidavo
che la barriera nera sarebbe scomparsa con lui.
Senza ulteriori
esitazioni calai sulla sua gola scoperta..
..e mi sentii afferrare
la mani da delle lunghe e forti dita gelide.
«Non dormi Elfa?»
domandò schiudendo gli occhi cremisi con un sorriso di
scherno.
Mi
dibattei dalla sua presa, scalciando nel tentativo di colpirlo alla
testa.
Si alzò in piedi con rapidità inumana, tirandomi
su con
lui e girandomi di spalle. Mi incrociò le mani sul petto,
continuando a stringermi contro di sé, con una forza tale
che
faticai a riempire i polmoni d’aria.
Sentii il suo fiato
all’orecchio. «Non sono nato ieri»
mormorò.
Mi lasciò andare
di scatto. Impreparata, scivolai a terra.
Durza si chinò
lievemente su di me con un’espressione affabile.
«Credevo di
essermi divertito abbastanza a giocare con te, per oggi. Ma mi pare
che tu non sia dello stesso avviso».
Farfugliò qualche parola
nell'antica lingua e i capelli mi si rizzarono sulla
nuca.
Un’improvvisa scarica elettrica mi attraversò il
corpo.
Era come se qualcosa mi stesse strappando la carne a morsi,
distorcendo i legamenti, maciullando le ossa. Era un dolore
indicibile, che mai in vita mia avevo provato. Serrai con forza le
palpebre cercando di ritrovare un minimo di lucidità in
quella
marea di sofferenza.
Il male sparì, rapido così com’era
venuto.
Sentii in bocca uno strano sapore ferroso. Mi toccai il
labbro e ritrassi le dita sporche di un liquido caldo. Mi ero morsa
le labbra a sangue, per non urlare.
«Questo era solo un ennesimo
avvertimento» ringhiò lo Spettro. Aprì
la bocca per aggiungere
qualcos’altro ma poi la sigillò un istante dopo.
Socchiuse gli
occhi e inclinò appena il capo.
Stava ascoltando qualcosa.
Mi
concentrai a mia volta sui suoni che mi circondavano e non potei non
trarre un respiro di sollievo. Il rumore di zoccoli sul terreno
schioccava in lontananza, mischiato a voci argentine di indubbia
provenienza. Elfi.
Stavano venendo a prendermi. Ero salva.
Mi
resi conto che lo Spettro mi aveva sollevata da terra solo quando mi
ritrovai adagiata sulla sua spalla come un sacco di patate.
Strillai
come un’ossessa, contorcendomi per liberarmi dalla presa.
«Bastarda
di un’Elfa!» imprecò il mio rapitore.
«Sei stata furba, ma non
ti salveranno stanne certa».
Mosse la mano di fronte al mio viso
e la voce mi si serrò in gola, secondo l’effetto
della sua magia.
Non aveva pronunciato alcuna parola di potere, ma forse era
più
facile usare direttamente le proprie abilità magiche senza
doverle
legare a delle frasi quando si aveva uno, o forse più di
uno,
spirito dentro di sé. Quelle creature erano fatte di pura
magia.
Una
sensazione di disgusto mi serrò lo stomaco, che unita a
quella di
panico, non mi aiutò certamente a riprendere il controllo
della
situazione.
Durza correva rapidamente tra gli alberi spogli,
tirandosi dietro il cavallo e tenendomi saldamente stretta sulla sua
spalla. Nel buio totale e avvolgente della notte, io vedevo a
malapena i contorni degli alberi e del terreno, mentre lui avanzava
con sicurezza. Mi chiesi se gli occhi da gatto non avessero un altro
scopo altre a quello di rendere uno Spettro spaventoso.
Durza si
allontanò dal sentiero, inoltrandosi sempre di
più nel sottobosco,
fino a giungere ad una piccola grotta, spingerci dentro il cavallo e
sbattermi con violenza contro la parete.
Per un attimo vidi tutto
rosso.
Poi avvertii la pressione di qualcosa di duro e gelido
contro la mia gola. Lo Spettro mi cingeva la vita con un braccio e
con una mano reggeva un pugnale, che mi teneva puntato contro. Notai
una strana incisione lungo la guardia, ma non riuscii a decifrare la
lingua in cui era scritta e non potevo chiedere delucidazioni. Che in
ogni caso sarebbero state fuori luogo.
«Stai tranquilla Elfa»
disse lo Spettro con voce bassa, «o giuro che non me ne
importa
nulla delle informazioni che potrei spremerti e ti ammazzo. E non
provare ad aprire la mente ai tuoi amici» mi prevenne,
«perché
allora dovrai abbassare le tue difese e io riuscirò a
penetrare i
tuoi segreti».
Deglutii faticosamente, dato il nodo che si era
serrato alla mia gola. Purtroppo la situazione era tutta a suo favore
e se anche avessi avuto la mia voce, non avrei mai potuto usarla.
Ma
ero speranzosa. Lo Spettro non sarebbe riuscito a farla franca,
c’era
un dettaglio di cui non era a conoscenza.
Io ero pur sempre Arya
Dröttningu, la figlia della regina.
Il mio popolo non avrebbe
condotto la ricerca tanto superficialmente, avrebbero battuto ogni
centimetro di Alagaësia, guardato sotto ogni albero, vicino ad
ogni
ruscello, in ogni singola casa o catapecchia.
In quel momento gli
elfi erano esattamente davanti a noi, riuscivo a vedere le figure
candide dei loro destrieri attraverso gli alberi scheletrici.
Fui
tentata di divincolarmi e scappare. Ma la lama dello Spettro premette
più forte, al punto da provocarmi un lieve taglio sul collo.
Un
minimo movimento e mi sarei uccisa da sola.
I cavalli si fermarono
e gli elfi si chiusero in cerchio, confabulando tra di
loro.
«Dividiamoci» propose uno di loro. «Il
suo corpo non era
con gli altri, forse è stata rapita dagli uomini del
re».
«Abbiamo
trovato i cadaveri di dodici Urgali, ma di uomini nessuna traccia.
Sono stati attaccati dai mostri, non dai servi del re».
Dodici?
Ruotai gli occhi in direzione dello Spettro, che ostentava un
sorrisetto lieve sulle labbra sottili. Io avevo ucciso tre Urgali,
non mi ero mai chiesta che fine avessero fatto gli altri.
«Ormai
erano inutili» bisbigliò al mio orecchio,
allentando lievemente la
pressione della lama.
Il battito del mio cuore accelerò per la
tensione.
Tornai a concentrarmi sugli elfi, che stavano ancora
discutendo. «I custodi se la sarebbero cavata benissimo
contro una
banda di Urgali. No, probabilmente si trattava di
un’imboscata ad
opera di un gruppo di stregoni del re. Solo un fuoco magico poteva
provocare tutti quei danni alla foresta». Una sfumatura di
dolore
incrinò la voce dell’elfo. «Devono
essersi presi la pietra e
anche la nostra ambasciatrice».
«Ambasciatrice eh?» sottolineò
Durza, facendo scivolare la parte piatta della lama sul mio collo e
mantenendo salda la stretta del suo braccio intorno alla mia vita.
Ci
mancava solo che quei soldati dicessero che ero la figlia della
regina e per me era la fine..
Gli elfi pattugliarono con
attenzione la zona, pronunciando un incantesimo luminoso dopo
l’altro; uno di loro si affacciò addirittura nella
grotta, ma non
vi si inoltrò e non ci vide. Probabilmente perché
lo Spettro
continuava a bisbigliare complicati incantesimi per riflettere la
luce e renderci invisibili e per creare una barriera che
insonorizzasse l’area intorno a noi alle orecchie degli elfi,
così
che non sentissero i nostri respiri.
Le parole nell’antica
lingua che pronunciava mi entravano da un orecchio e uscivano
letteralmente dall’altro. Le capivo, ma erano
inafferrabili.
Continuai a sperare fino all’ultimo secondo che
qualcuno decidesse di sondare la grotta, ma era ormai ovvio che non
lo avrebbero fatto.
Più di mezzora dopo ero tutta irrigidita per
il freddo e la posizione scomoda, con la schiena premuta contro il
petto dello Spettro, le mani ancora legate dalla corda e la lama del
suo pugnale che continuava a scivolare minacciosa sulla mia pelle,
pronta ad affondare nella mia carne al mio minimo tentativo di
fuga.
Gli elfi si riunirono nuovamente in cerchio.
Quello che
pareva il capitano parlò. «Qui non
c’è nulla. È inutile
inoltrarci ulteriormente nel territorio dell’impero, sarebbe
rischioso. Recuperiamo i cadaveri di Fäolin e Glendwing,
meritano
una vera cerimonia funebre e una tumulazione decorosa».
«Dovremo
riferire alla regina che lei è morta?»
«Sì, in effetti
probabilmente è così».
«Ne soffrirà».
«Non ne sono così
sicuro». Tirò le briglie del cavallo e lo
voltò. «Torniamo a casa
soldati!»
Poi se ne andarono nella direzione da dov’erano
venuti, spronando gli animali a tutta velocità.
Un macigno mi
scese sul petto. Ero perduta, abbandonata, sola.
Lo Spettro, alle
mie spalle, rise sommessamente.
Lo odiai con tutta me stessa. Gli
lanciai silenziosamente contro tutte le maledizioni che mi venivano
in mente, a raffica, e se avessero funzionato, sarebbe morto sul
colpo, senza bisogno di nessun coltello piantato nel cuore.
E
subito dopo la rabbia, seguì la stanchezza, e poi
l’impotenza.
Il
pugnale si allontanò dalla mia pelle, lo Spettro sciolse la
presa
d’intorno a me.
Era la mia ultima possibilità.
Gli sferrai
un calcio agli stinchi, ma lo schivò con assurda
rapidità. Allora
tentai di colpirlo in viso con entrambe le mani ancora legate, ma me
le bloccò a mezz’aria. Provai a colpirlo con la
testa, ma piegò
fluidamente il collo di lato e si scansò.
Ero debole. Non
mangiavo da giorni, il suo colpo nella radura e la scarica di energia
di pochi minuti prima contribuivano alla mia stanchezza.
«Arrenditi»
proferì trionfale.
Non ero fisicamente in grado di oppormi a lui,
e non potei impedirgli di caricarmi sul suo cavallo e riprendere la
corsa a Gil’ead.
Persistetti nel mio mutismo anche per tutto il
viaggio fino alla città, nonostante la pressione della magia
sulla
mia gola fosse sciolta da un pezzo.
Avevo più vivida che mai
l’immagine del corpo di Fäolin steso a terra, una
freccia piantata
nella carne, il petto immobile privo di respiro e le parole del
capitano del manipolo mi rimbalzavano in testa.
«Dovremo
riferire alla regina che lei è morta?»
«Sì, in effetti
probabilmente è così».
«Ne soffrirà».
«Non ne sono così
sicuro».
Era risaputo che io e mia madre non fossimo in buoni
rapporti, anzi. Lei si aspettava che io mi dedicassi anima e corpo
alla mia educazione e mi preparassi per diventare
un’impeccabile
regina. Io volevo agire.
Forse Islanzadi si sarebbe dispiaciuta di
aver perso l’ultima esponente della sua famiglia. O forse no.
Forse
si sarebbe accontentata di adottare un successore a lei gradito e mi
avrebbe dimenticata in fretta, sorseggiando infusi di erbe con il
perfetto sovrano di cui tanto aveva bisogno come garanzia per il
futuro.
A quel punto cosa mi rimaneva da fare? E cosa mi
aspettava? L’espressione imperturbabile dello Spettro non
tradì
nulla delle sue precise future intenzioni.
Vittima degli eventi,
lasciai che mi trascinasse a Gil’ead, senza tentare altre
fughe
disperate.
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Piccola parentesi..
So che tutti, nessuno escluso, immaginate Durza come lo hanno rappresentato nel film. Purtroppo io ho avuto la sfortuna di averlo visto solo dopo diversi anni dalla lettura di “Eragon” e ormai mi ero creata un’immagine dello Spettro tutta mia, che sono molto restia ad abbandonare a favore di quella del film.
Nel caso potesse aiutarvi, Durza l’ho immaginato molto simile al principe
Dunque Durza sarebbe fisicamente identico al principe Nuada (alto, muscoloso, pallidissimo, viso affilato) tranne per gli occhi e il colore e la lunghezza dei capelli.
C’è un disegno magnifico su Deviantart, chiamato “Faces of Alagaesia” di Trouble Train. Ha disegnato i principali personaggi del ciclo dell’eredità e il mio Durza è identico a come l’ha fatto lei.
Lo trovate qui ----->
Saluti a tutti! :)