Disclaimer: i
personaggi sono proprietà di Fujimaki Tadatoshi.
Note: a CriminalDanage.
Tanti auguri, Murochin (LL)
Grazie a Rota per il prompt (L)
Quando Himuro uscito dalla doccia, l’asciugamano per i
capelli leggermente umidi intorno al collo, arriva nella stanza di Atsushi
questi si alza dal letto e gli dà il cambio, oltrepassando la porta per
dirigersi a sua volta in bagno.
Il moro si prende il tempo dell’assenza dell’altro per sistemarsi – recuperare
il borsone della Yosen dalla sua posizione vicino alla scrivania, prendere
l’occorrente per la notte – per poi sedersi sul letto dell’altro.
Atsushi ha insistito perché rimanesse da lui; non è la prima volta che succede,
tanto che Himuro conosce i piccoli dettagli di casa Murasakibara che di primo
impatto possono sembrare sciocchezze. Con un po’ di attenzione, però, si nota
che sono quel tipo di particolari che solo frequentando assiduamente una casa
si possono conoscere – dove trovare la salsa di soia in cucina, dove prendere
gli asciugamani per gli ospiti e sì, anche dove Atsushi teneva le scorte di
snack in camera.
Ad Himuro viene sempre da sorridere quando, guardando il più alto recuperare
una barretta di cioccolato o una caramella da questo o quel cassetto, si riscopre
ad aver indovinato il nascondiglio giusto. Gli dà la sensazione di conoscere
davvero tutto di Atsushi, ma
soprattutto gli fa provare uno sciocco – infantile forse – senso di superiorità
per il vedere lati del suo ragazzo che altri magari nemmeno sospettano.
«Muro-chin» il richiamo di Atsushi, che in quel momento
rientra nella stanza, lo distrae «tieni.» lo sente dire e sposta lo sguardo su
di lui, con fare interrogativo.
In quel momento il più alto allunga una mano verso di lui, e gli lascia
scivolare sulle gambe una maglietta che profuma di pulito. Gli basta spiegarla
per notare che è troppo grande per essere la propria, dimenticata magari lì
chissà quando.
«Atsushi?» lo richiama, senza capire, ma non riceve subito risposta e sospira
con una sfumatura di rassegnazione.
Da quando quel pomeriggio ha giocato un uno contro uno con Taiga in una sorta
di ritorno ai vecchi tempi, Atsushi è stato silenzioso; non ci è voluto molto a
capire che è stato per gelosia.
Non che questo spieghi meglio la presenza della maglietta.
L’altro però non gli lascia il tempo di chiedere altre spiegazioni e gli fa
segno di indossarla; tanto per stare sicuro poi, gli ruba di mano quella che il
moro aveva tirato fuori dal borsone. Sono inutili i tentativi – per i cinque
minuti seguenti – di riavere indietro la propria: alla fine il moro si arrende
ad indossare quella del compagno, e normalmente potrebbe anche riuscire a fare
il collegamento giusto, ma benché tutto sommato gli piaccia anche il lato
infantile di Atsushi non ha una pazienza infinita, e vorrebbe almeno capire qual è il problema.
Il più alto lo osserva, sembra soppesare qualcosa, e l’unica cosa che Himuro
pensa sia evidente è quanto enorme gli stia quella maglia, niente di più;
Atsushi tuttavia posa quella del moro sulla sedia della scrivania e poi, senza
preavviso o senso alcuno, lo raggiunge, si china su di lui, lo chiude in un
abbraccio che fa pensare ad un orso più che altro, e fa poca resistenza alla
forza di gravità.
Tatsuya è abituato abbastanza a quegli approcci da affondare nel materasso,
sotto Atsushi, senza conseguenze gravi se non uno sbuffo leggero – non riesce
mai ad essere davvero arrabbiato con lui in quei frangenti che sono un misto
dell’essere eternamente bambino dell’altro e della sua goffaggine data da un corpo
tanto grande.
Gli cinge le spalle con un movimento lento e leggero, nessuna stretta
possessiva, più quella che si userebbe per tranquillizzare qualcuno forse; una
mano aderisce alla sua schiena, vi passa carezze leggere e distratte: «Atsushi?»
tenta di nuovo.
A discolpa di Murasakibara c’è da dire che, dopotutto, lui non è mai stato
paziente e che il suo essere una persona istintiva sotto ogni punto di vista
non ha aiutato affatto; non c’è da stupirsi se non risponde, in un infantile
sottolineare quanto si senta offeso e tradito nel profondo, neanche Himuro gli
avesse rubato l’ultima barretta di cioccolato. Né è così sorprendente che a
delle parole, ad una spiegazione, vengano sostituiti i gesti.
Non è che Atsushi non sappia mettere due parole insieme, anzi, Tatsuya ha
scoperto a sue spese che l’altro sa essere fin troppo diretto nell’esprimere il
suo punto di vista. Di certo, però, quel che gli riesce meglio è comunicare con
i fatti più che con discorsi lunghi che non fanno per lui.
«Muro-chin» si lamenta da qualche parte vicino al suo
orecchio, e affonda di più il viso vicino al collo di Himuro, sfiorandolo con
il naso nell’ennesimo gesto da bambino – se per dargli fastidio o scatenargli
un tragico moto di tenerezza Tatsuya non lo sa.
Lo sente fermarsi, inspirare e borbottare qualcosa che non capisce nonostante
la vicinanza tra i loro visi; sospira rassegnato all’idea che non riceverà una
risposta, e la mano sale tra i capelli di Atsushi sfiorandoli piano e quasi distrattamente.
In qualche modo – non sa come – questo ha il potere di convincere l’altro
almeno ad instaurare con lui un contatto visivo, che risulta essere ad una
distanza infima dal proprio viso perché da quella posizione l’altro non sembra
volersi muovere.
Quando incontra il suo sguardo non sa dire di preciso cos’è che Atsushi stia
pensando; poi il ragazzo si china su di lui, e annulla quella poca distanza che
permetteva già di per sé ai respiri di mescolarsi.
Gli posa sulle labbra un bacio leggero, un contatto casto che dura qualche
secondo, quasi fosse incerto se allontanarsi oppure no; da lì si sposta, scende
e gli posa quello che sospetta sia un bacio quasi causale sulla linea della
mandibola, e poi scende ancora finché non raggiunge il collo.
Il morso arriva del tutto inaspettato, motivo principale per cui la mano fra i
capelli si stringe istintivamente attorno a qualche ciocca e lui – Tatsuya – si
irrigidisce appena; Atsushi morde, non così forte da fargli male ma nemmeno
così piano da farlo sembrare un mordicchiare scherzoso, poi gli inumidisce la
pelle con la lingua e torna all’attacco con i denti, e il momento in cui a
Himuro si accende davvero la
lampadina (non perché a diciassette anni non ci arrivi ma perché Atsushi morde
nei contesti più disparati) è quando il danno è probabilmente già fatto.
Quando si allontana dal suo collo, il più alto lo fa quanto basta a guardarlo
nuovamente il viso: ha l’espressione contrariata a modo suo.
Tatsuya non aspetta davvero che gli dica cosa c’è che non va: Atsushi è
possessivo, lo è sempre stato, ed è chiaro quanto non gli piaccia perdere – non
solo nel basket – ma sa anche che l’altro sta probabilmente facendo appello ad
ogni residuo di buona volontà per non dirgli quello che, poi, gli si legge in
faccia.
Ossia di non vedere, non parlare, non incontrare Kagami – e che se proprio deve
non vuole saperlo, ma d’altra parte se Himuro non glielo dicesse Murasakibara
la prenderebbe anche peggio.
Legge nei suoi gesti il voler rivendicare una sorta di proprietà privata, che
sia con un segno rosso sul collo difficilmente fraintendibile o che sia
obbligarlo ad indossare qualcosa di suo, con forse la sciocca idea che così
Himuro profumerà di lui in un certo, stupido, infantile senso.
Ci si può arrabbiare con qualcuno così?
«Atsushi.» lo richiama ancora una volta, ma non con il fare interrogativo di
chi vuole una spiegazione; porta una mano sulla spalla dell’altro ed esercita
una pressione sufficiente a fargli capire che vuole potersi spostare, ma non
tale da fargli credere che lo sta respingendo.
Quando è in grado di puntellarsi su un gomito si alza leggermente con la schiena
dal materasso, si avvicina al viso del più giovane, posa un bacio sul suo mento
ed uno sulle labbra, quest’ultimo nemmeno così casto visto che la lingua guizza
fuori il necessario a sfiorargli le sue in maniera provocatoria.
Himuro rivendica il suo possesso esattamente come Atsushi, dopotutto.