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Autore: LilithJow    10/02/2013    8 recensioni
[..] Gli occhi di Johanna mi fissavano ancora e - non per mia impressione - si erano avvicinati parecchio al mio viso, più di quanto avessero fatto giorni prima, a scuola.
Ma, proprio come quella volta, qualcosa accadde: ancora quelle ombre rosse che le attraversarono l'iride. Più forti, più scure, più continue: le vidi chiaramente, e non era né un riflesso di luce né una mia fantasia né, tanto meno, per via di una botta in testa. Li fissai, incredulo, ma allo stesso tempo incuriosito: a cosa era dovuto? Non ne avevo la benché minima idea. Forse internet mi avrebbe dato delle risposte, oppure – cosa molto più probabile – riempito di ansie, paure e paranoie.
Genere: Drammatico, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Lullabies Saga'
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Capitolo 4
"Sins"

 

La nuova vita di Simon Clarke è peggio della vecchia. Seriamente, inizio ad odiare quasi tutto, persino il lusso. La scuola è un incubo. Nessuno mi parla, forse – anzi, sicuramente – a causa di Jason. Sono certo che ha minacciato tutti, promettendo pestaggi a chiunque mi rivolga la parola.
E' un maniaco del controllo e non riesco a capirlo. Sarebbe un bel caso da analizzare, se fossi già e per davvero uno psicologo. L'unica persona che osa avvicinarsi a me per i corridoi dell'Istituto e nel cortile, è Johanna.
Non sembra avere paura di Jason, per niente. Anzi, a volte ne parla pure male. Anche lei sarebbe un caso interessante, psicologicamente parlando.
Continuo ad essere incuriosito da lei, senza contare il fatto che è praticamente ovunque mi giri. Davvero, non so come faccia a spostarsi alla velocità della luce. Magari fa parte della squadra d'atletica della scuola, devo ricordarmi di...

La campanella dell'Istituto, che annunciava la fine della pausa pranzo, troncò di netto la mia frase. Pasticciai dei punti di sospensione sul mio quaderno dalla copertina rossa e lo chiusi rapidamente, riponendolo nella borsa a tracolla di finta pelle, che aveva preso il posto dello zaino vecchio e logoro.
Tutti si stavano affannando a tornare dentro, nelle varie aule: nonostante il leggero sole piacevole di quel giorno, nessuno di loro amava arrivare in ritardo. Anzi, ero pressapoco convinto che un ritardo ad una lezione, in quel luogo, equivalesse ad un peccato capitale.
Per quanto mi concerneva, tuttavia, essere odiato per un motivo o per un altro, non cambiava molto le cose. Per tale motivo, mi alzai lento dalla panchina su cui mi ero accomodato per ingurgitare – letteralmente – il panino al tonno che mia madre mi aveva preparato quella mattina e mi incamminai a passo strascicato verso l'ingresso dell'Istituto.
Avevo matematica, la penultima lezione del giorno. L'insegnante era Miss Torn, una donna giovane, sulla trentina, alle sue prime esperienze di insegnamento. Era brava, solo che, a mio parere, era troppo influenzabile. Jason aveva parlato – o intimorito – anche con lei, tanto che, alle sue lezioni, a me era concesso a stento respirare.
«Ehi, ragazzo carino!». La voce squillante di Johanna mi fece fermare nell'esatto centro del vialetto di pietra che si apriva nel grande prato che circondava l'Istituto. Quando mi girai, lei mi aveva già raggiunto e si fermò davanti a me, portandosi una ciocca di capelli dietro ad un orecchio. «Ehi» replicai, abbozzando un sorriso, in cenno di saluto.

«Pensavo ti fossi già fiondato a lezione».

«Ci stavo andando, proprio ora».

«Che materia hai?».

«Matematica».

«E sei bravo?».

«Me la cavo».

«Quindi, se volessi, potresti saltarla».

«Immagino... Immagino di sì».

Johanna rise lievemente e sentii una sua mano sfiorare la mia, mentre i suoi occhi continuavano a fissarmi. Quella volta, non vidi nessuna ombra, ma quasi desiderai che ci fosse, chissà per quale assurdo motivo. D'istinto, senza nemmeno pensarci o ragionarci su, le mie dita si intrecciarono alle sue. Lei diede uno sguardo veloce a quel gesto e poi riportò gli occhi sul mio viso.

«Io ho storia, ma non mi va di andarci» sussurrò. «Ti va di venire con me in un posto?».

Tentennai per un solo attimo, mordendomi appena il labbro inferiore. «Che posto?» domandai, retorico. Probabilmente, nemmeno mi interessava saperlo.

«Qui vicino. Non ci allontaniamo troppo, te lo prometto».

Sorrisi, in risposta. Lei fece lo stesso, abbozzando una lieve risata, e mi trascinò – letteralmente – via, attraverso il prato. Correndo, mano nella mano, facemmo il giro dell'edificio.
Entrammo da una porta sul retro, che non avevo mai usato. Notando il maniglione anti-panico, non appena fummo dentro, dedussi che fosse un'uscita d'emergenza o di servizio, che Johanna aveva – di sicuro – precedentemente manipolato, con un pezzo di nastro adesivo, per far sì che si potesse aprire anche dall'esterno. Qualcosa di geniale, a mio parere.
Non camminammo per lungo ancora, per quei corridoi tutti uguali che a me parevano ancora un immenso labirinto. Lei, invece, li conosceva bene, e mi condusse attraverso di essi, fino ad arrivare ad uno stanzone enorme. Anzi, più che enorme.
Eravamo giunti alla grande piscina rettangolare dell'Istituto, usata principalmente – o esclusivamente – dalla squadra di nuoto. Essendo io, praticamente, estraneo ad ogni genere di attività fisica, quella era la prima volta che mi trovavo lì.

«Che ci facciamo qui?» domandai. La risposta poteva o non poteva essere ovvia: in entrambi i casi, io non ne riuscivo a dare una.

«Facciamo il bagno, naturalmente» replicò lei e solo allora lasciò la mia mano. Vidi la sua tracolla ricadere a terra e, successivamente, la giacca della sua divisa.

«Non ho... Il costume» balbettai. Johanna rise. «Non ci serve» esclamò. In breve tempo, sotto i miei occhi che strabuzzavano – rischiai seriamente che i bulbi oculari mi cadessero a terra – lei rimase solo in intimo, degli slip e reggiseno di pizzo bianco.

Mi lanciò un'occhiata veloce e si tuffò in piscina, facendo schizzare l'acqua da tutte le parti.

La mia bocca si aprì d'istinto, per lo stupore e la perplessità. Sapevo che Johanna fosse strana e particolare, ma ero comunque sbalordito da tutto ciò.
Insomma, non era normale saltare le lezioni per fare il bagno in piscina, no? Senza costume, per giunta! E io che ci facevo lì? Cominciai a domandarmelo sul serio.

«Andiamo, salta dentro!» mi urlò, nuotando a dorso.

«Io...».

«Non costringermi a tirarti, perché finiresti in acqua vestito e la divisa ci impiega un'eternità ad asciugarsi».

Mi guardai attorno, per la millesima volta da quando lei si era tuffata. Avevo paura che qualcuno entrasse e, in tal caso, una sospensione – o peggio, l'espulsione – dall'Istituto era garantita.
Ero come ad un bivio che, più che altro, si era creato nella mia testa. Una parte, del tutto razionale, mi invitava a scappare da quel posto il più veloce possibile e correre a matematica, non incrementando ancor di più il ritardo già titanico. L'altra, invece, quella più volubile, mi spingeva a togliermi i vestiti ed entrare in piscina, per perdermi nel mare degli occhi di Johanna.
Per mia fortuna – o sfortuna – la seconda alternativa ebbe la meglio.
Anche la mia tracolla cadde a terra, insieme alla divisa. Restai solo con i boxer azzurri addosso, ed entrai in acqua, in maniera forse un po' più delicata di come aveva fatto lei.
Johanna rise e mi fu addosso praticamente subito. Portò le braccia attorno al mio collo e fece leva sui gomiti per sollevarsi appena e incrociare le gambe intorno al mio bacino.

«Visto? Non è poi così male» sussurrò. Io non ascoltai molto le sue parole. Il motivo era semplice e piuttosto scontato. Mi ero abituato ad esser schiavo dei suoi occhi verdi e, quella volta, tornò anche l'ombra rossa, intermittente e più accentuata, rispetto ai giorni precedenti. Era come se fossi più attratto da quella che da tutto il resto, forse perché era qualcosa che non sapevo spiegare e il mistero era più intrigante di cose note.

«Come si chiamava?» mormorò ancora.

«Chi?» chiesi, spostando lo sguardo, saltuariamente, dagli occhi alla sua bocca.

«La ragazza che hai lasciato».

«Ah... Lei. Tiffany. Si chiamava Tiffany».

«Beh, Tiffany è stata una vera idiota a lasciarti andare».

Feci un mezzo sorriso, a tratti malinconico. «O forse ho fatto bene io a lasciare andare lei».

«Forse».

Johanna mi accarezzò piano i capelli sulla nuca e sbattè le palpebre in maniera dolorosamente lenta. Poi si sporse verso di me e le sue labbra si poggiarono sulle mie.
Ci fu un bacio, prima delicato, lieve, col suo respiro che accarezzava la mia pelle. Dopo più spinto, più avido. Le nostre lingue iniziarono a danzare, come se si conoscessero da sempre. Un vortice continuo, che mi travolse, facendomi formicolare ogni parte del corpo.
Johanna iniziò a tirare i miei capelli e quel dolore fu quasi piacevole. L'altra sua mano scorse sul mio collo e pian piano più giù, sul mio petto, dove si fermò. Indugiò sul quel punto per qualche secondo, in maniera delicata; ma, d'improvviso, senza che me ne accorgessi, le sue unghie sprofondarono nella mia pelle. A quello non seppi resistere e fui costretto a troncare il bacio, allontanandomi col viso di qualche centimetro. «Ahi» esclamai, fissandomi per qualche secondo il petto. I cinque segni delle sue dita erano ben evidenti sulla mia pelle color latte e avevano iniziato a sanguinare. Johanna si staccò del tutto da me. Mi guardò, con occhi smarriti e mi parve che i due diamanti verdi che possedeva, avessero perso la loro luce. «Scusami» biascicò.
«No, non... Non fa niente» dissi, per tranquillizzarla. In realtà, ero piuttosto... Scosso. Non seppi definire bene le sensazioni che provai in quel momento. Avrei dovuto avere paura o cosa?
«Devo andare» sussurrò ancora e la vidi nuotare rapida, fino al bordo piscina. La seguii subito, parandomi davanti a lei, prima che potesse uscire dalla vasca. Poggiai le mani ai lati della sua testa, sulla parete della piscina e la fissai negli occhi, sperando che fosse lei a perdersi nei miei, quella volta.
«Non devi andartene» mormorai. «Non è successo nulla, davvero».

«Tu non puoi capire. Devo andare, Simon, dico sul serio».

«Perché? Ti sei solo lasciata prendere e...».

«E non avrei dovuto. Ti prego, lasciami uscire da qui, è meglio per entrambi».

Esitai per qualche secondo, ma alla fine, dovetti arrendermi. Per quanto volessi tenerla lì e dirle – ancora – che non era capitato nulla di così grave, mi scansai e le lasciai lo spazio per uscire dalla vasca. Johanna recuperò i propri vestiti in modo distratto e corse via, senza dire ulteriori parole.
Io restai in acqua ancora per un po': forse qualche secondo oppure una serie di minuti. Quando uscii dalla piscina, mi sedetti sul bordo bianco, fissando l'acqua limpida che avevo davanti. Mi rivestii solo quando sentii suonare la campanella della penultima ora e corsi più che potevo verso l'aula di scienze. Almeno a quella lezione, evitai di arrivare in ritardo e commettere qualche altro peccato.

  
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